Sport per tutti nella società del nuovo welfare di Nicola Porro da Qualità Equità, rivista del welfare futuro, n. 13 - gennaio/marzo 1999 Nella costruzione di una società del welfare lo sport è un elemento fondamentale per la sua capacità di integrazione interculturale. Necessità di riformare gli enti di promozione decentrando le funzioni di governo e di finanziamento della pratica sportiva. Un umanesimo dello sport, capace di rispondere alle nuove sfide poste dall’estendersi del concetto di cittadinanza. La pratica associativa e la stessa cultura organizzativa dello sport per tutti costituiscono un paradosso all’interno dell’arcipelago del Terzo settore. Parliamo, infatti, di un movimento che è cresciuto impetuosamente a partire dalla metà degli anni Settanta sino a coinvolgere – secondo alcune stime – venti o addirittura ventitré milioni di cittadini. Un movimento che, nella sua componente organizzata in associazioni nazionali (i cosiddetti “enti di promozione sportiva”), raccoglie almeno quattro milioni di affiliati. La sola UISP (Unione Italiana Sport Per tutti), che contende al cattolico CSI (Centro Sportivo Italiano) il titolo di associazione nazionale con il maggior numero di aderenti, conta un milione di iscritti e tredicimila società affiliate. Nel loro insieme, le società che a vario titolo comprendono la pratica sportiva non professionistica fra i propri fini statutari sono in Italia più di sessantaquattromila. Vale a dire i tre quarti del tessuto associativo del cosiddetto Terzo settore. Eppure l’associazionismo sportivo volontario sembra rappresentare una sorta di convitato di pietra del sistema non profit. Un gigante taciturno e un po’ imbronciato, dotato di un debole potere di voice. Lo dimostra la stessa normativa sulle Onlus, che ha innovato significativamente il quadro di riferimento legislativo dell’associazionismo non profit, ma certo non ha beneficiato il volontariato sportivo, consegnandolo agli incerti destini e ai tempi geologici della legge sul dilettantismo. Probabilmente, a condizionare negativamente il rapporto fra sport e non profit – o meglio fra associazionismo sportivo e sedi di rappresentanza del Terzo settore – vi sono cause molteplici, meritevoli di una rapida disamina. Pesa sicuramente un fattore culturale: lo sport è percepito ancora come un fenomeno che attiene alla sfera del tempo libero, dell’intrattenimento, del loisir. L’attenzione che lo sport non profit rivolge a grandi tematiche sociali – l’integrazione degli immigrati, la lotta al doping farmacologico e alle sue varianti non chimiche (la specializzazione precoce, il campionismo esasperato), l’intervento nelle carceri, la socializzazione della Terza età, l’offerta rivolta ai disabili, ecc. – viene scambiata per una pratica meramente strumentale o per un’esperienza nobile, ma in qualche modo estrinseca rispetto ai “veri” drammi collettivi. Così si continua a pensare all’intervento con i disabili come attività riabilitativa di tipo fisico-motorio, ignorando la primaria funzione di socializzazione e integrazione che l’attività sportiva può svolgere nelle situazioni di svantaggio. Analogamente, non si riescono a percepire le potenzialità di un rapporto con le minoranze etnico-linguistiche che valorizza il linguaggio universale del gesto e della corporeità, depotenziando un serio fattore discriminante rappresentato dal diaframma linguistico. E ancora: portare lo sport nelle carceri non significa soltanto “occupare il tempo” dei detenuti, bensì sperimentare sistemi di regole, attivare circuiti di comunicazione esistenziale in contesti disertati o difficilmente raggiungibili dalle tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia, scuola) o dalle istituzioni giudiziarie. Né si coglie il valore di un’attività degli e per gli anziani che costituisce una compiuta strategia attiva contro l’invecchiamento, un’alternativa psicologica e culturale alla deriva ipocondriaca della condizione anziana. Va aggiunto che forse, non paradossalmente, le stesse dimensioni demografiche, ma anche economiche e occupazionali, del sistema sportivo incutono la percezione di una sorta di separatezza, di autoreferenzialità. Un’ isola in cui si parlano linguaggi e si producono culture tecniche vagamente iniziatiche, un universo dominato dalle filosofie della forza e della competizione, dell’aggressività e della diseguaglianza (di risorse fisiche, di talento, di opportunità). Qualcosa, insomma, di sostanzialmente estraneo o, comunque, di difficilmente assimilabile al nocciolo solidaristico, comunitario, tendenzialmente egualitario dell’arcipelago non profit. Senza cogliere, dialetticamente, l’ispirazione etica e pedagogica di attività che consentono tassi molto differenziati di competitività, nonché il senso paradigmatico di quell’universalismo delle regole che spesso viene calpestato da una cultura diffusa dell’achievement, dell’affermazione a tutti i costi, che è parte della costituzione materiale della società in senso lato. Una vera e propria rappresentazione del mondo non temperata da quella filosofia del fair play e da quella percezione del limite che è invece propria dello sport di prestazione relativa. Uno sport del limite e della regola, che, per inciso, combatte una battaglia quotidiana con quella cultura del no limits da cui discendono tanto l’ipercampionismo, la commercializzazione esasperata quanto, in ultima istanza, la stessa piaga del doping che sul rifiuto del limite e sulla filosofia del risultato a tutti i costi ha costruito il proprio perverso sistema di valori. Pesa anche un dato istituzionale, che descrive un’anomalia tutta italiana: la sopravvivenza, nella forma dell’ente Coni, di un massiccio e pervasivo sistema statalistico di governo, regolazione e controllo dirigistico della pratica sportiva a qualsiasi livello. Un’esperienza che ha nel tempo creato inique gerarchie di autorità, subordinando le associazioni di sport per tutti alle federazioni agonistiche, orientate per definizione e per ragione statutaria al primato dell’alta prestazione, comprimendo ruoli e funzioni dello sport amatoriale. E’ questo il profilo della vecchia “promozione sportiva”, costretta a lungo a ritagliarsi spazi di sopravvivenza come appendice del “grande sport” o mortificata da pratiche di scambio politico fra burocrazie dell’ente pubblico e segmenti del sistema dei partiti. Dal Welfare alle politiche della vita Far uscire la riflessione sullo sport per tutti, finalmente inteso come un nuovo diritto di cittadinanza, dalle secche di una discussione astratta quanto ritardataria impone perciò un riorientamento concettuale del problema, che deve necessariamente collocarsi in un orizzonte più ampio. La questione sportiva deve cioè essere finalmente tematizzata entro coordinate politiche, economiche, culturali e sociali che ci consentano di passare da un approccio economicistico e difensivo – quello, per intenderci, della risposta “strutturale” alla crisi del Welfare State – a una rappresentazione più duttile e complessa, che ci conduca al cuore del problema: il disegno della Welfare Society. Da almeno una decina di anni - sotto la pressione congiunta della crisi fiscale degli