Sport per tutti nella società
del nuovo welfare
di Nicola Porro
da Qualità Equità, rivista del welfare futuro, n. 13 - gennaio/marzo 1999
Nella costruzione di una società del welfare lo sport è un elemento fondamentale per la sua
capacità di integrazione interculturale.
Necessità di riformare gli enti di promozione decentrando le funzioni di governo e di
finanziamento della pratica sportiva.
Un umanesimo dello sport, capace di rispondere alle nuove sfide poste dall’estendersi del
concetto di cittadinanza.
La pratica associativa e la stessa cultura organizzativa dello sport per tutti costituiscono un
paradosso all’interno dell’arcipelago del Terzo settore. Parliamo, infatti, di un movimento che è
cresciuto impetuosamente a partire dalla metà degli anni Settanta sino a coinvolgere –
secondo alcune stime – venti o addirittura ventitré milioni di cittadini. Un movimento che, nella
sua componente organizzata in associazioni nazionali (i cosiddetti “enti di promozione
sportiva”), raccoglie almeno quattro milioni di affiliati. La sola UISP (Unione Italiana Sport Per
tutti), che contende al cattolico CSI (Centro Sportivo Italiano) il titolo di associazione nazionale
con il maggior numero di aderenti, conta un milione di iscritti e tredicimila società affiliate. Nel
loro insieme, le società che a vario titolo comprendono la pratica sportiva non professionistica
fra i propri fini statutari sono in Italia più di sessantaquattromila. Vale a dire i tre quarti del
tessuto associativo del cosiddetto Terzo settore. Eppure l’associazionismo sportivo volontario
sembra rappresentare una sorta di convitato di pietra del sistema non profit. Un gigante
taciturno e un po’ imbronciato, dotato di un debole potere di voice. Lo dimostra la stessa
normativa sulle Onlus, che ha innovato significativamente il quadro di riferimento legislativo
dell’associazionismo non profit, ma certo non ha beneficiato il volontariato sportivo,
consegnandolo agli incerti destini e ai tempi geologici della legge sul dilettantismo.
Probabilmente, a condizionare negativamente il rapporto fra sport e non profit – o meglio fra
associazionismo sportivo e sedi di rappresentanza del Terzo settore – vi sono cause molteplici,
meritevoli di una rapida disamina. Pesa sicuramente un fattore culturale: lo sport è percepito
ancora come un fenomeno che attiene alla sfera del tempo libero, dell’intrattenimento, del
loisir. L’attenzione che lo sport non profit rivolge a grandi tematiche sociali – l’integrazione
degli immigrati, la lotta al doping farmacologico e alle sue varianti non chimiche (la
specializzazione precoce, il campionismo esasperato), l’intervento nelle carceri, la
socializzazione della Terza età, l’offerta rivolta ai disabili, ecc. – viene scambiata per una
pratica meramente strumentale o per un’esperienza nobile, ma in qualche modo estrinseca
rispetto ai “veri” drammi collettivi. Così si continua a pensare all’intervento con i disabili come
attività riabilitativa di tipo fisico-motorio, ignorando la primaria funzione di socializzazione e
integrazione che l’attività sportiva può svolgere nelle situazioni di svantaggio. Analogamente,
non si riescono a percepire le potenzialità di un rapporto con le minoranze etnico-linguistiche
che valorizza il linguaggio universale del gesto e della corporeità, depotenziando un serio
fattore discriminante rappresentato dal diaframma linguistico. E ancora: portare lo sport nelle
carceri non significa soltanto “occupare il tempo” dei detenuti, bensì sperimentare sistemi di
regole, attivare circuiti di comunicazione esistenziale in contesti disertati o difficilmente
raggiungibili dalle tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia, scuola) o dalle istituzioni
giudiziarie. Né si coglie il valore di un’attività degli e per gli anziani che costituisce una
compiuta strategia attiva contro l’invecchiamento, un’alternativa psicologica e culturale alla
deriva ipocondriaca della condizione anziana.
Va aggiunto che forse, non paradossalmente, le stesse dimensioni demografiche, ma anche
economiche e occupazionali, del sistema sportivo incutono la percezione di una sorta di
separatezza, di autoreferenzialità. Un’ isola in cui si parlano linguaggi e si producono culture
tecniche vagamente iniziatiche, un universo dominato dalle filosofie della forza e della
competizione, dell’aggressività e della diseguaglianza (di risorse fisiche, di talento, di
opportunità). Qualcosa, insomma, di sostanzialmente estraneo o, comunque, di difficilmente
assimilabile al nocciolo solidaristico, comunitario, tendenzialmente egualitario dell’arcipelago
non profit. Senza cogliere, dialetticamente, l’ispirazione etica e pedagogica di attività che
consentono tassi molto differenziati di competitività, nonché il senso paradigmatico di
quell’universalismo delle regole che spesso viene calpestato da una cultura diffusa
dell’achievement, dell’affermazione a tutti i costi, che è parte della costituzione materiale della
società in senso lato. Una vera e propria rappresentazione del mondo non temperata da quella
filosofia del fair play e da quella percezione del limite che è invece propria dello sport di
prestazione relativa. Uno sport del limite e della regola, che, per inciso, combatte una battaglia
quotidiana con quella cultura del no limits da cui discendono tanto l’ipercampionismo, la
commercializzazione esasperata quanto, in ultima istanza, la stessa piaga del doping che sul
rifiuto del limite e sulla filosofia del risultato a tutti i costi ha costruito il proprio perverso
sistema di valori.
Pesa anche un dato istituzionale, che descrive un’anomalia tutta italiana: la sopravvivenza,
nella forma dell’ente Coni, di un massiccio e pervasivo sistema statalistico di governo,
regolazione e controllo dirigistico della pratica sportiva a qualsiasi livello. Un’esperienza che ha
nel tempo creato inique gerarchie di autorità, subordinando le associazioni di sport per tutti
alle federazioni agonistiche, orientate per definizione e per ragione statutaria al primato
dell’alta prestazione, comprimendo ruoli e funzioni dello sport amatoriale. E’ questo il profilo
della vecchia “promozione sportiva”, costretta a lungo a ritagliarsi spazi di sopravvivenza come
appendice del “grande sport” o mortificata da pratiche di scambio politico fra burocrazie
dell’ente pubblico e segmenti del sistema dei partiti.
Dal Welfare alle politiche della vita
Far uscire la riflessione sullo sport per tutti, finalmente inteso come un nuovo diritto di
cittadinanza, dalle secche di una discussione astratta quanto ritardataria impone perciò un
riorientamento concettuale del problema, che deve necessariamente collocarsi in un orizzonte
più ampio. La questione sportiva deve cioè essere finalmente tematizzata entro coordinate
politiche, economiche, culturali e sociali che ci consentano di passare da un approccio
economicistico e difensivo – quello, per intenderci, della risposta “strutturale” alla crisi del
Welfare State – a una rappresentazione più duttile e complessa, che ci conduca al cuore del
problema: il disegno della Welfare Society.
