FILOSOFIA DEL DIRITTTO Cap. I ELEMENTI, PERSONA, DEFINIZIONE DEL DIRITTO Il I° capitolo, in particolar modo, si dedica al prospetto di definire il diritto, definire quale sono gli elementi che appartengono in maniera specifica alla filosofa del diritto. La tendenza della filosofia del diritto contemporanea, è quella di cercare di spiegare la filosofia del diritto, o meglio, il diritto come se fosse una scienza a pari delle altre. Così come vi è la sociologia, che è la scienza che si occupa della società, ad esempio, così vi sono dei filosofi che pensano di spiegare il diritto, come, appunto, fosse una scienza, sulla base di nozioni, di principi scientifici. Questo, in particolar modo, è stato realizzato da una parte della filosofia del diritto che si chiama “teoria generale del diritto” e che tende ad individuare i concetti fondamentali del diritto e dargli una spiegazione di tipo scientifico. Ora, secondo D’Agostino, in realtà, questo approccio al diritto è sì importante ed in qualche modo necessario, ma non esaurisci tutto quanto il senso del diritto perché il diritto, dice D’Agostino, non è soltanto il fatto scientifico ma è anche portatore di una serie di significati a quello che D’Agostino chiama, il fondamento ontologico. Cioè nel diritto c’è qualcosa di più di quello che il semplice lavoro scientifico può scoprire. Ci sono dei significati che vanno, appunto, compresi attraverso non un lavoro di definizioni di concetti ma attraverso un lavoro filosofico. Il primo elemento che D’Agostino vuole mettere in evidenza è, appunto, il fatto che il diritto presenta dei significati, dei contenuti di verità, un senso che riguarda l’uomo in generale e che possiamo definire, filosofico. Innanzi tutto, scopriamo qual’è il ruolo del diritto (?), perché esso è tra gli uomini ed esiste tra gli uomini? Questo, dice D’Agostino è dovuto al carattere medio degli uomini (Aristotele), i quali non sono né santi come Dio, ma neppure sono come gli animali, ossia legati solo agli istinti, e, a volte, anche agli istinti violenti. Cioè l’uomo ha tanto la capacità di innalzarsi verso la santità quanto ha la capacità di esprimere la sua aggressività. Quindi c’è questa doppia possibilità. Allora il diritto nasce proprio per far sì che vengano, in qualche modo, garantiti quei comportamenti che garantiscono la coesistenza con gli altri, il vivere insieme agli altri, è, al contrario, per impedire quei comportamenti che fomentano l’aggressività, l’odio, la violenza, che sono, appunto, negativi per la convivenza tra gli uomini. Quindi, il diritto, in questo senso, è fondamentale all’esistenza umana perché è pacificante, cioè genera e salvaguardia quei comportamenti che creano una coesistenza pacifica tra gli uomini. Ovviamente ci sono anche altre forme di rapporti umani che facilitano la convivenza tra gli uomini, come l’amicizia, gli affetti, però diciamo che il diritto ha una portata più ampia rispetto agli affetti e all’amicizia, in quanto il diritto va al di là dei rapporti interpersonali per riguardare tutta l’umanità nella sua totalità, invece, l’amicizia, riguarda sempre delle relazioni tra pochi individui in un contesto più chiuso, più ristretto, quindi il diritto, da questo punto di vista, ha una maggiore portata. Com’è che funziona il diritto? Il diritto funziona stabilendo delle regole per i comportamenti relazionali: cioè per quei comportamenti che riguardano contemporaneamente l’azione di ciascuno di noi. Molti pensatori ritengono che queste regole, di cui il diritto si compone siano, in realtà, semplicemente il prodotto di un’attività normativa da parte del legislatore. Queste sono le cosiddette teorie normativistiche di cui il più importante filosofo è Kelsen, un autore tedesco. Quindi, secondo questi autori, le regole sono semplicemente ciò che viene stabilito dal sovrano, dal legislatore, da chi governa. Secondo D’Agostino, la legge non si limita soltanto ad essere norme evolute dal legislatore, ma devono, in qualche modo, esprimere il carattere giusto che le azioni hanno in sé, intrinsecamente. Ad esempio quando un legislatore stabilisce che uccidere è un reato, secondo i normativisti, è reato soltanto perché lo stabilisce il legislatore. Se il legislatore non lo stabilisse, non avremmo questo tipo di reato. Invece, secondo D’Agostino, l’uccidere non è ingiusto solo perché previsto dal legislatore, ma è ingiusto in sé, cioè il reato di uccidere, per D’Agostino, ha un carattere d’ingiustizia che è valido indipendentemente da chiunque lo affermi, lo emani, lo stabilisca. Quindi quello che è importante stabilire è quello che il diritto si fonda non su norme ma su regole e le regole hanno un carattere giusto in sé, indipendentemente da chi le stabilisca. Il diritto, molto spesso, viene confuso con la politica, Ma che rapporto c’è tra diritto e politica? La differenza sta nel fatto che la politica riguarda esclusivamente i rapporti che si vengono a creare tra gruppi sociali ristretti, ad esempio la politica riguarda la Nazione Italiana, quindi, il gruppo di uomini che si riconosce nei valori, nelle leggi dello Stato Italiano; invece il diritto ha una funzione universale, cioè ha la capacità di riguardare, in qualche modo, tutta l’umanità, indipendentemente dall’appartenenza di un gruppo politico. Dunque, la differenza fondamentale tra il diritto e la politica è che il diritto riguarda, appunto, una funzione specificante per tutta l’umanità. La politica, invece, riguarda gruppi sociali chiusi, ristretti. Ovviamente uno dei concetti fondamentali con cui il diritto ha a che fare è il concetto di giustizia in quanto diritto e giustizia sono concetti fortemente correlati. Ma quali sono i contenuti della giustizia? Cos’è che caratterizza la giustizia? Quali sono i concetti della giustizia? D’Agostino ne individua tre: CRITERI DELLA GIUSTIZIA - L’alterità: La giustizia è un principio che regola i comportamenti relazionali, cioè di “me” con altre persone. “Io” non posso stabilire ciò che è giusto soltanto per me, ma lo devo fare sempre in rapporto con le altre persone . “Justizia est ad alterum”. - La libertà: Cioè la giustizia è un valore che tende a creare una situazione nella quale la coesistenza di tanti individui è caratterizzata dalla libertà di ciascuno individuo, per cui ogni comportamento di ogni individuo deve essere libero, ma libero fino al punto in cui la libertà non invada la libertà altrui. Cioè la giustizia tende a creare un ordine nel quale ogni individuo ha la capacità di esprimere la propria libertà; - L’eguaglianza: inteso non nel senso che per la giustizia tutti gli uomini devono essere uguali perché, ovviamente, ci sono delle differenze di capacità che tendono a differenziare gli uomini, ma, nel senso che la giustizia elimina ogni privilegio, cioè, permette ad ogni individuo nell’ambito della struttura sociale di non essere inferiore all’altro perchè quest’ultimo gode d un privilegio. Cioè la giustizia è un principio che tende ad eliminare i privilegi e a far sì che tutti quanti possano avere dei punti di partenza comuni, sulla base delle proprie capacità. Il diritto, ovviamente,è correlato al principio di giustizia che si caratterizza di tre elementi L’alterità, la libertà e l’uguaglianza (leggere paragrafo 6 Limiti del Diritto). Cap. II DIRITTO E MORALE IL secondo capitolo si occupa del rapporto fondamentale che esiste tra diritto e morale. Con il termine morale si può genericamente indicare come quella disciplina che si occupa del bene, cioè si occupa di stabilire cos’è il bene e cos’è il male che relazione c’è tra diritto e morale. Il rapporto tra queste due grandi discipline, nel corso della storia si è modificato, ossia, a volte si è ridotto il diritto alla morale, a volte, si è ridotta la morale al diritto. Questo rapporto, durante il Medio Evo, vedeva il diritto funzionale alla morale, ossia, esso esiste in funzione della morale che è la grande disciplina che al suo interno ingloba il diritto. Questo avviene nell’epoca medioevale, perché in quest’epoca dominano una concezione cristiana e religiosa della vita e le leggi, ossia, ciò che costituisce il diritto, non hanno valore se non sono rispettose di un ordine di valori morali, che sono quelli dati da Dio, dovuto a Dio e quindi tutto ciò che riguarda gli uomini deve essere visto in funzione di questa morale che ha, appunto, fondamento divino. Nel Medio Evo, il valore fondamentale è quello dei comandamenti divini e la teologia morale, ed il diritto, in quanto tale può proporre leggi che siano comunque e sempre rispettose in questo ordine morale di cui parla il cristianesimo. Quindi, nell’epoca medioevale abbiamo un rapporto tra il diritto e morale che prevede la riduzione del diritto alla morale. Le cose cambiano con l’epoca moderna, cioè, diciamo a partire dal Macchiaveli in poi, il rapporto tra diritto e morale cambia completamente perchè in questo periodo, la morale viene ridotta ad un’attività che riguarda semplicemente la coscienza degli individui. Cioè nell’epoca moderna, approssimativamente a partire dal 500 ciò che è bene e ciò che è male diventa semplicemente un problema della coscienza di ogni individuo. La morale non ha riguardo per ciò che è ultraterreno ma a ciò che è intimo della nostra coscienza ed ovviamente il diritto si separa dalla morale, nel senso che il diritto viene a riguardare tutto quanto quello che riguarda invece quello che sono le azioni socialmente viziose di cui gli uomini sono protagonisti, quindi, abbiamo nell’epoca moderna una separazione tra diritto che tende a riguardare solamente quelle che sono le azioni esterne degli uomini; e la morale che, invece, tende a riguardare soltanto le azioni interne coscenziali, le scelte interne dell’individuo. Quindi, se nell’epoca medioevale abbiamo una supremazia della morale sul diritto, con l’epoca moderna abbiamo una separazione tra queste due discipline. Con l’epoca contemporanea abbiamo il primato del diritto sulla morale. Cioè avviene che nell’epoca contemporanea, ormai, i valori morali sono tali soltanto perché sono, in qualche modo contenuti e riconosciuti nella Carte dei Diritti. Ad esempio l’ONU, ha elaborato una carta dei diritti dell’uomo che