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L’Atlantide di Platone.
Io dirò un’antica storia,
come l’ho udita da un uomo non più giovane..
[ Timeo; 21a ]
Sono stati pubblicati migliaia di libri e articoli mirati a risolvere quello che probabilmente
rappresenta uno dei più grandi enigmi della storia umana.
La maggior parte degli autori di questi testi sono da considerare dei «liberi pensatori» e alle
volte hanno avuto atteggiamenti da «dilettanti allo sbaraglio»: ben pochi di loro hanno scritto
con imparzialità, basandosi soltanto sulle prove.
Gli accademici, a loro volta, hanno sempre rifiutato di sporcarsi le mani con leggende sulle
civiltà sommerse e «sull’età dell’oro», preferendo trattare la «storia reale», fondata
esclusivamente sulle testimonianze archeologiche.
La storia di Atlantide ha affascinato da sempre oceanografi, storici, archeologi, esploratori,
sensitivi: tutti coloro che sentono il fascino dei misteri più profondi della storia umana,
arricchendosi di molti contributi nel corso delle migliaia di anni in cui è stata raccontata, e
queste influenze potrebbero effettivamente essersi sedimentate nel nostro inconscio collettivo.
Molti hanno situato l’Atlantide nei più disparati punti del globo terrestre, servendosi a questo
scopo solamente del compasso della propria immaginazione. Pertanto si incontrano ipotesi
sulla sua localizzazione in tutti i posti possibili, da un polo all’altro.
Poiché molti fra gli autori di queste teorie su Atlantide sono scienziati o ricercatori rispettabili,
anche se non con i crismi dell’ufficialità, potrebbe essere controproducente ignorare
automaticamente le loro teorie. Ma poiché nessuno di loro ha dimostrato in modo
soddisfacente la sua tesi, ci troviamo ad avere una quantità di teorie contrastanti e spesso
contraddittorie fra di loro.
Ma questa è la natura essenziale dell’Atlantologia, una disciplina che combina letteratura,
filosofia, geologia, oceanografia, archeologia, storia antica, mitologia, storia dell’arte,
misticismo, crittografia e fantasia: non c’è alcun’altra «scienza» che usi un tale miscuglio e che
produca risultati tanto divergenti.
Il mito dell’Atlantide è giunto fino a noi rivelandosi fra i più durevoli dell’antichità. Pur non
facendo parte di alcuna cosmologia religiosa, questa storia si è tramandata per migliaia di anni
senza il beneficio di un clero impegnato in un’attività di proselitismo.
E’ così forte da essersi conservata soltanto grazie ai suoi meriti; essa è stata, infatti,
tramandata per due millenni e mezzo, quasi esclusivamente per tradizione orale, ed è ben
viva ancor oggi, in un’epoca caratterizzata da meraviglie tecnologiche come l’energia atomica
ed Internet.
Quasi tutte le culture contengono una storia, un mito o una leggenda della scomparsa di una
civiltà corrotta a causa di un diluvio, ma contrariamente a quanto è accaduto per altre
complesse e confuse leggende, pure oggetto di accanite discussioni, quella dell’Atlantide ha
un’origine ben definita.
Probabilmente il filosofo greco Platone non immaginava che due dei suoi scritti, il Timeo e in
seguito, il Crizia avrebbero fatto scorrere più inchiostro del suo intero corpus filosofico.
Platone, il cui vero nome era Aristocle (il nome Platone deriva dal greco platos che significa
ampiezza e pare che gli sia stato attribuito o per il suo vigore fisico o per la spaziosità della
fronte o per l’eleganza dello stile), nato ad Atene nel 428/427 a.C., era di origine nobile: infatti,
-2il padre Aristone sosteneva di essere discendente del re Codro e la madre Perictione si diceva
imparentata con Solone.
Fu uno dei più grandi filosofi dell’antichità, assieme ad Aristotele.
