Introduzione
Il Somnium Scipionis è la parte finale di un dialogo in sei libri, il De re publica, che compiutamente
riassume e dibatte le vedute dell'antichità classica sul tema del governo. Opera della maturità di
Cicerone, il De re publica accoglie la più ampia risonanza del dibattito politico-culturale che è in
atto a Roma in un momento cruciale per il futuro dello Stato, allo scadere esatto della metà del I
secolo a. C, proprio quando si evolve il trapasso istituzionale dalla repubblica al principato. Il
Somnium Scipionis, per parte sua, riprende ed esalta, associandoli alla figura di Scipione Emiliano
vissuto un secolo prima, tutti i valori della repubblica che ormai da tempo ha iniziato la sua lunga
agonia. In esso, l'elogio dell'uomo di governo trascende l'ambito profano dei valori puramente civili
ereditati anche dalla tradizione greca per sublimarli sub specie aeternitatis in una sanzione divina e
mistica, che riconosce ai benemeriti della patria il compenso della beatitudine celeste.
La figura di Cicerone. La composizione del De re publica risale agli anni 54-51 a. C. In una lettera
al fratello Quinto (III 5, 1) dell'ottobre del 54, Cicerone attesta di averne stesi due libri; in una
lettera all'amico Attico (V 12, 2), scritta nel luglio del 51, durante la navigazione alla volta dell'Asia
Minore, dove Cicerone doveva assumere servizio come governatore della Ciucia, sembra alludere
all'opera ormai compiuta. Infine, in un'altra lettera ad Attico del 50 a. C. (VII 3, 2), compare un
riferimento esplicito al sesto e ultimo libro.
L'opera si colloca dunque all'acme e in un momento di crisi della vicenda politica di Cicerone e
della repubblica romana. Sono gli anni in cui Cesare si prepara al duello decisivo con Pompeo, e
Cicerone, che ormai ha percorso con successo, ma non senza incidenti, il cursus honorum, cerca o si
illude di trovare uno spazio di mediazione tra i due personaggi politici nel tentativo di non essere
definitivamente emarginato e di contenere le spinte eversive che stanno mettendo in forse la salute
dello Stato stesso.
La formazione culturale. Cicerone era nato nel 106 ad Arpiño, nel Lazio meridionale, in una agiata
famiglia di ordine equestre. Le sue origini, dunque, non erano nobili - i suoi antenati erano
possidenti terrieri e non avevano ricoperto magistrature a Roma - ma la famiglia aveva le risorse
eco nomiche utili per avviare i figli alla carriera politica. Ancora adolescente, aveva frequentato a
Roma le lezioni dei migliori maestri di filosofia e di retorica; aveva poi perfezionato la sua
formazione soggiornando dal 79 al 77 in Grecia. Ad Atene aveva seguito l'insegnamento di filosofi
accademici ed epicurei, mentre nelle città dell'Asia Minore e a Rodi aveva frequentato le scuole di
retorica. A Smirne Cicerone aveva incontrato il politico romano esule Publio Rutilio Rufo, dal quale
aveva avuto notizia della conversazione avvenuta a Roma nel 129 tra Scipione e i suoi amici, cui si
ispirò per la composizione del De re publico.
Gli esordi come oratore. Fin dalP81 a. C. aveva esordito come avvocato per poi esercitare l'attività
forense per tutto il corso della sua vita: tra le orazioni più note figurano le cosiddette Verrine, del
70, nelle quali sostenne l'accusa di concussione mossa dai Siciliani contro l'ex governatore Verre,
una sorta di avventuriero truffatore, affermatosi in politica come seguace di Siila. Delle collusioni
tra malcostume e politica Cicerone si era occupato, anche se con maggior cautela perché Siila era
ancora al potere, fin dall'80 con la Pro Sexto Roscio Amerino, nella quale aveva difeso un cittadino
accusato di parricidio da un liberto di Siila. Quando poi aveva intrapreso la carriera politica, anche
la sua attività oratoria si era caratterizzata per un interscambio costante con la vita pubblica di
Roma. Fu edile nel 69 e pretore nel 66: in quell'anno aveva sostenuto nell'orazione De imperio Cnei
Pompei la necessità di affidare a Pompeo poteri eccezionali nella guerra contro Mitridate re del
Ponto. Console nel 63, con le tre orazioni De lege agraria aveva attaccato un progetto di
ridistribuzione di terreni demaniali e di espropriazioni a favore dei meno abbienti: la proposta era
una costante del programma politico dei populares e, con il contrastarla, Cicerone intendeva
manifestare apertamente il suo orientamento politico decisamente conservatore e perfettamente in
linea con gli interessi della nobiltà senatoria. La repressione della congiura di Catilina, di cui
Cicerone era stato il principale artefice in quello stesso anno 63 al quale risalgono le quattro
orazioni Catilinarie, rientra nel medesimo ordine di idee e va intesa come un'adesione totale ai
valori (sempre meno credibili) dell'oligarchia senatoria. In realtà, se Catilina veniva abbandonato a
se stesso anche dai populares per timore di una eversione violenta e dell'avvento di un nuovo Siila,
non venivano meno con lui le contraddizioni ormai croniche che erano state denunciate quasi un
secolo prima dal movimento graccano.