sancisce quelli che sono i diritti dell’uomo che vanno garantiti a tutti gli individui. Questo è un tipico fenomeno contemporaneo che fa 414f57e vedere ormai ciò che è bene e ciò che è male è soltanto ciò che viene, - stabilito in queste carte dei diritti. Cioè la morale diventa evidente solo nel momento che assume un aspetto giuridico, come appunto quello delle carte dei diritti. Quindi, abbiamo, con l’epoca contemporanea, un recupero del diritto sulla morale e quindi la sottomissione, o meglio, il primato del diritto rispetto alla morale. Però quello che D’Agostino vuole dimostrare è come, in realtà. Questo primato di diritto sulla morale, nell’epoca contemporanea,ha assunto la forma più caratteristica nel dominio del cosiddetto positivismo giuridica. Secondo il positivismo giuridico le leggi, le norme legislative non fanno riferimento a dei valori morali astratti universali. Per il positivismo giuridico uccidere è reato ma non è qualcosa che ha un contenuto morale universale a sé ma uccidere è un reato semplicemente perché è qualcosa che viene stabilito da una legge. Secondo i positivisti giuridici è possibile che in una futura società, uccidere, forse, non sarà più un reato perchè cambiano le circostanze, cambiano le condizioni; Quindi per questi studiosi, importante non è ilo contenuto morale o il contenuto di giustizia delle norme, delle leggi, ma importante è la loro validità. E’ importante, cioè, che questa legge ”non uccidere” sia stata stabilita da un legislatore che ha tutti i diritti per farlo e che quindi abbia il potere di emanare una legge valida, ma che non ha nulla a che vedere con il fatto che queste norme siano giuste od ingiuste; l’unica cosa che importa al positivismo giuridico o giuspositivismo e che le norme siano valide ed il problema della giustizia passa in secondo piano. Ultimamente, però, questa posizione è entrata un po’ in crisi perché ci sono stati degli episodi che hanno mostrato come il diritto non possa essere semplicemente un insieme di norme valide ma debba essere portatore di concetti di giustizia, di contenuti etici più universali. Ad esempio, D’Agostino fa riferimento ad Auschwitz ed allo sterminio degli ebrei: di fronte a quell’evento è ovvio che tutti direbbero che è stato un’espressione di malvagità, cioè è ovvio che di fronte a quell’evento nessuno potrebbe dire che quello sia sto un evento giusto; quindi è ovvio che in questo caso si fa riferimento a dei valori universsali9 di morale che non ha nulla a che vedere con la semplice validità o con il semplice positivismo giuridico, ma, al contrario, ha a che vedere con dei principi morali assoluti ed universali. Oggi quello che si tende sempre più a riconoscere è che ci sono alcuni valori che qualsiasi diritto, qualsiasi sistema normativo deve accogliere. Per esempio il valore della dignità dell’uomo è un valore che non si può negare; esso esisterà sempre indipendentemente da qualsiasi sistema normativo che lo possa esprimere o meno. Cioè la dignità umana è un valore da difendere in sé e non da difendere, come alcuni pensano, perché è utile alla collettività umana. I pensatori utilitaristici, per esempio, pensano che la dignità umana sia un valore semplicemente perché la difesa della dignità umana è utile per la collettività umana. D’Agostino, invece, sostiene che non è così: la dignità umana va difesa per se stessa, perché è un valore in sé, può anche non portare nessun vantaggio, però, va difesa perché è un valore etico universale. Ecco, il riconoscimento ontologico consiste proprio nella capacità di riconoscere valori universali che qualsiasi diritto deve, comunque, salvaguardare. Nell’epoca contemporanea, si sta assistendo ad un ritorno dei valori morali ed al superamento di quella scissione e di quel dominio del diritto sulla morale che è stato, invece, fino a qualche tempo fa. Dunque questo secondo capitolo riguarda il rapporto tra diritto e morale. Nel corso della storia questo rapporto ha avuto varie fasi. C’è stata una prima fase, quella medioevale, durante la quale la morale ha predominato sul diritto e quindi tutte le leggi, dovevano, comunque, avere un riferimento a dei valori universali, che nell’epoca medioevale erano quelli dati dal cristianesimo; poi nell’epoca moderna, che comincia attorno al 500 diritto e morale si sono separati: il diritto ha cominciato solamente a riguardare problemi relativi alle azioni esterne degli uomini, la morale, invece, ha riguardato semplicemente la dimensione interna, soggettiva di ogni individuo. Con l’epoca contemporanea, invece, assistiamo ad un ritorno del predominio del diritto sulla morale (tutto questo si è detto sulle Carte di Diritti e sul Positivismo Giuridico), cioè, si tende sempre più a vedere come la morale possa essere sancita e manifestata solo attraverso norme di diritto. Comunque abbiamo già visto che questa tendenza ora si sta modificando soprattutto dopo Auschwitz, dopo l’episodio del genocidio del popolo ebraico, si è ricompresso che esistono dei valori universali che non possono essere negati in alcun modo e che non possono essere, quindi, in alcun modo, messi da parte. Cap.III DALLA NATURA AL DIRITTO NATURALE Nel terzo capitolo quello che ci interessa capire, più che il concetto di diritto naturale è il concetto di natura e qual è il rapporto che l’uomo ha con la natura. Le concezioni scientiste, cioè quelle che si basano su concezioni scientifiche, ritengono che l’uomo e la natura siano due cose separate. La natura è il regno del fattuale, della meccanica, del biologico, etc; ma l’uomo ha in più la dimensione spirituale e che quindi tra uomo e natura c’è un rapporto di trascendenza, cioè, da una parte sta l’uomo dall’altra parte la natura. Questa è la concezione scientista, nella quale la natura viene vista come il “diverso”, da noi: un’animale, una pianta sono diversi da noi in quanto, noi siamo essere razionali, spirituali etc. Oltre, però, ad una concezione scientista c’è un altro modo di guardare la natura che secondo D’Agostino, è più efficace: noi, in qualche modo, possiamo anche concepirci come appartenenti alla natura, cioè il nostro essere è sì razionale ma anche naturale, oltre che spirituale. Quindi, essendo, noi, parte di questa natura, dobbiamo agire in modo tale da assecondare questa natura stessa. Questa è una concezione metafisica in contrapposizione alla concezione scientista: quella metafisica tende a concepire la natura come qualche cosa che ci dice come fare, come comportarci, cioè la natura diventa il mondo in cui viviamo e che in qualche modo, dobbiamo assecondare proprio perché noi ci siamo dent4ro. La natura rivolge agli uomini il precetto: “diventa ciò che sei” cioè l’uomo, in qualche modo deve assecondare la sua natura e realizzare quello che la sua natura lo porta ad essere. Cap. IV DIRITTO NATURALE Nel quarto capitolo viene spiegato ciò che è il diritto naturale. Il diritto naturale è un concetto elaborato da una teoria filosofica che si chiama giusnaturalismo. I principi fondamentali del giusnaturalismo si basano sull’idea che ci sono alcuni diritti di cui l’uomo è portatore da sempre e per sempre. Cioè ci sono una serie di diritti e di valori che valgono per qualsiasi tipo di uomo qualsiasi epoca, qualsiasi tempo. Quindi, il giusnaturalismo si contrappone al giuspositivismo perché il positivismo giuridico, in realtà, questi diritti non esistono: ciò che è un diritto è solamente ciò che è stabilito da una norma; mentre per il giusnaturalismo ciò che è il diritto è in qualche modo ciò che non è solo stabilito da una norma ma che esiste prima della norma cioè come valore innato. Ad esempio il diritto della vita è un diritto naturale dell’uomo non è un diritto solo perché stabilito dalla norma ma un diritto dell’uomo in quanto esser morale, in quanto essere razionale. Quindi nel giusnaturalismo la norma raccoglie e contiene quello che è il diritto già esistente dell’uomo. Quindi ci sono dei diritti naturali che, anche se non riconosciuti dalle norme legislative, comunque, esistono sempre continueranno ad esistere. Allora, secondo il diritto naturale, il sistema normativo,il sistema delle leggi deve essere fatto in modo tale che questi diritti naturali vengano salvaguardati. Quindi il diritto naturale sarebbe il criterio sulla base del quale elaborare il diritto positivo. Quindi la differenza tra diritto naturale e diritto positivo è che nel diritto naturale vi è un insieme di diritti innati universali che l’uomo possiede indipendentemente da qualsiasi norma legislativa; il diritto positivo, invece, è ciò che viene stabilito da un sistema di norme che può variare e mutare nel tempo e nello spazio. Quindi, secondo il giusnaturalismo, l’azione del legislatore è giusta quando appunto, le leggi che il legislatore stesso emana, sono rispettose dei diritti di natura. Ci sono diverse forme di giusnaturalismo: - GIUSNATURALISMO BIOLOGICO: è quello che sostiene che il diritto naturale è l’insieme dei precetti descritti dalla natura a tutti gli animali. (leggere capitolo IV) - GIUSNATURALISMO TEOLOGICO: è quello che si fonda sull’idea che sono giusti i comportamenti dettati da Dio ed in questo giusnaturalismo la natura ha rilevanza solo per il fatto che in essa e da essa trae luce la volontà normativa divina( sono giusti solo i comportamenti dettati da Dio); - GIUSNATURALISMO RAZIONALE: è quello che afferma che l’uomo ha dei diritti di natura, non per la sua natura o perché c’è Dio, ma per la sua ragione. Cioè esistono dei diritti di natura che l’uomo possiede in quanto essere razionale (l’uomo ha dei diritti di natura in quanto essere razionale). D’Agostino sostiene che ultimamente il giusnaturalismo sta acquistando terreno: il fatto che si parli tanto dei diritti degli uomini, per esempio, la Carta dei Diritti dell’ONU, tutto questo è una testimonianza di come i diritti naturali stiano acquistando rilevanza. Secondo i giusnaturalisti razionali, i diritti di natura possono in qualche modo modificarsi storicamente ma, comunque, devono sempre rispondere al principio universale della razionalità. Cap. V DIRITTO NATURALE E FALLACIA NATURALISTICA Nel quinto capitolo viene affrontato un tema molto importante per la