Fin da giovane si era interessato di politica e a causa delle sue parentele: Crizia stesso,
famoso uomo politico ateniese, era lo zio materno di Platone. Si trovò vicino al governo dei
Trenta Tiranni, ma ne restò presto deluso poiché non vide assolutamente nascere il nuovo
regime secondo i principi di giustizia ed equità che tanto sperava facessero da filo conduttore
nel nuovo governo. Platone così ancor prima della caduta del governo dei Trenta Tiranni (401
a.C.) si distacca dall’ambiente politico e con la morte del suo maestro Socrate nel 399 iniziò a
compiere viaggi di studio, com’era usanza presso gli studiosi greci, nei luoghi più raffinati
culturalmente del mondo allora conosciuto.
Partì alla volta del misterioso Egitto, dove rimase per circa tre anni, poi si diresse a Cirene e in
Magna Grecia, dove incontrò il pitagorico Archita. Dopo varie vicissitudini a Siracusa per
creare il suo famoso «governo dei filosofi» e dopo aver istituito l’altrettanto famosa
Accademia ad Atene, Platone, oramai anziano, passò gli ultimi anni della sua vita nella sua
città natale, dove morì all’età di 81 anni nel 348/347 a.C.
Nel 355 a.C. circa, all’inizio di una delle opere più enigmatiche della letteratura classica,
Platone aveva già completato un libro intitolato Repubblica, in cui descriveva Atene come
uno Stato ideale; la sua visione era basata in parte sugli insegnamenti filosofici di Pitagora che
ebbe una notevole influenza sulla sua vita.
La nuova opera si intitola Timeo e, come la precedente, era un dramma, o Dialogo,
interpretato da quattro personaggi storici e ambientato nell’anno 421 a.C. I protagonisti, gli
stessi che compaiono nella Repubblica, sono Socrate, grande amico e mentore di Platone,
che si diede la morte avvelenandosi nel 399 a.C. circa, Timeo, un astronomo di Locri,
Ermocrate, un generale siracusano in esilio, e Crizia, bisnonno o zio materno di Platone.
I temi affrontati in questo dialogo, che doveva essere il seguito della Repubblica, includono la
meccanica dell’Universo e la natura del mondo fisico; comunque non è Socrate a fare la parte
del mediatore come nella Repubblica, ma Crizia.
Pur essendo dedicato principalmente alla trattazione di altri argomenti, il Timeo svolge una
parte estremamente importante nella storia dell’Atlantide, contenendo l’introduzione e la
spiegazione del modo in cui tale avvenimento fu narrato la prima volta.
Crizia, detto «il giovane», racconta ai presenti che quando era bambino suo nonno, anche lui
di nome Crizia e quindi definito «il vecchio», gli aveva raccontato una storia affascinante.
Lui l’aveva ascoltata dal padre Dropide, che a sua volta l’aveva sentita da un amico e parente
di nome Solone. Come gli altri protagonisti del dialogo, anche Solone è un personaggio
storico (638-538 a.C. circa), un famoso legislatore ateniese indicato da Platone come uno dei
sette grandi saggi.
Crizia racconta che entrando nel tempio dedicato a Minerva (nome greco di Neith, la dea
protettrice di Sais, l’odierna Sa el-Hagar, antica capitale egizia della XXVI dinastia situata nella
regione del delta del Nilo) Solone si intrattenne in conversazione con uno dei sacerdoti, un
“uomo molto anziano”, discutendo della passata distruzione della razza umana, un argomento
che lo statista ateniese pensa di conoscere bene grazie ai suoi studi. Per tutta riposta
l’anziano sacerdote lo rimprovera di non sapere ben poco della vera storia dell’umanità.
“Ma uno di quei sacerdoti, che era molto anziano, disse: - Solone, Solone voi Greci siete
sempre ragazzi, un vecchio fra i greci non esiste! – All’udire queste parole, egli chiese: - Ma
che vuoi dire? - Siete tutti spiritualmente giovani, - rispose - perché nelle vostre menti non
avete nessun’antica opinione formatasi per lunga tradizione e nessuna conoscenza incanutita
dal tempo. E il motivo è questo: avvennero e avverranno ancora per l’umanità molte
-3distruzioni in molti modi, le più grandi con fuoco e l’acqua, e altre minori per infinite altre
cause.