Da almeno una decina di anni - sotto la pressione congiunta della crisi fiscale degli Stati e
dell'offensiva neoliberista - si è preso coscienza della necessità di dilatare la riflessione
strategica dal tema del Welfare State, in tutte le sue possibile accezioni e varianti, a quella
della Welfare society. In concreto ciò ha innanzitutto significato: 1) innescare un dibattito di
ampia portata sulla divisione del lavoro fra Stato, mercato e "società civile" nelle cosiddette
società complesse e 2) assumere una visione meno angusta ed economicistica dello stesso
concetto di welfare.
Lo Stato sociale europeo, nato per garantire un minimo di sicurezza collettiva in relazione ai
bisogni sociali primari, e principalmente al diritto alla salute, è stato progressivamente
investito da inedite domande di cittadinanza e di integrazione. In questo senso ho parlato in
altre sedi di una "quarta stagione della cittadinanza" (1), che manifesta domande espressive e
culturali non meccanicamente riconducibili alle tradizionali sfere dei diritti politici, civili e
socieconomici descritti da T.H. Marshall nei primi anni Sessanta (2) in una chiave di lettura
suggestiva, ma viziata da una rappresentazione evoluzionistica della produzione dei diritti di
cittadinanza. Il tempo di vita e la sua qualità - quindi le politiche della vita individuate da
Giddens (3) - sono stati più o meno consapevolmente inseriti nell'agenda istituzionale. La
pratica sportiva si è sempre più esplicitamente configurata come parte costitutiva di un più
variegato panorama sociale. Entrambe queste dinamiche - quella che dilatava orizzonti e
contenuti del paesaggio sociale e quella che vi insediava a pieno titolo le culture e le pratiche
dello sport - si sono peraltro sviluppate, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, in un
contesto di crescente restrizione delle risorse pubbliche e di razionalizzazione-contrazione
delle prestazioni statali.
Occorre allora, in relazione al nostro argomento, tenere presenti due aspetti nevralgici.
Il primo riguarda la filosofia dello sport in quanto tale: una strategia attiva delle pari
opportunità, della salute, della prevenzione e dell'educazione che - molto al di là dei vincoli
istituzionali e delle prescrizioni formali - possiede un'ineguagliabile capacità di tradursi in
pratica sociale e in stili di vita individuali. Lo sport rappresenta insomma un possibile
paradigma della Welfare society, che solo in parte è riducibile alla tradizionale cultura del
Welfare State, inteso come sistema di garanzie, di diritti formalizzati, di prestazioni
istituzionali, di logiche amministrative. Lo sport interpreta e produce significati esistenziali così
ampi da poter essere modulati in infinite esperienze individuali e di gruppo. La pratica sportiva
può configurarsi come un autentico "bene pubblico" che incarna tutti i valori della Welfare
society.
Il secondo aspetto riguarda, invece, il come le infinite opportunità individuali in cui si traduce
concretamente la "promessa" dello sport per tutti siano promosse, esperite o depresse dai
suoi vettori organizzativi. Interrogarsi sulle politiche del finanziamento pubblico o sulle
strategie locali per l'impiantistica, sulla convivenza di interessi e pratiche organizzative
differenti, sui concreti e storicamente determinati modelli nazionali e sulle loro eredità
istituzionali, significa gettare un fascio di luce sulla natura, talvolta nascosta, della Welfare
society.
L'analisi del sistema sportivo è così allo stesso tempo un affascinante strumento di
comprensione di processi culturali latenti e una chiave di lettura - o, se si preferisce, una lente
di ingrandimento - orientata a svelare dinamiche politiche e istituzionali di amplissima portata.
Osservare l'interazione fra le varie organizzazioni che compongono il panorama sociale dello
sport e il suo "ambiente" consente di cogliere tanto la dimensione della vita quotidiana - cosa
l'esperienza sportiva significa per il cittadino, come orienta le sue preferenze, i suoi
comportamenti, la sua visione della realtà - quanto le tendenze al mutamento delle istituzioni,
degli interessi, delle regole del gioco che riguardano l'intera società.
Forse è opportuno precisare che in questo caso diamo del concetto di organizzazione una
rappresentazione un po' dilatata rispetto al senso comune, abbracciando quattro elementi
essenziali: una rete di appartenenza, l'esistenza di risorse collettive, un sistema di controlli e
un circuito di scambi.
Il benessere di tutti e quello di ognuno
Proviamo a porci dal punto di vista non del Welfare come sistema di relazioni, interazioni e
prestazioni a livello macro, bensì di come un'aspettativa di benessere, tutela e garanzia
permei la nostra personale e circoscritta esperienza di cittadini - quindi di utenti e finanziatori
- dello Stato sociale. Il personale "benessere" di ciascuno di noi è, in questa prospettiva, il
prodotto di una varietà di fattori che si identificano con attori molto diversi: strutture
pubbliche che dovrebbero garantirci servizi connessi a diritti di cittadinanza (alla salute,
all'istruzione, alla previdenza, ecc.); associazioni volontarie che operano a completare,
espandere, integrare o migliorare qualitativamente tali servizi e/o a soddisfare bisogni
soggettivi di comunicazione e riconoscimento; imprese commerciali che offrono a pagamento
prestazioni e opportunità legate alla ampia sfera del benessere individuale; amministrazioni
locali, che sviluppano politiche pubbliche di settore, per esempio promuovendo attività
sportive od offerte culturali che non rientrano nel raggio d'intervento delle istituzioni centrali;
circuiti composti dalla famiglia, dagli amici, da persone che condividono interessi o sensibilità
affini ai nostri.
E' in questa rete di interazioni e di occasioni che si produce il soggettivo stato di benessere di
ciascuno di noi entro lo Stato del benessere che, in una rappresentazione macrosociale in gran
parte superata, tutto comprende e tutto regola (5). La Welfare society comincia esattamente
qui per estendersi molto al di là del Welfare State tradizionalmente inteso.
In questa prospettiva non ci si può evidentemente confinare ancora nell'opposizione apodittica
fra sfera pubblica (dominata, anche se non integralmente, dallo Stato) e sfera privata più o
meno direttamente riferita al mercato (6).
Quello che dobbiamo sforzarci di analizzare con uno sguardo meno angusto sono allora tre
aspetti connessi che riguardano :
1) le differenze e le analogie delle diverse esperienze organizzative presenti nell'universo dello
sport in senso lato;
2) la concreta combinazione di forme organizzative e di interazioni sociali/individuali che nella
pratica sportiva si producono, individuando le traiettorie di mutamento visibili;
3) gli effetti di questa combinazione nella definizione di politiche orientate a quello che è stato
chiamato lo sport del Welfare (7).
Lo sport per tutti è l'espressione più compiuta, più culturalmente matura e insieme più
contraddittoria e magmatica dello sport del Welfare. Non è però la meccanica trasposizione
della filosofia sociale e della prassi politica del tradizionale Welfare State nell'ambito dello
sport. E' piuttosto il luogo sociale in cui lo sport si riconosce (e si fa riconoscere) come uno dei
cardini della Welfare society.
Nel nostro lessico pubblico lo sport per tutti potrebbe dunque essere immediatamente ubicato
nell'area della cosiddetta società civile. Una formula che è però non priva di ambiguità, di
eredità ideologiche e di significati usurati dalla polemica politica dell'ultimo decennio. Più
appropriato è il riferimento a grandi categorie socioeconomiche, caratterizzate da sistemi di
regolazione meno generici e controversi di quelli riferibili alla società civile: Terzo settore, non
profit, volontariato sociale.
