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Lucio Gentilini
LASCITI DELLA TRATTA DEGLI SCHIAVI E DEL
DOMINIO COLONIALE NELL’AFRICA NERA DI
OGGI
Introduzione
Africa ‘continente malato’, Africa terra di struggente bellezza e di imponenti risorse
eppure attanagliata da problemi enormi (non solo di sviluppo, ma addirittura di
sopravvivenza) che apparentemente è incapace di risolvere; Africa senza speranze,
Africa sempre più indietro nella corsa mondiale della globalizzazione, spettatrice
impotente dei successi altrui; Africa falcidiata da epidemie e carestie, sconvolta da
disastri naturali cui non sembra saper reagire né porre rimedio; Africa martoriata da
guerre fratricide, selvagge e devastanti, i cui echi ormai ci trovano rassegnati e
assuefatti; Africa da cui ci arrivano praticamente solo continue segnalazioni di
catastrofi e pressanti richieste di aiuto che, supportate da immagini, cifre del disastro
e testimonianze drammatiche, risultano sempre parziali e tardive.
Si impone allora il compito di capire come si è mai potuto arrivare a una situazione
così sconfortante.
Lo scopo di questo saggio sarà così quello di offrire un contributo per rispondere a
questo interrogativo e, per impostare con precisione il problema, diciamo subito che
1) qui si parlerà dell’ Africa nera subsahariana: l’Africa del nord e quella del sud
presentano infatti storie e situazioni diverse che implicherebbero analisi
altrettanto diverse;
2) questo saggio si propone di esaminare solo un aspetto particolare del
problema e precisamente gli effetti che la presenza europea ha avuto sul
continente nero,
3) effetti altamente distruttivi e disgreganti delle società africane, violentate e
sconvolte per secoli dato che
4) gli europei in Africa sono passati dalla tratta degli schiavi alla dominazione
coloniale mentre
5) la decolonizzazione è avvenuta in un contesto innaturale e fortemente distorto.
In conclusione: l’Africa nera di oggi è anche figlia di uno stupro.
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Conseguenze della tratta
Da qualche anno l’U.N.E.S.C.O. sta cercando di salvare e preservare i luoghi ed i
punti in cui sono ancora presenti le tracce e le testimonianze della tratta degli schiavi
neri in Africa; ecco allora che si stanno moltiplicando i siti dichiarati ‘patrimonio
dell’umanità’ – penso ad es. a Ganviè (in Ghana), la ‘Venezia dell’Africa’ che sorge
sull’acqua ed è costituita interamente da palafitte, ed alle ‘fortezze’ dei Tamberna (in
Togo), sorta di castelli formati da torri collegate da spesse mura con ingressi stretti e
tortuosi - architetture sorte tutte per difendersi e sfuggire ai cacciatori di schiavi; alle
‘vie del non ritorno’ percorse da torme di infelici in cammino verso la costa e
chiamate anche ‘hyena roads’ perché sistematicamente ed efficacemente ripulite
(dove passano questi animali non restano nemmeno le ossa) dei cadaveri di chi, in
marcia dopo la cattura, crollava sfinito o morto o da chi riusciva a fuggire nonostante
catene e mordacchie; all’isola di Gorèe (in Senegal) con la sua infame ‘Casa degli
schiavi’; alle fortezze europee che, rimaste in miglior o peggior stato, punteggiano la
costa del Golfo di Guinea, tutti magazzini di stoccaggio e ingrassaggio per la carne
nera in attesa di salpare per le Americhe, con i loro percorsi per l’imbarco sulle navi
negriere ben congegnati (anche con scivoli) e strettamente sorvegliati per impedire ai
disgraziati in partenza di suicidarsi buttandosi nelle acque infestate da squali (molto
numerosi dato il cibo facile e abbondante); in questi inferni nulla era risparmiato alla
merce umana lì ammassata, dalle punizioni esemplari a quelle semplicemente
dimostrative, dalle celle in cui i condannati erano lasciati morire (e le loro urla
disperate, i loro lamenti e gemiti dovevano essere ben udibili da tutti) alla scala che le
ragazze più carine, dopo che erano state adocchiate attraverso appositi spiragli,
dovevano salire per recarsi negli alloggi del governatore e soddisfarne le voglie.
Quanto si può continuare con questi esempi? Quanto fu ancora inventato per infierire
sulle vittime? Rimase mai qualcosa in più da escogitare alla fantasia degli aguzzini?
In questa sede, tuttavia, non si intende proporre una storia della tratta, ma chiarire
soltanto gli effetti e le conseguenze che questa ebbe sulla società africana.
I
Innanzitutto, si consideri allora per quanto tempo durò la tratta: ebbene, per oltre
tre secoli - dalla metà del XV fino ai primi del XIX in forma legale, poi ancora per
decenni in forma clandestina – sulla costa occidentale, ove operavano gli europei, ed
ancor di più su quella orientale, ove operavano, seppur su scala minore, gli arabi:
un’intera epoca storica e non a caso sulle porte della “Casa degli schiavi”, questo
‘santuario africano’ sull’isola di Gorèe, si legge (traduzione mia dal francese):
“Il popolo del Senegal ha saputo conservare l’attuale CASA DEGLI SCHIAVI per
ricordare ad ogni africano che una parte di lui stesso è transitata per questo
santuario.”
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Le generazioni si succedevano e non solo la tratta rimaneva un dato costante dello
scenario africano, ma andava intensificandosi di pari passo con lo sviluppo delle
grandi piantagioni d’oltreoceano (zucchero, tabacco, caffè, cotone); che masse
crescenti di infelici venissero catturate e trasferite al di là del mare era diventato
‘normale’: l’intera ‘età moderna’ (secondo le scansioni della storiografia europea) fu
contraddistinta da questo traffico, sempre più lucroso. Naturalmente, non solo tale
attività commerciale si svolgeva alla luce del Sole, ma, proprio come si addice ad
ogni buon settore economico, essa venne sempre più e sempre meglio regolamentata
soprattutto in seguito all’aumento della sua importanza; leggiamo, ad esempio,
all’art.12 dell’ ’Asiento’ concesso da Filippo V di Spagna all’Inghilterra come
“Il Re Cattolico dà e concede a Sua Maestà Britannica ed alla Compagnia dei suoi
sudditi all’uopo costituita … il patto per introdurre Negri in parti diverse dei domini
di S.M. Cattolica in America, volgarmente Pacto de el Asiento de Negros, per
trent’anni dal 1° maggio 1713, alle stesse condizioni in cui lo godevano i Francesi;
insieme con tratti di terra … per custodirvi al sicuro detti Negri fino a quando saranno
venduti; …”
E, d’altra parte, come stupirsi di ciò se già quasi due secoli prima perfino il grande
padre Bartolomè de Las Casas - lo strenuo difensore degli indios, colui che ne aveva
sostenuto la causa ed i diritti per tutta una vita, che per questo era comparso anche
davanti a Carlo V, che era riuscito a far emanare da quest’ultimo le famose “Nuove
leggi” sulla difesa e protezione degli indios stessi – riconosceva tuttavia che il
bisogno di manodopera servile era comunque una necessità e che andava risolto con
l’importazione di negri - i quali oltretutto avrebbero tratto benefici influssi da questo
loro contatto con una civiltà superiore?