Quel fatto che si racconta anche fra voi, ossia che un tempo Fetonte, figlio di Elios, dopo aver
aggiogato il cocchio di suo padre, non fu capace di guidarlo sulla via tracciata dal padre e per
questo bruciò le regioni terrestri e morì lui stesso folgorato, viene narrato in forma mitica; ma
la verità è la deviazione dei corpi che girano in cielo intorno alla terra e la combustione, a
grandi intervalli di tempo, delle regioni terrestri per sovrabbondanza di fuoco. In quei momenti,
chi abita sui monti e in luoghi alti e aridi è esposto alla morte più di quelli che abitano presso i
fiumi e il mare: per noi il Nilo è provvidenziale per molti aspetti, e straripando ci libera anche in
quelle circostanze da quest’inconveniente. Quando invece gli dei inondano la terra per
purificarla con le acque, i pastori e i mandriani si mettono in salvo sui monti, ma gli abitanti
delle vostre città vengono trascinati in mare dai fiumi.” [ Tim. 22b-e ]
L’interpretazione del mito di Fetonte nel Timeo può fornire elementi interessanti.
Infatti, il sacerdote egiziano afferma di conoscere gli effetti che i pianeti hanno sulla traiettoria
delle comete ed in verità può capitare (com’è accaduto recentemente a Giove) che l’orbita sia
così deviata da un pianeta da causare la caduta del meteorite sullo stesso oppure l’orbita del
pianeta può intersecare quella dell’asteroide.
Il 16 luglio 1994, la cometa Shoemaker-Levy 9 entrò in collisione con Giove; essa era stata
catturata dalla forza di gravità esercitata dal gigantesco pianeta (e costretta in una lunga orbita
ellittica) probabilmente già dal 1930. Quindi, nel 1992, esplose in più parti e iniziò a seguire
una rotta di collisione.
Simili collisioni possono anche avere effetti disastrosi per i viventi. Circa 65 milioni di anni fa
un oggetto un poco più grande della cometa di Halley piombò sull’attuale costa della penisola
dello Yucatán, in Messico. L’impatto scavò un cratere del diametro di 170 chilometri e scagliò
detriti in tutto il globo. Mentre la miriade di minuscoli missili balistici ricadeva sulla Terra, il
cielo si riempì di meteoriti e l’atmosfera divenne incandescente. Grandi incendi scoppiarono
su tutta la superficie del pianeta, ma la catastrofe fu ben presto seguita da un’oscurità
persistente causata dalla polvere sollevata nell’atmosfera che bloccava i raggi solari. Mesi di
raffreddamento globale lasciarono poi il posto a secoli di riscaldamento per effetto serra,
dovuto all’anidride carbonica liberata dalle rocce al momento dell’impatto.
Molte specie viventi si estinsero.
Questo potrebbe avvalorare la tesi della distruzione di Atlantide per gli effetti proprio della
caduta di un meteorite o di un altro oggetto proveniente dallo spazio (ovvero l’incauto Fetonte)
associato oppure come causa scatenante, a sconvolgimenti ambientali come lo spostamento
dell’asse di rotazione della Terra e di conseguenza dei Poli, ai cambiamenti climatici, agli
scioglimenti delle calotte polari, e come risultato di tutto questo un aumento quasi improvviso
del livello dei mari.
Questi cambiamenti a carattere planetario potrebbero essere il motivo di molte incongruenze
archeologiche, di paleomagnetismo e di paletnologia.
“Qui, invece, né allora né mai l’acqua scende dall’alto verso le pianure, ma al contrario di
solito scaturisce dal profondo della terra [riferimento alle benefiche alluvioni del Nilo]. Perciò
anche per questi motivi si sono conservate le nostre tradizioni antichissime. [ … ]
E quanto accade fra voi o qui o altrove, di cui noi abbiamo avuto notizia, [ … ] fin dai tempi
antichi si trova tutto registrato e conservato qui nei templi.
Invece fra voi e fra gli altri popoli, non appena organizzate un poco le cose di volta in volte con
la scrittura e con quanto occorre alle città, ecco che di nuovo, ad intervalli regolari, come una
malattia si abbatte su di voi un diluvio dal cielo, e lascia sopravvivere solo quelli di voi che
sono analfabeti e incolti, sicché ogni volta ritornate da capo giovani, per così dire, senza
sapere nulla di quanto avvenne anticamente né qui né fra voi.” [ Tim. 22e– 23b ]
-4Qui si mette in rilievo come l’Egitto, già allora veniva considerato come conservatore di una
cultura antichissima, molto più vecchia rispetto alle altre presenti in quell’epoca.