Nella riflessione sociologica più recente, tuttavia, anche la linea di demarcazione fra Stato,
mercato e Terzo settore è stata messa in discussione. L'idea stessa di una connessione
autoevidente fra democrazia e un soggetto sociale diffuso, depositario di intrinseche virtù
collettive (la mitica "società civile", appunto) è in effetti per molti versi opinabile: nessuna
esperienza organizzata che operi al di fuori dello Stato e del mercato è, di per sé, libera da
vincoli e restrizioni. Solo se osserviamo la rete di relazioni che si sviluppa fra molteplici
organizzazioni non profit possiamo intravedere i confini, spesso labili e confusi, di un'area
sociale relativamente autonoma. In essa operano soggetti fra loro estremamente differenziati,
che combinano in maniera articolata le tre fondamentali caratteristiche dell'azione collettiva
individuate da Touraine (8): la tutela di interessi, la volontà di essere parte attiva nella
gestione del mutamento sociale, il rinnovamento e la trasformazione dei modelli culturali.
Nel concreto, è più che legittimo parlare di un sistema di welfare mix, che combina livelli e
forme organizzative molto compositi. Ma essenziale è tener presente il modello del triangolo
del welfare, inteso come una rappresentazione di razionalità e valori differenti che orientano
l'azione. Nel triangolo – i cui vertici sono rappresentati da Stato, mercato e comunità (nel
senso proprio della Gemeinschaft descritta da Tönnies) è possibile collocare spazialmente
movimenti e organizzazioni che, di volta in volta, saranno più esposti all'influenza dello Stato,
della comunità o del mercato, realizzando nella maggior parte dei casi forme di compromesso
fra le tre sfere.
A livello di astrazione, il triangolo riflette il ruolo e il peso dei diversi settori nella regolazione
complessiva della società. In termini immediati, ci offre una rappresentazione empirica della
capacità di ognuno dei settori di soddisfare determinate domande erogando servizi e
combinando risorse. Il sistema associazionistico nel suo insieme occupa un'area che sta
dentro il perimetro Stato-Mercato-Terzo settore senza però automaticamente e
completamente collocarsi nell'ambito di uno o dell'altro dei soggetti dominanti. Il nostro
immaginario triangolo, infatti, può essere a sua volta scomposto in quattro triangoli più
piccoli, disegnati in rapporto a tre convenzionali assi di intersezione: quello che
orizzontalmente separa pubblico e privato e quelli che, diagonalmente, distinguono profit e
non profit, da un lato, e comunità (rete di relazioni primarie) e società (sistema di relazioni
proprio di una società complessa), dall’altro. Potremo così localizzare:
a) un settore eminentemente pubblico, non profit e societario, in cui operano il sistema della
Pubblica Amministrazione, la scuola di Stato, il sistema sanitario nazionale, la maggior parte
delle istituzioni universitarie, le attività orientate all’assistenza, alla previdenza, al servizio
sociale gestite dalle istituzioni centrali o dai poteri locali;
b) un ambito rigorosamente di mercato, popolato da imprese, banche, compagnie
assicurative, aziende commerciali e anche cooperative operanti sul terreno profit. Questo
spazio sociale sta sul versante del profit, privato e societario ;
c) un settore informale, di natura privata, comunitaria e non profit, in cui agiscono strutture
familiari, reti di vicinato, gruppi amicali, aggregazioni locali di varia natura;
d) un’area topograficamente centrale nel disegno, perché appartenente alla sfera privata,
societaria e non profit, ma che è contigua a tutti e tre gli altri sottosistemi dai quali è più o
meno influenzata. Si collocano qui le istituzioni educative private, le organizzazioni non profit,
i club e le associazioni. E’ l’ambito dell’azione volontaria e dell’associazionismo strutturato.
I quattro ambiti presentano caratteri idealtipici e consentono di dislocare i vari soggetti
organizzati o di natura informale a maggiore o minore distanza dagli assi di riferimento
(pubblico/privato, profit/non profit, reti primarie/strutture societarie). Così, ad esempio, solo
le Forze armate, i corpi di Polizia e la burocrazia pubblica appartengono inequivocabilmente
all’area descritta nel punto a), mentre in quasi tutti i Paesi occidentali il sistema sanitario è
prevalentemente pubblico, ma con una presenza più o meno consistente di operatori privati
for profit. Viceversa, la rete pubblica del servizio sociale tende spesso a proiettarsi in una
dimensione comunitaria informale, incrociando pratiche di self help e di cura familiare, basate
su istanze solidaristiche ubicate nell’ambito delle reti sociali primarie (Gemeinschaft), ma non
di rado sostenute da contributi pubblici. Il sistema educativo, poi, è un esempio di istituzione
pubblica che non solo opera spesso per delega a soggetti privati, ma che sempre più si apre a
istanze e contributi del settore privato attraverso un regime di convenzioni, di fondazioni, di
incentivi di vario tipo.
Se ci spostiamo nello spazio occupato dal privato for profit di genere societario, è evidente che
la gran parte delle attività produttive di tipo industriale vi si collocano in maniera completa. In
molte realtà nazionali, però, malgrado le massicce privatizzazioni degli ultimi due decenni,
sopravvivono comparti produttivi e di servizio a esclusiva o prevalente partecipazione
pubblica. La produzione agricola, inoltre, gode di potenti sovvenzioni pubbliche (anche
sovranazionali, come nel caso delle “integrazioni” Ue) e contiene una non trascurabile
componente non profit, legata a sistemi di consumo familiari e comunitari.
Più in generale, le imprese private sono eminentemente regolate dal mercato e dai suoi
principi, ma in varia misura risentono delle regole dello Stato e delle sue burocrazie centrali o
locali, e incorporano logiche di tipo comunitario. Le organizzazioni pubbliche sono ispirate allo
Stato, ma subiscono influenze degli altri sottosistemi. Le famiglie, i circuiti di vicinato, le reti
amicali sono orientate in larga misura, ma non esclusivamente, alla comunità (per esempio lo
Stato regola legalmente il matrimonio e mille altre forme di relazioni sociali primarie).
Le organizzazioni volontarie
Le organizzazioni volontarie si collocano in uno spazio che non è riducibile a nessuno dei tre
classici regimi sociali. La loro natura privata le differenzia dallo Stato, il carattere non profit le
distingue dal mercato. Il fatto di possedere una struttura formale e di avere obiettivi
programmatici impedisce peraltro di assimilarle troppo disinvoltamente anche alle comunità di
tipo primario, come le famiglie o i gruppi di amici. Si spiega così come queste organizzazioni si
collochino in maniera molto differenziata a diversa distanza da ciascuna delle tre polarità.