L'impegno politico. D'altra parte, l'alleanza di tutti i ceti abbienti, interessati alla legalità e all'ordine,
non era sufficiente a garantire la concordia or-dinum, il mito della pace sociale, fintanto che vaste
fasce di insoddisfazione confluivano nel movimento dei populares. Le rivendicazioni di questa
fazione - sgravio di debiti e ridistribuzione di territori - non erano mai state tanto organiche da dare
luogo a un partito democratico organizzato e a un effettivo programma di riforme, ma si prestavano
a essere facilmente strumentalizzate per fini di prestigio personale da uomini della nobiltà. È quanto
era avvenuto negli anni 62-60, quando la concordia preconizzata da Cicerone nella lotta a Catilina
rivelò la sua fragilità, e i populares guidati da Cesare ripresero le agitazioni antisenatorie. L'accordo
tra Cesare, Pompeo e Crasso, il cosiddetto 'primo triumvirato', assicurando ai triumviri il controllo
momentaneo dello Stato, aveva rappresentato il rovescio della fortuna politica di Cicerone che, nel
58, accusato dal tribuno della plebe Publio Clodio di aver mandato a morte i catilinari senza
consentire loro di appellarsi al popolo per chiedere la grazia, dovette prendere la via dell'esilio che
lo tenne per sedici mesi lontano da Roma, a Tessalonica e a Duraz-zo. Ne era stato richiamato per
intervento di Pompeo, che non ambiva tanto a condividere con Cicerone il ruolo di difensore del
senato, quanto a contrapporlo allo strapotere di Clodio il quale, forte del favore del sottoproletariato
cittadino, aveva organizzato bande armate con cu; turbava comizi e processi. Cicerone aveva
ripreso l'attività forense, difendendo personaggi della cerchia dei triumviri e avvicinandosi a loro,
tanto più che nel 56 l'accordo di Lucca aveva ribadito l'alleanza fra Cesare e Pompeo e ridotto gli
spazi di impegno pubblico aperti alle magistrature repubblicane.
Le opere retoriche e filosofiche. Cicerone nelle sue lettere di quegli anni e nello stesso De re
publica, ormai in cantiere, non fa mistero dei suoi sospetti di un'imminente dittatura, né si fa
illusioni sulle prospettive di una facile normalizzazione dell'assetto politico. Da un lato sembra
convertirsi aWotium letterario: sono anni fecondi che vedono la composizione, nel 55, del De
oratore, poi, dal 54 al 51, del De re publica e, nello stesso 51, del De legibus. Dall'altro, però, lo
stesso De república, e in particolare il Somnium Scipionis, dimostrano che Cicerone non ha perduto
la speranza di poter riprendere un ruolo pubblico, anche solo di mediazione tra Cesare e Pompeo.