La posizione geografica permetteva alla cultura egizia di superare quasi indenne le rincorrenti
modificazioni ambientali che si sono alternate nei secoli, conservando le “tradizioni
antichissime”.
La mitologia greca è ossessionata dai ricordi di un diluvio, e come nell’America Centrale
l’inondazione non è considerata un evento isolato bensì parte di una serie di distruzioni e
ricreazioni del mondo.
Gli Aztechi e i Maya parlavano di una successione di Soli, o epoche, di cui il nostro era
ritenuto il Quinto ed ultimo. In modo analogo le tradizioni orali dell’antica Grecia, raccolte e
messe per iscritto da Esiodo nell’ottavo secolo a.C., riferivano che prima dell’attuale creazione
sulla Terra c’erano state altre quattro razze di uomini.
Ognuna di queste era considerata più progredita della successiva; e ognuna, al momento
stabilito, era stata «inghiottita» da un cataclisma geologico.
“Difatti un tempo, o Solone, prima del grandissimo scempio delle acque, questa repubblica
degli Ateniesi era ottima in guerra e in tutto, e specialmente governata da buone leggi, e ad
essa si attribuiscono bellissime gesta e le istituzioni più belle di quante noi abbiamo
conosciute per fama sotto il cielo.” [ Tim. 23c ]
L’anziano sacerdote egizio conclude dicendo a Solone che loro ne ricordano solo uno “mentre
prima ne avvennero molti”, purtroppo “voi ignorate questo, perché i superstiti per molte
generazioni morirono muti di lettere”, cioè senza aver delle testimonianze, sia dirette che
scritte.
Il riferimento alle condizioni precedenti, dove si ricordano gli antichi fasti, potrebbero ricordare
argomentazioni senili del «si stava meglio una volta».
E’ ovviamente difficile interpretare documenti che risalgono a due millenni e mezzo fa e che
sono stati ripetutamente tradotti, ma poiché il mito di Atlantide compare per la prima volta in
questi dialoghi, è indispensabile cercare di interpretare le intenzioni di Platone, al fine di capire
il mito stesso e di situarlo in una qualche prospettiva storica (o letteraria).
Un continente gigantesco.
Ma la parte del testo del Timeo che più viene ricordata, è senz’altra quella in cui il sacerdote
narra a Solone la storia dell’ascesa e caduta di Atlantide, anche se in questo resoconto
occupa appena una cinquantina di righe.
“Perché dicono le scritture come la vostra città distrusse un grande esercito, che
insolentemente invadeva ad un tempo tutta l’Europa e l’Asia, movendo di fuor dell’Oceano
Atlantico. Questo mare era allora navigabile, e aveva un’isola innanzi a quella bocca, che si
chiama, come voi dite, colonne d’Ercole. L’isola era più grande della Libia e dell’Asia riunite, e
i navigatori allora potevano passare da quella alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente
opposto, che costeggiava quel vero mare. Perché tutto questo mare, che sta di qua dalla
bocca che ho detto, sembra un porto d’angusto ingresso, ma l’altro potresti rettamente
chiamarlo un vero mare, e la terra, che per intero l’abbraccia, un vero continente.
Ora in quest’isola Atlantide v’era una grande e mirabile potenza regale, che possedeva l’intera
isola e molt’altre isole e parti del continente. Inoltre di qua dallo stretto dominavano le regioni
della Libia fino all’Egitto e dell’Europa fino alla Tirrenia.
E tutta questa potenza raccoltasi insieme tentò una volta con un solo impeto di sottomettere
la vostra regione e la nostra e quante ne giacciono di qua dalla bocca.”
[ Tim. 24e– 25b ]
-5Il sacerdote di Sais racconta che la grande potenza che si oppose alla prospera Atene
proveniva da un’«isola» situata davanti alle Colonne d’Ercole. Così venivano chiamate
nell’antichità le rocche, simili a pilastri, che si ergono su entrambi i lati dello Stretto di Gibilterra
e segnavano l’ingresso nell’Oceano Atlantico.