Stati e dell'offensiva neoliberista - si è preso coscienza della necessità di dilatare la riflessione strategica dal tema del Welfare State, in tutte le sue possibile accezioni e varianti, a quella della Welfare society. In concreto ciò ha innanzitutto significato: 1) innescare un dibattito di ampia portata sulla divisione del lavoro fra Stato, mercato e "società civile" nelle cosiddette società complesse e 2) assumere una visione meno angusta ed economicistica dello stesso concetto di welfare. Lo Stato sociale europeo, nato per garantire un minimo di sicurezza collettiva in relazione ai bisogni sociali primari, e principalmente al diritto alla salute, è stato progressivamente investito da inedite domande di cittadinanza e di integrazione. In questo senso ho parlato in altre sedi di una "quarta stagione della cittadinanza" (1), che manifesta domande espressive e culturali non meccanicamente riconducibili alle tradizionali sfere dei diritti politici, civili e socieconomici descritti da T.H. Marshall nei primi anni Sessanta (2) in una chiave di lettura suggestiva, ma viziata da una rappresentazione evoluzionistica della produzione dei diritti di cittadinanza. Il tempo di vita e la sua qualità - quindi le politiche della vita individuate da Giddens (3) - sono stati più o meno consapevolmente inseriti nell'agenda istituzionale. La pratica sportiva si è sempre più esplicitamente configurata come parte costitutiva di un più variegato panorama sociale. Entrambe queste dinamiche - quella che dilatava orizzonti e contenuti del paesaggio sociale e quella che vi insediava a pieno titolo le culture e le pratiche dello sport - si sono peraltro sviluppate, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, in un contesto di crescente restrizione delle risorse pubbliche e di razionalizzazione-contrazione delle prestazioni statali. Occorre allora, in relazione al nostro argomento, tenere presenti due aspetti nevralgici. Il primo riguarda la filosofia dello sport in quanto tale: una strategia attiva delle pari opportunità, della salute, della prevenzione e dell'educazione che - molto al di là dei vincoli istituzionali e delle prescrizioni formali - possiede un'ineguagliabile capacità di tradursi in pratica sociale e in stili di vita individuali. Lo sport rappresenta insomma un possibile paradigma della Welfare society, che solo in parte è riducibile alla tradizionale cultura del Welfare State, inteso come sistema di garanzie, di diritti formalizzati, di prestazioni istituzionali, di logiche amministrative. Lo sport interpreta e produce significati esistenziali così ampi da poter essere modulati in infinite esperienze individuali e di gruppo. La pratica sportiva può configurarsi come un autentico "bene pubblico" che incarna tutti i valori della Welfare society. Il secondo aspetto riguarda, invece, il come le infinite opportunità individuali in cui si traduce concretamente la "promessa" dello sport per tutti siano promosse, esperite o depresse dai suoi vettori organizzativi. Interrogarsi sulle politiche del finanziamento pubblico o sulle strategie locali per l'impiantistica, sulla convivenza di interessi e pratiche organizzative differenti, sui concreti e storicamente determinati modelli nazionali e sulle loro eredità istituzionali, significa gettare un fascio di luce sulla natura, talvolta nascosta, della Welfare society. L'analisi del sistema sportivo è così allo stesso tempo un affascinante strumento di comprensione di processi culturali latenti e una chiave di lettura - o, se si preferisce, una lente di ingrandimento - orientata a svelare dinamiche politiche e istituzionali di amplissima portata. Osservare l'interazione fra le varie organizzazioni che compongono il panorama sociale dello sport e il suo "ambiente" consente di cogliere tanto la dimensione della vita quotidiana - cosa l'esperienza sportiva significa per il cittadino, come orienta le sue preferenze, i suoi comportamenti, la sua visione della realtà - quanto le tendenze al mutamento delle istituzioni, degli interessi, delle regole del gioco che riguardano l'intera società. Forse è opportuno precisare che in questo caso diamo del concetto di organizzazione una rappresentazione un po' dilatata rispetto al senso comune, abbracciando quattro elementi essenziali: una rete di appartenenza, l'esistenza di risorse collettive, un sistema di controlli e un circuito di scambi. Il benessere di tutti e quello di ognuno Proviamo a porci dal punto di vista non del Welfare come sistema di relazioni, interazioni e prestazioni a livello macro, bensì di come un'aspettativa di benessere, tutela e garanzia permei la nostra personale e circoscritta esperienza di cittadini - quindi di utenti e finanziatori - dello Stato sociale. Il personale "benessere" di ciascuno di noi è, in questa prospettiva, il prodotto di una varietà di fattori che si identificano con attori molto diversi: strutture pubbliche che dovrebbero garantirci servizi connessi a diritti di cittadinanza (alla salute, all'istruzione, alla previdenza, ecc.); associazioni volontarie che operano a completare, espandere, integrare o migliorare qualitativamente tali servizi e/o a soddisfare bisogni soggettivi di comunicazione e riconoscimento; imprese commerciali che offrono a pagamento prestazioni e opportunità legate alla ampia sfera del benessere individuale; amministrazioni locali, che sviluppano politiche pubbliche di settore, per esempio promuovendo attività sportive od offerte culturali che non rientrano nel raggio d'intervento delle istituzioni centrali; circuiti composti dalla famiglia, dagli amici, da persone che condividono interessi o sensibilità affini ai nostri. E' in questa rete di interazioni e di occasioni che si produce il soggettivo stato di benessere di ciascuno di noi entro lo Stato del benessere che, in una rappresentazione macrosociale in gran parte superata, tutto comprende e tutto regola (5). La Welfare society comincia esattamente qui per estendersi molto al di là del Welfare State tradizionalmente inteso. In questa prospettiva non ci si può evidentemente confinare ancora nell'opposizione apodittica fra sfera pubblica (dominata, anche se non integralmente, dallo Stato) e sfera privata più o meno direttamente riferita al mercato (6). Quello che dobbiamo sforzarci di analizzare con uno sguardo meno angusto sono allora tre aspetti connessi che riguardano : 1) le differenze e le analogie delle diverse esperienze organizzative presenti nell'universo dello sport in senso lato; 2) la concreta combinazione di forme organizzative e di interazioni sociali/individuali che nella pratica sportiva si producono, individuando le traiettorie di mutamento visibili; 3) gli effetti di questa combinazione nella definizione di politiche orientate a quello che è stato chiamato lo sport del Welfare (7). Lo sport per tutti è l'espressione più compiuta, più culturalmente matura e insieme più contraddittoria e magmatica dello sport del Welfare. Non è però la meccanica trasposizione della filosofia sociale e della prassi politica del tradizionale Welfare State nell'ambito dello sport. E' piuttosto il luogo sociale in cui lo sport si riconosce (e si fa