Prospettando all'attenzione, soprattutto del secondo, la figura del perfetto uomo di governo come un
benefattore dello Stato, sembra sperare che Pompeo, se toccherà a lui la dittatura, possa
accontentarsi del ruolo di moderatore della repubblica. Intanto, nel 52, Clodio era stato ucciso in
uno scontro con le bande armate del suo rivale Milone che, tribuno nel 57, aveva caldeggiato il
ritorno di Cicerone dall'esilio e in quegli anni di turbolenza civile aveva a sua volta assoldato torme
di gladiatori e di facinorosi con le quali aveva tenuto testa al rivale sullo stesso terreno della
violenza. Mentre Pompeo predisponeva leggi speciali per incriminare Milone e quindi liberarsi di
quello che, candidato al consolato per il 52, rischiava di diventare per lui un pericoloso concorrente,
Cicerone non si sottrasse al rischioso dovere della difesa di Milone e pronunciò nel tribunale
assediato dai clodiani e presidiato dai pompeiani una debole orazione che non valse a salvare
Milone dall'esilio. Il discorso ci è giunto in una rielaborazione successiva e costituisce uno dei pezzi
migliori del corpus ciceroniano. Dopo l'assenza del 51 per il proconsolato in Cilicia, Cicerone
faceva ritorno a Roma proprio alla vigilia dello scoppio della guerra civile. Egli non aveva dubbi
sulla posizione da assumere che, naturalmente, era quella della legalità repubblicana e senatoria,
quindi di Pompeo. Ma non aveva fiducia né in Pompeo, colpevole di aver troppo temporeggiato nel
contrastare le mire di Cesare sullo Stato, né nel futuro del senato, che giudicava ormai votato alla
destabilizzazione a favore della dittatura, non importava se di Cesare o di Pompeo.
Cicerone dunque passa in Grecia, ma non partecipa alla battaglia di Farsa-Io perché si ferma a
Durazzo: dopo la sconfitta di Pompeo, soggiorna a lungo a Brindisi, in attesa che Cesare rientri
dall'Egitto, e viene da lui perdonato. Può quindi fare ritorno a Roma e riprendere la sua attività, ma
gli spazi dell'oratoria risultano ormai ridotti per il predominio politico di Cesare: Cicerone può solo
fare appello alla sua clementia, come appunto fa nelle orazioni cosiddette cesariane (Pro Marcello,
Pro Ligario, Pro rege Deiotaró).
Le nuove opere retoriche e filosofiche. Si apre un periodo fecondo per l'attività letteraria: agli anni
tra il 46 e il 44 risalgono altre opere di retorica, tra le quali si distinguono il Brutus, una storia
dell'eloquenza a partire dalle origini greche, YOrator, un trattato tecnico sui generi e sugli stili
dell'eloquenza, il De optimo genere oratorum, sulla figura del migliore oratore, e i Topica, sui
luoghi comuni da impiegare nell'argomentazione retorica. Negli stessi anni 45-44 Cicerone scrive le
opere filosofiche e cioè la Consolatio e YHortensius, ambedue perdute, rispettivamente una
consolazione a se stesso per la morte della figlia Tullia e un protrettico, cioè un'esortazione alla
filosofia. Poi il dialogo sull'etica De fìnibus honorum et malorum, in cinque libri; le Tusculanae
disputationes pure in cinque libri, su varie tematiche di morale; il De natura deorum, in tre libri, nei
quali prende corpo il conflitto tra l'agnosticismo dell'autore e il riconoscimento del ruolo politico
della religione; il De divinatione, due libri contro le varie forme di superstizione. Infine il Cato
maior de senectute e il Laelius de amicitia, due brevi dialoghi sui temi della vecchiaia e
dell'amicizia, e i tre libri De offi-ciis, sul concetto di dovere in rapporto con Yhonestum e con Y
utile.
Gli ultimi anni. Ma intanto gli eventi precipitano: nel 44 Cesare viene ucciso e Cicerone si schiera
dalla parte dei tirannicidi per poi assumere le parti di Ottaviano nel nuovo conflitto che si delinea
tra i due uomini politici, Ottaviano e Antonio, che aspirano ad assumere l'eredità di Cesare.
Ottaviano si servì di Cicerone per attaccare in senato Antonio, contro il quale l'oratore pronunciò
quattordici violentissimi discorsi, le Filippiche, così intitolati dai famosi attacchi dell'oratore greco
Demostene contro Filippo di Macedonia. Quando poi nel 43 Ottaviano si accordò con Antonio dopo
averlo sconfitto nella battaglia di Modena, e insieme decisero di liberarsi dei propri avversari, nella
lista di proscrizione presentata da Antonio Cicerone occupava il primo posto: fu ucciso dai suoi
sicari presso Formia alla fine del 43. L'assassinio di Cicerone sancisce il fallimento del modello di
uomo politico da lui teorizzato: l'esperienza politica della repubblica è esaurita.