Inoltre giustifica la posizione dell’«isola» nell’Atlantico rivelando che “navigatori allora
potevano passare da quella alle altre isole, e dalle isole a tutto il continente opposto, che
costeggiava quel vero mare.” Che cosa voleva intendere Platone? Si può immaginare che
l’«isola» da cui provenivano gli aggressori in epoche remote non solo era accessibile, ma
veniva anche raggiunta da imbarcazioni in grado di «attraversare» l’oceano?
Si basava forse sulle prime conoscenze marittime dell’Arcipelago di Madeira, o addirittura
delle Azzorre? Come vedremo in seguito, questi arcipelaghi, situati sul lato orientale
dell’Atlantico, erano già noti ai navigatori nel I millennio a.C.
Tuttavia, Platone non sembra fare riferimento in modo specifico a nessuna di queste isole,
perché il sacerdote egizio informa Solone che l’«isola» atlantica era “più grande della Libia e
dell’Asia riunite”, affermazione che si può definire alquanto esagerata.
Al tempo di Platone per Libia si intendeva tutto il Nord-Africa ad ovest dell’Egitto, un territorio
di dimensioni paragonabili a quelle dell’Europa attuale. L’Asia di Platone, invece, si estendeva
dall’Egitto (ad ovest), al Caucaso meridionale (a nord), all’Arabia (a sud), all’India (ad Est) e
aveva dunque una superficie pari all’incirca all’odierno Nord-America. Ciò implica l’esistenza
di una massa terrestre di proporzioni enormi, troppo vasta per essere contenuta nell’Oceano
Atlantico settentrionale.
Dal momento che un’isola-continente delle dimensioni indicate nel Timeo non possa essere
esistita in nessuna fase della storia geologica terrestre, è comprensibile che la descrizione
platonica venga comunemente considerata un’invenzione letteraria.
La maggior parte degli esperti di Atlantide ha invano cercato di ridurre le dimensioni dell’isola,
sostenendo per esempio che per Asia, Platone intendesse l’Asia Minore, vale a dire la Turchia
moderna; alcuni hanno addirittura pensato che si riferisse al continente americano. Le
proporzioni delle Americhe di fatto combaciano con quelle dell«isola» atlantica, come
notarono dopo la scoperta del Nuovo Mondo alcuni esploratori e studiosi spagnoli, tra cui
Franciso López de Gomara.
Se Atlantide è realmente esistita ed era delle dimensioni descritte nel Timeo, non c’è
soluzione migliore. Quindi, quando si riferiva a quest’isola, Platone alludeva alla terraferma
americana, come afferma una delle teorie ultimamente rivalutata?
Dal lato pratico questa soluzione presenta aspetti alquanto significativi, perché il sacerdote di
Sais dice a Solone che “i navigatori allora potevano passare da quella alle altre isole, e da
esse su tutto il continente opposto …”
Quest’ultima affermazione va considerata alla luce del momento storico in cui fu scritta: in età
classica non esisteva alcun “continente opposto”!
Secondo la storia ufficiale, la terraferma americana non fu «scoperta» prima del terzo viaggio
di Cristoforo Colombo, nel 1498, non tenendo conto degli insediamenti vichinghi fondati a
Terranova intorno l’anno 1000 d.C. e delle popolazioni indigene che abitarono il continente
negli ultimi 15.000 anni.
Eppure Platone sembra fare un chiaro riferimento alle Americhe, suggerendo di essere a
conoscenza dell’esistenza di un continente dall’altra parte dell’Oceano Occidentale.
E’ certo che dal 300 a.C. altri scrittori sapevano o ipotizzavano di una massa terrestre
separata di là di Oceanus, il fiume che un tempo si credeva circondasse la Terra.