II
In secondo luogo, assai eloquente è poi il fatto che, se conosciamo le date della tratta,
non ne conosciamo però i costi umani se non in modo fortemente impreciso: diciamo
che in genere si parla di una dozzina (scarsa) di milioni di persone, ma aggiungiamo
subito che questo dato, pur così approssimativo, si riferisce comunque a coloro che
giunsero vivi in America e, se la percentuale di dieci morti per un vivo fornita da
David Livingstone appare forse eccessiva (anche se pur sempre fornita da un
testimone oculare), sicuramente il rapporto morti/vivi era altissimo. E a questi
andrebbero poi aggiunti i caduti negli scontri fra cacciatori e prede e coloro che
vennero tradotti in America di contrabbando, al di fuori dei controlli ufficiali delle
Compagnie e degli stati.
Ora, le catastrofi demografiche nel medio-lungo periodo non necessariamente si
traducono in fattori di regresso: per esempio, dopo le terribili pandemie del XIV e del
XVII secolo la società europea non solo si riprese, ma fu capace di ripartire con
nuovo slancio aprendosi a periodi di sviluppo e progresso in un clima di forte
ottimismo e rinnovamento culturale. La costante devastazione operata dai cacciatori
di schiavi si tradusse invece in una catastrofe: la tratta dei negri durò troppo tempo
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per non creare una costante depressione a tutti i livelli della vita di interi popoli; si
trattava infatti di un commercio regolare ed organizzato che non interveniva come
evento esterno ed imprevedibile, e dunque eccezionale e circoscrivibile, ma come
dato stabile e sistematicamente distruttivo; i suoi effetti devastanti erano, insomma,
inseriti nel ‘normale’ corso degli eventi e, come tali, persistenti e soffocanti;
oltretutto, le sue principali vittime erano gli elementi migliori, quelli più adatti al
lavoro, i più resistenti alla fatica e meglio dotati per la sopravvivenza, in una parola, i
più forti.
Il risultato fu che intere zone dell’Africa vennero devastate e si spopolarono.
III
Costi umani allucinanti, dunque, ma notevoli furono anche i danni economici.
L’economia africana avrebbe potuto ricevere ben altro impulso e sviluppo dal suo
contatto con l’Europa, come spesso avviene quando civiltà diverse e lontane si
incontrano e come era avvenuto anche con l’arrivo dei primi europei, quando, data la
convenienza a trattare e commerciare coi bianchi, le popolazioni africane sulla costa
o nelle sue vicinanze avevano visto ampliarsi le loro possibilità e la loro importanza a
scapito degli imperi dell’interno; tuttavia, col tempo la merce richiesta dagli europei
fu sempre più solo quella umana ed il risultato fu che lo scambio economico inaridì
progressivamente le possibilità dei nativi di sviluppare una propria produzione adatta
ai mercati europei dai quali, da parte loro, arrivavano poi merci (lame, armi da fuoco,
coperte, specchi, perline, bevande alcoliche, ecc.) di basso costo e limitato contenuto
tecnologico.
Anche dal punto di vista strettamente economico, dunque, non si può che parlare di
disastro, anche se non mancano (John Fage, ad es.) teorie opposte secondo le quali,
considerazioni morali a parte, in realtà anche la tratta, come ogni altro rapporto con
l’Europa, tutto sommato fu fattore di sviluppo per le società africane. Essa infatti
spostò a occidente – dove avveniva lo scambio con i bianchi - i centri di ricchezza;
stimolò quindi le attività indigene; favorì poi lo sviluppo di tutta una serie di
organismi statali che accrebbero progressivamente la loro forza grazie alla caccia agli
schiavi ed ai contatti (non solo commerciali) con l’Europa; insomma, modernizzò un
mondo altrimenti destinato alla stasi e ad un’economia di pura sopravvivenza.
In realtà, tale teoria non può essere accettata: se è vero che per es. etnie come gli
Akan (grossomodo nell’attuale Ghana) e i Dahomey (più o meno nell’attuale Benin)
trassero vantaggio dal loro impiego come fornitori di carne umana per gli insaziabili
negrieri bianchi – ed oggi essi riconoscono il loro ruolo di partners commerciali in
questo triste mercato (per inciso, ciò è stato confermato anche a me personalmente
dal re dei Dahomey durante un’udienza nella reggia di Abomey, la loro antica
capitale) – rimane il fatto che l’Africa divenne sempre più fornitrice di uomini e la
sua importanza economica si concentrò fortemente su tale merce da esportazione: il
lavoro richiesto dagli europei ai nativi fu sempre più quello di andare a caccia di
disgraziati razziandone e devastandone i villaggi senza pietà.
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I temporanei vantaggi di quei popoli negri che lucrarono su tale attività non possono
nascondere il grave o gravissimo scempio operato da un mercato che non stimolava
alcuno sviluppo, ma seminava solo morte e distruzione intorno a sé.
Nel settembre 2001 a Durban la Conferenza contro il razzismo organizzata
dall’O.N.U. - presenti oltre 2500 delegati ed un migliaio di o.n.g. – riconosceva che
risarcire i discendenti delle vittime della tratta è una proposta impraticabile, anche se
negli U.S.A. alcuni avvocati continuano ad insistere e ad intentare cause in questo
senso.
Eppure, tutto prima o poi passa ed anche la tratta fu finalmente abolita – quasi due
secoli fa – e, nonostante gli strascichi della tratta clandestina e di altre schiavitù
‘locali’ (per es. in Mauritania la schiavitù è stata, almeno ufficialmente, abolita solo
nel 1981), le sue crudeli ferite avrebbero potuto cominciare a rimarginarsi se una
nuova e, forse, per alcuni aspetti ancor più terribile sciagura non si fosse abbattuta su
queste povere genti.
Conseguenze del dominio coloniale
Pochi decenni dopo l’abolizione della tratta un nuovo cataclisma – e questa volta
diffuso su tutto il continente – si abbattè su quelle infelici popolazioni con incredibile
rapidità: stiamo qui parlando della conquista coloniale dell’intera Africa, un evento
così drammatico e stupefacente da sembrare incredibile, paragonabile per ampiezza
solo dalla catastrofe americana del XVI secolo.
Una semplice occhiata alla carta geografica basta a mostrare la sterminata vastità
della conquista di territori ‘selvaggi’ e spesso inesplorati, popolati, oltre che da etnie
negre, da brulicanti mandrie di bufali ed elefanti (forse i veri padroni dell’Africa – e,
ancora una volta, l’unico paragone possibile è col bisonte nordamericano) che si
perdevano fino all’orizzonte delle sconfinate praterie e savane.