Il titolo. Somnium Scipionis non è il titolo originale del libro. Esso non risale a Cicerone, che nel
Laelius, 14 indica il sogno dell'Emiliano con il termine visum. Peraltro non c'è ragione di aspettarsi
un titolo per uno scritto che non è stato concepito come opera a sé, ma come una sezione dell'opera
complessiva, il De re publica. Cicerone, per riferirsi a esso, poteva usare la semplice indicazione di
«sesto libro», come sembra fare nella lettera ad Attico VII 3, 2: ...illum virum, qui in sexto libro
informatus est. Del resto il Somnium rappresenta circa i due terzi del sesto libro - diciotto capitoli su
ventisei - e certamente la parte più significativa, almeno da quanto si può dedurre dagli sparuti
frammenti, giunti per tradizione indiretta, dei primi otto capitoli. È dunque verosimile che l'esigenza
di un titolo specifico si sia fatta sentire all'atto stesso del distacco del Somnium dal sesto libro, e che
esso sia poi rimasto immutato in tutta la tradizione.
La tradizione manoscritta. I motivi della tradizione separata del Somnium rispetto al De re
publica sono da ricercare nella particolare natura di questo testo nei confronti dell'opera
complessiva. Il De re publica illustrava un modello di costituzione repubblicana che, nei fatti, era
già superato nell'epoca in cui veniva composto: non poteva dunque riscuotere interesse nell'età
dell'Impero; anzi, il solo fatto di appellarsi alla visione ciceroniana dello Stato poteva essere indice
di una forma di opposizione al principato. Il Somnium, al contrario, con i suoi spunti metafisici, con
la speculazione sull'immortalità dell'anima, con il suo misticismo, non poteva passare inosservato ai
pensatori neoplatonici e cristiani dei primi secoli dopo Cristo. Non è da sottovalutare, per un'epoca
come la tarda antichità, che predilige le summae e i compendi, il pregio della brevità e della
maneggevolezza di un'opera che riassume il misticismo platonico e pitagorico, richiama la
speculazione astronomica con spunti di teoria musicale e fornisce un fantastico quadro escatologico,
di sapore premedievale. Questo particolare apprezzamento assicurò al Somnium una tradizione indipendente da quella del De re publica. All'inizio del V secolo d. C, l'erudito Teodosio Macrobio
compone due libri di Commentarli in Somnium Scipionis, i quali, più che un vero e proprio
commento, contengono una serie di sviluppi in senso neoplatonico di certi passi del Somnium. Il
testo integrale compare nei manoscritti dopo i due libri di commento: se la tradizione di esso derivi
tutta dal testo aggiunto al commento di Macrobio o se esso fosse già stato estratto dal De re publica
e posto in circolazione prima che Macrobio ne predisponesse il commento, è questione che per ora
non ha avuto risposta. Per giunta, tra il testo dei lemmi ripresi da Macrobio e quello completo del
Somnium intercorrono varianti della cui origine non si è riusciti a fornire una spiegazione
convincente. A ogni modo, è grazie all'opera di Macrobio che il Somnium non solo fu letto nella
tarda antichità e nel Medioevo, ma è disponibile anche per noi in numerosi codici, dei quali i più
antichi risalgono al X o all'XI secolo. Il De re publica, infatti, fu letto fino al VII secolo d. C, poi se
ne persero le tracce per tutto il Medioevo e il Rinascimento fino al 1819, quando venne riscoperto
da Angelo Mai nel codice palinsesto Vaticano Latino 5757 e pubblicato in prima edizione nel 1822.
Si tratta di fogli di pergamena sui quali il De re publica era stato scritto alla fine del IV secolo d. C;
poi, nel VII secolo, il codice era stato lavato e reimpiegato per accogliere un commento di
Sant'Agostino ai Salmi.
Ma il copista non aveva utilizzato che un quarto dei fogli in cui era originariamente contenuto il
testo ciceroniano, e pertanto del sesto libro - e con esso del Somnium - il palinsesto non ha restituito
nulla.