Un’opera intitolata De mundo, scritta intorno al 300 a.C. ed erroneamente attribuita ad
Aristotele, descrive il mondo allora conosciuto come “una singola isola intorno alla quale
scorre il mare chiamato Atlantico.” L’autore del testo, molto probabilmente un discepolo di
Aristotele, aggiunge particolari interessanti: “E’ possibile che si siano molti continenti separati
-6dal nostro da un mare che dobbiamo attraversare per raggiungerli; alcuni sono in grandi e altri
piccoli, ma tutti, tranne il nostro, sono invisibili.” [ 3,392b ]
Altre testimonianze che corroborano la tesi secondo la quale gli autori classici erano al
corrente dell’esistenza del continente americano ci sono fornite da un giovane contemporaneo
di Platone, Teopompo di Chio, uno storico greco (ca. 378 – ca. 304 a.C.).
In uno dei suoi frammenti, trasmessici dopo 500 anni dallo storico e naturalista romano Eliano,
racconta di una narrazione che Sileno fece a Mida, re dei Frigi:
“L’Europa, l’Asia e l’Africa sono isole, circondate dall’Oceano: vi è solo una terra che si possa
chiamare continente, ed è la Meròpide, che si trova al di fuori di questo nostro mondo. La sua
grandezza è enorme. ( … ) Una volta decisero di passare in queste nostre isole: attraverso
l’Oceano, con migliaia e migliaia di uomini giunsero presso gli Iperbòrei. Ma, avendo saputo
che questi erano considerati il popolo più felice tra noi, considerate le loro misere condizioni di
vita, ritennero inutile procedere oltre.”
Il racconto di Teopompo è esposto al presente, ma come osserva Italo Sordi2, esso si riferisce
ad un tempo molto remoto.
Infatti, esso è posto in bocca ad un interlocutore mitico, a Sileno, uno di quegli esseri «preumani» che nelle convenzioni letterarie greche simboleggiavano la preistoria, mentre Mida,
quello dell’oro e delle orecchie d’asino, è nonostante tutto un personaggio perfettamente
storico, e serve ad indicare che la tradizione proveniva dagli antichissimi archivi reali delle città
della Frigia, eredi dell’impero scomparso degli Ittiti.
Come fa notare Italo Sordi, esso ci mette di fronte ad una vastissima terra sconosciuta, di là
dai confini dell’oceano, anche se il testo non dà nessuna precisazione sulla localizzazione
geografica, il tipo di fauna che l’abita, caratterizzato da animali di grande mole, e la facile
coltivabilità escludono le regioni polari e indicano piuttosto una zona tropicale o anche
temperata.
La Meròpide si deve identificare con l’America, o essa è un continente attualmente sommerso
situato “al di fuori di questo nostro mondo” ?
Esaminando il testo si può notare che niente accenna esplicitamente ad una catastrofe
geologica subita dalla Meròpide, ma vi è un particolare che, secondo Sordi la potrebbe
renderla altamente probabile: e cioè la frase “l’Europa, l’Asia e l’Africa sono isole.”
Ciò potrebbe significare l’esistenza di una tradizione conservata in Asia Minore, secondo la
quale una volta i tre «continenti» del mondo antico erano separati fra loro da bracci di mare:
l’Istmo di Suez non esisteva, e le acque ricoprivano completamente le attuali pianure russe,
mettendo in comunicazione il Mar Nero con l’Oceano Artico.
Queste pianure del resto sono di origine geologica relativamente recente, e alcune carte
antiche, come ad esempio quella rarissima di Dionisio il Periegeta, mostrano ancora il
collegamento Mare Artico – Mar Caspio. Il livello generale dei mari potrebbe essersi
abbassato, così da far emergere delle zone di terra prima sommerse a modeste profondità:
questo potrebbe essere proprio la conseguenza dello sprofondamento, improvviso o graduale
non sappiamo, dell’enorme massa emersa della Meròpide, ipotizzata da Sordi o dell’Atlantide
di molti altri.
La constatazione che la tradizione classica fa menzione di varie terre collocate oltre l’oceano,
territori oggi introvabili o non identificabili, ha rafforzato non solo l’idea che quella che Platone
chiama Atlantide possa essere stata, non già un continente, bensì una vasta terra composta di
più isole oggi scomparse e variamente poste nel Nord Atlantico, ma anche l’ipotesi che il
destino di Atlantide possa essere stato condiviso da altri territori al di fuori del mondo antico.