Nel giro di meno di una generazione l’intera Africa fu sottomessa, piegata, spartita,
dominata, sfruttata, spogliata, umiliata, violentata e rapinata da un pugno di europei.
I bianchi - ora potenti grazie soprattutto al chinino (che permetteva loro di
sopravvivere alla malaria dell’interno), al piroscafo a chiglia piatta (che permetteva
loro di risalire gli imponenti fiumi africani) ed alla mitragliatrice (eccezionalmente
efficace nei combattimenti contro i nativi che attaccavano in massa in campo aperto);
sostenuti da madrepatrie in pieno e vertiginoso sviluppo industriale; convinti della
loro superiorità razziale e del loro diritto-dovere di esportare con qualsiasi mezzo la
loro civiltà, religione e cultura; alla frenetica ricerca di prodotti pregiati, materie
prime per le loro sempre più voraci industrie e mercati di sbocco per le loro sempre
più esuberanti economie, ora imprigionate nella trionfante politica protezionistica;
impegnati nella costruzione di veri e propri imperi con tutte le loro conseguenti
necessità strategiche e geopolitiche; imbevuti della logica del prestigio e della
potenza delle loro nazioni, avviate in una competizione planetaria sempre più
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coinvolgente – scaricarono tutta la loro furia conquistatrice e la loro impressionante
capacità di espansione e dominio sul continente africano, fino a quel momento così
vicino ma anche così lontano, data l’impenetrabilità delle sue barriere naturali che
avevano relegato per secoli gli europei sulla costa.
Ancora una volta, comunque, qui non si tratterà della storia del colonialismo africano,
ma dei suoi effetti sulle società locali e, ancora una volta, aggiungiamo subito che il
contatto fra i due mondi e le due culture avvenne nel modo peggiore.
I
Innanzitutto, allora, teniamo presente per quanto tempo durò il dominio coloniale:
ebbene, la conquista del continente nero durò meno di vent’anni ed il dominio
successivo per poco più (mediamente) di mezzo secolo. Complessivamente, esso
durò dagli anni ’80 del XIX secolo fino agli anni ’60 del XX: il padre nasceva
quando il suo paese veniva conquistato ed il figlio cinquantenne ne vedeva
l’indipendenza.
La tratta era durata quattro volte tanto ma la ‘brevità’ del colonialismo fu compensata
dalla profondità ed efficienza con cui questo si sviluppò: dopo il Congresso di
Berlino (1884-’85) le potenze europee, senza più ostilità, conflitti, impedimenti e
problemi fra di loro, poterono lanciarsi nell’occupazione delle aree africane che si
erano spartite a tavolino e, potenti come erano diventate, non trovarono veri ostacoli
nei nativi che soccombettero senza scampo. Certamente, il caso degli Herero
(nell’Africa sud-occidentale assegnata ai tedeschi) che nel 1904 vennero annientati
dalle raffiche delle mitragliatrici dopo che avevano opposto resistenza
all’occupazione (fu questo il primo genocidio del XX secolo) fu un caso-limite e
rappresenta un picco, ma non un’eccezione nel clima di insensibilità e spietatezza
che caratterizzò la conquista.
Dopo di ciò, mezzo secolo (circa) di sfruttamento, spoliazione, oppressione,
repressione: di puro e semplice dominio.
II
In secondo luogo, va poi considerata una particolare ed assai perniciosa variante
della brutalità esercitata, quella che possiamo chiamare violenza geografica.
Le potenze europee, come dicevamo, si spartirono l’Africa a tavolino, con squadre e
righelli sulla carta geografica fisica (oltretutto, nemmeno troppo ben conosciuta) del
continente, tenendo presente solo ciò che interessava loro, cioè i loro progetti, i loro
equilibri, le loro economie ed i loro problemi. Tutto avvenne nel completo
disinteresse e disprezzo per le popolazioni indigene: con una serie di operazioni
militari decise e pianificate in precedenza a Berlino alcuni popoli africani vennero
così divisi, altri – magari nemici da secoli – uniti sotto un’ unica potenza dominatrice.
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Il ‘mercato dei popoli’ praticato dalle diplomazie europee nel XVIII secolo fu
minima cosa in confronto a questa brutale operazione (almeno allora ci si limitava a
cambiare le case regnanti) che può essere paragonata semmai alla divisione dei
territori degli U.S.A. ad ovest degli Appalachi prima ancora che si procedesse alla
loro conquista, con la differenza che a) quest’ultima era una divisione interna
allo stesso stato e b) essa preludeva al genocidio – e non alla completa sottomissione
– degli indigeni.
In ambedue i casi, comunque, gli occupanti considerarono gli esseri umani (umani?)
presenti sui territori come parti della fauna degli stessi, oggetti da utilizzare od
ostacoli da eliminare.
Ciò moltiplicò gli effetti nocivi del dominio coloniale che si abbattè come una
tempesta su regioni spesso debilitate da secoli di tratta.
III
In terzo luogo, connesso alla ‘violenza geografica’ è poi da considerare un altro
doloroso aspetto del dominio coloniale, quello che possiamo definire
sconvolgimento politico-sociale
Come sempre era avvenuto anche negli altri continenti, i conquistatori per conseguire
i loro fini dovettero agire incentivando le rivalità già esistenti, creandone di nuove ed
aizzando i nativi gli uni contro gli altri: vennero così sfruttate al massimo le
differenze e le divisioni fra tribù ed etnie in modo da sottometterle più agevolmente,
una dopo l’altra, una con l’aiuto dell’altra. Da secoli, fin dai tempi della tratta,
appoggiarsi su una parte a danno dell’altra era stata la politica dei bianchi, ma allora i
popoli neri rifornitori di schiavi potevano contare sul sostegno degli europei e
continuare a rimanere liberi ed indipendenti, mentre ora non c’era più scampo per
nessuno. Nessuno infatti poteva sperare di sfuggire alla marea della conquista
coloniale: mentre il precedente colonialismo, basandosi fondamentalmente sul
commercio e sulle sue esigenze, sceglieva tra le terre e le zone che lo interessavano,
ora il nuovo, fondato anche sulla potenza e sulla sua esibizione, su progetti di
controllo geopolitico di vastissimo raggio e su esigenze strategiche ormai planetarie,
doveva (anche se ciò non sempre era economicamente conveniente!) occupare tutto
l’occupabile, se non altro per sottrarlo alle altre potenze coloniali.