riconoscere) come uno dei cardini della Welfare society. Nel nostro lessico pubblico lo sport per tutti potrebbe dunque essere immediatamente ubicato nell'area della cosiddetta società civile. Una formula che è però non priva di ambiguità, di eredità ideologiche e di significati usurati dalla polemica politica dell'ultimo decennio. Più appropriato è il riferimento a grandi categorie socioeconomiche, caratterizzate da sistemi di regolazione meno generici e controversi di quelli riferibili alla società civile: Terzo settore, non profit, volontariato sociale. Nella riflessione sociologica più recente, tuttavia, anche la linea di demarcazione fra Stato, mercato e Terzo settore è stata messa in discussione. L'idea stessa di una connessione autoevidente fra democrazia e un soggetto sociale diffuso, depositario di intrinseche virtù collettive (la mitica "società civile", appunto) è in effetti per molti versi opinabile: nessuna esperienza organizzata che operi al di fuori dello Stato e del mercato è, di per sé, libera da vincoli e restrizioni. Solo se osserviamo la rete di relazioni che si sviluppa fra molteplici organizzazioni non profit possiamo intravedere i confini, spesso labili e confusi, di un'area sociale relativamente autonoma. In essa operano soggetti fra loro estremamente differenziati, che combinano in maniera articolata le tre fondamentali caratteristiche dell'azione collettiva individuate da Touraine (8): la tutela di interessi, la volontà di essere parte attiva nella gestione del mutamento sociale, il rinnovamento e la trasformazione dei modelli culturali. Nel concreto, è più che legittimo parlare di un sistema di welfare mix, che combina livelli e forme organizzative molto compositi. Ma essenziale è tener presente il modello del triangolo del welfare, inteso come una rappresentazione di razionalità e valori differenti che orientano l'azione. Nel triangolo – i cui vertici sono rappresentati da Stato, mercato e comunità (nel senso proprio della Gemeinschaft descritta da Tönnies) è possibile collocare spazialmente movimenti e organizzazioni che, di volta in volta, saranno più esposti all'influenza dello Stato, della comunità o del mercato, realizzando nella maggior parte dei casi forme di compromesso fra le tre sfere. A livello di astrazione, il triangolo riflette il ruolo e il peso dei diversi settori nella regolazione complessiva della società. In termini immediati, ci offre una rappresentazione empirica della capacità di ognuno dei settori di soddisfare determinate domande erogando servizi e combinando risorse. Il sistema associazionistico nel suo insieme occupa un'area che sta dentro il perimetro Stato-Mercato-Terzo settore senza però automaticamente e completamente collocarsi nell'ambito di uno o dell'altro dei soggetti dominanti. Il nostro immaginario triangolo, infatti, può essere a sua volta scomposto in quattro triangoli più piccoli, disegnati in rapporto a tre convenzionali assi di intersezione: quello che orizzontalmente separa pubblico e privato e quelli che, diagonalmente, distinguono profit e non profit, da un lato, e comunità (rete di relazioni primarie) e società (sistema di relazioni proprio di una società complessa), dall’altro. Potremo così localizzare: a) un settore eminentemente pubblico, non profit e societario, in cui operano il sistema della Pubblica Amministrazione, la scuola di Stato, il sistema sanitario nazionale, la maggior parte delle istituzioni universitarie, le attività orientate all’assistenza, alla previdenza, al servizio sociale gestite dalle istituzioni centrali o dai poteri locali; b) un ambito rigorosamente di mercato, popolato da imprese, banche, compagnie assicurative, aziende commerciali e anche cooperative operanti sul terreno profit. Questo spazio sociale sta sul versante del profit, privato e societario ; c) un settore informale, di natura privata, comunitaria e non profit, in cui agiscono strutture familiari, reti di vicinato, gruppi amicali, aggregazioni locali di varia natura; d) un’area topograficamente centrale nel disegno, perché appartenente alla sfera privata, societaria e non profit, ma che è contigua a tutti e tre gli altri sottosistemi dai quali è più o meno influenzata. Si collocano qui le istituzioni educative private, le organizzazioni non profit, i club e le associazioni. E’ l’ambito dell’azione volontaria e dell’associazionismo strutturato. I quattro ambiti presentano caratteri idealtipici e consentono di dislocare i vari soggetti organizzati o di natura informale a maggiore o minore distanza dagli assi di riferimento (pubblico/privato, profit/non profit, reti primarie/strutture societarie). Così, ad esempio, solo le Forze armate, i corpi di Polizia e la burocrazia pubblica appartengono inequivocabilmente all’area descritta nel punto a), mentre in quasi tutti i Paesi occidentali il sistema sanitario è prevalentemente pubblico, ma con una presenza più o meno consistente di operatori privati for profit. Viceversa, la rete pubblica del servizio sociale tende spesso a proiettarsi in una dimensione comunitaria informale, incrociando pratiche di self help e di cura familiare, basate su istanze solidaristiche ubicate nell’ambito delle reti sociali primarie (Gemeinschaft), ma non di rado sostenute da contributi pubblici. Il sistema educativo, poi, è un esempio di istituzione pubblica che non solo opera spesso per delega a soggetti privati, ma che sempre più si apre a istanze e contributi del settore privato attraverso un regime di convenzioni, di fondazioni, di incentivi di vario tipo. Se ci spostiamo nello spazio occupato dal privato for profit di genere societario, è evidente che la gran parte delle attività produttive di tipo industriale vi si collocano in maniera completa. In molte realtà nazionali, però, malgrado le massicce privatizzazioni degli ultimi due decenni, sopravvivono comparti produttivi e di servizio a esclusiva o prevalente partecipazione pubblica. La produzione agricola, inoltre, gode di potenti sovvenzioni pubbliche (anche sovranazionali, come nel caso delle “integrazioni” Ue) e contiene una non trascurabile componente non profit, legata a sistemi di consumo familiari e comunitari. Più in generale, le imprese private sono eminentemente regolate dal mercato e dai suoi principi, ma in varia misura risentono delle regole dello Stato e delle sue burocrazie centrali o locali, e incorporano logiche di tipo comunitario. Le organizzazioni pubbliche sono ispirate allo Stato, ma subiscono influenze degli altri sottosistemi. Le famiglie, i circuiti di vicinato, le reti amicali sono orientate in larga misura, ma non esclusivamente, alla comunità (per esempio lo Stato regola legalmente il matrimonio e mille altre forme di relazioni sociali primarie). Le organizzazioni volontarie Le organizzazioni volontarie si collocano in uno spazio che non è riducibile a nessuno dei tre classici regimi sociali. La loro natura privata le differenzia dallo Stato, il carattere non profit le distingue dal mercato. Il fatto di possedere una struttura formale e di avere obiettivi programmatici impedisce peraltro di assimilarle troppo disinvoltamente anche alle comunità di tipo primario, come le famiglie