L'associazionismo sportivo è un caso addirittura esemplare di questa convivenza di forme e
profili sociali, senza che sia possibile tracciare linee di demarcazione molto nitide e persistenti
nel tempo. La fluidità, complessità e variabilità (differenziazione sociale) delle associazioni è
un tratto essenziale per comprenderne il ruolo e le peculiarità. La variegata galassia delle
associazioni volontarie costituisce, insomma, un settore distinto da quello privato - ispirato
alla razionalità economica del mercato e dei suoi meccanismi più o meno "spontanei" di
regolazione (interesse, profitto, responsabilità individuale, utilitarismo) - come da quello
pubblico, che è retto da logiche di azione politica e da obbligazioni che richiedono un certo
grado di controllo, di legittimazione e di potere sanzionatorio, pur evocando una moralità
collettiva e solidaristica. Anche la comunità opera con proprie logiche di azione: essenziali
sono il legame fra i suoi membri, l'autonomia del gruppo, la responsabilità reciproca, la difesa
di bisogni e interessi immediati, l'esistenza di legami di reciprocità e di approvazione.
Il settore volontario combina invece logiche e razionalità proprie di tutti e tre gli altri sistemi.
Come le imprese for profit e il settore pubblico presenta obiettivi definiti e regole formali. In
comune con l'ambito for profit e il settore informale (comunità) ha natura privata e autonomia
legale rispetto alla sfera pubblica. Del settore pubblico e della comunità condivide il carattere
non profit, princìpi non distributivi e finalità collettive. Etica collettiva (non necessariamente di
tipo solidaristico) e azione volontaria ne costituiscono i tratti distintivi.
La vasta area culturale e sociale dello sport, cresciuta a partire dai primi anni Settanta sulla
base di una domanda diffusa nelle società complesse di riappropriazione della corporeità, di
ricerca del benessere, di prevenzione sanitaria e di risposta – individuale e collettiva – alla
routinizzazione del quotidiano, si disloca prevalentemente, sul piano tipologico, entro i confini
dell’azione volontaria (privato societario non profit). Essa incorpora però esperienze profit - si
pensi ai club professionistici del calcio, la cui costituzione in spa segna anche in Italia un vero
passaggio d’epoca rispetto al modello tradizionale dell’associazionismo sportivo volontario –
ed esperienze a basso tasso di strutturazione (attività informali, fitness, turismo sportivo,
pratiche non competitive open air, ecc.) o chiaramente dislocate in territori di confine dove lo
sport acquista una fisionomia strumentale in relazione a domande di socialità e di integrazione
comunitaria, ovvero in rapporto a bisogni personali (la riabilitazione psicomotoria) o a
esigenze codificate in un circuito di relazioni formali (è il caso del reclutamento agonistico in
senso stretto a beneficio dello sport di alto livello).
Se dunque le associazioni di sport per tutti, le piccole società e le attività specializzate rivolte
a soci-utenti (anziani, disabili, ecc.) sono sicuramente insediate nello spazio dell’azione
volontaria, un dato saliente è rappresentato un po’ in tutta l’Europa continentale degli anni
Novanta dalla crescita speculare dell’intervento pubblico, da un lato, e del profit, dall’altro. I
centri privati di fitness, l’arcipelago delle scuole di danza o di ginnastiche dolci, i club
professionistici rappresentano il consolidamento di un’area profit in costante espansione.
Viceversa, la tematizzazione dello sport come strategia di integrazione sociale ha indotto in
molte realtà nazionali, Italia compresa, un’iniziativa dei poteri pubblici rivolta allo sport
scolastico, alla salute, alla gestione di impianti a fini sociali. Sul versante comunitario, la
crescita dei gruppi amatoriali per pratiche a basso tasso di competitività (dal jogging al
trekking all’equitazione di campagna alla rivisitazione dell’alpinismo e dell’escursionismo e
quant’altro) costituisce un fenomeno imponente e di grande interesse sociologico. In breve,
l’espansione quantitativa della pratica ha indotto insieme diversificazione dell’offerta e
moltiplicazione degli attori sociali ed economici coinvolti. Un processo che ha interessato, in
forme non omogenee e con diversa scansione temporale, ma con esiti non dissimili, tutte le
principali realtà nazionali dell’Occidente europeo.
Quello che distingue l’Italia dalla maggior parte delle altre esperienze nazionali è però, da un
lato, la dominanza e la pervasività di un settore pubblico che non appartiene giuridicamente
alla sfera dello Stato, pur surrogandone in larghissima misura poteri e funzioni e, dall'altro, un
singolarmente affollato panorama di associazioni sportive volontarie operanti sul territorio
nazionale.
Il Coni è un'agenzia semipubblica che possiede responsabilità, risorse e compiti di controllo
sull'intera rete di molto superiori a quelle riconosciute in altri contesti nazionali agli stessi
ministeri. Gli "enti di promozione", a loro volta, vivono una condizione di transizione. Nati
come espressione di una cultura del collateralismo politico e religioso, che riproduceva anche
nello sport i compiti di supplenza istituzionale esercitati dai partiti e dalla Chiesa, essi hanno a
lungo incorporato un’identità subalterna rispetto all’ente sportivo “ufficiale”, accontentandosi –
nomina sunt consequentia rerum – del ruolo di pura e semplice “promozione” per la pratica
agonistica di alto livello. Questa rappresentazione vivaistica dello sport per tutto è superata di
fatto da non pochi anni e sopravvive come funzione primaria soltanto nelle realtà
organizzative più povere e tradizionali. Gli enti maggiori, più socialmente rappresentativi,
culturalmente più attrezzati e a contatto con il grande movimento nordeuropeo dello sport per
tutti, hanno da tempo maturato una identità in larga misura emancipata dai vincoli di
sudditanza e dalla divisione del lavoro loro imposta dal regime di scambio politico fra
burocrazie Coni e partiti della Prima repubblica. Da quasi un decennio, ad esempio, l’UISP ha
operato pubblicamente la propria svolta identitaria e simbolica, trasformandosi da “ente di
promozione” ad “associazione di sport per tutti”, rinunciando alla anacronistica dizione di sport
“popolare” e rivendicando una marcata autonomia politico-organizzativa dalle originarie forze
sociali di riferimento. In forme peculiari, proprie di una diversa tradizione associativa, anche le
maggiori organizzazioni sportive del mondo cattolico hanno maturato significative
trasformazioni del paradigma originario.