Per impedire che la società si sfasciasse in modo irreparabile, un altro strumento
tipico di controllo e di dominio dei colonizzatori fu quello di appoggiarsi ai
tradizionali capi locali, garantendone una qualche autorità in cambio della
collaborazione. Questi in genere accettarono tale ruolo di mediatori degli ordini e
delle direttive che venivano dal signore bianco, forse senza rendersi pienamente
conto della gravità del loro comportamento o forse pensando di salvare così il
salvabile, anche se in molti casi la spiegazione può essere un’altra. In molte zone
secoli di contatto con gli europei, di predicazione missionaria, di giovani neri di alto
lignaggio mandati a studiare in Europa, di ex-schiavi tornati in Africa (pensiamo ad
es. alla Liberia), avevano portato alla nascita di un nuovo ceto di progressisti neri che
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nutriva progetti di riforma, di modernizzazione, di sviluppo per il suo paese: queste
persone provavano ammirazione per l’Europa che giudicavano guida e maestra e,
naturalmente, si opponevano alle vecchie tradizioni, usi, credenze ed alla vecchia
organizzazione del potere, della società e della sua economia. Ebbene, questo ceto
intellettuale non poteva non essere guardato con ostilità sia dalle tradizionali
gerarchie del potere, che se ne sentivano insidiate, sia dagli europei stessi, che ne
temevano la reazione ai loro progetti di conquista e sfruttamento. Il destino di questi
sinceri ammiratori della civiltà europea fu davvero triste perché furono delusi e
abbandonati sia dai bianchi, che pure ammiravano e che avrebbero voluto imitare, sia
dai loro conterranei stessi, che li consideravano dei corrotti e dei traditori.
Come se tutto ciò non bastasse, in Africa – nonostante tutta una serie di diverse
tipologie di dominio e sfruttamento - il colonialismo fu oltretutto particolarmente
violento e distruttore, soprattutto se paragonato a quello sviluppato in Asia nei
decenni precedenti (grossomodo fra l’abolizione della tratta e gli anni ’70 del XIX):
se altrove gli europei (e gli statunitensi, assenti in Africa ma ben presenti in Asia) si
erano accontentati della politica della ‘porta aperta’ e dei ‘trattati ineguali’ e non
avevano né potuto né voluto asservire completamente immensi imperi come quello
indiano, cinese, siamese, malese, ecc. - per tacere del caso giapponese -, in Africa si
procedette invece alla conquista vera e propria, militare, totale e spietata.
I negri non potevano che venir sottomessi e dominati, considerati ‘force noire’, un
serbatoio inesauribile di uomini e materie prime.
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Tuttavia questo non fu l’unico fattore di degrado (anche demografico): anche la
nuova economia imposta con la forza contribuì a generare profondi scompensi fra
la popolazione, alterandone pesantemente la distribuzione con la formazione di
grandi agglomerati urbani ed il trasferimento di grandi masse là dove le esigenze
coloniali lo richiedevano – per es. per la costruzione di porti, ferrovie, nuovi centri di
smistamento e di nuove colture (gomma, cacao, caffè, cotone, ecc.).
I dominatori europei agivano e pensavano – bisogna riconoscerlo – in grande:
stavano costruendo un mercato ed un sistema economico di dimensioni planetarie
dove merci, uomini, capitali, materie prime, prodotti, risorse, ogni aspetto
dell’economia insomma, andava a fondersi e ad amalgamarsi in un sistema in cui
tutto si teneva (o si doveva tenere) in una rete intercontinentale di interessi e
connessioni reciproche.
I cantori e sostenitori – vecchi e nuovi – dell’imperialismo hanno sempre sostenuto
che comunque, nonostante tutto, sia pur con gli errori e le imperfezioni che le umane
cose sempre portano con sè, fu però grazie al colonialismo che un intero continente
uscì, o cominciò ad uscire, da isolamento e arretratezza, da barbarie e da incredibile
ed inaccettabile sottosviluppo. In definitiva, secondo questa teoria l’Africa dovrebbe
ringraziare i suoi antichi colonizzatori se oggi può affacciarsi alla civiltà moderna e
conoscere prospettive di sviluppo altrimenti impensabili.
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Ora, questa posizione non appare condivisibile: l’alterazione di un secolare e
millenario sistema di vita infatti – oltre al fatto che, naturalmente, avveniva sotto
l’incubo della frusta – generava cambiamenti e trasformazioni del panorama
economico-sociale del tutto artificiali per chi li subiva, perchè frutto esclusivo degli
interessi della potenza coloniale, dimentica e per niente interessata ai bisogni ed ai
problemi della colonia stessa. Si diede sempre per scontato che il bene del padrone
europeo fosse il bene comune, i suoi bisogni i bisogni di tutti, e che tutto ciò che era
fuori dell’Europa era destinato – per il suo stesso bene, per il suo stesso utile - ad
essere manipolato, trasformato ed adattato alle necessità ed alla volontà dell’Europa
stessa.
In una parola: l’inserimento forzoso dell’Africa nei mercati internazionali, gestito
dalle potenze coloniali per il solo unico loro interesse, ha creato sconvolgimenti
profondi fra le popolazioni indigene esponendole, fra l’altro, alle oscillazioni dei
prezzi e dei mercati mondiali di cui ancor oggi sono spesso vittime indifese.
Conseguenze del razzismo
E’ evidente che tutta la violenza e lo sfruttamento esercitato dai bianchi sui neri (e
certamente non solo su di loro) ebbe come presupposto, come (almeno parziale)
giustificazione - ma anche come conseguenza - il dilagare ed il consolidarsi di un ben
radicato razzismo.
Il razzismo è sempre stato (ed è) un fenomeno così diffuso, così multiforme e così
complesso che probabilmente è impossibile coglierne tutti gli aspetti – per tacere
delle sue motivazioni profonde. Il razzismo, sostenuto, alimentato, presente in tanti
aspetti della cultura, della religione e della civiltà europea, è stato il sostrato culturale
che ha portato al genocidio, allo schiavismo, alla servitù, al dominio, allo
sfruttamento e ad ogni sorta di brutalità: è ovvio che alla radice delle infinite
aggressioni si trovano motivi ben più pratici e concreti (economici, politici, militari,
ecc.), ma la giustificazione teorica ed i fondamenti culturali che le hanno rese (e le
rendono) ‘giuste’ ed accettabili hanno anch’essi la loro importanza ed il loro peso
perché senza di essi non si potrebbe procedere: gli uomini infatti motivano, e non
possono non motivare, tutti i loro comportamenti su basi teoriche in cui credono e di
cui necessitano sempre.
Diciamo subito che in questa sede il razzismo non verrà trattato né confutato dal
punto di vista morale o filosofico se non per notare – per inciso – che gli europei nel
Settecento, il secolo dei Lumi, mentre elaboravano la teoria dei diritti naturali e li
codificavano nelle prime costituzioni scritte, hanno gestito il notevolissimo sviluppo
della tratta; che nell’Ottocento, il secolo delle lotte per la libertà dei popoli e per la
loro indipendenza dallo straniero, hanno conquistato e sottomesso interi continenti; e
che nel Novecento, dopo aver duramente lottato contro il Nazifascismo, aver fondato
l’O.N.U. e scritto la sua nobile Carta dei diritti dell’uomo, essersi opposti al
Comunismo in nome dei più alti principi di libertà e democrazia, hanno
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sanguinosamente e violentemente combattuto senza esclusione di colpi numerose
guerre per impedire l’indipendenza e la decolonizzazione dei popoli africani (ed
asiatici) a loro soggetti.