filosofia del diritto che è la “Legge di Hume” . Hume è un grande filosofo scozzese del 1700 e per gli studiosi della filosofia del diritto, Hume è importante perché a lui si deve l’elaborazione di questa teoria che si chiama, appunto, “Legge di Hume”. La “Legge di Hume”, è tutto un discorso che approda poi alla tesi finale secondo la quale è impossibile derivare il “dover essere” “dall’essere”. Cos’è il “dover-essere” e cos’è l’ “essere”? Il “dover-essere” riguarda i discorsi morali; l “essere”, invece, riguarda quelle proposizioni puramente descrittive, cioè se si fa riferimento, ad esempio, ad un maglione e si dice a proposito:” Questo maglione è giallo” in questo caso ci troviamo di fronte ad un’affermazione riguardante “l’essere”. Se, invece, diciamo: “Tu devi essere studioso”, in questo caso ci troviamo di fronte ad un’affermazione riguardante il “dover-essere”. Dunque, queste sono le due dimensioni: quella dell’ “essere”, che è la dimensione della descrizione e la descrittività dei fatti con la quale si può descrivere com’è la realtà, come stanno i fatti. Il “dover-essere”, invece, è la dimensione che riguarda la morale, cioè come dovrebbero stare le cose secondo alcuni principi morali. Allora, la “legge di Hume, afferma che non è possibile passare da un giudizio sull “essere” ad un giudizio sul “dover-essere”, esempio: non si può passare, sempre secondo quanto afferma Hume, dal dire: “Questo maglione è giallo” al dire: “…quindi deve essere più bello del maglione blu”. In realtà tra il piano della descrizione ed il piano di come dovrebbero essere le cose c’è una frattura ed è impossibile passare da un piano all’altro. Tutte quelle proposizioni (persone) che fanno questo passaggio “ dall’essere al dover-essere” cadono in quella che i filosofi chiamano “Fallacia Naturalistica”. Questa teoria è stata molto utilizzata da una serie di filosofi per dimostrare che la morale non ha una portata di conoscenza, cioè la morale è qualcosa che non nasce da un’analisi descrittiva della realtà, in quanto la morale riguarda un altro settore rispetto alla realtà che è correlata al piano dell’ “essere”. Queste sono le cosiddette teorie del non cognitivismo etico, cioè la morale non ha una portata conoscitiva, perchè questa appartiene solo alle discipline che riguardano l’ “essere” come, ad esempio, la scienza. Questa affermazione, però, non è condivisa da D’Agostino, il quale per dimostrare come in realtà, la morale può avere un fondamento cognitivo cerca di dimostrare come, in realtà, “la legge di Hume” non è così vera come sembra. Infatti se facessimo un discorso basato semplicemente sui fatti è evidente che il passaggio dell’ ”essere” al “dover-essere”, risulta impossibile, però i fatti possono essere concepiti nella loro sostanza: per esempio, quando diciamo che A è madre di B che è una pura descrizione che appartiene all’ “essere” si può derivare da questa proposizione sull’ “essere”, la proposizione che A deve accudire B, quindi una proposizione del “dove-essere”: Questo è possibile in quanto è evidente che nel concetto di madre, non si vede solamente la persona che biologicamente ha partorito B, ma si attribuisce ad esso una serie di significati, affettivi, sentimentali, tutta una serie di sensi che ovviamente ci portano a dedurre, immediatamente, che se A è madre di B, ovviamente A dovrà accudire B. Allora, se andiamo a vedere semplicemente i fatti superficiali la “legge di Hume” vale, ma s andiamo a vedere com’è nell’esempio nel concetto di madre, andiamo a vedere la sostanza del significato del concetto di madre, allora, il passaggio dall’ “essere” al “dover-essere” può avvenire. Pertanto la stessa natura va vista non solo per quello che è in superficie , ma va compresa anche per quello che è la sua essenza, la sua sostanza. I positivisti, ad esempio, come Kelsen, negano questo ed affermano la validità della “legge di Hume”, quindi l’impossibilità del passaggio dall’essere al dover essere, perché per Kelsen una norma per essere valida deve effettivamente essere posta in essere da una qualche autorità e quindi nega che possa esistere una norma che non si fondi su di un atto di volontà. A tal proposito Kelsen si è scagliato contro quelle che definiamo precisazioni husserliane, infatti, sostiene che un guerriero deve essere valoroso, coraggioso. Questa derivabilità non è possibile per la “legge di Hume”, mentre D’Agostino sostiene la tesi husserliana, secondo cui, dicendo la parola “guerriero” mediamente si penserà ad una persona coraggiosa, valorosa, perché nascerebbe una contraddizione se si dicesse “ un guerriero è vile”. Pertanto, non è giusto quanto afferma Kelsen, e cioè che non possono esistere norme “solo pensate”, in quanto esse per essere valide devono essere poste in essere da un’autorità. Quindi la conclusione è che la “legge di Hume” non vale quando si fa riferimento all’essenza dei significati e quindi tutti coloro che affermano che la morale non abbia una portata conoscitiva, sulla base della “legge di Hume”, sbagliano, secondo D’Agostino (per d’Agostino sbagliano coloro che affermano che la morale non ha portata conoscitiva) Cap. VI DIRITTO E TEMPO Il sesto capitolo riguarda il rapporto tra il diritto ed il tempo. Per D’Agostino sono essenzialmente due paradigmi a partire dai quali è stata pensata la relazione tra diritto e tempo: il paradigma tradizionalistico ed il paradigma storicistico. Per il paradigma tradizionalistico la verità è figlia del tempo nel senso che la tradizione ha raggiunto dei livelli di conoscenza che si aggiungono mano a mano agli altri che si ottengono a questa catena di pensiero tradizionale, alla fine porta alla verità. Cioè, secondo il pensiero tradizionale la verità è figlia del tempo e quindi il passato è importante per capire il presente. Secondo, invece, il pensiero storicistico, o meglio secondo il paradigma storicistico è sempre importante vedere come la verità sia calata nel tempo, però, per il paradigma storicistico la verità è nel tempo, cioè appartiene al presente, cioè è soltanto nell’epoca presente che si capisce la verità, quindi l’epoca presente può mutare nell’azione, ma inteso come lo spazio dell’incontro del soggetto con se stesso, che lo salva dal mito del prassismo, che, secondo Goethe finisce sempre per condurre l’uomo al fallimento e per d’Agostino, entrambi i momenti ossia l’otium ed il negotium, sono fondamentali per l’uomo e per la sua verità, per cui quello che il giurista del diritto deve fare è salvaguardare, in qualche modo, proteggere la temporalità dell’uomo, sia nella sua dimensione di negotium, e quindi lavorativa, di impegno sociale e sia nella dimensione di otium, ossia quella privata, di tempo libero. Il primato dell’etica del lavoro che ci fa vedere nell’otium la mera inerzia, ci fa dimenticare il significato vero di accidia: peccato capitale, non contro l’etica del lavoro, ma, come afferma S. Tommaso, del “riposo dello spirito di Dio”, cioè contro il terzo comandamento che ci ingiunge di “santificare le feste”. L’accidioso è colui che non agisce, che soffre, colui che cade preda dell’angoscia e che non riesce più a cogliere nel mondo il segno della Provvidenza creatrice di Dio. Quindi questo rapporto tra otium e negotium nel quale si esplica la temporalità umana, deve essere, in qualche modo, salvaguardato VII e VIII cap. POSITIVISMO GIURIDICO - CONTINGENZA DELLE NORME E SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE Nel capitolo settimo ed ottavo troviamo uno dei temi fondamentali della filosofia del diritto: il positivismo giuridico. Il positivismo giuridico ha origine anche se in maniera indiretta da una filosofia della fine dell’800 che si chiama, appunto, positivismo e quindi quello giuridico rappresenterebbe la sua esplicazione sul piano della filosofia del diritto. Il positivismo giuridico si basa sulla concezione che tutta la realtà esistente è solo quella dei fatti. Tutta la dimensione metafisica, spirituale, religiosa è esclusa dalla considerazione del positivismo, perché per il positivismo soltanto i fatti sono conoscibili. E chi è che conosce i fatti è quindi la “regina” nella forma più alta della conoscenza: la scienza. Per cui, secondo il positivismo giuridico, anche la filosofia del diritto deve essere vista comunque come inferiore, dal punto di vista conoscitivo, rispetto alla scienza. Il positivismo giuridico, quindi, afferma che il diritto va interpretato come i fatti, come un insieme di fatti. Allora, il positivismo giuridico, in particolar modo, tende ad interpretare il diritto come fatti e quindi tende a valutare il diritto più per i contenuti che il diritto veicola, per la forma, cioè al diritto non interessa tanto cosa dicono le norme, ma interessa che queste norme siano valide, cioè che siano state emanate da una forza legittimata ad emanarle e quindi abbiano validità. Per cui per il positivismo giuridico di cui Kelsen è il massimo rappresentante è importante non il contenuto delle leggi ma la validità, la forma, e questa dipende, appunto, dalla legittimità del legislatore che ha emanato queste norme. E’ evidente che ciò che diventa importante in questa concezione nell’ambito del diritto, non è più tanto l’illecito, quanto la sanzione. Quando un comportamento può essere definito antigiuridico, quindi quando può essere considerato penalmente perseguibile? Quando c’è un potere legislativo che sanziona una pena, un certo comportamento. Secondo il positivismo giuridico, quindi a tal proposito, uccidere è un reato non perché l’atto è illecito in sé, ossia perché ha l’atto, un carattere d’ingiustizia proprio in se stesso, ma uccidere è un reato perché così è stato sanzionato dalle leggi italiane. Cioè l’illecità di un comportamento è determinata soltanto dalla norma che stabilisce che quel comportamento è illecito e quindi va sanzionato. E’ evidente che questa concezione, secondo D’Agostino, è inattaccabile soprattutto per un elemento e cioè per il fatto che si tendono a giustificare anche delle norme, delle leggi, che appaiono veramente ingiuste in se stesse. Cioè il fatto che durante il nazismo ci fossero delle leggi che stabilissero principi di anti-semitismo, non per questo