E’ perciò comprensibile e persino doveroso che il movimento dello sport per tutti rivendichi
oggi anche in Italia – come è già avvenuto in gran parte delle realtà nazionali più avanzate sul
terreno della sportivizzazione diffusa -, attraverso la necessaria innovazione istituzionale, il
riconoscimento e la legittimazione dell’innovazione culturale che esso ha già contribuito a
produrre. Innovazione che non può limitarsi a ridisegnare competenze e poteri dei differenti
soggetti già operanti nel circuito dell’ente olimpico, ma che deve investire l’intero, più vasto
sistema sportivo nazionale. Così, la rabbiosa difesa delle proprie prerogative “storiche” che è
venuta da buona parte delle federazioni agonistiche del Coni non appena l’iter dell’innovazione
normativa si è concretamente avviato, a seguito da quel caso esemplare di choc esogeno
rappresentato dalla vicenda doping, costituisce il più limpido ed eloquente argomento a favore
di una radicale riforma del sistema. Quella reazione rivela infatti la totale autoreferenzialità
dell’ente e dei suoi organismi dirigenti e segnala l’esistenza di un potere di interdizione basato
su logiche di tutela corporativa, facilmente prevedibili se si pensa che il Comitato olimpico
italiano costituisce di gran lunga la più pesante e costosa “macchina sportiva” esistente al
mondo. L’arroccamento corporativo della leadership fornisce, del resto, la prova più evidente
dell’incapacità di questa, abituata per decenni ad autolegittimarsi in un regime di
extraterritorialità – interrotto da qualche incursione giudiziaria e rinforzato da un rapporto
sistematico di scambio politico (quello che ha portato alla presidenza di prestigiose federazioni
agonistiche esponenti non di secondo piano dei partiti) – di intercettare con sensibilità nuove e
più flessibili la domanda sociale che allo sport si è venuta indirizzando negli ultimi trent’anni
del secolo. Il fatto stesso che ancora spetti al Coni il potere di riconoscimento (legittimazione)
degli enti-associazioni e che le risorse finanziarie delsistema siano amministrate con relativi
margini di discrezionalità dalla stessa struttura semipubblica è sintomatico di una situazione di
insostenibile, e forse persino illegittima, appropriazione di poteri.
In altre parole: a fronte di un'istituzione che si attribuisce, e concretamente esercita, funzioni
decisive di regolazione dell'intero sistema - e che concentra nelle proprie mani tutte, o quasi
tutte, le risorse finanziarie, simboliche e organizzative del sistema sportivo nazionale -, lo
sport per tutti chiede un seppur tardivo riconoscimento di pari dignità con le federazioni di alta
prestazione, un sostanziale riequilibrio delle risorse e un regime di autogoverno che acceleri
anche la ricomposizione di un movimento ancora disaggregato lungo linee di frattura
ideologiche o confessionali assolutamente anacronistiche.
Questa dinamica di emancipazione ha conosciuto, come si è accennato, un’accelerazione alla
fine del 1998, quando lo scandalo doping, le dimissioni del Presidente del Coni Mario Pescante,
la profonda crisi di legittimità che avevano investito l’intera leadership dell’ente e i suoi metodi
di gestione, peraltro perfettamente coerenti con un impianto normativo vecchio di quasi
sessant’anni (la legge istitutiva del Coni risale al 1942), hanno messo in moto quel progetto di
riforma sempre annunciato e mai effettivamente perseguito in precedenza dai gruppi dirigenti
dell’ente e dagli stessi organi politici vigilanti.
Lo scandalo doping, del resto, si è ben presto rivelato soltanto la punta di un iceberg. Il
fenomeno purtroppo non riguarda esclusivamente lo sport campionistico, che dispone pur
sempre di forme di assistenza tecnico-professionale negate all’universo dei generici praticanti,
bensì interessa un oscuro quanto esteso sottobosco di esperienze “informali”, sottratte a ogni
seria possibilità di controllo e insediate nell’ambito dell’agonismo amatoriale e persino di
numerose forme di attività non competitive.
Un panorama inquietante che rivela le difficoltà obiettive del sistema politico e delle agenzie di
settore (Coni e non solo) a regolare in maniera organica ed efficace il sistema. Basti al
riguardo il confronto con la vicina Francia, dove le traumatiche vicende del Tour 1998 hanno
aperto la strada a una legge dello Stato severissima, entrata in vigore già nel novembre dello
stesso anno.
Su un altro versante, le tentazioni secessionistiche del grande sport commercializzato non
sono più coperte intenzioni di qualche oligarchia affaristica, bensì un pubblico e conclamato
processo di trasformazione-demolizione dei capisaldi del vecchio sistema. La Superlega
calcistica europea trova persino uno straccio di legittimazione simbolica disegnando un nuovo
contenitore continentale e ponendosi come risposta a una domanda di intrattenimento
popolare indiscutibilmente esistente e diffusa.
Non solo: studi recenti e autorevoli segnalano nei Paesi guida dell'esperienza dello sport per
tutti (Scandinavia, Germania, Gran Bretagna, Benelux, Francia e Svizzera, soprattutto) una
perdita di velocità crescente delle capacità attrattive del sottosistema. Nelle realtà più evolute
si è da quasi dieci anni esaurita la spinta propulsiva dell'allargamento della cittadinanza
sportiva fra le donne, gli anziani, la prima infanzia, i disabili. Il progressivo prevalere delle
logiche di puro mercato, anche in Paesi di solidissime tradizioni di Welfare, sta relegando ai
margini del sottosistema le sue opportunità di integrazione sociale (immigrati, soggetti deboli,
la massa in espansione dei disoccupati).
Si tratta solo di effetti di saturazione, prevedibili in situazioni molto mature e potenziati dalle
restrizioni finanziarie delle erogazioni pubbliche?
Oppure il paradigma stesso dello sport per tutti, quale si era delineato a partire dal Nord
Europa già negli anni Settanta, ha bisogno di un ripensamento ideale, strategico e
organizzativo, connesso e conseguente alla più ampia riflessione sui nuovi confini della
Welfare society?
I nuovi confini del welfare nello scenario internazionale
La complessa, anomala e contraddittoria realtà italiana - caratterizzata dall'esistenza di un
"regime sportivo" non formalmente statale ma potentemente direttivo e regolativo, da una
pletora di soggetti associativi disegnati sul profilo di obsolete configurazioni politico-culturali,
da un'area estesissima di pratica spontanea, che manifesta allo stesso tempo l'esistenza di
una persistente diffusa domanda sociale e l'insoddisfazione per l'offerta organizzativa
proveniente dallo sport "ufficiale” - costituisce una reale situazione laboratorio per
sperimentare l’innovazione istituzionale. E’ forse utile, allora, concentrare brevemente
l’attenzione su alcuni punti critici che derivano da una ricognizione internazionale sul
fenomeno dello sport per tutti e dei suoi scenari.
1) La perdita di attrattiva delle esperienze associazionistiche nelle realtà nazionali più mature
non discende dall'affermarsi di logiche di utilità individuale. Il free rider sportivo, il giocatore
opportunista che calcola sempre razionalmente i rischi del gioco e aspetta che l'azione altrui
produca benefici per sé, non esiste. Anzi: ricerche condotte in Paesi come il Belgio dimostrano
che i soggetti più culturalmente emancipati e liberi da vincoli di appartenenza tradizionali sono
anche i più disponibili a operare entro sistemi di azione che garantiscano servizi, opportunità,
ma anche innovazione culturale e diritti. Il nodo sta quindi nella qualità dell'offerta
associativa. Come aveva intuito Hirschman (9), in polemica con il modello analitico di Olson,
sembra proprio che anche nell’universo dello sport la soddisfazione dell’attore si produca più
in relazione all’impegno motivazionale profuso che non al beneficio conseguito in una pura
logica di costi e ricavi.