Contraddizioni così macroscopiche da risultare ridicole nella loro patetica ed assoluta
inconsistenza culturale.
I razzisti dunque hanno usato ogni mezzo per sostenere la loro superiorità su altri
popoli e, conseguentemente, il loro diritto a dominarli.
I razzisti non si sono mai limitati a constatazioni circa la loro migliore e più alta
cultura, religione, natura fisica, bellezza, intelligenza, umanità (sic), civiltà, capacità,
ecc. ecc., per il puro e semplice gusto di compiacersi con se stessi e di gioire dei doni
così generosamente loro elargiti da Dio, o dalla natura, o dal caso; essi non hanno
spaziato praticamente in tutti i campi del sapere per sostenere semplicemente di
essere più dotati rispetto a tutti gli altri popoli e soltanto per ritenersi degni di
ammirazione e magari di invidia; essi hanno invece sempre preteso che questa loro
superiore natura li legittimasse nella volontà di dominare e sottomettere tutte le altre
etnie - così evidentemente peggiori, come le loro culture tanto palesemente arretrate e
primitive stavano a dimostrare.
Un esempio perfetto di ciò furono proprio le motivazioni addotte dalle potenze
europee al Congresso di Berlino per giustificare il loro intervento.
Leggiamo ad esempio all’art. VI (traduzione mia dall’inglese) che
“Tutte le Potenze esercitanti diritti di sovranità o influenza nei sopraddetti territori si
impegnano a vegliare sulla salvaguardia delle tribù indigene, di prendersi cura del
miglioramento delle condizioni del loro benessere morale e materiale e di collaborare
nella soppressione della schiavitù e specialmente della tratta degli schiavi. …”
Gli europei, in quanto civilizzatori e riscattatori dei negri dalle calamità e
dall’arretratezza nelle quali questi ultimi si dibattevano, avevano di conseguenza
diritto all’occupazione ed al controllo dell’intera Africa tanto che all’articolo
XXXIV (traduzione mia dall’inglese) si chiariva che
“La Potenza che d’ora in avanti prenderà possesso di un tratto di terra sulla costa del
continente africano al di fuori dei suoi attuali possedimenti o che, essendo finora
senza tali possedimenti, li acquisterà, così come la Potenza che assumerà colà un
Protettorato, dovrà accompagnare il rispettivo atto con una notifica indirizzata alle
altre Potenze Firmatarie del presente Atto perchè, ove necessario, queste possano
ottenere compensi.”
Insomma, il permesso di occupare territori africani lo si doveva chiedere agli europei
e pattuirlo con loro, non certo con chi su quei territori viveva da millenni.
Gli africani non avevano diritti né erano padroni in casa loro.
Precise ed elaborate nei dettagli furono poi le misure stabilite per lottare contro la
tratta e la schiaviù (nelle quali operazioni furono coinvolti anche il Sultano turco e lo
Shah di Persia!) e per regolare al meglio il commercio e l’intera riorganizzazione del
continente. In tutto ciò, di qualsiasi operazione e compito si trattasse, i negri erano
completamente assenti o meri oggetti passivi dei provvedimenti presi in loro nome e
per il loro supposto bene (che solo i bianchi conoscevano, naturalmente): anche a
stare alla lettera del Congresso, insomma, anche prendendo per buoni i suoi proclami
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e la sua buona volontà (in realtà sotto questa maschera si commisero le più nefande
atrocità) risultava comunque ufficialmente che i negri non erano in grado di badare a
loro stessi, che per il loro stesso bene era opportuno, anzi, necessario, il
provvidenziale intervento dell’uomo bianco. Il concetto stesso di storia era quello
europeo nè era veramente esistita una storia africana fino all’arrivo degli europei
stessi: tutto il mondo – ma soprattutto l’Africa nera - finiva per assumere senso solo
in relazione all’Europa e nella misura in cui convergeva su di essa. Era come se il
pianeta non avesse fatto altro che aspettare e ricevere i bianchi e fosse esistito solo
per questo. I negri erano giudicati apertamente esseri assolutamente inferiori finanche
nei documenti internazionali, nei quali, se pure si nascondeva (ma chi mai potè non
accorgersene?) la volontà di sfruttare ed opprimere, era orgogliosamente proclamata
però quella di decidere e determinare la loro vita. Ai massimi livelli ufficiali si
sosteneva – e forse in buona fede! - che gli imperialisti erano nelle colonie non per
se stessi ma per il (vero, naturalmente) bene dei nativi sottoposti, da “pacificare” se
necessario, ma sempre con le migliori intenzioni di sostegno e impegno umanitario.
Addirittura il trattato della Società delle Nazioni stesso all’art. 22 ufficializzava il
compito delle potenze mandatarie come portatrici di progresso a beneficio delle
popolazioni indigene!
Agli occhi dei razzisti il negro era oltretutto perfetto come manifesta dimostrazione di
inferiorità naturale: così fisicamente diverso (e tanto più brutto!), così primitivo, così
simile alle scimmie (poco più di un secolo fa medici e studiosi sostennero addirittura
la fecondità del rapporto negro-orango!), così lontano dalle espressioni della civiltà
europea (l’unica che si potesse considerare tale, ovviamente), così immediato nei suoi
istinti e nei suoi atteggiamenti, così feroce e passionale, ma anche così docile ed
infantile, nei suoi sentimenti e, insomma, così indietro nella scala evolutiva (a metà
strada fra uomo bianco e scimmia) e nella storia dell’umanità! I secoli passavano, la
cultura europea cambiava e si evolveva, e con essa i motivi che portavano a sostenere
l’inferiorità razziale dei negri; il sapere e la medicina progredivano e le teorie
razzistiche assumevano di conseguenza sempre più l’aspetto dell’oggettività
imparziale della teoria scientifica. Ecco allora che per secoli i bianchi hanno
considerato e trattato i negri come merci, come animali, come esseri inferiori e privi
dei caratteri della vera umanità: in nome di questo supremo disprezzo hanno potuto
infierire tanto su di loro senza sentirsi in colpa e senza vedere in quali abissi di
abiezione cadevano.