Il genere letterario. Il Somnium Scipionis, in quanto parte del De re publica, è uno scritto politico
o di filosofia politica. Anche se la tradizione l'ha trasmesso come opera a sé - e certamente non è
privo di una sua compiutezza -, il suo significato è da valutare in rapporto all'opera completa, della
quale riassume tutte le principali tematiche in una prospettiva di superiore unità. Un filo conduttore
lega infatti la conclusione alla problematica del De re publica. Questo, nel primo libro, definiva il
concetto di Stato e illustrava le tre forme di governo, monarchia, aristocrazia e democrazia, e le loro
possibili degenerazioni, rispettivamente in tirannide, oligarchia e demagogia. Come forma migliore
di costituzione, Cicerone sosteneva il modello misto, inteso come perfetto equilibrio di poteri che
può garantire la stabilità politica. Esso era già stato teorizzato dai filosofi greci e divulgato in Roma
soprattutto dallo storico del II secolo a. C. Polibio, che lo vedeva realizzato nella costituzione
romana. Il secondo libro costituiva l'applicazione storico-politica della teoria polibiana alla storia di
Roma. Il terzo trattava della giustizia come fondamento dello Stato e in particolare dell'impero di
Roma che, lungi dal danneggiare i popoli sottomessi, li beneficava in quanto da soli non avevano
saputo darsi una forma di governo duratura. Il quarto e il quinto libro, quasi interamente perduti,
erano dedicati rispettivamente all'educazione, ai costumi e alla moralità pubblica e delineavano la
figura del princeps o moderator rei publicae come cittadino garante dell'ordine al di sopra delle
parti. Nel Somnium tutti questi temi puntualmente ritornano, dalla teoria della costituzione mista
alle problematiche relative alla politica interna ed estera, alla riflessione sulla figura del perfetto
uomo di governo: il personaggio che garantisce unità e coesione al complesso - protagonista del De
re publica come del Somnium - è Scipione
Emiliano, nel quale Cicerone vede riassunte tutte le principali prerogative del moderator rei
publicae. Con un vigoroso colpo d'ala Cicerone proietta le sue riflessioni nella contemplazione
dell'eterno mediante l'espediente del sogno. Come già Platone aveva narrato a chiusa della
Repubblica il mito del soldato Er, che, risuscitato dodici giorni dopo la morte, raccontava quanto
aveva visto nell'aldilà, così Cicerone chiude il De re publica con il sogno dell'Emiliano. A lui
appare l'avo Scipione Africano. Questi, dopo avergli preannunciato le future imprese di gloria, gli
consente di contemplare lo spettacolo eterno e grandioso delle sfere celesti e gli predice l'immortalità nella Via Lattea quale premio riservato ai benemeriti della patria. In questo il Somnium
oltrepassa gli statuti del genere propriamente politico e sconfina nell'ambito degli scritti apocalittici
e utopistici, che troveranno largo seguito nell'età dell'Impero, soprattutto nella letteratura cristiana, e
poi continueranno nel Medioevo nei testi di letteratura oltremondana, dai quali trarrà profitto Dante
per la concezione della Divina Commedia.
La cornice narrativa e i personaggi. Il Somnium ha inizio con il nono capitolo del sesto libro del
De re publica. Nei cinque libri che precedono, l'autore riferisce una conversazione che immagina
avvenuta nella villa suburbana di Scipione Emiliano nel corso di tre giorni durante la festività
cosiddetta delle Feriae Latinae dell'anno 129. L'idea gli era stata suggerita da Rutilio Rufo, uno
degli interlocutori, che Cicerone nel 78 a. C. aveva avuto modo di incontrare a Smirne, dove Rutilio
era esule: questi gli aveva raccontato che l'Emiliano, poco prima della sua morte improvvisa, si era
intrattenuto con alcuni amici a parlare della costituzione e dello Stato di Roma. I principali
protagonisti del dialogo sono Scipione Emiliano e l'amico Gaio Lelio. Il primo, figlio di Lucio
Emilio Paolo e nipote adottivo dell'Africano, fu uomo di primissimo piano sia per i meriti militari nel 146 aveva distrutto Cartagine e nel 133 aveva conquistato la roccaforte di Numanzia -che per la
grande esperienza politica e per la profonda cultura greca. Lelio, detto sapiens per la sua vasta
dottrina, pretore nel 145 e console nel 140, era stato uno dei principali oratori del tempo. Gli altri
interlocutori sono personaggi del cosiddetto circolo scipionico: Lucio Furio Filo, filosofo stoico, era
stato console nel 136 a. C; Manio Manilio, dotto giureconsulto, era stato console nel 149 e durante
le operazioni di guerra a Cartagine aveva avuto alle sue dipendenze l'Emiliano in qualità di tribuno
militare; Spurio Mummio, fratello del più noto Lucio Mummio, il distruttore di Corinto, era dotto di
filosofia stoica e conservatore convinto. Poi vi sono i giovani, nati intorno alla metà del secolo,
parenti o amici dei protagonisti: Quinto Elio Tuberone, nipote dell'Africano, èra giureconsulto e
stoico di rigorosa osservanza; Publio Rutilio Rufo, tribuno militare nel 134 durante la guerra di
Numanzia, console nel 105 e legato nella provincia d'Asia nel 94, era stato poi processato per
concussione ed esiliato (Cicerone aveva avuto da lui notizia della conversazione del 129); infine i
due generi di Lelio, Quinto Muzio Scevola e Gaio Fannie
Secondo la notizia del commentatore Macrobio, il Somnium Scipionis si ricollegava
discorsivamente con quanto precedeva tramite uno spunto suscitato da Lelio, il quale avrebbe
espresso rammarico per il fatto che a Scipione Nasica, l'uccisore di Tiberio Gracco - quindi di un
tiranno, secondo il punto di vista conservatore - non fosse stata decretata una statua in segno di riconoscimento. L'Emiliano avrebbe risposto che per i sapienti la ricompensa della virtù è la coscienza
stessa delle nobili imprese, oltre ad altri premi più stabili e duraturi. Richiesto di precisare a quali
premi alludesse, avrebbe raccontato il sogno da lui fatto quando si trovava in Africa, ospite di
Masinissa, re della Numidia.