2) Il mutamento rapido degli stili di vita e il loro differenziarsi in alcune modalità ricorrenti (il
lavoratore autonomo, il dipendente, i professionisti in carriera) segnala un fatto di grande
rilevanza: esiste una domanda di pratica sportiva che è strettamente connessa alla
dimensione della vita quotidiana, che tende a "inglobarsi" in un'esperienza esistenziale ricca e
flessibile. Siamo agli antipodi, come si vede, dal paradigma dello sport popolare come cultura
antagonistica e/o residuale rispetto allo sport di prestazione assoluta e questo conferma le
potenzialità di un'offerta capace di intercettare nuove sensibilità (gli sport open air, le pratiche
a basso tasso di competitività, la cultura della motricità per gli anziani, le suggestioni
ambientalistiche, il turismo sportivo) e di soddisfare bisogni inediti. Questo significa anche
individuare un territorio di azione organizzativa che è peculiare dello sport per tutti e a misura
di ciascuno, senza confliggere con le ragioni e le esperienze del circuito dell'alta prestazione. E
significa anche affermare la problematica dello sport per tutti come componente cruciale dei
movimenti culturali.
3) Lo sport per tutti non è però solo un produttore di innovazione potenziale e un erogatore,
più o meno qualificato ed efficiente, di servizi. E' anche un soggetto collettivo che rivendica un
ruolo decisionale effettivo, autonomo e democratico nel sistema sportivo e in tutte le sue aree
di confine. Pone perciò un problema di autonomia, responsabilità e risorse che deve aiutare lo
sviluppo di un processo concreto di ricomposizione e legittimazione del panorama
associazionistico, affrancato dalla condizione subalterna propria dei vecchi enti di promozione.
4) Spostando il punto d'osservazione dagli individui e dagli stili di vita all'offerta associativa, le
esperienze internazionali mature ci segnalano evidenze altrettanto interessanti. In Danimarca,
ma anche in altri Paesi nord-europei, si segnala un fenomeno di crescente abbandono della
pratica organizzata nei club di praticanti, che - fatte le opportune distinzioni – rappresentano
forme associative più avvicinabili ai circoli e alle società di base delle associazioni di sport per
tutti italiane o francesi. Questo dato è in apparente contraddizione con la domanda di
associazionismo flessibile che i sismografi della ricerca segnalano a livello delle propensioni
individuali. Le spiegazioni fornite sin qui (10) vertono:
a) sull'inadeguatezza dell'offerta concreta da parte dei club, che avrebbe consegnato al
mercato e alle istituzioni (Stato, scuola, autonomie locali) settori di utenza molto ampi,
provocandone una diversificazione interna: al mercato le quote di popolazione più abbiente,
alle istituzioni i soggetti sociali meno favoriti. Di fatto, ai club è rimasto un segmento di
attività molto ristretto, dai giochi di squadra più popolari alle discipline olimpiche povere. Lo
stesso ambito di mercato si è fortemente diversificato in relazione alla domanda. Indagini
motivazionali hanno messo in luce una netta divaricazione fra praticanti associativi e utenti del
mercato: da un lato inclinazioni alla competizione, alla socialità e all'idea di sport valore,
dall'altro orientamento al benessere, alla salute e a una visione strumentale delle pratiche.
b) Sulle fortune dello sport specializzato e di fitness (mercato) come effetto delle accresciute
disponibilità economiche delle famiglie, che sarebbero oggi meno allettate da un'offerta
tecnica meno qualificata, seppure a costi più bassi, avanzata dallo sport per tutti
associazionistico.
c) Sull'espansione dello sport nei luoghi di lavoro, sempre più sostenuto finanziariamente dalle
imprese che hanno cominciato a percepirne l'utilità come "bene meritorio". Nelle aziende che
promuovono attività sportiva o motoria è statisticamente dimostrata una contrazione su base
annua delle ore perse per malattia e infortuni e una crescita di produttività per addetto.. E’ in
questa ottica che anche in Italia si è sviluppata una forma peculiare di sport aziendale, nel
nostro caso di diretta emanazione confindustriale, come lo CSAIN.
Un po' ovunque, inoltre, le istituzioni, soprattutto quelle locali, hanno potenziato l'intervento
nelle attività rivolte agli anziani, ai disabili, alla popolazione marginale, agli immigrati, spesso
"fagocitando" l'esperienza dei club a livello locale e attivando formule amministrative di
cooperazione basate su strategie di contracting out. Si sono infine trasformate le modalità di
offerta e di gestione delle attività. L'introduzione delle "carte" che consentono di pre-pagare
servizi senza vincolare gli utenti di fitness, aerobica, attività di palestra, ecc. a orari e giornate
prestabiliti ha in parte depotenziato il ruolo "integrativo" dei circoli e dei club, che in molti casi
si sono adeguati alla domanda modificando essi stessi le proprie strategie commerciali.
5) Dilatando queste osservazioni, il mutamento nell'offerta organizzativa su larga scala può
essere interpretato meccanicisticamente come un processo di selezione "darwiniana" di
esperienze più adeguate in relazione ai cambiamenti ambientali e al prodursi di nuove culture
e differenti pratiche sportive. Questa ipotesi indurrebbe a prevedere, ad esempio,
l’esaurimento in tempi non lunghi di tutte quelle discipline che non godono di una felice resa
televisiva e, allo stesso tempo, una decisa prevalenza dell’offerta commerciale rispetto ai
tradizionali moduli della pratica associativa. Il successo dei grandi fitness centres nel Nord
Europa, ma in misura crescente anche nell’Europa latina, potrebbe indicare una significativa
linea di tendenza entro uno scenario in rapido cambiamento.
E’ però anche possibile un’interpretazione in termini di risposta di adattamento a sfide
esogene (ipotesi isomorfica), per cui più forte è la competizione per le risorse, più rapido è il
processo di adeguamento ai modelli ritenuti vincenti (isomorfismo competitivo). In questo
modo, ragionando per astrazioni, se venissero meno i finanziamenti pubblici allo sport –
d’altronde sempre più stentatamente e precariamente garantiti dai concorsi pronostici –
dovremmo aspettarci una repentina polarizzazione fra un paradigma commerciale e
spettacolare (sul modello dei club di calcio professionistici trasformati in spa) e un sistema di
pratiche autogestite entro reti associative fondate sulla categoria di volontariato sociale
(movimento dello sport per tutti). A fare le spese di questa polarizzazione del sistema sarebbe
la costellazione dello sport olimpico non sostenuto dalle sponsorizzazioni e dai diritti televisivi,
ma neppure omogeneo al paradigma dello sport per tutti.
L’ipotesi isomorfica più applicarsi perfettamente alla sfera politica e istituzionale, dove si
compete principalmente per il potere decisionale e la legittimazione. Qui non esistono criteri
omogenei per definire modelli "razionali" di azione e trasformazione (11). Mancando la
possibilità di operare contabilmente un calcolo costi-ricavi, a differenza dei regimi d’impresa,
l’esistenza di vincoli normativi condivisi dovrebbe favorire una contaminazione di paradigmi
strutturali e di culture organizzative allo stato distinti e tendenzialmente conflittuali. Le
strutture associative costrette a coabitare in un sistema di interdipendenze dovrebbero
tendere ad assomigliarsi molto di più che non in assenza di regole e riferimenti istituzionali
(isomorfismo istituzionale). Nel caso italiano, isomorfismo istituzionale significherebbe un
“nuovo Coni” che, avendo rinegoziato ruoli, funzioni e risorse fra i diversi attori del sistema,
produce progressivamente un nuovo sistema di società di base, leadership pluralistiche,
ibridazione di sensibilità e di strategie fra sport d’alta prestazione e sport per tutti.