Per parte loro le popolazioni negre hanno spesso visto i bianchi come portatori di una
forza e di una potenza per loro assolutamente insostenibile; padroni di mezzi del tutto
sproporzionati rispetto a quelli che conoscevano e di cui potevano disporre; sicuri,
decisi, spietati, innovatori e travolgenti dovunque arrivassero, capaci di imprese
davvero stupefacenti e di superare qualsiasi ostacolo. La loro sottomissione al
‘bwana’ bianco non fu sempre e soltanto frutto di paura per la violenza di cui egli era
capace e dalla quale non rifuggiva mai.
E tuttavia il rapporto dei bianchi verso gli africani fu anche improntato alla
benevolenza; non si allude qui tanto a quel paternalismo di chi ama essere servito e
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riverito col sorriso e con le buone maniere senza dover far ricorso alle minacce od
alle punizioni e che rifugge dalla violenza e dalla brutalità gratuite, ma alle sincere
convinzioni di che era mosso e commosso dalle tristi condizioni di vita (mediche,
igieniche, alimentari, ambientali, ecc.) in cui i negri versavano e che voleva quindi
alleviarne il peso; missionari, benefattori, medici, filantropi, si mossero (e si
muovono ancora) animati da un autentico spirito di solidarietà per aiutare gli africani
ad uscire dal loro sottosviluppo e per migliorarne le condizioni di vita. Ma questo era
(ed è) possibile solo esportando mezzi e tecnologie europee in Africa ed istruendo in
esse personale negro; ma questo significava trasferire ciò che era (ed è) europeo in
luoghi che avevano seguito tutt’altre linee di sviluppo e civiltà; ma questo significava
‘civilizzare’ dei ‘selvaggi’, cioè ucciderne lo spirito. Per quanto ispirato da sincera
pietà, rimaneva insomma pur sempre il fatto che dall’Europa arrivavano mezzi e,
inevitabilmente, valori; che si pensava – si doveva pensare – che la civiltà dei bianchi
era superiore, buona e valida per tutti; che la soluzione dei problemi degli africani
non poteva venire dalle mani degli africani stessi e dal loro sapere, ma da quelle del
bianco civilizzatore.
Non si usciva, insomma, dalla mentalità dell’Europa superiore e dell’Africa inferiore.
Oltretutto, i buoni ed altruisti europei disarmavano psicologicamente e spiritualmente
gli africani perché contribuivano a mostrar loro quanto erano più avanti e potenti i
bianchi rispetto a loro e, con questo, - indipendentemente dalle loro intenzioni spianavano anche la strada ai colonialisti ed agli sfruttatori.
Esattamente ciò che era già avvenuto anche negli altri continenti sottomessi dai
bianchi.
I limiti della decolonizzazione dell’Africa nera
Nonostante l’imponenza degli imperi coloniali - che proprio fra le due guerre
mondiali celebrarono i trionfi della loro massima espansione (almeno quello inglese e
quello francese) - il loro impianto complessivo era debole e non resse a lungo.
Certamente, il visitatore dell’esposizione dell’impero britannico a Londra nel 1924
(ove in 87 ettari veniva mostrato in miniatura il quarto del pianeta sotto controllo di
Sua Maestà) o dell’esposizione coloniale internazionale a Parigi nel 1931 (in 200
ettari!) ebbe l’impressione della massima stabilità e dell’intramontabilità di tali
sistemi, ma sotto il travolgente incalzare dei tempi simili costruzioni risultarono
presto anacronistiche e dai costi insostenibili.
L’autodistruzione dell’Europa nelle due guerre mondiali, il coinvolgimento dei
popoli di colore nelle battaglie sui fronti europei ed il loro disincanto nei confronti
della compattezza e dell’invincibilità dei bianchi, il sorgere degli U.S.A. come nuovo
gigante sulla scena mondiale, l’U.R.S.S. e la sua politica anticoloniale, il Giappone e
la sua politica anticoloniale in Oriente durante la seconda guerra mondiale, il nascere
di una cultura di stampo europeo presso i popoli colonizzati ed il conseguente sorgere
delle lotte di liberazione, i costi eccessivi degli imperi stessi e la loro refrattarietà alle
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esigenze di mercati sempre più globali e aperti; in una parola, l’antistoricità del
colonialismo ed il suo rapido superamento nella situazione politica ed economica
mondiale si fecero sentire anche nell’Africa nera ove, a partire dal 6 marzo 1957,
quando la Costa d’Oro ottenne l’indipendenza prendendo il nome di Ghana (un antico
regno dell’interno), uno dopo l’altro, in modo tumultuoso e quasi mai pacifico, ma
dopo lunghe e sanguinose guerre di indipendenza, tutti gli stati dell’Africa riuscirono
a liberarsi del padrone bianco imperialista.
Dopo la tratta, un altro terribile capitolo della storia di questo martoriato continente
arrivava chiudersi e le più ottimistiche speranze sembravano finalmente sul punto di
avverarsi. Furono giorni di gioia e di esaltazione nonostante la coscienza dei
formidabili problemi da affrontare.
Ancora una volta, diciamo subito che qui non si tratterà della storia della
decolonizzazione, ma dei suoi limiti, perchè proprio nelle modalità – forse inevitabili
– della liberazione e della nascita di tanti nuovi stati africani alligna una (seppur
molto importante) delle cause della tragedia dell’ultima fase della storia di questo
sfortunato continente.
La devastazione, la distorsione e lo stravolgimento delle società, dell’economia,
dell’ambiente, della cultura e della demografia operati da secoli di tratta e di dominio
coloniale avevano reso infatti ormai impossibile per le popolazioni africane il ritorno
alla condizione di partenza o, meglio, la possibilità di ricollegarsi al proprio passato
per riprendere il cammino là dove era stato interrotto: i bianchi che finalmente se ne
andavano lasciavano dietro di sè un panorama ed una situazione nuova e innaturale ma anche ineliminabile.
I
Innanzitutto, dal punto di vista politico i leaders delle lotte anticoloniali, ora al potere,
nel momento in cui si trovarono a dar vita ai nuovi organismi liberati non poterono
che accettare la violenza geografica subita. Tutti i confini stabiliti a Berlino nel
1884-’85 vennero riconosciuti e mantenuti dalla prima Conferenza
dell’Organizzazione dell’Unità Africana tenuta ad Addis Abeba nel maggio 1963
nonostante in precedenti incontri fosse balenata l’ambiziosa e suggestiva proposta di
un’unificazione federativa in nome del panafricanismo e dello spirito di cooperazione
antimperialista. Non è dunque corretto parlare di “liberazione nazionale” (almeno in
senso europeo) se non intendendo con ciò il progetto di fondare ex novo una nazione
nell’ambito delle condizioni tracciate dal periodo coloniale – ma questa era una non
piccola accettazione dell’eredità del nemico oppressore che si era tanto combattuto.