Vi è chi ipotizza che quella di Eliano sia pura invenzione, non dissimile dal paese immaginario
di Utopia creato secoli e secoli dopo da Tommaso Moro. Al contrario chi rifiuta quest’etichetta
di narrazioni fantastiche mette in risalto, tra l’altro, la similitudine con i racconti platonici, dalla
tradizione comune di un tentativo d’invasione da terre poste di là dell’Oceano: cosa
difficilmente può essere casuale, specie se si considera il fatto che sia Teopompo di Chio che
-7Platone erano contemporanei, essendo entrambi vissuti nel IV secolo a.C. La terra di Merope
e l’Atlantide, entrambe poste oltre l’Oceano e l’Iperbòrea, una terra sconosciuta in genere
identificata con le Isole Britanniche, sono due raffigurazioni di una stessa realtà?
Meròpide, va ricordato, vuol dire «di Merope»; e Merope era una delle Pleiadi, le stelle in cui
furono trasformate le sette figlie di Atlante, dette anche, in quanto tali, «Atlantidi».
Per cui «Meròpide» equivale in pratica ad «Atlantide»?
Ma del resto sappiamo che da Eratostene (275-195 a.C.) il valore della circonferenza della
Terra fu calcolato esattamente in 40 mila chilometri.
Calcolò Eratostene che il nostro Antico Continente occupava un terzo della circonferenza
terrestre e che la costa quindi dell’Asia distava dalla Spagna di circa 240 gradi; distanza che
con una certa approssimazione corrisponde esattamente a quella reale. Nella sue Cronografie
fu preciso. “Conosciamo soltanto la regione della terra abitata in cui viviamo: l’oikumene
(l’ecumene). Nella zona temperata può tuttavia trovarsi un altro continente ugualmente
abitato, o anche più di uno.”
Oggi queste stesse cose le diciamo parlando dei Pianeti dentro e fuori del sistema solare.
Ma come fa a scrivere tutto questo Eratostene? E’ uno scienziato, un matematico, ma nello
stesso tempo raccoglie delle testimonianze dai marinai. Le correnti dell’Atlantico, che tutti ora
conosciamo, avevano rivelato e reso testimonianza che di là della Spagna e delle coste
africane, c’erano terre, e da queste attraverso le correnti arrivavano sempre segni della loro
esistenza.
Pausania (seconda metà del II secolo) aveva scritto che al d là dell’Atlantico esisteva una
terra i cui abitanti erano rossi di pelle e avevano i capelli simili ai crini di cavallo.
Ma da cosa lo supponeva? Non lo sappiamo. C’erano poi altre testimonianze, quella che ci ha
lasciato nel 40 d.C. lo spagnolo Pomponio Mela in De Chrographie, un manuale di geografia
dei tre continenti, dove scrive: “Quando ero stato proconsole romano in Iberia (l’odierna
Spagna), Metello Celere mi riferì che il re dei Boti gli aveva inviato in dono degli schiavi che
avevano fatto naufragio sulle coste: erano uomini provenienti da una lontanissima terra, e che
travolti da una tempesta dopo aver vagato nel mare per decine di giorni, erano stati sospinti
fino alle nostre coste. Questi erano uomini fino allora mai visti da nessuno, dalla pelle rossa,
capelli a crini, e parlavano una lingua incomprensibile a tutti.”
Saranno stati quelli che noi conosciamo come Pellirossa?
Il mito delle date.
Dopo aver stabilito come data della fondazione di Atene il 9570 a.C. circa, Platone, per bocca
del vecchio sacerdote di Sais, spiega a Solone che in seguito la nazione atlantica si armò
contro il suo paese.
Afferma, infatti: “Ma benché siano molte e grandi le opere compiute dalla città vostra che noi
ammiriamo qui scritte, una però supera tutte per grandezza e virtù.” [ Tim. 24d ]
Dal momento che i re di Atlantide si volsero anche contro l’Egitto, si deduce che la guerra
contro Atene avvenne luogo dopo l’avvio della stesura delle sacre cronache egizie, nell’8570
a.C. circa. Questa affermazione venne contraddetta nel Crizia.