rendeva quelle leggi giuste. Cioè, il problema del positivismo è quello di non riuscire a dare una giustificazione4 accettabile delle norme, ne stabilisce solo la validità- Ossia per il positivismo non c’è differenza, ad esempio, tra uccidere e non uccidere, l’unica cosa importante è che cosa sia stato stabilito a riguardo del potere legislativo. La teoria positivista culmina nella teoria “dell’ordinamento giuridico”, inteso come il complesso delle norme giuridiche vigenti, caratterizzato da totale coerenza interna e dalla possibilità di principio di colmare qualsiasi lacuna. Il primato della legislazione comporta l’elaborazione di una particolare teoria dell’interpretazione, volta a ridurre drasticamente ogni rischio di eccessiva autonomia dell’interprete: il positivismo riconosce in pratica solo l’interpretazione testuale (grammatica. logica. sistematica) della legge; in casi limite, quando la legge richiede necessariamente l’integrazione, esso riconosce la legittimità di un’interpretazione extra-testuale analogica o estensiva, ma in nessun caso ammette un’interpretazione antitestuale (evolutiva, assiologia), che cioè vada contro la volontà legislativa cristallizzata nella legge. Da tutto questo si può dedurre che D’Agostino è anti-positivista, in quanto egli afferma che il reato di uccidere ha un carattere ingiusto in sé e quindi va sanzionato, indipendentemente dal fatto che sia o non sia sanzionato da una norma. Un problema che sorge è la differenza tra giusnaturalismo e positivismo giuridico. Il giusnaturalismo sostiene dei principi universali. Infatti, il reato di uccidere per il giusnaturalismo è un reato che vale da sempre e per sempre in quanto è un principio ingiusto; però, contemporaneamente il diritto ha a che fare con situazioni storiche contingenti, che mutano continuamente, quindi il problema è: come conciliare l’universalità dei principi, di cui parla il giusnaturalismo, con la mutevolezza storica degli eventi. E’ questa una conciliabilità che non sempre è possibile. Il giusnaturalismo esamina le norme da un punto di vista della perfezione, cioè il giusnaturalismo si basa su principi di diritto naturale, di valori universali, giustizia assoluta, ai quali principi, le norme devono, in qualche modo, adeguarsi. Ci sono alcuni valori perfetti a cui le leggi positive che vengono elaborate, devono adeguarsi a cercare, in qualche modo, la legge italiana non rispetta il precetto del “non uccidere”. Quindi per il giusnaturalismo, comunque, elemento fondamentale è quello della perfezione, della tendenza verso la perfezione; invece per il positivismo giuridico, le leggi, non avendo a che vedere con un riferimento assoluto, come sono appunto i diritti naturali, secondo il positivismo giuridico, le leggi cambiano a secondo della volontà del legislatore. Quindi per il positivismo, il diritto è connotato non dal carattere della perfezione, dell’assolutezza, ma da quello della contingenza, della mutabilità. Però, quello che D’Agostino vuole affermare è che comunque, è vero che le norme, il diritto, le leggi possono mutare in quanto sottoposte ad un mutamento storico legato ai cambiamenti della società, della cultura e dell’epoca, ma che però in questo processo di mutamento, i riferimenti dei valori certi, come ad esempio, al concetto di giustizia, non possono mutare. Quando, cioè, i giuristi elaborano le loro norme, essi hanno sempre la pretesa di realizzare norme che si avvicinano a dei valori oggettivi, universali, e quindi validi per ogni individuo. Pertanto bisogna rendersi conto che la mutabilità delle norme, non necessariamente, è in conflitto con questi valori oggettivi, supremi di cui è assertore il giusnaturalismo. Per cui il piano della contingenza e quello dei valori universali, possono essere, in qualche modo, visti non distinti e separati l’uno dall’altro. L’oggettività dei valori deve seguire, in qualche modo, come una sorte di postulato (principio base) per esempio: le Carte dei Diritti, o meglio, la dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, ha elaborato e manifestato dei principi , dei valori, dei diritti universali, per cui vediamo che ci sono dei tentativi di superare il relativismo, la mutabilità delle norme storiche e di arrivare, quindi, a dei principi assoluti. IX Cap. GIUSTIZIA TRA MODERNO E POSTMODERNO Nel nono capitolo, D’Agostino tratta il concetto di giustizia. L’idea di giustizia può essere concepita in due modi diversi a seconda che si adotti una prospettiva giusnaturalistica o una prospettiva giuspositivistica. Nella prospettiva giusnaturalista, l’atto giusto esiste per se stesso, cioè esiste indipendentemente da chi lo sanziona, da chi lo emana, dalle epoche storiche diverse che si possono succedere. La giustizia è un valore per se stesso e quindi trascendente a tutte le fasi storiche, ai vari legislatori che possono succedersi, etc. Nella concezione positivista, invece, ossia quella Kelseniana, il concetto di giustizia, in realtà, viene soppiantato da quello di validità, cioè sono ritenute giuste soltanto quelle leggi che sono state emanate da una sovranità legittimata e che quindi fornisce validità agli atti che emana. La concezione positivista è una concezione che tende ad avere sempre più critiche in particolar modo, c’è da porre l’attenzione sul fatto che il positivismo abbia separato il concetto di giustizia da quello di sanzione. Nella prospettiva giusnaturalista, è sanzionabile, e quindi, condannabile, quel comportamento che è contrario al concetto di giustizia, al concetto, più precisamente di atto giusto. Nella prospettiva positivista, invece, è sanzionabile, e quindi condannabile soltanto quell’atto che contrasta con la legge e la legge può essere giusta o meno: questo al positivista non interessa. E’ chiaro, così come afferma D’Agostino, che questa concezione è rifiutata da gran parte di filosofi e non. Appare, infatti, inaccettabile che possa esistere una funzione non collegata al concetto di giustizia: cioè l’idea che possano essere comminate delle pene soltanto perché siano stati superati i limiti posti dalla legge, contrasta con l’idea generale per cui le pene devono essere comminate soltanto per quei comportamenti che sono ingiusti in sé. Quindi, ancora una volta, anche sul concetto di giustizia, la contrapposizione positivismogiusnaturalismo, si riaffaccia. Per cercare di risolvere questi problemi che nascono nella filosofia positivista, ci sono stati dei filosofi che hanno cercato di proporre un nuovo concetto di giustizia. Il più famoso di questi è il filosofo americano vivente di nome John Rawls, che ha scritto, forse, il rilevante trattato di filosofia della giustizia degli ultimi decenni: “A Theory of Justice” (una teoria di giustizia), dove, egli analizza il concetto di giustizia. Rawls è sostenitore di una concezione neo-contrattualista: cioè, per il filosofo americano, la società è il prodotto di un contratto tra gli individui che la compongono. Ipotesi, si ipotizza che la società sia il prodotto di un contratto che gli individui stipulano tra di loro e che, chiaramente, presenta vantaggi per tutti. Rawls ipotizza quale presupposto di operatività del concetto, il velo d’ignoranza. Prima di costituire la società, tutti gli uomini, in qualche modo, erano coperti da questo velo di ignoranza che non consentiva loro di vedere quale sarebbe stata la loro posizione futura nell’ambito di quella società. Ad esempio, se si sa che nell’abito di una certa società, un individuo occuperà il posto del ferroviere, è ovvio che il soggetto farà in modo che la società operi nel modo più vantaggioso possibile per i ferrovieri. Ma, in realtà, bisogna presupporre che esista un velo di ignoranza che impedisca a tutti gli uomini di vedere quale posizione occuperanno nella futura società; questo perché, in questo modo, gli individui, non sapendo quale sarà il loro destino,tenderanno a scegliere dei criteri di organizzazione sociale che non svantaggi nessuna categoria. Ad esempio, c’è la categoria A, la categoria B e la categoria C; io non so a quale categoria apparterrò nella mia vita sociale perché ho il velo di ignoranza, allora cercherò di predisporre dei criteri di giustizia che non siano vantaggiosi né per A, né per B e né per C; se, invece, sapessi di appartenere alla categoria A, ovviamente farò in modo che i criteri di giustizia adottati, siano favorevoli ad A. Per cui il velo d’ignoranza impedisce questa parzialità e questo arbitrio. Allora, sulla base di questo velo di ignoranza, i criteri di giustizia che vengono adottati sono due: 1. 2. il criterio di uguaglianza che stabilisce che i diritti ed i doveri fondamentali siano distribuiti in egual modo a tutti quanti i cittadini; il principio di differenza, fondato nella logica del principio del maximin, secondo il quale bisogna adottare quei criteri di giustizia che approvino gli interventi di benefici per i più avvantaggiati, ma solo se a questo corrisponda la condizione di un maggiore aumento di beneficio per gli avvantaggiati. Per le ineguaglianze economiche e sociali, come quelle di ricchezza e di potere, sono giuste soltanto se producono benefici compensativi per ciascuno in particolare per i membri meno avvantaggiati della società. L’applicazione del primo principio, quello di eguaglianza, richiese un’azione sociale forte ed innovativa, volta a riparare gli svantaggi sociali, economici e perfino svantaggi naturali che possono colpire alcuni membri della società: svantaggi che per Rawls, anche quando sono dovuti alla “ lotteria naturale” , cioè al mero caso, cioè non di meno devono essere qualificati come veri e propri torti: non c’è nulla, nemmeno la natura, che possa giustificare intrinsecamente i privilegi. Allora, secondo Rawls, nella situazione originaria, “dietro” al velo d’ignoranza, la società che viene fuori, si basa su questi due criteri di giustizia: il principio di eguaglianza ed il principio di differenza o maximin. Cioè significa che Rawls è contrario ad una concezione utilitarista perché l’utilitarismo sostiene che sono accettabili quelle scelte che diano il maggior beneficio possibile, mentre Rawls sostiene che il beneficio non deve essere assoluto. Facciamo