1 Lucio Gentilini FILOSOFIA DELLA GUERRA Introduzione In genere la filosofia ha trascurato la guerra preferendo parlare della pace e dei mezzi per ottenerla, delle condizioni che rendono una guerra una guerra giusta o, più semplicemente, non parlandone affatto, ma questo è strano ed inaccettabile perchè la guerra non solo è una costante della storia umana in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, ma essa è il principale fondamento di ogni società che si è sempre costruita intorno ad essa. La guerra è stata quasi sempre condannata per le infinite sofferenze che ha sempre provocato (e sempre provocherà), è sempre apparsa ed è stata sempre considerata un’aberrazione, una regressione della ragione e di ogni sentimento di umanità allo stato bestiale, ma tutto ciò è falso perché, tutto al contrario, la guerra non solo è inestricabilmente connaturata all’essere umano ed al suo sistema sociale, ma sicuramente implica il ricorso ed il pieno impiego di tutte le loro facoltà e di tutte le loro capacità fisiche, intellettuali e morali. Può sembrare strano e contradditorio insistere su questo argomento in una nazione che destina alla difesa appena l’1% (oltretutto in discesa) del suo PIL e che delle guerre sente parlare solo in televisione, ma è proprio per contestare questo silenzio e per rimediare a questa trascuratezza che queste pagine vengono scritte. Qui non si cercherà di mettere in luce gli aspetti tecnici e/o particolari della guerra (che variano profondamente a seconda dei tempi e dei luoghi), né si cercherà di stabilire quando la guerra sia giusta o quando sia ingiusta, e/o cose simili: qui si cercherà di trattare della guerra in quanto tale, senza aggettivi, come di uno dei caratteri primari ed ineliminabili dell’agire umano. Si seguiranno così quei pochi autori che l’hanno affrontata seriamente e l’hanno posta al centro di una riflessione specifica. Sun Tzu: l’arte della guerra Come nella ‘questione omerica’, anche a proposito del cinese Sun Tzu non esiste la certezza che egli sia realmente esistito, né che sia l’autore dell’opera che fu intitolata ‘L’arte della guerra’, né di quando essa (i ‘Tredici capitoli’) sia stata scritta, né se sia stata concepita come unica o sia invece una compilazione (come gli ‘Analectes’ di Confucio) di parti diverse e in origine separate fra loro: al riguardo esistono da molti secoli teorie diverse, ma in questa sede vengono accettate le convincenti conclusioni cui Samuel B. Griffith giunge alla fine di un’analisi attenta del testo stesso. 2 Secondo Griffith l’opera è frutto del lavoro di un’unica mente e fu composta in Cina fra il 400 e il 320 a.C., cioè all’epoca dei Regni Combattenti (453-221 a.C.) che precedette l’unificazione del paese (appunto nel 221 a.C.) da parte di Shig Huang Ti, il fondatore della dinastia Han: essa tuttavia raggiunse per la prima volta l’Occidente solo nel 1772 (ad opera di un missionario gesuita francese che la portò da Pechino), nel periodo in cui l’Europa era affascinata dalla cultura, dall’arte, dal pensiero e insomma da tutto ciò che proveniva dalla Cina, solo di recente ‘scoperta’. In ogni caso ‘L’arte della guerra’ è un classico del pensiero e come tale i suoi insegnamenti vanno al di là del tempo e del luogo in cui furono scritti: essi valgono per se stessi e come tali verranno qui presi in considerazione. I ‘La guerra è un affare di importanza vitale per lo stato, la provincia della vita e della morte, la strada che porta alla sopravvivenza o all’annientamento. E’ indispensabile studiarla a fondo’: così comincia ‘L’arte della guerra’ di Sun Tzu e l’incisività stessa di queste frasi comunica immediatamente che per l’autore la guerra non è un’attività fra le altre, bensì quella da cui tutte le altre dipendono: infatti ‘la vittoria è l’obiettivo principale della guerra’ e senza la vittoria tutto è perso. Tutta l’opera di Sun Tzu è impegnata così ad illustrare come la guerra dev’essere combattuta, ma, anche se molti suoi insegnamenti sono validissimi ancor oggi (25 secoli dopo!), non riguardano però la filosofia della guerra: quel che invece è filosoficamente interessante è che Sun Tzu non spende nemmeno una parola sulle cause della guerra né ad interrogarsi se e quando essa va combattuta e quali sono i motivi che la rendono giusta - e proprio di questo gli va reso merito. Intendiamoci: certamente ogni società non può non prendere in considerazione le motivazioni che le rendono accettabile la guerra