Né ci si limitò all’assetto geografico dei confini: istituzioni, uffici, strutture
amministrative e di governo – insomma, tutta l’organizzazione interna del regime
coloniale - vennero mantenute mentre personale negro subentrava a quello bianco in
partenza. Ora, è chiaro che, oltre agli evidenti ed inevitabili problemi legati
all’inesperienza dei nuovi amministratori, un nuovo stato avrebbe richiesto invece un
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nuovo sistema di governo, adatto alla nuova realtà e ad una popolazione non più
soggetta e sottomessa dall’esterno. Ma, ancora una volta, ciò sarebbe mai stato
concretamente possibile?
II
In secondo luogo, non si potè non mantenere l’economia africana stabilita dal
padrone bianco: essa era stata completamente stravolta dalla tratta e, soprattutto, dal
colonialismo, essendo stata fatta passare dalle attività tradizionali di sussistenza,
‘naturali’, legate cioè ai luoghi ed all’ambiente, alle produzioni imposte dai bianchi
da inserire nei lontani e sconosciuti mercati dell’economia mondiale. Questa svolta imposta dall’esterno e subita dalle popolazioni africane - le aveva messe in mani
estranee ed in una situazione nella quale la loro possibilità di incidere era pressoché
nulla: questo stato di cose dopo la liberazione non cambiò se non marginalmente ed è
ciò che è stato chiamato ‘neocolonialismo’, ad indicare che ad un tipo di
eterodirezione se ne sostituì semplicemente un altro, apparentemente meno
oppressivo ma ugualmente efficace ai fini dello sfruttamento e degli stessi interessi di
prima. Fu così che si continuò a sostenere e ad insistere sulle produzioni coloniali da
esportazione – spesso monoculturali con tutti i rischi che ciò comportava in caso di
cali o crolli dei mercati internazionali - anziché puntare su raccolti che garantissero e
soddisfacessero le necessità alimentari della popolazione. Non desta quindi stupore
che dall’Occidente arrivassero sempre più numerosi tecnici e specialisti di ogni
genere per aiutare, sostenere, indirizzare, consigliare, insomma, per togliere dalle
mani dei nativi la direzione della loro economia e del loro sforzo modernizzatore.
Un bell’esempio di lascito coloniale è rappresentato dai recenti eventi nello
Zimbabwe. Nel 2000 il presidente Mugabe cominciò ad aizzare i suoi fedeli perché
si lanciassero all’attacco ed all’occupazione delle fattorie dei bianchi rimasti nel
paese dopo la fine del dominio coloniale e della loro supremazia (nel 1980!) e così fu:
le fattorie e le piantagioni (soprattutto di tabacco) dei bianchi cominciarono ad essere
invase (con l’aggiunta di vari atti di violenza) ed espropriate da masse di seguaci del
Presidente che affermavano che i bianchi erano arrivati come oppressori e rimasti
come sfruttatori e che il diritto di proprietà della terra spettava ai neri. In Italia la
stampa prese le parti dei farmers bianchi accusando il Presidente Mugabe di sobillare
gli scontenti per rimanere al potere e di fare propaganda destabilizzante e pericolosa
per sbarazzarsi degli avversari politici, ma non potè nascondere che i bianchi, lo 0,6%
della popolazione, detenevano il 70% delle aree più fertili. I bianchi, aggrediti e
minacciati, furono sempre più spinti ad andarsene finchè, vinte le elezioni nella
primavera del 2002, Mugabe decretò la cacciata definitiva dei farmers ancora
rimasti e la confisca totale delle terre da loro forzosamente abbandonate: ancora una
volta, la stampa italiana condannò l’accaduto, ma sembra difficile contestare –
giudizi sul Presidente ed i suoi metodi a parte – la enorme sperequazione nella
distribuzione delle ricchezze e che essa era un evidente lascito del precedente
dominio coloniale (anche a me personalmente alcuni zimbabweani assicurarono che
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un farmer possedeva spesso più fattorie, anche una decina, e che la manodopera era,
ovviamente, nera).
Eppure, l’amarezza maggiore di questi eventi sembra risiedere in ciò che è avvenuto
dopo la cacciata dei bianchi: lo Zimbabwe, un tempo l’unico paese africano a poter
vantare un surplus agricolo, ora patisce la fame con le fattorie in stato di abbandono
mentre la Nigeria chiama i farmers bianchi espulsi perché ne sviluppino – loro che
sanno cosa fare e come lavorare – la sua agricoltura.
La lezione è terribile e, purtroppo, non l’unica di questo tipo, ma solo la più recente.
Gli africani si trovano a dover gestire una economia che – dopo esser stata loro
imposta con la forza – sfugge loro di mano; essi non riescono a controllare qualcosa
che è sempre stato tenuto fuori della loro portata; devono giocare secondo regole che
non furono mai le loro: sono vittime che devono continuare sulla via tracciata dai loro
ex-oppressori.
Un altro paradosso è che, dopo che tutta l’Africa era stata conquistata, colonizzata e
gettata nel grande gioco della politica e dell’ economia mondiali, oggi le zone non
interessanti per il capitale occidentale, dismesse di valore, vengono trascurate ed
abbandonate a se stesse, private di investimenti ed attenzioni e spinte ai margini del
mondo.
III
In terzo luogo, per ciò che riguarda la situazione interna, anche il modello europeo
di stato venne mantenuto. Dato che i leaders della decolonizzazione facevano parte
di un’èlite intellettuale e avevano studiato in Occidente, ne avevano assimilato la
cultura e avevano cercato di adattarla alle condizioni della loro terra, erano, e
rimanevano, tutti di formazione europea ed urbana; avevano in mente il tipo di stato
europeo e vollero costruirlo (ma, ancora una volta, avevano forse altra scelta?) in
condizioni del tutto differenti da quelle in cui era sorto il loro modello e con alle
spalle una società che da qualsiasi punto di vista era profondamente ed
irrimediabilmente estranea a quanto si era venuto costituendo in Europa nei lunghi
secoli della sua evoluzione storica. In Africa la grande maggioranza della
popolazione era contadina ed aveva seguito i leaders nella lotta anticoloniale per
motivi non certamente ‘nazionali’ – come i Risorgimenti europei – se non altro
perché là le nazioni non c’erano mai state. Paradossalmente, questa negazione di un
retroterra autonomo su cui fondare le nuove comunità politiche aveva anche una sua
qualche giustificazione, dato che la terribile devastazione operata dalla tratta degli
schiavi e dal dominio coloniale aveva spesso lasciato profondo scompiglio e
disintegrazione su cui sarebbe stato arduo costruire.
IV
In quarto luogo, il modello culturale di tipo europeo venne mantenuto: tutto ciò
che faceva, e aveva fatto parte, della tradizione africana, o era semplicemente
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rifiutato dalle èlites indigene ora al potere perché giudicato barbaro ed arretrato, o era
inapplicabile nella nuova situazione che prevedeva il pieno inserimento dei nuovi
stati nella comunità internazionale . Anche in Africa l’Africa venne giudicata ‘senza
storia’, un continente che era rimasto immerso in un continuo e oscuro presente senza
cambiamento né sviluppo finchè – comunque si volesse giudicare il loro intervento non erano arrivati i bianchi. Anche in Africa si credette che il colonialismo – per
quanto detestabile – aveva però aperto le porte alla modernizzazione ed allo sviluppo
e che, dunque, si trattava ‘solo’ di democratizzare il suo lascito.