6) Sullo sfondo operano dinamiche ad ampio raggio che esorbitano dallo specifico sportivo,
ma che lo condizionano potentemente. Per isolare alcuni aspetti nevralgici:
a) gli ultimi venti anni hanno segnato la ripresa e la ridefinizione di un'ideologia
antikeynesiana del “tutto mercato”, che ha investito opinione pubblica e sfera politica molto al
di là dei successi elettorali (spesso effimeri) del neoliberismo in tutte le sue varianti. La crisi
fiscale dello Stato, del resto, ha indotto anche le sinistre politiche al potere a favorire una
contrazione controllata del settore dell'intervento pubblico in economia e a elaborare strategie
di maggiore attenzione ai bisogni e alle domande del cittadino non organizzato (12). Di qui
una crescente differenziazione nell'offerta di servizi (salute, istruzione) e una massiccia
penetrazione del mercato e dei suoi strumenti (si pensi soltanto al boom delle assicurazioni
personalizzate) che ha interessato anche settori tradizionali del Welfare previdenziale e
sanitario.
b) Malgrado ciò, le resistenze ai tentativi di drastico ridimensionamento del Welfare State
sono state forti e spesso coronate da successo sia dove lo Stato godeva di maggiore
legittimazione sociale sia dove, come in Italia, veniva comunque percepito come un garante
dei diritti minimi dei cittadini. Il fatto che la nascita dell’euro (gennaio 1999) sia tenuta a
battesimo da dieci governi di ispirazione progressista sugli undici interessati al varo della
moneta unica costituisce qualcosa di molto più significativo di un puro dato simbolico o di una
curiosità politologica. Si è prefigurata, insomma, una soglia di non ritorno rispetto a un regime
di tutela sociale che rende improbabile uno smantellamento del Welfare e, insieme, urgente e
necessaria, una sua riforma strutturale.
c) Contro alcune teorie economiche, la persistenza di un ampio settore pubblico non ha
marginalizzato o rese subalterne le esperienze del settore non profit. Anzi: l'associazionismo
non profit è spesso più sviluppato e legittimato dove lo Stato sociale è più esteso ed efficiente.
Anche in Italia gli anni Novanta hanno fatto registrare una crescita di ruolo e di influenza,
oltre che di adesioni, al Terzo settore latamente inteso. Le pur controverse misure legislative
introdotte (legge sulle Onlus) e l'espansione delle esperienze di cooperazione fra settore
pubblico e aree del volontariato non sono il prodotto congiunturale di una stagione politica,
bensì l'onda lunga di un processo anticipato in molti Paesi industriali maturi.
7) Se ci sforziamo di verificare queste dinamiche macro entro processi di ridefinizione dei
rapporti statali centro-periferia – quali che siano i destini della riforma federalistica delle
istituzioni – il sistema sportivo offre utili elementi di riflessione. Gli aspetti strutturali più
distintivi del "caso italiano" consistono (a) nella forte e persistente propensione alla spesa per
attività fisico-motorie da parte delle famiglie; (b) in una quota di finanziamento pubblico non
molto lontana da quella di altri Paesi europei, la quale però (c) risulta assai più concentrata
nelle erogazioni dal centro (tramite la longa manus del Coni, gestore dei concorsi pronostici, e
delle federazioni agonistiche) che negli interventi della periferia (autonomie locali). In Italia il
42.8% dei contributi pubblici viene dal Centro e il 57.2 dal sistema delle autonomie, in
Germania il 2% dal centro e il 98 dalla "periferia". Nella Ue solo il Portogallo presenta un
esempio di gestione delle risorse finanziarie pubbliche più centralizzato dell'Italia (vedi tab. 1).
Tabella 1. Il sostegno pubblico alle attività sportive in nove Paesi Ue (1996).
Dallo Stato
%
(milioni $)
Dai poteri
locali
(milioni $)
%
Totale
Popolaz.
(milioni $) (milioni $)
A
B
A:B PNL pro
($) capite ($)
GERMANIA
70.5
2.0 3392.9
98.0 3463.4
81.59
42.4 20370
FRANCIA
784.1
23.5 2549.7
76.5 3333.8
57.98
57.5 19955
G. BRETAGNA 77.7
5.0 1462.8
95.0 1540.5
58.26
26.4 18360
ITALIA
627.1
42.8 836.3
57.2 1463.4
57.19
25.6 19536
SPAGNA
181.9
23.8 584.1
76.2 766.0
39.62
19.3 14216
BELGIO
147.7
31.8 317.0
68.2 464.7
10.11
46.0 20852
FINLANDIA
44.8
15.0 254.5
85.0 299.3
5.11
58.6 17188
SVEZIA
27.6
9.9 250.5
90.1 278.1
8.78
31.7 18201
46.0 131.9
54.0 244.3
9.82
24.9 12841
PORTOGALLO 112.4
Fonti: Università di Limoges e World Bank Report (1996)
Riforme e autoriforme
La pressione congiunta di una burocrazia centrale identificabile con l'apparato dello sport di
prestazione, ispirata alla sua filosofia e sottoposta alle sue ragioni politico-organizzative (si
pensi alla questione dei criteri di distribuzione dei contributi dovuti agli enti), e di burocrazie
locali spesso poco attrezzate culturalmente e professionalmente a interloquire in maniera non
sporadica o clientelare con l'universo dell'associazionismo ha generato uno "svantaggio
competitivo" che non può essere superato persistendo un quadro di garanzie, di gestione e di
equilibri come quello attuale. L’esito concreto del regime centralistico che governa lo sport
italiano è ben esemplificato dal valore statistico individuato dalla penultima colonna della
tabella. L’Italia non è soltanto, dopo il Portogallo, il Paese in cui il sistema sportivo nel suo
insieme è più dipendente dal centro. E’ anche la realtà nazionale in cui, dopo Spagna e
Portogallo – Paesi il cui reddito pro capite è assai più lontano dal nostro di quanto il reddito pro
capite italiano non sia da quello tedesco o francese (dove le istituzioni pubbliche spendono il
doppio delle nostre per lo sport) -, le istituzioni investono meno per sostenere le attività
agonistiche e fisico-motorie nel loro. E’ stupefacente come le oligarchie dell’ente olimpico
italiano non riescano a comprendere il significato e la rilevanza di questi dati.
Essi dimostrano, infatti, che dove il sistema sportivo è più esteso, dove maggiore è il numero
degli attori organizzativi coinvolti, dove lo sport per tutti è riconosciuto come soggetto di pari
dignità e le istituzioni ne riconoscono e incoraggiano la missione sociale, crescono anche le
risorse per lo sport di alta prestazione.
Neppure bisogna dimenticare come, in tempi non lontani e in presenza di un quadro politico
critico (il governo Berlusconi e l'offensiva dell'estate '94 contro la presidenza Coni e gli enti di
promozione) si fossero già levate anche in Italia le voci dei fautori del "tutto mercato",
aggressive verso i privilegi di cui godrebbero le associazioni di massa e gli enti "politicizzati".