un esempio: UTILITARISTI: RAWLS: va scelta quell’opzione che garantisce un va scelta quell’opzione che garantisce vantaggio di 10, di cui 8 distribuiti ad A un vantaggio di solo 5, ma di cui, di e due distribuiti alla classe B, quella meno questi 5, 1 va alla classe A, e i restanti abbiente. (chi già è ricco si arricchisce sempre 4, vanno alla classe B, quella meno più) abbiente. (i conti tra ricchi e poveri vanno pareggiati) Quindi Rawls, rifiuta decisamente le concezioni utilitariste, cioè rifiuta quelle concezioni che non badano alla distribuzione nei confronti delle classi meno abbienti, ma badano soltanto al valore assoluto di utilità di una situazione; per Rawls, è importante una distribuzione che vada a vantaggio delle classi meno abbienti. E’ evidente che Rawls è un altro pensatore per il quale il concetto di giustizia è molto importante, perché, il suo è un concetto di giustizia che ha una validità che va al di sopra dell’utilità prevista dall’utilitarismo. La filosofia di Rawls è uno dei tanti tentativi che si fanno per dare ai concetti di giustizia, dei contenuti non semplicemente positivistici o utilitaristici, ma dei contenuti di valore assoluto: per Rawls l’uomo ha una dignità umana, e non è un prezzo; quindi il suo sforzo è quello di mostrare come il principio della dignità dell’uomo, quello della priorità della sua libertà rispetto ai suoi interessi, possa essere rispettato e difeso. (Rawls è contrario all’utilitarismo - bada solo al valore assoluto di utilità di una situazione). Cap. X PRINCIPIO DI LEGALITA’ (non ha alcuna valenza etica) Nel decimo capitolo viene affrontato il tema de: “ il principio di legalità”. Per il giurista, la legalità non ha alcuna valenza etica, cioè il perché si debba ubbidire alle leggi; il nostro è un sistema giuridico sanzionatorio ossia prevede delle pene che andrebbero a colpire chi non osserva le leggi, e quindi sono necessarie per fronteggiare l’eventualità della inadempienza da parte dei consociati delle prescrizioni normative. L’illegalità, quindi, per il giurista, diventa un problema sociologico-giuridico. Tuttavia, c’è da fare una distinzione tra legalità, e legittimità. La legalità concerne le modalità dell’esercizio del potere che, per essere tale, va esercitato nell’ambito delle leggi vigenti; la legittimità invece, concerne la titolarità del potere che, per essere ritenuto tale, deve avere a proprio fondamento un’adeguata giustificazione, ossia deve basarsi su un riconoscimento. Infatti, un potere illegittimo è un potere fondato su un titolo inesistente, che può essere frode o violenza; un potere illegale, invece, è un potere che viene esercitato arbitrariamente, violando quindi, le leggi vigenti. Anche se illegittimità ed illegalità tendono ad associarsi, in linea di principio, sono due concetti diversi. Quindi, affinché un potere sia riconosciuto è necessario che questo potere sia legittimato, ossia, è necessario che questo potere abbia attraversato tutte le procedure necessarie affinché possa essere esercitato. Il problema che si pone è che, secondo il positivismo giuridico, tutto quello che ha senso è problema della legittimità. Ovvero, per il positivismo, quello che in realtà conta è esclusivamente quello di verificare che chi è al potere, abbia rispettato tutte quelle procedure per arrivare a quel posto, quindi, l’unica cosa importante è la procedura. Ad esempio: se la procedura è corretta, per il positivismo al potere, può andarci anche una persona come Hitler. Quindi, da questo punto di vista, c’è una priorità della democrazia, cioè delle procedure necessarie e quindi non è importante l’idea del bene, è importante che le procedure siano rispettate; per cui uno come Hitler , che certamente non era portatore di idee di bene, era pienamente legittimato ad avere quel potere. Per cui, sostiene D’Agostino, in una concezione di questo genere, abbiamo una priorità della democrazia sulla filosofia o, per dirla in termini chiari, della procedura sulla morale. D’Agostino, chiaramente, non è d’accordo con questa tesi, in quanto un sistema giuridico non è composto solo da procedure da rispettare, ma è fatto anche di contenuti delle regole che la costituiscono. Per cui, il problema della legalità, è quindi il problema del rispetto delle leggi, deve essere sempre basato su un certo discorso morale: cioè non basta solamente rispettare le leggi perché emanate da chi legittimamente ha adempiuto a questo dovere, ma bisogna rispettare le leggi anche per un loro contenuto morale, di bene. Infatti la funzione del giurista è quella di cercare di attuare nel disegno legislativo, nelle norme prodotte, comunque dei valori di giustizia, dei valori morali, che vadano anche al di là del semplice rispetto delle regole procedurali. Il diritto non è solo fatto da regole, ma anche da contenuti di queste regole. Pertanto, ciò che si chiede al giurista è lo sforzo di essere fedele fino in fondo alla propria vocazione professionale che è insieme: quella di cultore del diritto e quella di cultore della legge . Deve basarsi, quindi, sull’imparzialità, principio procedurale ma sostanziato di valore morale. Quindi, con il principio: “la legge è uguale per tutti”, il legislatore vuole la libertà e l’uguaglianza dei destinatari della legge. D’Agostino dà ragione ad Habermas quando afferma, a tal proposito, che: “diritto è fondato su procedure e giustificazione morale dei principi, perché si implicano necessariamente a vicenda”. Cap. XI LA SANZIONE Nell’undicesimo capitolo, viene trattato il concetto di sanzione, che, insieme alla norma, rappresenta uno dei caratteri basilari della concezione giuspositivista. La sanzione è la conseguenza giuridica negativa che l’ordinamento riconnette ad un’azione antigiuridica: la pena, quindi, che viene inflitta a chi infranga la legge. Ma, accanto alle sanzioni negative ci sono le sanzioni positive. Le sanzioni negative colpiscono i comportamenti antigiuridici; le sanzioni positive, invece, premiano i comportamenti giuridici perfetti. Pertanto per sanzione possiamo intendere l’effetto giuridico negativo e positivo, che il diritto riconnette ad azioni giuridicamente irrazionali e di conseguenza meritevoli di una pena . Con la sanzione negativa, l’ordinamento giuridico cerca di porre in essere quell’equilibrio all’interno della società che può venire violato dalla commissione dell’illecito con la sanzione positiva, l’ordinamento riconosce nell’azione dell’oggetto, un’azione meritevole tale da rafforzare la dinamica sociale per via di incentivo, di esempio. Ovviamente, la sanzione giuridica riguarda sempre i comportamenti, le azioni di un soggetto che è libero e responsabile, ossia deve essere possibile imputare la sanzione ad un soggetto agente. La sanzione, quindi, è la riposta che viene data all’illecito, al comportamento antigiuridico, in caso di sanzione negativa. L’illecito, infatti, è quel comportamento, libero e volontario, mediante il quale il soggetto ottiene un indebito vantaggio personale a scapito di un altro o di altri consociati. Secondo autori come Kelsen, il diritto si differenzia dalla religione, dalla morale perché essa possiede, appunto, la sanzione. Un diritto senza sanzioni non è pensabile per due ragioni: perché una norma non potrebbe essere definita tale se mancasse una risposta ad una eventuale violazione; perché il diritto deve garantire la coesistenza tra gli individui all’interno di una società e pertanto deve garantire quell’equilibrio che non deve essere sottomesso all’arbitrio ed alla sopraffazione di chiunque. Kelsen, nella “dottrina pura del diritto”, unifica le due categorie di norma, e cioè quelle primarie o precattiva che sono quelle norme che individuano dei comportamenti illeciti; e quelle secondarie o sanzionatorie che sono quelle che garantiscono l’osservanza delle prime. Ovviamente, D’Agostino, non è d’accordo su questo e dice che il fondamento essenziale della sanzione è il suo carattere retributivo. Cioè la sanzione viene comminata ad un individuo, che si è creato dei vantaggi illeciti, per garantire la coesistenza tra gli individui. Il criterio della retribuzione toglie alla commisurazione della sanzione ogni arbitrarietà: non è della volontà del legislatore, ma è nell’obiettiva gravità dell’illecito che si fonda il quantum della pena. Secondo la teoria dell’ emenda il fine specifico della pena dovrebbe essere quello di retribuire al ravvedimento etico-psicologico del reo, ma è una teoria a carattere fondamentalmente pedagogico (teoria dell’educazione). La teoria, invece, secondo la quale il meccanismo sanzionatorio garantirebbe la coesistenza sociale, è di matrice sociologica: questo è quanto afferma la teoria retributiva. XII cap. INTERPRETAZIONE DEL DIRITTO Nel dodicesimo capitolo viene trattato uno dei temi fondamentali della filosofia del diritto; l’interpretazione del diritto o, con un termine più usato dai filosofi si parla del pensiero ermeneutico. Il termine ermeneutica deriva da una scuola filosofica che si è sviluppata nella seconda metà del ‘900 e che ha come suo tema fondamentale il problema dell’interpretazione dei testi e è importante nella filosofia del diritto perché le leggi, le norme hanno bisogna di una interpretazione. Quindi il problema dell’interpretazione è un problema fondamentale. Secondo la dottrina tradizionale dell’interpretazione, le leggi hanno un significato univoco; cioè quando un legislatore emana una norma, ed ha un suo significato che deve essere capito da tutti. Quindi, secondo una dottrina tradizionale, le norme hanno un senso univoco che, non varia a seconda di chi va ad interpretarle. Questa impostazione è stata messa in crisi da questa nuova concezione filosofica detta: ermeneutica, la quale si è resa conto che non esiste questa univocità nell’interpretazione di una norma. Per gli ermeneuti, infatti, una stessa norma può avere diversi significati, a secondo di chi la interpreta, pertanto non è vero che una norma abbia un carattere univoco perché il suo significato non viene colto da tutti allo stesso modo. Pertanto per cogliere il significato delle norme giuridiche c’è bisogna di un’interpretazione, di un lavoro ermeneutica. La nuova coscienza ermeneutica ha, naturalmente, messo in crisi tutta una serie di credenze, in particolar modo quelle che fanno capo ad una tradizione interpretativa che prende il nome di “ logicismo giuridico” , che si basa su alcune certezze: 1. 