In seguito il regno atlantico tentò “di sottomettere la vostra regione [Atene] e la nostra [Egitto]
e quante ne giacciono di qua dalla bocca [lo Stretto di Gibilterra].”
Secondo il Timeo, Atene fu poi “costretta a combattere sola per la defezione degli altri” paesi
mediterranei. Inoltre, la flotta ateniese, che appariva “cospicua per virtù e per vigore a tutte
genti”, sconfisse gli assalitori e “liberò generosamente tutti gli altri, quanti abitiamo di qua dalle
Colonne d’Ercole,” compreso l’Egitto. [ Tim. 15c ]
Questa guerra è molto probabilmente un’invenzione di Platone, infatti non la racconterà mai
più, trasferendo al passato mitico una situazione che Atene aveva effettivamente vissuto
durante la seconda guerra contro i Persiani, allorché era stata costretta a fronteggiare quasi
da sola una potenza numericamente impareggiabile, e che gli servì a dimostrare la sua tesi di
-8"Città giusta": cioè, l’antica Atene, ordinata secondo idee politiche simili alle sue, avrebbe
scacciato un impero potente come Atlantide.
Il testo del Timeo rivela quindi un particolare cruciale:
“Ma nel tempo successivo, accaduti grandi terremoti e inondazioni, nello spazio di un giorno e
di una notte tremenda, tutti i vostri guerrieri sprofondarono insieme dentro terra, e similmente
scomparve l’isola Atlantide assorbita dal mare; perciò ancora quel mare è impraticabile ed
inesplorabile, essendo d’impedimento i grandi bassifondi di fango, che formò l’isola
nell’inabissarsi.” [ Tim. 25d ]
L’affermazione pare a dir poco incredibile: sia l’isola atlantica sia i soldati ateniesi sarebbero
scomparsi durante un violentissimo cataclisma con “terremoti e inondazioni” che si sarebbe
potuto verificare solo dopo l’8570 a.C.
La credenza che l’oceano non fosse più navigabile deve essere stata creata subito dopo la
distruzione a causa dei detriti e degli sconvolgimenti nel fondo dell’Atlantico?
Forse lo Stretto di Gibilterra rimase bloccato dai bassifondi o da qualche genere di ostacolo
provocato dalla distruzione?
Che dire di questo formidabile evento, evidentemente non registrato nella storia ufficiale?
Accadde davvero? E che cosa ci può rivelare sull’ubicazione di Atlantide?
Note

Fetonte, che era figlio del Sole (Elios o Apollo) e dell’oceanide Climene (una delle 3000
ninfe figlie di Oceano, antico dio del mare - da non confondere con Poseidone).
Deriso dai compagni, che non lo credevano figlio del dio, intraprese un lungo viaggio verso la
dimora del padre, ad oriente. Quando giunse, Elios, per provarli il suo affetto paterno, offrì
d’esaudirgli un desiderio. Fetonte domandò di poter guidare il cocchio del sole in cielo per un
giorno; Elios, ancorché profondamente sconvolto dalla sua richiesta, fu costretto ad
accondiscendere.
I quattro cavalli vennero attaccati al lucente cocchio e Fetonte impugnò le redini.
Il padre gli diede ansiosamente le sue istruzioni ma una volta in cielo il giovane perse la testa
e si lasciò prendere la mano dai cavalli. Correndo impazziti praticarono un’incisione nel cielo
che venne chiamata Via Lattea e poi – Fetonte era sempre più eccitato e aveva perso
completamente il controllo – si diresse verso il basso e sfiorando la terra causando una
terribile corrente e facendo diventare all’improvviso nera la pelle degli uomini che vivevano
vicino all’equatore.
Allarmato da questo distruttivo viaggio, Zeus scagliò una folgore che lo fece cadere dal
cocchio. Il corpo precipitò nel fiume Eridano, l’odierno Po, dove le Eliadi, le sue sorelle ninfe,
testimoni della caduta, piansero per lui. Vennero trasformate in salici e le loro lacrime
diventarono gocce d’ambra.
Secondo alcune versioni, Zeus mandò il diluvio per raffreddare la terra dopo il disastro.
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I. Sordi, Meròpide, continente perduto, in «Gli Arcani», n°9, febbraio 1973.