Tutto questo costituisce dunque una ulteriore cornice narrativa, che inquadra il dialogo tra i due
Scipioni, riferito nel Somnium dall'Emiliano, all'interno della conversazione sceneggiata del De re
publica. I personaggi del De re publica nel Somnium si limitano ad ascoltare il racconto
dell'Emiliano. La loro presenza si avverte solo nella pausa al par. 4 quando, di fronte alla profezia
della morte di questo, Lelio leva un grido e gli altri prorompono in lamenti. Allora Scipione
interrompe l'illusione scenica del dialogo con l'Africano per riprendere quello con gli ascoltatori:
immedesimandosi nella finzione del sogno, sorride serenamente e li invita a stare zitti per non
svegliarlo dal sonno. In realtà, il vero interlocutore dell'Emiliano nel Somnium è l'Africano che
pronuncia la profezia, affiancato nei soli parr. 7 e 8 da Lucio Emilio Paolo, il padre effettivo
dell'Emiliano. Scipione limita i suoi interventi a poche battute, per lo più a richieste di chiarimenti o
a espressioni di assenso, e di tanto in tanto riprende la funzione di narratore, come quando ricorda la
commozione provata alla vista del padre o l'ammirazione per lo spettacolo che l'avo gli viene
mostrando: tutti espedienti utili a tenere desta l'attenzione e a evitare la monotonia di una narrazione
troppo prolungata.
La struttura dell'opera. Il Somnium Scipionis ha una struttura semplice ma rigorosa, scandita in
tre parti: come risulta dallo schema seguente, la prima e la terza, brevissime, fanno da cornice al
somnium, vero e proprio centro ideale del testo:
a) Cornice narrativa: il colloquio di Scipione Emiliano con Masinissa.
Par. 1. Incontro con Masinissa.
Par. 2. Masinissa invita a cena l'Emiliano e rievoca la figura di Scipione Africano. Questo compare
in sogno a Scipione Emiliano.
b) II sogno di Scipione Emiliano.
Predizioni dell'Africano.
Par. 3. L'Africano predice al nipote una gloriosa carriera politica.
Par. 4. Profezia della morte violenta dell'Emiliano.
Par. 5. Ai benemeriti della patria è riservata eterna beatitudine in cielo.
Intermezzo: compare all'Emiliano l'ombra del padre Lucio Emilio Paolo (par- 6).
Parr. 7-8. Emilio Paolo esorta Scipione a perseverare nella giustizia, in attesa di raggiungere la sede
dei beati nella Via Lattea.
Predizioni dell'Africano.
Par. 9. L'Africano illustra il sistema delle nove sfere celesti.
Parr. 10-11. L'Emiliano ode l'armonia musicale prodotta dalla rotazione
delle sfere.
Par. 12. La vanità della gloria umana.
Parr. 13-14. Descrizione delle cinque zone in cui è suddivisa la Terra e degli ostacoli naturali che si
oppongono alla diffusione della gloria umana. Parr. 15-16. La gloria umana non può durare perché
il mondo è soggetto a cataclismi periodici che delimitano il grande anno cosmico. Par. 17.