o i gruppi di amici. Si spiega così come queste organizzazioni si collochino in maniera molto differenziata a diversa distanza da ciascuna delle tre polarità. L'associazionismo sportivo è un caso addirittura esemplare di questa convivenza di forme e profili sociali, senza che sia possibile tracciare linee di demarcazione molto nitide e persistenti nel tempo. La fluidità, complessità e variabilità (differenziazione sociale) delle associazioni è un tratto essenziale per comprenderne il ruolo e le peculiarità. La variegata galassia delle associazioni volontarie costituisce, insomma, un settore distinto da quello privato - ispirato alla razionalità economica del mercato e dei suoi meccanismi più o meno "spontanei" di regolazione (interesse, profitto, responsabilità individuale, utilitarismo) - come da quello pubblico, che è retto da logiche di azione politica e da obbligazioni che richiedono un certo grado di controllo, di legittimazione e di potere sanzionatorio, pur evocando una moralità collettiva e solidaristica. Anche la comunità opera con proprie logiche di azione: essenziali sono il legame fra i suoi membri, l'autonomia del gruppo, la responsabilità reciproca, la difesa di bisogni e interessi immediati, l'esistenza di legami di reciprocità e di approvazione. Il settore volontario combina invece logiche e razionalità proprie di tutti e tre gli altri sistemi. Come le imprese for profit e il settore pubblico presenta obiettivi definiti e regole formali. In comune con l'ambito for profit e il settore informale (comunità) ha natura privata e autonomia legale rispetto alla sfera pubblica. Del settore pubblico e della comunità condivide il carattere non profit, princìpi non distributivi e finalità collettive. Etica collettiva (non necessariamente di tipo solidaristico) e azione volontaria ne costituiscono i tratti distintivi. La vasta area culturale e sociale dello sport, cresciuta a partire dai primi anni Settanta sulla base di una domanda diffusa nelle società complesse di riappropriazione della corporeità, di ricerca del benessere, di prevenzione sanitaria e di risposta – individuale e collettiva – alla routinizzazione del quotidiano, si disloca prevalentemente, sul piano tipologico, entro i confini dell’azione volontaria (privato societario non profit). Essa incorpora però esperienze profit - si pensi ai club professionistici del calcio, la cui costituzione in spa segna anche in Italia un vero passaggio d’epoca rispetto al modello tradizionale dell’associazionismo sportivo volontario – ed esperienze a basso tasso di strutturazione (attività informali, fitness, turismo sportivo, pratiche non competitive open air, ecc.) o chiaramente dislocate in territori di confine dove lo sport acquista una fisionomia strumentale in relazione a domande di socialità e di integrazione comunitaria, ovvero in rapporto a bisogni personali (la riabilitazione psicomotoria) o a esigenze codificate in un circuito di relazioni formali (è il caso del reclutamento agonistico in senso stretto a beneficio dello sport di alto livello). Se dunque le associazioni di sport per tutti, le piccole società e le attività specializzate rivolte a soci-utenti (anziani, disabili, ecc.) sono sicuramente insediate nello spazio dell’azione volontaria, un dato saliente è rappresentato un po’ in tutta l’Europa continentale degli anni Novanta dalla crescita speculare dell’intervento pubblico, da un lato, e del profit, dall’altro. I centri privati di fitness, l’arcipelago delle scuole di danza o di ginnastiche dolci, i club professionistici rappresentano il consolidamento di un’area profit in costante espansione. Viceversa, la tematizzazione dello sport come strategia di integrazione sociale ha indotto in molte realtà nazionali, Italia compresa, un’iniziativa dei poteri pubblici rivolta allo sport scolastico, alla salute, alla gestione di impianti a fini sociali. Sul versante comunitario, la crescita dei gruppi amatoriali per pratiche a basso tasso di competitività (dal jogging al trekking all’equitazione di campagna alla rivisitazione dell’alpinismo e dell’escursionismo e quant’altro) costituisce un fenomeno imponente e di grande interesse sociologico. In breve, l’espansione quantitativa della pratica ha indotto insieme diversificazione dell’offerta e moltiplicazione degli attori sociali ed economici coinvolti. Un processo che ha interessato, in forme non omogenee e con diversa scansione temporale, ma con esiti non dissimili, tutte le principali realtà nazionali dell’Occidente europeo. Quello che distingue l’Italia dalla maggior parte delle altre esperienze nazionali è però, da un lato, la dominanza e la pervasività di un settore pubblico che non appartiene giuridicamente alla sfera dello Stato, pur surrogandone in larghissima misura poteri e funzioni e, dall'altro, un singolarmente affollato panorama di associazioni sportive volontarie operanti sul territorio nazionale. Il Coni è un'agenzia semipubblica che possiede responsabilità, risorse e compiti di controllo sull'intera rete di molto superiori a quelle riconosciute in altri contesti nazionali agli stessi ministeri. Gli "enti di promozione", a loro volta, vivono una condizione di transizione. Nati come espressione di una cultura del collateralismo politico e religioso, che riproduceva anche nello sport i compiti di supplenza istituzionale esercitati dai partiti e dalla Chiesa, essi hanno a lungo incorporato un’identità subalterna rispetto all’ente sportivo “ufficiale”, accontentandosi – nomina sunt consequentia rerum – del ruolo di pura e semplice “promozione” per la pratica agonistica di alto livello. Questa rappresentazione vivaistica dello sport per tutto è superata di fatto da non pochi anni e sopravvive come funzione primaria soltanto nelle realtà organizzative più povere e tradizionali. Gli enti maggiori, più socialmente rappresentativi, culturalmente più attrezzati e a contatto con il grande movimento nordeuropeo dello sport per tutti, hanno da tempo maturato una identità in larga misura emancipata dai vincoli di sudditanza e dalla divisione del lavoro loro imposta dal regime di scambio politico fra burocrazie Coni e partiti della Prima repubblica. Da quasi un decennio, ad esempio, l’UISP ha operato pubblicamente la propria svolta identitaria e simbolica, trasformandosi da “ente di promozione” ad “associazione di sport per tutti”, rinunciando alla anacronistica dizione di sport “popolare” e rivendicando una marcata autonomia politico-organizzativa dalle originarie forze sociali di riferimento. In forme peculiari, proprie di una diversa tradizione associativa, anche le maggiori organizzazioni sportive del mondo cattolico hanno maturato significative trasformazioni del paradigma originario. E’ perciò comprensibile e persino doveroso che il movimento dello sport per tutti rivendichi oggi anche in Italia – come è già avvenuto in gran parte delle realtà nazionali più avanzate sul terreno della sportivizzazione diffusa -, attraverso la necessaria innovazione istituzionale, il riconoscimento e la legittimazione dell’innovazione culturale che esso ha già contribuito a produrre. Innovazione che non può limitarsi a ridisegnare competenze