E la modernizzazione implicava l’abbandono di tutto ciò che era africano.
Dopo che gli europei avevano trasformato geografia, economia e politica secondo le
loro prospettive, i loro obiettivi ed i loro valori, l’egemonia culturale europea non era
più eliminabile..
Prendiamo il caso della lingua: la lingua del padrone bianco – come praticamente
tutto il resto - andava conservata se si volevano mantenere contatti col mondo
esterno, ma accettare una lingua non significa soltanto usare un mezzo di
comunicazione piuttosto che un altro, ma adottare – dover adottare – la cultura che
l’ha prodotta e che fa tutt’uno con essa.
C’è chi parla a questo proposito di ‘ibridazione’, notando come ciò che fu un tempo
violentemente imposto è stato poi accettato: cultura e civiltà europee, nate in tempi e
contesti tanto diversi, sarebbero state sì trapiantate forzosamente, ma avrebbero
attecchito e dato luogo ad un processo di trasformazione inarrestabile ed ormai
condiviso.
CONCLUSIONE
Dopo quanto abbiamo visto non ci possiamo stupire se l’Africa nera di oggi non
riesce a darsi un’identità, a raccogliere ed organizzare le sue forze e a sfruttare
appieno le sue risorse: troppi fili delle sue fibre sono stati spezzati e ancora sono
pendenti. Gli africani non sembrano avere un passato sul quale innestare il loro
presente ed il loro futuro, avendo dovuto applicare ed adattare a se stessi modelli
estrinseci – precedentemente imposti con la forza e con la violenza – fra i quali
spiccano quello dello stato e dell’economia internazionale di mercato.
Fu così che nei decenni successivi alla fine del colonialismo ed alla proclamazione
dell’indipendenza in tutta l’Africa i governi sono caduti con tale frequenza e
diffusione da non fare quasi più notizia mentre ciò veniva giudicato quasi una
caratteristica dei luoghi; colpi di stato, dittature militari, regimi personali e guerre
intestine hanno mostrato insieme ad efferatezze di ogni genere una mancanza
pressoché completa (ma, dopo quanto abbiamo visto, come stupirsene?) di senso
dello stato e delle responsabilità nazionali, dato che la lotta politica si riduceva spesso
allo scontro di clan o etnie o tribù o clientele – comunque le si voglia chiamare - per
l’accaparramento delle risorse.
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Inevitabilmente, l’altalenante oscillazione dei prezzi delle materie prime sui mercati
internazionali – su cui gli africani non avevano, né hanno, praticamente alcuna
influenza – hanno giocato un ruolo pesante su queste crisi e questi sconvolgimenti;
naturalmente, tutti questi conflitti sono stati sostenuti, alimentati e seguiti dalle
potenze bianche all’insegna dei loro propri interessi e dei loro calcoli, mentre a
partire dagli anni Sessanta si dispiegava e intensificava anche l’ intervento sovietico
nell’ambito del suo scontro planetario coll’occidente capitalistico.
Ben presto infatti anche l’Africa venne risucchiata nella guerra (che in Europa verrà
chiamata ‘fredda’!) fra Est ed Ovest, fra capitalismo e comunismo, con esiti terribili,
dato che a finanziamenti e sostegno a una qualsiasi delle parti in lotta subito ne
corrispondevano altrettanti all’altra col bel risultato di ingigantire gli scontri e
renderli endemici.
Agli africani sfuggirono di mano persino le ragioni dei loro conflitti interni
(quando poi queste stesse lotte non erano suscitate dall’esterno).
Vero è che questo coinvolgimento nella guerra ‘fredda’ non era una conseguenza né
della tratta né del colonialismo, ma rimane pur sempre il fatto che popoli neri ancora
una volta diventavano pedine negli scontri e per gli interessi globali di nazioni
bianche.
Eppure, sotto questa facciata, nonostante l’edificazione di tanti nuovi paesi così legati
al passato coloniale e così segnati dalle sue eredità, continua a pulsare anche il cuore
della vera, vecchia Africa che non è stata ancora veramente distrutta:
anche gli africani hanno avuto un passato, una civiltà, una storia che tutte le
violenze e le imposizioni subite non hanno potuto interamente cancellare.
E’ l’Africa dei villaggi, delle etnie, dei regni, con tutte le sue tradizioni e religioni
dall’animismo al voodoo; è l’Africa con le sue gerarchie e la sua organizzazione del
potere che continua a sussistere sotto la coltre delle istituzioni di stampo europeo.
In un ambiente così ostile come quello in cui avevano sempre vissuto, le regole che
gli africani si erano dati per la sopravvivenza collettiva dovettero essere
necessariamente dure ed inflessibili e, dunque, ammantate di sacralità religiosa. Le
società africane – organizzate in tribù, etnie, gruppi, clan, villaggi e comunità divennero così fortemente conservatrici, con poteri costituiti oppressivi e coercitivi,
ma elaborarono anche tutta una serie di forme di sopravvivenza, di autodifesa e di
autogoverno. Su questa realtà, sottomessa ma non cancellata dal dominatore
coloniale, calò lo stato, anzi, gli stati, e la divisione illogica ed insensata del
continente. Su questa rete di cultura e di evoluzione naturale si abbattè
l’occidentalizzazione, ma essa non ha ancora permeato interamente le società
africane. Fu così che mentre questo abbandono di forme secolari e millenarie di
politica e di organizzazione sociale mostrava tutto il disastro che la perdita di identità
e di forme autonomamente sperimentate non poteva non comportare, fra i nuovi statinazione e la società il gap cresceva. Tuttavia, quei capi rurali (proprio quella classe
dirigente tradizionale su cui i colonialisti si erano appoggiati per garantire la pace
interna) non poterono essere eliminati e continuarono (e continuano) a mantenere un
ruolo ed un peso non indifferente con cui i poteri ufficiali dello stato devono venire a
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patti. Le frontiere fra stati vennero spesso (e vengono) semplicemente ignorate, nel
senso che un’economia autonoma ed indipendente dallo stato, solidarietà di gruppi
omogenei (villaggi, regioni, regni) coi loro autogoverni, le loro regole, i loro usi e
costumi, portarono (e portano) ad intese più naturali e durature. E questa è forse
l’unica forma di partecipazione democratica possibile, dato che in queste forme c’è
un effettivo collegamento dei governanti con la popolazione e l’unico modo per
coinvolgere le masse, dopo che tutto il loro sforzo, anche morale, nella lotta
anticoloniale è confluito nell’europeizzazione e nello stato.
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