2. che possa esistere una sola interpretazione vera ed esatta; che ci sono interpretazioni che non mettono in gioco la personalità dell’interprete e quindi non è possibile attribuire ad una stessa norma più significati. Queste certezze del logismo giuridico sono state messe in crisi da questa interpretazione ermeneutica che vede nell’attività del giurista-interprete, l’individuazione di più significati ricavabili da una stessa norma e che tale individuazione implica un atteggiamento di intervento attivo sul testo da interpretare, così come emerge da un epigramma goethiano, molto amato dai cultori di ermeneutica: “ nell’interpretazione, siate inventivi e vivaci. Anche se non tirate nulla dal testo, attribuitegli un senso!”. Quindi, l’attività del giurista-interprete non può che essere creativa ed essa, a sua volta, andrà ritenuta normativa, perché il giurista non è chiamato a chiarificare il significato implicito delle norme, ma egli opera attribuendo loro un significato. Pertanto sarà impossibile non ammettere che il giurista-interprete produce norme valide a risolvere controversie. Il problema che sorge alla tesi ermeneutica è: se non vi è un unico significato che si possa attribuire ad una norma ma ve ne sono diversi, in base all’interpretazione delle norme stesse, come si può scegliere la più giusta? Nasce a proposito il problema del nichilismo, cioè il problema che se si hanno più interpretazioni da una stessa norma, è che se non ne avessimo nessuna, perché non si sa quale sia la più giusta. D’Agostino dice che il problema non è tanto quello del nichilismo o relativismo: quello che l’ermeneutica ha messo in discussione non è tanto che non ci sia un’interpretazione attiva degli enunciati normativi, ma ha messo in evidenza che ci sono tante interpretazioni, cioè che il lavoro ermeneutico è, in qualche modo, inesauribile. Quindi ci troviamo di fronte a due situazioni, una di aspetto negativo che è di coloro che dicono che ci sono varie interpretazioni e quindi come se non ce ne fosse neanche una, perché non si sa quale sia quella giusta, e quindi, quella a cui far riferimento: concezione nichilista (negazione di tutto); l’altra di aspetto positivo, quella ermeneutica, ritiene che questa variabilità di significati, da attribuire ad una stessa norma, sia un bene, perché con ciò si vuole dimostrare che vi è un lavoro che non deve fossilizzarsi, stabilizzarsi, ma che deve continuamente andare avanti. Il lavoro ermeneutico si svolge su una base di criterio: il primo che è quello che D’Agostino definisce come criterio dell’orizzonte di attesa che sostiene che una norma debba essere interpretata tenendo conto dello sfondo culturale, sociale, filosofico e storico, che si viene a creare intorno al giudice; il secondo, fa riferimento al tema dell’implicazione, cioè il giudice darà un’interpretazione ad una norma adeguandosi il più possibile alla realtà che lo circonda; il terzo fa riferimento alla fedeltà. Il giurista non deve essere fedele né al legislatore, perché in questo modo implicherebbe un’inevitabile sudditanza politica nei confronti di chi detiene il potere; né alla legge, perché trattasi di principi astratti che solo grazie all’attività interpretativa dei giuristi, acquistano concretezza. Pertanto il giurista non può essere fedele all’ “essere”, al diritto, quel diritto basato su convinzioni, certezze, che ognuno ha dentro di sé e che costituiscono dei valori innati universali. Cap. XIII - STATO DI DIRITTO: DIMENSIONI E PROBLEMI Il tredicesimo capitolo tratta il concetto di stato di diritto. I concetti di stato di diritto è stato elaborato nell’ ‘800 da una scienza giuridica tedesca diffusa in tutta Europa. Lo Stato di diritto, da mero concetto giuridico, scientifico, è ormai divenuto un vero e proprio valore giuridico; valore da difendere e da salvaguardare. Che cosa si intende per stato di diritto? Per stato di diritto si intende uno stato nel quale: comportamenti sociali, politici e giuridici, sono regolati e rispettano il limite posto dalle leggi. Cioè lo stato di diritto è quello stato che si fonda sul diritto, ossia tutti i comportamenti posti in essere dagli individui e non solo, ma anche da parte di chi governa devono sempre rispettare le leggi. Infatti, “stato di diritto, scrive Kelsen, è un ordinamento giuridico relativamente accentrato, in base al quale, la giurisdizione e l’amministrazione sono vincolati da leggi. I membri del governo sono responsabili degli atti da loro posti in essere; i tribunali sono indipendenti; certe libertà dei cittadini, come quelle di religione, coscienza e parola, sono garantite”. La dottrina dello stato di tradizione tedesca ritiene che lo stato si fondi su tre elementi essenziali: il popolo, il territorio, la sovranità. Il popolo, nella dottrina dello stato, viene definito come quell’emissione non accidentale di individui legati ad un elemento oggettivo che può essere il carattere etnico: la stirpe, la lingua, i costumi, la religione, etc. Cicerone identificava la res publica come un’aggregazione sì di essere umani, ma un’aggregazione fondata sul rispetto dl diritto e sul bene comune. In altre parole, il popolo può essere identificato dal fatto che ciò che unisce tra loro gli individui che lo compongono, non è il mero perseguimento di interessi, ma il fatto che qualunque interesse dei singoli, possa essere elevato ad interesse comune. L’altro elemento che è il territorio dello stato si riconosce perché occupa una parte del territorio della terra, riconoscibile dai suoi confini. Esso può essere vastissimo, come quello di un impero, o ridotto estremamente come quello delle polis greche, ma deve comunque essere luogo di radicamento di un popolo. Può essere oggetto di migrazioni periodiche purchè queste non impediscano un rapporto intrinseco ed immediato tra il popolo, o meglio, tra quel popolo e quella terra. Il territorio non è elemento di identificazione di uno stato quando esso, a priori, non sia necessario all’identificazione ed alla costituzione del popolo, come è il caso delle grandi religioni monoteistiche che sì hanno un popolo, esempio, quello cristiano, ma non possono essere assimilate alla forma-Stato. Infine, terzo elemento essenziale dello Stato è la sovranità, ossia chi detiene il potere in modo legittimo. Sul concetto di sovranità, possiamo operare due distinzioni: il concetto di sovranità lo si può intendere in senso politico-giuridico. Nel primo caso, la sovranità si identifica nella presenza di un potere forte che crea tutti i valori, tutti i significati, e tutte le norme possibili da applicare poi, a quel determinato stato; nel senso giuridico, la sovranità si basa su un ordinamento che prevede sostanzialmente due principi: uno è il principio del primato delle leggi , un altro è il principio della separazione dei poteri. Il principio del primato della legge, va immediatamente riferito all’attività di governo dello Stato. Cioè, significa che il governo, da un lato è sottoposto alla legge, e quindi sub-lege e deve esercitare il suo potere nel rispetto delle leggi vigenti; dall’altro lato, il governo opera attraverso la legge, e quindi per – leges ed esercita il suo potere attraverso norme generali ed astratte. In questo modo, lo Stato non potrà che agire attraverso il diritto e pertanto, ai cittadini verranno riconosciuti e garantiti pienamente i loro diritti, poiché lo Stato non agirà mai nei loro confronti in modo arbitrario. L’altro principio, quello della separazione dei poteri, fa sì che vengano rigorosamente distinti e separati il potere legislativo, da quello esecutivo; tende, quindi, questo principio, ad impedire che un potere diventi troppo forte rispetto agli altri. C’è un’altra tradizione che fa capo alla cultura inglese e che ha parlato di sovranità, facendo riferimento a quello che è il Rule of Law, cioè la regola della legge. Vi sono dei principi che definiscono il Rule of Law e che regolamentano l’ordinamento giuridico ed anche il sistema della sovranità. Tali principi sono: il principio di legalità, secondo il quale un atto è giuridicamente rilevante solo se previsto come tale, ossia, una legge è tale solo se rispetta una serie di regole previste dall’ordinamento giuridico. Il secondo principio è quello per cui l’attività del potere esecutivo deve svolgersi contro una cornice di regole e di principi riconosciuti. Il terzo principio stabilisce che qualora vi siano delle controversie sull’interpretazione delle leggi, queste controversie devono essere risolte dai giudici, come soggetti totalmente indipendenti dal potere esecutivo. Il quarto ed ultimo principio si occupa di individuare, o meglio, di determinare quale sia il criterio in base al quale il giudice debba individuare la legge: la legge deve essere imparziale tra Stato e cittadino e che quindi lo Stato non deve godere di privilegi arbitrari. Di conseguenza, il giudice può non riconoscere carattere di legge le norme che non rispettino questo criterio. Nella prospettiva del Rule of Law il governo è stato sempre ritenuto subordinato all’impero del diritto. Ma che rapporto deve esistere tra Stato ed individui? Su cosa devono basarsi le relazioni tra Stato ed individui? A tal proposito sono stati presi in considerazione due modelli tipici ed antitetici ossia il modello individualistico ed il modello organistico. C’è comunque da dire che, a proposito dello stato moderno Max Weber lo identifica come “una compiuta sovranità ottenuta attraverso una concentrazione del potere, realizzata con l’assunzione totale della produzione normativa ( il primato della legge) sulle altre fonti del diritto, (come la consuetudine ed il diritto naturale) e la monopolizzazione dei servizi essenziali per il mantenimento de4ll’ordine pubblico. Dunque, il modello individualistico vede nell’individuo il reale e di conseguenza lo Stato ed il suo diritto (il diritto pubblico), hanno una legittimazione solo convenzionale che verrebbe conferita esclusivamente