Non è difficile prevedere che anche in futuro rivendicazioni indirizzate a contestare o limitare il
regime normativo e fiscale dell'associazionismo torneranno a farsi sentire in sintonia con gli
andamenti del ciclo politico. L'impasse della legge sul dilettantismo, ad esempio, può essere
letta in molti modi, ma una convincente chiave di lettura rinvia all'azione di lobby che mal
sopportano l'idea di un sistema associazionistico un po' più autonomo, meno controllabile, più
tutelato nell'esercizio del suo mandato sociale.
La risposta deve riguardare l’intero Terzo settore, non il solo sottosistema dell’associazionismo
sportivo. E deve individuare alcuni punti d’attacco abbastanza precisi e interconnessi.
Il primo riguarda una rappresentazione aggiornata della “società sportiva” italiana. Essa si è
sviluppata rompendo gli argini dello sport istituzione e producendo una realtà sociale
articolata, culturalmente pluralistica, spesso poco codificata. Occorre perciò pensare a una
riforma dello sport che è cosa diversa, più ampia e più ambiziosa della ricostruzione – per
quanto urgente e orientata a scelte di radicale discontinuità con il passato – dello sport
istituzione. Quello che è davvero importante è disegnare un profilo del dopo-Coni che agevoli e
non contrasti le dinamiche di innovazione già spontaneamente prodottesi nell’universo
culturale delle pratiche fisico-motorie. In omaggio al politico-sindacalese, diremo che si tratta
di “fissare paletti”: riconoscimento e legittimazione dell’associazionismo di sport per tutti,
costruzione consensuale del nuovo regime di ripartizione delle risorse, superamento di un
sistema in cui si sovrappongono controllori (la dirigenza Coni) e controllati (le federazioni di
disciplina) e, soprattutto, effettiva democratizzazione. Un quadro normativo agile e aperto che
contenga un obiettivo fondamentale, ma difficilmente riducibile alla pura ingegneria
istituzionale: rinnovare, dilatare e riqualificare la classe dirigente dello sport italiano.
Questo obiettivo strategico si colloca al di là dei limiti di una normativa. Richiede la
mobilitazione di un vero e proprio sistema d’azione: i poteri locali, che devono essere messi in
condizione di esercitare un mandato istituzionale orientato alle competenze loro attribuite
(tutela sanitaria, promozione in senso proprio, attivazione di opportunità); la scuola, cui la
dominanza del vecchio Coni ha tolto ruolo e autonomia e nella quale l’umanesimo del corpo e
del movimento non si è mai davvero affermato, come dimostra la persistente marginalità
dell’educazione fisica nell’asse formativo; il Terzo settore, che non può lasciare il suo
avamposto quantitativamente più poderoso, l’associazionismo sportivo di base, a combattere
una battaglia di innovazione e di legittimazione in una situazione di separatezza rispetto al
movimento, esponendolo al rischio del velleitarismo o della regressione corporativa.
La sociologia dell’organizzazione ci ha insegnato da molto tempo che un’istituzione che ha
prodotto una cultura organizzativa autoreferenziale e routine burocratizzate non è in grado di
autoriformarsi. La necessaria riforma dell’ente sportivo non va però scambiata per il prodotto
di una frenesia iconoclasta: il patrimonio culturale e valoriale delle società sportive di base di
qualunque natura non può essere disperso da nessuno, perché appartiene a tutti i soggetti
storici del sistema sportivo. E’ tempo che essi si misurino con reciproca disponibilità all’ascolto
e con pari dignità attorno alle coordinate strategiche da cui l’innovazione può prendere corpo.
Ed è essenziale che si ragioni in quell’ottica della complessità che rende irriconoscibile l’attuale
universo sportivo da quello individuato e regolato dalla normativa fascista del 1942.
Nello sport della complessità opera un’area di mercato, che legittimamente si pone obiettivi di
profitto e che assume gli utili finanziari come criterio di verifica di rendimento. Ma opera anche
un tessuto esteso di attività profit di utenza che ha alla base della propria legittimazione la
pura e semplice soddisfazione del cliente. Esiste poi una sfera di prestazione assoluta, che
individua doverosamente il proprio ritorno nel risultato tecnico, empiricamente verificabile e
conseguibile solo attraverso un’oculata e programmata politica di sostegno pubblico: è il
sistema dello sport “olimpico” che contribuisce in maniera decisiva ai medaglieri dell’alta
competizione. Ed esiste, last not least, una galassia di funzioni di integrazione, di
socializzazione, di comunicazione sociale che raccogliamo nella formula di sport per tutti. Uno
sport che vuole continuare ad assolvere anche compiti di collaborazione-supplenza rispetto allo
sport di vertice, ma senza ridursi a compiti vivaistici. E’ questa identità composita e insieme
nevralgica – la sola capace, del resto, di spiegare l’esplosione della pratica dalla metà degli
anni Settanta alla metà degli anni Novanta, pur in presenza di un vistoso calo della natalità e
di una invasiva diffusione della cultura della sedentarietà televisiva e informatica – che chiede
oggi ai poteri centrali e locali di essere inserita a piena titolo in un’ideale agenda delle nuove
politiche della vita. O, se si preferisce, di essere accolta a pieno titolo nel perimetro descritto
da inediti diritti di cittadinanza.
Note
1 Porro N. (1998), The Fourth Citizenship. Sport for all in Western Europe, paper
presentato al Congresso Internazionale ISA, Montréal, 26 luglio-1 agosto.
2 Marshall T.H. (1965), Social Policy in the Twentieth Century, Hutchinson, London.
3 Giddens A. (1990), The Consequences of Modernity, Polity Press, Cambridge (trad. it. Le
conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1994).
4 Ahrne G. (1994), Social Organizations. Interaction inside, outside and between
organizations, Sage Publications, London.
5 O’Brien M. e S. Penna (1998), Theorising Welfare. Enlightenment and Modern Society,
Sage Publications, London.
6 Un corollario importante del ragionamento è che il venir meno di questa opposizione
come fondamento di tutte le possibili opzioni politiche e organizzative implica un
sostanziale ridimensionamento dell'importanza nevralgica attribuita dalle letture
tradizionali al ruolo dello Stato.
7 Eichberg H. (1989), Body Culture as Paradigm, in International Review for the Sociology
of Sport, 24, 1, pp. 43-64.
8 Touraine A. (1998), Do Social Movements Exist?, paper presentato al Congresso
Internazionale ISA, Montréal, 26 luglio-1 agosto.
9 Hirschman A.O. (1978), Exit, Voice, and Loyalty, Harvard University, Cambridge Mass.
(trad. it. Lealtà, defezione, protesta, Bompiani, Milano 1982).
10 Ibsen B. (1996), Changes in local voluntary associations in Denmark, in Voluntas, 7, 2.
11 Di Maggio P. e W.W. Powell (1983), The Iron Cage Revisited: Institutional
Isomorphism and Collective Rationality in Organizational Fieldds, in American Sociological
Review, 48, April, pp. 147-160.
12 Zincone G. (1992), Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e le vie della società civile,
Il Mulino, Bologna.