L'Emiliano non deve aspirare alla gloria terrena, ma alla vera immortalità nelle sfere celesti, che si
consegue con la pratica della virtù. Par. 18. L'anima dell'uomo è immortale e partecipe della natura
divina. Parr. 19-20. Dimostrazione dell'eternità dell'anima. Par. 21. Conclusione: esercitando la
virtù al servizio dello Stato e mantenendosi immuni dalla contaminazione corporea, si può
raggiungere più speditamente la dimora celeste.
c) Fine del sogno.
Par. 21 (ultima frase). Il fantasma dell'Africano scompare.
Soluzioni linguistiche ed espressive. La lingua del Somnium si distingue per alcune peculiarità
delle quali è necessario tenere conto all'atto della traduzione. Essa denota infatti una particolare
coscienza stilistica nella quale si possono isolare le seguenti istanze:
- il riflesso di due differenti situazioni espressive: il tono colloquiale della conversazione tra
l'Emiliano e Masinissa e lo stile elevato della profezia di Scipione.
- l'impegno nel trasporre in latino la terminologia greca che fa capo a differenti ambiti del sapere e
all'influsso delle fonti molteplici.
- lo sforzo di adeguare la lingua a quella dell'epoca in cui si immagina che si sia svolto il dialogo,
cioè a quella del 129 a. C, circa ottant'anni prima della composizione del Somnium.
In concreto, a ogni modo, l'operazione del tradurre non comporta difficoltà particolari. Termini e
forme del linguaggio colloquiale, vocaboli e costrutti poetici, arcaismi, figure retoriche richiedono
nel tradurre scel te linguistiche che siano in grado di rendere le tonalità dell'originale. Sul piano
lessicale, Cicerone evita neologismi, tecnicismi e grecismi e risolve mediante calchi o perifrasi i
termini di cui la lingua latina è sprovvista: nella traduzione sarà bene mantenere queste soluzioni o
riprodurle con i mezzi dell'italiano anche a costo di qualche smagliatura e, in casi estremi, di
qualche oscurità, che peraltro corrisponde alla patina di mistero e di meraviglioso già presente
nell'originale.
Perché leggere oggi il Somnium Scipionis. La ripresa, e soprattutto la lettura in lingua originale, di
un'opera che è stata scritta oltre duemila anni fa, richiede qualche giustificazione. Hanno ormai fatto
il loro tempo, anche nella scuola secondaria, le ragioni estetizzanti o moralistiche del vecchio
classicismo: nessuno più crede che si legga un testo antico per degustare un fenomeno
artisticamente perfetto o per accostare un modello di pensiero o di comportamento universalmente
valido, riproponibile oggi nella sua integrità.
La lettura dell'antico, piuttosto, dà modo di percepire la varietà che intercorre rispetto all'oggi e di
acquisire il senso della storia nella misurazione della distanza. Il classico, dunque, parla a noi
indirettamente e acquista attualità attraverso molteplici mediazioni. In particolare, testi come il
Somnium, che hanno avuto una tradizione capillare e che sono stati letti con continuità
nell'Occidente europeo, rappresentano un'esperienza fondamentale per la nostra consapevolezza
culturale. Se noi, uomini del XX secolo, possediamo, quasi come naturalmente acquisiti, concetti
come la differenza di sostanza tra l'anima e il corpo, l'idea che il cielo rappresenti la sede della
divinità e dei puri spiriti, la convinzione, almeno di principio, che Vimpegno politico debba essere
un servizio reso alla comunità, ebbene, alle spalle di queste nostre convinzioni i pensatori del
passato hanno elaborato quel sistema di opinioni che rappresenta il fondamento e il deposito della
nostra coscienza. Anche in quei rami del sapere ove più evidente risalta il divario tra la modernità e
l'antichità - come la dottrina eliocentrica nei confronti del sistema geocentrico - è pur sempre
evidente che le conquiste del pensiero scientifico moderno presuppongono un terreno da cui hanno
potuto prendere le distanze per contrasto.
Il Somnium Scipionis possiede queste caratteristiche di testo basilare per la comune coscienza del
pensiero europeo: la lettura in lingua originale, per parte sua, documenta lo sforzo di mediazione e
di travaso linguistico compiuto dall'autore nei confronti delle fonti filosofiche e scientifiche greche
e ci immerge nel crogiuolo della cultura, dove l'ampliamento degli orizzonti mentali comporta la
crescita della lingua e, reciprocamente, la disponibilità di strumenti espressivi rappresenta la
condizione necessaria per il progresso del pensiero.