dai singoli individui. Secondo il modello individualistico lo Stato non è niente altro che il prodotto della scelta contrattuale degli individui. Cioè gli individui si sono messi insieme tra di loro, e tra di loro hanno contrattato la creazione dello Stato. Quindi lo Stato, nella concezione individualista, è visto semplicemente come uno strumento creato dagli uomini per difendere i loro interessi, i loro diritti. Per cui lo Stato nasce come un prodotto della volontà dei singoli individui ed è sottomesso alla stessa volontà; pertanto lo Stato è visto come un ente artificiale creato dai cittadini per tutelare i diritti degli stessi cittadini. Ma può diventare strumento di oppressione degli stessi diritti perché, a quel punto c’è la possibilità di abbattere questo Stato e crearne uno nuovo. Quindi nella concezione individualista, il punto di partenza è l’individuo, e solo successivamente forma lo Stato e lo forma al fine di rispettare e tutelare i propri interessi ed i propri diritti, che per Hobbes, essi coincidono di fatto con il solo diritto alla vita, mentre per altri autori vi sono altri diritti basati soprattutto sul principio di libertà secondo il modello organistico, presente in Aristotele ed Hegel, lo Stato ed il diritto non hanno bisogno di legittimazione alcuna, perché sono realtà a loro modo originarie. Cioè nel modello organistico, è già presente l’essenziale di ciò che deve caratterizzare lo Stato; in pratica sono gli individui che alla loro nascita, sono già inseriti in uno stato già preesistente. Non esiste, quindi, una volontà contrattualistica da parte di cittadini nel formare lo Stato. In una concezione del genere, è evidente che gli interessi dello Stato, sono superiori agli interessi degli individui. D’Agostino sostiene che questa concezione potrebbe sfociare in una situazione di totalitarismo e ciò significherebbe che i diritti degli individui verrebbero completamente sottomessi. La totalità cui fa riferimento la teoria dello Stato organistico è quella che presuppone nei concittadini un bene comune, un bene che, in quanto comune, è oggetto dell’interesse e della cura di tutti. In questo senso, ossia, nell’idea del bene comune, nessun cittadino ha nei confronti dello Stato diritti assoluti: né la proprietà, né la libertà, né la vita, possano essere assolutamente rivendicati dal cittadino quando il bene comune richiede il loro sacrificio. La proprietà può essere espropriata per ragioni di interesse generale; la libertà può essere limitata per ragioni di sanità pubblica o per ex delicto ; ed infine lo Stato, per ragioni di tutela collettiva, può anche chiedere ai cittadini di porre a repentaglio la loro vita (esempio: la guerra). Finchè questa priorità dello Stato sui diritti individuali dei cittadini sia compresa all’interno della logica del bene comune, non si avrà pericolo di totalitarismo. Lo Stato organistico, visto in questa maniera, rappresenta la forma più alta dello Stato di diritto. Il bene comune, comunque deve essere oggettivo perché il fine del diritto non è quello di rendere felici gli uomini, ma di porli nella condizione di diventarlo. Il bene comune, quindi, consiste nella possibilità di vivere in comune, di essere comunità, possibilità che solo il diritto può garantire. La verità della democrazia è di conseguenza dello Stato di diritto, e nel comune sentire dei cittadini che c’è un bene che oggettivamente li accomuna a che, essendo questo bene, un bene di tutti, deve essere gestito e garantito da tutti. Ma, l’esistenza del bene comune supera l’orizzonte chiuso di una comunità politica, perché il bene comune è il bene dell’umanità. Pertanto, il bene comune acquista un valore che è planetario e dà un solido fondamento all’auotoeliminazione della sovranità dei singoli Stati. E’ consapevolezza diffusa che, nel nostro tempo, l’autentica soluzione ai più gravi problemi socio-politici, può essere ricercata unicamente attraverso un’azione a livello internazionale. Un bene, quindi, è veramente comune, quando coinvolge l’umanità intera. STUDIARE Cap. XIV Cap. XV LA GIUSTIZIA TRIBUTARIA Il quindicesimo capitolo tratta il tema della giustizia tributaria detta in termini più semplici: perché si devono pagare le tasse? Che diritto hanno i governanti dello Stato di chiedere il pagamento delle tasse? È giusto pagarle? Questo è un problema di filosofia dl diritto molto attuale e sostanzialmente è: che cosa è che legittima lo Stato a pretendere da noi il pagamento delle imposte? A questa domanda ci sono diverse risposte. Una tra queste che D’Agostino ritiene non esser accettabile è che: è proprio del diritto dello Stato che è un diritto pubblico, quello di imporre a soggetti privati una serie di imposizioni. Quindi, c’è una supremazia, un’insindacabilità del diritto pubblico rispetto ai soggetti privati. Ma, per D’Agostino, questa risposta non riesce a spiegarci perché lo Stato ha questo diritto; cos’è che determina questo privilegio; per cui quando ci vengono imposte le tasse le paghiamo non soltanto perché è lo Stato a chiedercelo che, giustamente rappresenta un potere forte, ma, dovremmo pagarle perché è giusto che lo Stato ci chieda queste imposizioni perché è legittimo. Quindi il problema è sempre quello della giustificazione della legittimità di certe pretese. Un’altra risposta è quella che riguarda il bene comune che D’Agostino è più propenso ad accettare: cioè l’idea che lo Stato pretenda il pagamento delle tasse perché grazie a questi fondi, lo Stato riesce a creare un maggiore equilibrio tra abbienti e meno abbienti, dunque un problema di giustizia distributiva. In pratica lo Stato prende dai più ricchi per dare ai poveri e quindi ricreare un equilibrio sociale, basato sul principio della solidarietà sociale: equilibrio che, naturalmente, è finalizzato al bene di tutti, perché se ci sono meno poveri, se c’è meno senso di rivalsa dei poveri nei confronti dei ricchi, naturalmente, ci sarà una situazione più calma, più equilibrata e più giusta. Però, questa interpretazione basata sull’idea di bene comune, accettata da D’Agostino, non è molto diffusa nel pensiero moderno perché l’idea più diffusa è che bisogna pagare le tasse perché in cambio delle tasse, lo Stato ci garantisce una serie di servizi che altrimenti non potremmo avere: esempi, la pulizia delle strade, la scuola, la sanità etc. Questa, però è per D’Agostino una risposta molto pericolosa perchè si corre il rischio che si venga a diffondere questo tipo di pensiero: ” Io pago perché dispongo di questo servizio, ma se lo Stato non mi dà dei servizi, io, sulla base di questo ragionamento, ho tutto il diritto di non pagare le tasse. Ma questo è un assunto particolarmente eversivo perché mette in crisi la struttura di tutta la società e l’idea di Stato. D’Agostino sostiene che quest6a idea potrebbe andare bene a patto che però, s’intenda la fornitura di servizi da parte dello Stato, non da un punto di vista quantitativo, ma da un punto di vista qualificativo. E’ evidente che lo Stato non può dare tutto a tutti perché comunque, anche lo Stato incontra dei limiti, però lo Stato deve esser in grado di fornire una serie di servizi primari, necessari, qualitativamente superiori rispetto ad altri, ed è su questo che si basa l’idea della giustizia tributaria. Quindi bisogna fare sempre un discorso di qualità dei servizi offerti, di qualità dei beni salvaguardati da parte dello Stato, attraverso le imposte che ci vengono chieste di pagare. Cap. XVI DIRITTO, PLURALISMO E TOLLERANZA (cap. XIX) Il sedicesimo capitolo tratta del concetto di pluralismo dei valori. Per pluralismo dei valori, si intende che non esiste un solo valore, un solo bene ma ci sono molti valori e molti beni. In una società come quella moderna, ci sono più cose che vengono considerate valori, molto spesso, molto diversi tra di loro. Vi sono due concezioni di pluralismo: pluralismo fattuale (assiologico/quantificativo) che prende atto che effettivamente ci sono valori diversi: alcuni ritengono che il valore superiore sia l’onestà, altri il piacere, altri ancora il denaro; quindi vi è una varietà di valori senza però attribuire loro un giudizio negativo o positivo pluralismo di principio ( sfugge dal relativismo) sostiene che è giusto che vi siano valori diversi, perchè ciò significa sostenere il principio di tolleranza. In pratica, il pluralismo di principio afferma che se uno vuole condurre una vita all’insegna dell’onestà, un altro all’insegna del piacere, entrambe queste forme di valori vanno tollerate. Ovviamente non possono essere tollerate quelle forme di valori che significano negazione dei diritti dell’altro. Questi due principi, quello del pluralismo fattuale e quello del pluralismo di principio sono molto diversi tra di loro. Il pluralismo fattuale, infatti, è un principio che sostanzialmente fallisce perché produce quello che D’Agostino chiama “indifferentismo morale”, ovverosia, la pressa d’atto che ci sono valori diversi spinge a non preferirne uno rispetto ad un altro e quindi ciò fa cadere in una sorta di indifferenza. Questo determina un problema perché in caso di conflitto tra due valori contrastanti, è necessario che vi sia una scelta. Il pluralismo fattuale fallisce perché non permette alcuna scelta chiara e precisa; invece il pluralismo di principio sostiene l’affermazione di valori diversi. Della loro validità, che però possono essere, attraverso un lavoro di scambio, di dialogo. Di comunicazione, portati verso un valore comune. Il pluralismo di principio, permette la dialogicità e quindi di arrivare a sostenere un valore unico. Questo scambio dialogico su cui il pluralismo di principio si fonda è tipico del diritto. Il diritto, infatti, si basa su una struttura dialogica per eccellenza che è il processo, che non è altro che il confronto tra due parti, una accusatoria e l’altra difensiva, dove si cerca di arrivare ad un punto comune, ad un valore in comune che è la verità. Il diritto, quindi, è una tipica espressione di dialogicità, di quella che secondo D’Agostini, serve per arrivare a dei valori comuni. XVI I cap. NON VIOLENZA E IL DIRITTO Il diciassettesimo capitolo tratta un argomento che è piuttosto collegato al diritto: la non violenza. Il concetto di non violenza può essere visto in due accezioni: può indicare un modo di agire, o più precisamente una tecnica di azione politica, ed in questo caso parliamo di non violenza pragmatica o negativa; o può far riferimento ad una dottrina, cioè ad un insieme di principi teoretici, etici e politici, nei quali può trovare il proprio fondamento una tecnica di azione politica, ma tali principi mantengono la loro vitalità indipendentemente dalla loro applicazione pratica ed in questo caso parliamo di non violenza dottrinale e positiva. Nel caso della non-violenza pragmatica e negativa, la tecnica di azione politica messa in atto, ritiene di poter e dovere trovare solo in se stessa la propria giustificazione. Infatti proprio perché rinuncia a qualsiasi riferimento di principi o dottrine, la non-violenza pragmatica può essere utilizzata da qualsiasi movimento. Può anche essere utilizzata maliziosamente per favorire l’assetto di movimenti politici oppressivi: ad esempio, da gruppi minoritari per nulla disposti, una volta divenuti maggioritari a riconoscere qualsiasi spettanza alla nuova minoranza e pronti, al limite, a reprimere, anche con il ricorso alla violenza, ogni manifestazione di dissenso. Ciò che invece caratterizza la non violenza dottrinale e positiva è il forte concetto del ripudio della violenza che appare quale principio primo e costituivo. La non violenza pragmatica e negativa, quindi, ritiene giusta l’azione non-violenta perché la ritiene tale da dare buoni risultati, o da dare comunque, sempre risultati migliori dell’azione violenta. La non-violenza dottrinale, invece, ritiene che il ripudio della violenza sia giusto in se stesso, anche nell’ipotesi in cui esso non dia gli esiti sperati. Della non violenza dottrinale abbiamo fondamentalmente due modelli: uno orientale ed uno occidentale, molto diversi tra loro: Il modello orientale è il più noto perché reso popolare dall’eccezionale personalità del Mahatmal Gandhi, con l’altrettanto eccezionale azione politico-pedagocico-sociale tanto da far divenire la sua azione l’unico possibile modello di teoria ed azione non violenta. Egli faceva riferimento alla verità, verità intesa come sinonimo di Dio e che viene conquistata attraverso l’esperienza personale dell’uomo. La non-violenza Gandhiana possiede quella che potremo definire la conversione universale di tutti gli uomini alla verità, cioè a Dio e vi è un equilibrato carattere di lotta a favore degli oppressi (perché siano liberati dalla violenza degli oppressori) e di lotta a favore degli stessi oppressori (perché siano liberati anche loro da ciò che li opprime, cioè da ciò che li induce ad operare con violenza contro gli altri). Della non-violenza esiste, però, anche un modello occidentale: è il modello del diritto come tecnica di soluzione delle controversie, giusta e non violenta: Cioè il diritto è quello strumento non violento perché utilizza non la forza, ma la giustizia; mediante il quale vengono regolati i rapporti intersoggettivi. Rispetto al modello gandhiano, altamente spirituale, perché si rivolge con forza alle coscienze, l’esperienza occidentale del diritto non può che apparire caratterizzata da un’intrinseca freddezza. XVIII cap. I DIRITTI DELL’UOMO Nel diciottesimo capitolo viene trattato il tema de “i diritti dell’uomo”. Dopo Auschwitz, quindi dopo lo sterminio degli ebrei e dunque dopo la “vergogna” di cui si è macchiata l’umanità del nostro secolo, costruendo i campi di sterminio, il tema dei diritti è tornato ad essere di grande attualità. Ovvero i diritti esistono al di là della loro semplice previsione da parte di un’insieme di regole, di norme. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ne rappresenta l’esempio più emblematico. Tuttavia, benché la tematica dei diritti umani sia diventata culturalmente irrinunciabile, vi sono dei diritti umani in larga parte irrealizzati. Le ragioni delle difficoltà che incontra una piena realizzazione dei diritti sono metastoriche, cioè riguardano il modo di pensare del diritto:il fatto che la società mondiale sia strutturata in Stati, non ha una dimensione planetaria, quindi ogni Stato tende ad assumere un proprio atteggiamento nei confronti dei diritti; inoltre sembra che i diritti dell’uomo abbiano bisogno, necessariamente, di un documento giuridico , come lo è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, per avere validità. La Carta dei Diritti, hanno ovviamente una loro importanza, cioè quello di avere effettivamente messo in evidenza l’importanza della tutela dei diritti dell’uomo. Il problema, però, è che per quanto dettagliate queste carte siano, il problema dei Diritti non è un problema di quantità, ma dei diritti. Cioè ci potrebbero essere migliaia di articoli a difesa dei diritti umani, ma sarebbe opportuno individuare la struttura essenziale di questi diritti. In particolar modo, il concetto fondamentale che deve essere la base di tutti i diritti, che ne deve costituire la propria essenza è l’idea del riconoscimento della dignità umana. La lotta per la promozione e la difesa dei diritti umani viene a coincidere con la lotta per il riconoscimento della dignità umana, cioè la capacità di ogni uomo di essere soggetto di rapporto. Quindi, prima ancora dei valori politici , orali e sociali i diritti dell’uomo vanno compresi per ciò che effettivamente essi sono: viventi manifestazioni, nel soggetto, del principio del diritto. XIX cap. I DOVERI DELL’UOMO Il diciannovesimo capitolo riguarda il concetto correlato del dovere. Cioè se esistono diritti, dice D’Agostino, devono necessariamente esistere, in maniera correlata dei doveri. In particolar modo quando si parla di doveri, se ne deve parlare utilizzando una formulazione: Quando possiamo ritenere un dovere fondamentale? Va ritenuto fondamentale un dovere che gravi su tutti gli uomini indiscriminatamente e che nel contempo sia tale che nessuno possa sottrarsi al suo adempimento. Ma qual è un diritto fondamentale dell’uomo? E qual è un dovere fondamentale dell’uomo? Il diritto fondamentale dell’uomo è il principio della libertà perché è sulla libertà che si fonda quella dignità dell’uomo importante per il suo riconoscimento come soggetto di diritto. Il principio della libertà deve essere riconosciuto come dimensione propria dell’essere umano, dimensione costitutiva dell’essere umano e che quindi non può essere sottratta in alcun modo. Sottraendo la libertà all’uomo, gli si sottrae la sua dignità e quindi la sua stessa essenza umana. Invece il dovere fondamentale che coesistenza: il fatto che l’essere umano è costitutivamente un essere relazionale lo parta a pensarlo in un contesto dove prima di se stesso c’è il suo modo di vivere in rapporto con gli altri. Quindi tutta l’esistenza umana è basata sulla coesistenza di sé con gli altri: ciò significa che dovere fondamentale di ogni individuo è quello della coesistenza. XX CAPITOLO. PLURALISMO CULTERALE E UNIVERSALITA’ DEI DIRITTI Il ventesimo capitolo torna sul tema del pluralismo. In questo capitolo si torna su questo problema: le culture umane sono diverse tra loro, cioè ogni cultura umana sostiene un determinato valore. E, proprio questo principio di pluralismo di valori è stato spesso utilizzato per contrastare il diritto naturale, perché per quest’ultimo ci sono dei principi assoluti che sono innati nell’uomo, e che quindi non variano al variare delle culture dei tempi, delle epoche storiche ecc, e che quindi sono universali ed eterni. E’ vero che in realtà ci sono delle differenze di valori, però, utilizzando un pensiero più approfondito, seguendo gli insegnamenti del Pareyson, ossia il pensiero rivelativo che non si limita alla descrizione di come stanno le cose, ma cerca invece di rivelare il contenuto profondo delle situazioni umane, dunque se noi utilizziamo questo pensiero rivelativo, possiamo arrivare a conoscere un’esperienza morale e profonda che è comune a tutti quanti gli umani. Il pensiero rivelativi quindi cerca di porre l’uomo in rapporto con la verità, mentre il pensiero espressivo consiste in una descrizione del mondo. Quindi, la filosofia intesa come pensiero rivelativi si presenta come possibilità di giudizio delle culture, delle loro verità, della loro contraddittorietà, ma questo non implica che la filosofia si presenti nei confronti delle culture come giudizio di condanna. La filosofia non chiede alle culture di rinunciare ad essere se stesse, chiede solo di rinunciare ad assolutizzare se stesse, cioè ogni cultura non deve pretendere che il valore che essa sostiene è l’unico valore possibile escludendo tutti gli altri ma vada alla ricerca di un valore comune a tutte quante le altre culture. Ci sono infatti alcuni valori che valgono universalmente: il tabu dell’incesto, il rifiuto morale dell’incesto, secondo la teoria di norma primigenia, una delle norme che si possano tranquillamente definire universale, propria di tutte le culture, da quelle più sofisticate a quelle aborigene; lo stesso vale per il rifiuto del cannibalismo di cui Arens ha dimostrato l’assoluta inattendibilità delle pretese testimonianze storiche ed etnologiche al riguardo. Pertanto, rivelare l’universalità di alcuni sommi principi è essenziale non per redigere codici, ma solo per mostrare la fondamentale capacità di comunicazione di tutte le culture e di conseguenza di tutti gli individui. Ovviamente queste norme universali, questi diritti universali, non sempre riescono ad ottenere una loro espressione univoca negli ordinamenti giuridici, in quanto questi sono condizionati da fattori storici, da fattori politici, per cui una norma che è comune a tutte le culture può trovare un’espressione diversa a seconda della società e dell’epoca in cui, appunto, viene elaborato l’ordinamento giuridico. Lo stesso vale per la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo che non può avere la pretesa di assolutezza, ciò, però, non vuol dire mettere in dubbio o svalutare i contenuti della stessa. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo è quanto di più adeguato alla difesa della dignità umana, ma non può farci ignorare sotto quali condizionamenti essa è stata pensata e scritta.