e poteri dei differenti soggetti già operanti nel circuito dell’ente olimpico, ma che deve investire l’intero, più vasto sistema sportivo nazionale. Così, la rabbiosa difesa delle proprie prerogative “storiche” che è venuta da buona parte delle federazioni agonistiche del Coni non appena l’iter dell’innovazione normativa si è concretamente avviato, a seguito da quel caso esemplare di choc esogeno rappresentato dalla vicenda doping, costituisce il più limpido ed eloquente argomento a favore di una radicale riforma del sistema. Quella reazione rivela infatti la totale autoreferenzialità dell’ente e dei suoi organismi dirigenti e segnala l’esistenza di un potere di interdizione basato su logiche di tutela corporativa, facilmente prevedibili se si pensa che il Comitato olimpico italiano costituisce di gran lunga la più pesante e costosa “macchina sportiva” esistente al mondo. L’arroccamento corporativo della leadership fornisce, del resto, la prova più evidente dell’incapacità di questa, abituata per decenni ad autolegittimarsi in un regime di extraterritorialità – interrotto da qualche incursione giudiziaria e rinforzato da un rapporto sistematico di scambio politico (quello che ha portato alla presidenza di prestigiose federazioni agonistiche esponenti non di secondo piano dei partiti) – di intercettare con sensibilità nuove e più flessibili la domanda sociale che allo sport si è venuta indirizzando negli ultimi trent’anni del secolo. Il fatto stesso che ancora spetti al Coni il potere di riconoscimento (legittimazione) degli enti-associazioni e che le risorse finanziarie delsistema siano amministrate con relativi margini di discrezionalità dalla stessa struttura semipubblica è sintomatico di una situazione di insostenibile, e forse persino illegittima, appropriazione di poteri. In altre parole: a fronte di un'istituzione che si attribuisce, e concretamente esercita, funzioni decisive di regolazione dell'intero sistema - e che concentra nelle proprie mani tutte, o quasi tutte, le risorse finanziarie, simboliche e organizzative del sistema sportivo nazionale -, lo sport per tutti chiede un seppur tardivo riconoscimento di pari dignità con le federazioni di alta prestazione, un sostanziale riequilibrio delle risorse e un regime di autogoverno che acceleri anche la ricomposizione di un movimento ancora disaggregato lungo linee di frattura ideologiche o confessionali assolutamente anacronistiche. Questa dinamica di emancipazione ha conosciuto, come si è accennato, un’accelerazione alla fine del 1998, quando lo scandalo doping, le dimissioni del Presidente del Coni Mario Pescante, la profonda crisi di legittimità che avevano investito l’intera leadership dell’ente e i suoi metodi di gestione, peraltro perfettamente coerenti con un impianto normativo vecchio di quasi sessant’anni (la legge istitutiva del Coni risale al 1942), hanno messo in moto quel progetto di riforma sempre annunciato e mai effettivamente perseguito in precedenza dai gruppi dirigenti dell’ente e dagli stessi organi politici vigilanti. Lo scandalo doping, del resto, si è ben presto rivelato soltanto la punta di un iceberg. Il fenomeno purtroppo non riguarda esclusivamente lo sport campionistico, che dispone pur sempre di forme di assistenza tecnico-professionale negate all’universo dei generici praticanti, bensì interessa un oscuro quanto esteso sottobosco di esperienze “informali”, sottratte a ogni seria possibilità di controllo e insediate nell’ambito dell’agonismo amatoriale e persino di numerose forme di attività non competitive. Un panorama inquietante che rivela le difficoltà obiettive del sistema politico e delle agenzie di settore (Coni e non solo) a regolare in maniera organica ed efficace il sistema. Basti al riguardo il confronto con la vicina Francia, dove le traumatiche vicende del Tour 1998 hanno aperto la strada a una legge dello Stato severissima, entrata in vigore già nel novembre dello stesso anno. Su un altro versante, le tentazioni secessionistiche del grande sport commercializzato non sono più coperte intenzioni di qualche oligarchia affaristica, bensì un pubblico e conclamato processo di trasformazione-demolizione dei capisaldi del vecchio sistema. La Superlega calcistica europea trova persino uno straccio di legittimazione simbolica disegnando un nuovo contenitore continentale e ponendosi come risposta a una domanda di intrattenimento popolare indiscutibilmente esistente e diffusa. Non solo: studi recenti e autorevoli segnalano nei Paesi guida dell'esperienza dello sport per tutti (Scandinavia, Germania, Gran Bretagna, Benelux, Francia e Svizzera, soprattutto) una perdita di velocità crescente delle capacità attrattive del sottosistema. Nelle realtà più evolute si è da quasi dieci anni esaurita la spinta propulsiva dell'allargamento della cittadinanza sportiva fra le donne, gli anziani, la prima infanzia, i disabili. Il progressivo prevalere delle logiche di puro mercato, anche in Paesi di solidissime tradizioni di Welfare, sta relegando ai margini del sottosistema le sue opportunità di integrazione sociale (immigrati, soggetti deboli, la massa in espansione dei disoccupati). Si tratta solo di effetti di saturazione, prevedibili in situazioni molto mature e potenziati dalle restrizioni finanziarie delle erogazioni pubbliche? Oppure il paradigma stesso dello sport per tutti, quale si era delineato a partire dal Nord Europa già negli anni Settanta, ha bisogno di un ripensamento ideale, strategico e organizzativo, connesso e conseguente alla più ampia riflessione sui nuovi confini della Welfare society? I nuovi confini del welfare nello scenario internazionale La complessa, anomala e contraddittoria realtà italiana - caratterizzata dall'esistenza di un "regime sportivo" non formalmente statale ma potentemente direttivo e regolativo, da una pletora di soggetti associativi disegnati sul profilo di obsolete configurazioni politico-culturali, da un'area estesissima di pratica spontanea, che manifesta allo stesso tempo l'esistenza di una persistente diffusa domanda sociale e l'insoddisfazione per l'offerta organizzativa proveniente dallo sport "ufficiale” - costituisce una reale situazione laboratorio per sperimentare l’innovazione istituzionale. E’ forse utile, allora, concentrare brevemente l’attenzione su alcuni punti critici che derivano da una ricognizione internazionale sul fenomeno dello sport per tutti e dei suoi scenari. 1) La perdita di attrattiva delle esperienze associazionistiche nelle realtà nazionali più mature non discende dall'affermarsi di logiche di utilità individuale. Il free rider sportivo, il giocatore opportunista che calcola sempre razionalmente i rischi del gioco e aspetta che l'azione altrui produca benefici per sé, non esiste. Anzi: ricerche condotte in Paesi come il Belgio dimostrano che i soggetti più culturalmente emancipati e liberi da vincoli di appartenenza tradizionali sono anche i più disponibili a operare entro sistemi di azione che garantiscano servizi, opportunità, ma anche innovazione culturale e diritti. Il nodo sta quindi nella qualità dell'offerta associativa. Come aveva intuito Hirschman (9), in polemica con il modello analitico di Olson, sembra proprio che anche nell’universo dello sport la soddisfazione dell’attore si produca più in relazione all’impegno motivazionale profuso che non al beneficio conseguito in una pura logica di costi e ricavi. 2) Il mutamento rapido degli stili di vita e il loro differenziarsi in alcune modalità ricorrenti (il lavoratore autonomo, il dipendente, i professionisti in carriera) segnala un fatto di grande rilevanza: esiste una domanda di pratica sportiva che è strettamente connessa alla dimensione della vita quotidiana, che tende a "inglobarsi" in un'esperienza esistenziale ricca e flessibile. Siamo agli antipodi, come si vede, dal paradigma dello sport popolare come cultura antagonistica e/o residuale rispetto allo sport di prestazione assoluta e questo conferma le potenzialità di un'offerta capace di intercettare nuove sensibilità (gli sport open air, le pratiche a basso tasso di competitività, la cultura della motricità per gli anziani, le suggestioni ambientalistiche, il turismo sportivo) e di soddisfare bisogni inediti. Questo significa anche individuare un territorio di azione organizzativa che è peculiare dello sport per tutti e a misura di ciascuno, senza confliggere con le ragioni e le esperienze del circuito dell'alta prestazione. E significa anche affermare la problematica dello sport per tutti come componente cruciale dei movimenti culturali. 3) Lo sport per tutti non è però solo un produttore di innovazione potenziale e un erogatore, più o meno qualificato ed efficiente, di servizi. E' anche un soggetto collettivo che rivendica un ruolo decisionale effettivo, autonomo e democratico nel sistema sportivo e in tutte le sue aree di confine. Pone perciò un problema di autonomia, responsabilità e risorse che deve aiutare lo sviluppo di un processo concreto di ricomposizione e legittimazione del panorama associazionistico, affrancato dalla condizione subalterna propria dei vecchi enti di promozione. 4) Spostando il punto d'osservazione dagli individui e dagli stili di vita all'offerta associativa, le esperienze internazionali mature ci segnalano evidenze altrettanto interessanti. In Danimarca, ma anche in altri Paesi nord-europei, si segnala un fenomeno di crescente abbandono della pratica organizzata nei club di praticanti, che - fatte le opportune distinzioni – rappresentano forme associative più avvicinabili ai circoli e alle società di base delle associazioni di sport per tutti italiane o francesi. Questo dato è in apparente contraddizione con la domanda di associazionismo flessibile che i sismografi della ricerca segnalano a livello delle propensioni individuali. Le spiegazioni fornite sin qui (10) vertono: a) sull'inadeguatezza dell'offerta concreta da parte dei club, che avrebbe consegnato al mercato e alle istituzioni (Stato, scuola, autonomie locali) settori di utenza molto ampi, provocandone una diversificazione interna: al mercato le quote di popolazione più abbiente, alle istituzioni i soggetti sociali meno favoriti. Di fatto, ai club è rimasto un segmento di attività molto ristretto, dai giochi di squadra più popolari alle discipline olimpiche povere. Lo stesso ambito di mercato si è fortemente diversificato in relazione alla domanda. Indagini motivazionali hanno messo in luce una netta divaricazione fra praticanti associativi e utenti del mercato: da un lato inclinazioni alla competizione, alla socialità e all'idea di sport valore, dall'altro orientamento al benessere, alla salute e a una visione strumentale delle pratiche. b) Sulle fortune dello sport specializzato e di fitness (mercato) come effetto delle accresciute disponibilità economiche delle famiglie, che sarebbero oggi meno allettate da un'offerta tecnica meno qualificata, seppure a costi più bassi, avanzata dallo sport per tutti associazionistico. c) Sull'espansione dello sport nei luoghi di lavoro, sempre più sostenuto finanziariamente dalle imprese che hanno cominciato a percepirne l'utilità come "bene meritorio". Nelle aziende che promuovono attività sportiva o motoria è statisticamente dimostrata una contrazione su base annua delle ore perse per malattia e infortuni e una crescita di produttività per addetto.. E’ in questa ottica che anche in Italia si è sviluppata una forma peculiare di sport aziendale, nel nostro caso di diretta emanazione confindustriale, come lo CSAIN. Un po' ovunque, inoltre, le istituzioni, soprattutto quelle locali, hanno potenziato l'intervento nelle attività rivolte agli anziani, ai disabili, alla popolazione marginale, agli immigrati, spesso "fagocitando" l'esperienza dei club a livello locale e attivando formule amministrative di cooperazione basate su strategie di contracting out. Si sono infine trasformate le modalità di offerta e di gestione delle attività. L'introduzione delle "carte" che consentono di pre-pagare servizi senza vincolare gli utenti di fitness, aerobica, attività di palestra, ecc. a orari e giornate prestabiliti ha in parte depotenziato il ruolo "integrativo" dei circoli e dei club, che in molti casi si sono adeguati alla domanda modificando essi stessi le proprie strategie commerciali. 5) Dilatando queste osservazioni, il mutamento nell'offerta organizzativa su larga scala può essere interpretato meccanicisticamente come un processo di selezione "darwiniana" di esperienze più adeguate in relazione ai cambiamenti ambientali e al prodursi di nuove culture e differenti pratiche sportive. Questa ipotesi indurrebbe a prevedere, ad esempio, l’esaurimento in tempi non lunghi di tutte quelle discipline che non godono di una felice resa televisiva e, allo stesso tempo, una decisa prevalenza dell’offerta commerciale rispetto ai tradizionali moduli della pratica associativa. Il successo dei grandi fitness centres nel Nord Europa, ma in misura crescente anche nell’Europa latina, potrebbe indicare una significativa linea di tendenza entro uno scenario in rapido cambiamento. E’ però anche possibile un’interpretazione in termini di risposta di adattamento a sfide esogene (ipotesi isomorfica), per cui più forte è la competizione per le risorse, più rapido è il processo di adeguamento ai modelli ritenuti vincenti (isomorfismo competitivo). In questo modo, ragionando per astrazioni, se venissero meno i finanziamenti pubblici allo sport – d’altronde sempre più stentatamente e precariamente garantiti dai concorsi pronostici – dovremmo aspettarci una repentina polarizzazione fra un paradigma commerciale e spettacolare (sul modello dei club di calcio professionistici trasformati in spa) e un sistema di pratiche autogestite entro reti associative fondate sulla categoria di volontariato sociale (movimento dello sport per tutti). A fare le spese di questa polarizzazione del sistema sarebbe la costellazione dello sport olimpico non sostenuto dalle sponsorizzazioni e dai diritti televisivi, ma neppure omogeneo al paradigma dello sport per tutti. L’ipotesi isomorfica più applicarsi perfettamente alla sfera politica e istituzionale, dove si compete principalmente per il potere decisionale e la legittimazione. Qui non esistono criteri omogenei per definire modelli "razionali" di azione e trasformazione (11). Mancando la possibilità di operare contabilmente un calcolo costi-ricavi, a differenza dei regimi d’impresa, l’esistenza di vincoli normativi condivisi dovrebbe favorire una contaminazione di paradigmi strutturali e di culture organizzative allo stato distinti e tendenzialmente conflittuali. Le strutture associative costrette a coabitare in un sistema di interdipendenze dovrebbero tendere ad assomigliarsi molto di più che non in assenza di regole e riferimenti istituzionali (isomorfismo istituzionale). Nel caso italiano, isomorfismo istituzionale significherebbe un “nuovo Coni” che, avendo rinegoziato ruoli, funzioni e risorse fra i diversi attori del sistema, produce progressivamente un nuovo sistema di società di base, leadership pluralistiche, ibridazione di sensibilità e di strategie fra sport d’alta prestazione e sport per tutti. 6) Sullo sfondo operano dinamiche ad ampio raggio che esorbitano dallo specifico sportivo, ma che lo condizionano potentemente. Per isolare alcuni aspetti nevralgici: a) gli ultimi venti anni hanno segnato la ripresa e la ridefinizione di un'ideologia antikeynesiana del “tutto mercato”, che ha investito opinione pubblica e sfera politica molto al di là dei successi elettorali (spesso effimeri) del neoliberismo in tutte le sue varianti. La crisi fiscale dello Stato, del resto, ha indotto anche le sinistre politiche al potere a favorire una contrazione controllata del settore dell'intervento pubblico in economia e a elaborare strategie di maggiore attenzione ai bisogni e alle domande del cittadino non organizzato (12). Di qui una crescente differenziazione nell'offerta di servizi (salute, istruzione) e una massiccia penetrazione del mercato e dei suoi strumenti (si pensi soltanto al boom delle assicurazioni personalizzate) che ha interessato anche settori tradizionali del Welfare previdenziale e sanitario. b) Malgrado ciò, le resistenze ai tentativi di drastico ridimensionamento del Welfare State sono state forti e spesso coronate da successo sia dove lo Stato godeva di maggiore legittimazione sociale sia dove, come in Italia, veniva comunque percepito come un garante dei diritti minimi dei cittadini. Il fatto che la nascita dell’euro (gennaio 1999) sia tenuta a battesimo da dieci governi di ispirazione progressista sugli undici interessati al varo della moneta unica costituisce qualcosa di molto più significativo di un puro dato simbolico o di una curiosità politologica. Si è prefigurata, insomma, una soglia di non ritorno rispetto a un regime di tutela sociale che rende improbabile uno smantellamento del Welfare e, insieme, urgente e necessaria, una sua riforma strutturale. c) Contro alcune teorie economiche, la persistenza di un ampio settore pubblico non ha marginalizzato o rese subalterne le esperienze del settore non profit. Anzi: l'associazionismo non profit è spesso più sviluppato e legittimato dove lo Stato sociale è più esteso ed efficiente. Anche in Italia gli anni Novanta hanno fatto registrare una crescita di ruolo e di influenza, oltre che di adesioni, al Terzo settore latamente inteso. Le pur controverse misure legislative introdotte (legge sulle Onlus) e l'espansione delle esperienze di cooperazione fra settore pubblico e aree del volontariato non sono il prodotto congiunturale di una stagione politica, bensì l'onda lunga di un processo anticipato in molti Paesi industriali maturi. 7) Se ci sforziamo di verificare queste dinamiche macro entro processi di ridefinizione dei rapporti statali centro-periferia – quali che siano i destini della riforma federalistica delle istituzioni – il sistema sportivo offre utili elementi di riflessione. Gli aspetti strutturali più distintivi del "caso italiano" consistono (a) nella forte e persistente propensione alla spesa per attività fisico-motorie da parte delle famiglie; (b) in una quota di finanziamento pubblico non molto lontana da quella di altri Paesi europei, la quale però (c) risulta assai più concentrata nelle erogazioni dal centro (tramite la longa manus del Coni, gestore dei concorsi pronostici, e delle federazioni agonistiche) che negli interventi della periferia (autonomie locali). In Italia il 42.8% dei contributi pubblici viene dal Centro e il 57.2 dal sistema delle autonomie, in Germania il 2% dal centro e il 98 dalla "periferia". Nella Ue solo il Portogallo presenta un esempio di gestione delle risorse finanziarie pubbliche più centralizzato dell'Italia (vedi tab. 1). Tabella 1. Il sostegno pubblico alle attività sportive in nove Paesi Ue (1996). Dallo Stato % (milioni $) Dai poteri locali (milioni $) % Totale Popolaz. (milioni $) (milioni $) A B A:B PNL pro ($) capite ($) GERMANIA 70.5 2.0 3392.9 98.0 3463.4 81.59 42.4 20370 FRANCIA 784.1 23.5 2549.7 76.5 3333.8 57.98 57.5 19955 G. BRETAGNA 77.7 5.0 1462.8 95.0 1540.5 58.26 26.4 18360 ITALIA 627.1 42.8 836.3 57.2 1463.4 57.19 25.6 19536 SPAGNA 181.9 23.8 584.1 76.2 766.0 39.62 19.3 14216 BELGIO 147.7 31.8 317.0 68.2 464.7 10.11 46.0 20852 FINLANDIA 44.8 15.0 254.5 85.0 299.3 5.11 58.6 17188 SVEZIA 27.6 9.9 250.5 90.1 278.1 8.78 31.7 18201 46.0 131.9 54.0 244.3 9.82 24.9 12841 PORTOGALLO 112.4 Fonti: Università di Limoges e World Bank Report (1996) Riforme e autoriforme La pressione congiunta di una burocrazia centrale identificabile con l'apparato dello sport di prestazione, ispirata alla sua filosofia e sottoposta alle sue ragioni politico-organizzative (si pensi alla questione dei criteri di distribuzione dei contributi dovuti agli enti), e di burocrazie locali spesso poco attrezzate culturalmente e professionalmente a interloquire in maniera non sporadica o clientelare con l'universo dell'associazionismo ha generato uno "svantaggio competitivo" che non può essere superato persistendo un quadro di garanzie, di gestione e di equilibri come quello attuale. L’esito concreto del regime centralistico che governa lo sport italiano è ben esemplificato dal valore statistico individuato dalla penultima colonna della tabella. L’Italia non è soltanto, dopo il Portogallo, il Paese in cui il sistema sportivo nel suo insieme è più dipendente dal centro. E’ anche la realtà nazionale in cui, dopo Spagna e Portogallo – Paesi il cui reddito pro capite è assai più lontano dal nostro di quanto il reddito pro capite italiano non sia da quello tedesco o francese (dove le istituzioni pubbliche spendono il doppio delle nostre per lo sport) -, le istituzioni investono meno per sostenere le attività agonistiche e fisico-motorie nel loro. E’ stupefacente come le oligarchie dell’ente olimpico italiano non riescano a comprendere il significato e la rilevanza di questi dati. Essi dimostrano, infatti, che dove il sistema sportivo è più esteso, dove maggiore è il numero degli attori organizzativi coinvolti, dove lo sport per tutti è riconosciuto come soggetto di pari dignità e le istituzioni ne riconoscono e incoraggiano la missione sociale, crescono anche le risorse per lo sport di alta prestazione. Neppure bisogna dimenticare come, in tempi non lontani e in presenza di un quadro politico critico (il governo Berlusconi e l'offensiva dell'estate '94 contro la presidenza Coni e gli enti di promozione) si fossero già levate anche in Italia le voci dei fautori del "tutto mercato", aggressive verso i privilegi di cui godrebbero le associazioni di massa e gli enti "politicizzati". Non è difficile prevedere che anche in futuro rivendicazioni indirizzate a contestare o limitare il regime normativo e fiscale dell'associazionismo torneranno a farsi sentire in sintonia con gli andamenti del ciclo politico. L'impasse della legge sul dilettantismo, ad esempio, può essere letta in molti modi, ma una convincente chiave di lettura rinvia all'azione di lobby che mal sopportano l'idea di un sistema associazionistico un po' più autonomo, meno controllabile, più tutelato nell'esercizio del suo mandato sociale. La risposta deve riguardare l’intero Terzo settore, non il solo sottosistema dell’associazionismo sportivo. E deve individuare alcuni punti d’attacco abbastanza precisi e interconnessi. Il primo riguarda una rappresentazione aggiornata della “società sportiva” italiana. Essa si è sviluppata rompendo gli argini dello sport istituzione e producendo una realtà sociale articolata, culturalmente pluralistica, spesso poco codificata. Occorre perciò pensare a una riforma dello sport che è cosa diversa, più ampia e più ambiziosa della ricostruzione – per quanto urgente e orientata a scelte di radicale discontinuità con il passato – dello sport istituzione. Quello che è davvero importante è disegnare un profilo del dopo-Coni che agevoli e non contrasti le dinamiche di innovazione già spontaneamente prodottesi nell’universo culturale delle pratiche fisico-motorie. In omaggio al politico-sindacalese, diremo che si tratta di “fissare paletti”: riconoscimento e legittimazione dell’associazionismo di sport per tutti, costruzione consensuale del nuovo regime di ripartizione delle risorse, superamento di un sistema in cui si sovrappongono controllori (la dirigenza Coni) e controllati (le federazioni di disciplina) e, soprattutto, effettiva democratizzazione. Un quadro normativo agile e aperto che contenga un obiettivo fondamentale, ma difficilmente riducibile alla pura ingegneria istituzionale: rinnovare, dilatare e riqualificare la classe dirigente dello sport italiano. Questo obiettivo strategico si colloca al di là dei limiti di una normativa. Richiede la mobilitazione di un vero e proprio sistema d’azione: i poteri locali, che devono essere messi in condizione di esercitare un mandato istituzionale orientato alle competenze loro attribuite (tutela sanitaria, promozione in senso proprio, attivazione di opportunità); la scuola, cui la dominanza del vecchio Coni ha tolto ruolo e autonomia e nella quale l’umanesimo del corpo e del movimento non si è mai davvero affermato, come dimostra la persistente marginalità dell’educazione fisica nell’asse formativo; il Terzo settore, che non può lasciare il suo avamposto quantitativamente più poderoso, l’associazionismo sportivo di base, a combattere una battaglia di innovazione e di legittimazione in una situazione di separatezza rispetto al movimento, esponendolo al rischio del velleitarismo o della regressione corporativa. La sociologia dell’organizzazione ci ha insegnato da molto tempo che un’istituzione che ha prodotto una cultura organizzativa autoreferenziale e routine burocratizzate non è in grado di autoriformarsi. La necessaria riforma dell’ente sportivo non va però scambiata per il prodotto di una frenesia iconoclasta: il patrimonio culturale e valoriale delle società sportive di base di qualunque natura non può essere disperso da nessuno, perché appartiene a tutti i soggetti storici del sistema sportivo. E’ tempo che essi si misurino con reciproca disponibilità all’ascolto e con pari dignità attorno alle coordinate strategiche da cui l’innovazione può prendere corpo. Ed è essenziale che si ragioni in quell’ottica della complessità che rende irriconoscibile l’attuale universo sportivo da quello individuato e regolato dalla normativa fascista del 1942. Nello sport della complessità opera un’area di mercato, che legittimamente si pone obiettivi di profitto e che assume gli utili finanziari come criterio di verifica di rendimento. Ma opera anche un tessuto esteso di attività profit di utenza che ha alla base della propria legittimazione la pura e semplice soddisfazione del cliente. Esiste poi una sfera di prestazione assoluta, che individua doverosamente il proprio ritorno nel risultato tecnico, empiricamente verificabile e conseguibile solo attraverso un’oculata e programmata politica di sostegno pubblico: è il sistema dello sport “olimpico” che contribuisce in maniera decisiva ai medaglieri dell’alta competizione. Ed esiste, last not least, una galassia di funzioni di integrazione, di socializzazione, di comunicazione sociale che raccogliamo nella formula di sport per tutti. Uno sport che vuole continuare ad assolvere anche compiti di collaborazione-supplenza rispetto allo sport di vertice, ma senza ridursi a compiti vivaistici. E’ questa identità composita e insieme nevralgica – la sola capace, del resto, di spiegare l’esplosione della pratica dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Novanta, pur in presenza di un vistoso calo della natalità e di una invasiva diffusione della cultura della sedentarietà televisiva e informatica – che chiede oggi ai poteri centrali e locali di essere inserita a piena titolo in un’ideale agenda delle nuove politiche della vita. O, se si preferisce, di essere accolta a pieno titolo nel perimetro descritto da inediti diritti di cittadinanza. Note 1 Porro N. (1998), The Fourth Citizenship. Sport for all in Western Europe, paper presentato al Congresso Internazionale ISA, Montréal, 26 luglio-1 agosto. 2 Marshall T.H. (1965), Social Policy in the Twentieth Century, Hutchinson, London. 3 Giddens A. (1990), The Consequences of Modernity, Polity Press, Cambridge (trad. it. Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994). 4 Ahrne G. (1994), Social Organizations. Interaction inside, outside and between organizations, Sage Publications, London. 5 O’Brien M. e S. Penna (1998), Theorising Welfare. Enlightenment and Modern Society, Sage Publications, London. 6 Un corollario importante del ragionamento è che il venir meno di questa opposizione come fondamento di tutte le possibili opzioni politiche e organizzative implica un sostanziale ridimensionamento dell'importanza nevralgica attribuita dalle letture tradizionali al ruolo dello Stato. 7 Eichberg H. (1989), Body Culture as Paradigm, in International Review for the Sociology of Sport, 24, 1, pp. 43-64. 8 Touraine A. (1998), Do Social Movements Exist?, paper presentato al Congresso Internazionale ISA, Montréal, 26 luglio-1 agosto. 9 Hirschman A.O. (1978), Exit, Voice, and Loyalty, Harvard University, Cambridge Mass. (trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982). 10 Ibsen B. (1996), Changes in local voluntary associations in Denmark, in Voluntas, 7, 2. 11 Di Maggio P. e W.W. Powell (1983), The Iron Cage Revisited: Institutional Isomorphism and Collective Rationality in Organizational Fieldds, in American Sociological Review, 48, April, pp. 147-160. 12 Zincone G. (1992), Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile, Il Mulino, Bologna.