perché esse fanno parte della sua cultura e della sua stessa identità: in uno studio storico esse vanno quindi chiarite ed esposte, ma sono visioni di parte, scuse e/o menzogne perchè in ogni guerra ogni società si ritiene nel giusto, pretende di aver la ragione dalla sua parte e invoca sempre il suo dio perché l’aiuti e la sostenga nel terribile sforzo. Dal punto di vista filosofico non esistono insomma ragioni universali o addirittura metafisiche che diano ragione a uno e torto all’altro dei contendenti, nè esiste un codice universale sul quale valutare le motivazioni dei contendenti: si deve ringraziare Sun Tzu che ci libera definitivamente da tutte le pseudoproblematiche sulla guerra ‘giusta’ perché tanto – ripetiamo – ognuno dei belligeranti si ritiene nel giusto e pretende di aver ragione. In un mondo in cui tutti hanno ragione ovviamente non ce l’ha nessuno e, oltretutto, al giorno d’oggi l’Occidente ha addirittura cambiato il suo linguaggio per autoassolversi ed autogiustificarsi quando muove guerra: le terribili tempeste di bombardamenti sulle città le chiama ‘missioni umanitarie’; le occupazioni militari di intere nazioni dice che avvengono per ‘portarvi libertà e democrazia’; le invasioni e le distruzioni sostiene che le attua per scopi benefici ed ispirati ai più alti ideali; inorridisce di fronte alle reazioni di chi si difende con le armi (tanto inferiori!) che ha 3 e giudica questi comportamenti inammissibili e ‘terroristici’; l’ONU è sempre dalla parte del più forte (USA e Occidente) e le Chiese (tutte) al massimo sospirano ma continuano a sostenere la parte cui appartengono i loro fedeli solo per i quali piangono quando cadono uccisi. Sun Tzu ci risparmia queste ipocrisie ed è un merito grande. La guerra si fa quando conviene farla e la ragione dell’aggredito non vale niente (come anche quella dell’aggressore) e non solo perché ognuno accusa l’altro di essere il responsabile della guerra stessa (che a parole nessuno naturalmente dice di aver voluto), ma perché in guerra contano solo le tattiche e le strategie che portano alla vittoria. Null’altro importa. Grande lezione questa di Sun Tzu, ma ciò non vuol dire che l’elemento psicologico e/o morale non conti. II In realtà il morale della truppa e della popolazione dello stato in guerra hanno grandissima rilevanza perché solo quando ambedue sono davvero convinte di quel che stanno facendo allora l’enorme sforzo bellico può essere sostenuto e gli uomini riescono a dare il meglio di sé accettando di sopportare i durissimi sacrifici che esso impone: ecco allora che la politica interna dev’essere improntata alla fiducia fra governanti e governati, che lo stato dev’essere amministrato con giustizia e che i comandanti dell’esercito devono essere stimati, creduti (ed anche temuti). Tutto ciò, per quanto importante sia per il benessere della società stessa, è anche condizione necessaria perchè una guerra venga vinta e Sun Tzu ritiene questo asserto tanto di per sé evidente che sull’argomento non ha altro da aggiungere. III Altre condizioni per la vittoria sono la perfetta conoscenza del territorio e del terreno (cui l’esercito deve aderire come l’acqua su una superficie), quella della disposizione delle forze dell’avversario (che permetta di sfruttarne i punti deboli), e infine un’efficiente organizzazione logistica: a sua volta tutto ciò presuppone un sistema informativo accurato e preciso, e quindi agenti segreti e doppiogiochisti che abbiano anche il compito di seminare zizzania nella società e nel governo nemici. Più volte poi Sun Tzu ripete che ‘tutta l’arte della guerra si fonda sull’inganno’: il nemico va portato a credere il falso circa i movimenti delle truppe, la loro consistenza e la loro disposizione (perché evidentemente commetterà allora errori fatali), così, grazie ancora una volta al sapiente lavoro di agenti segreti oltre che a manovre di dissimulazione, bisogna fornirgli informazioni errate. Bisogna cercare di dividere le truppe del nemico per colpirlo quando e dove è più debole, sorprenderlo e sapersi adattare con rapidità ai continui cambiamenti dello scenario e della situazione sul campo. 4 IV Tenendo sempre presente che ‘la vittoria è l’obiettivo principale della guerra’, bisogna che la guerra stessa sia rapida: ‘non s’è mai visto che una guerra prolungata abbia favorito uno stato’ perché i costi diventano eccessivi, le truppe e le società si stancano e il loro morale cala. Bisogna che tutto sia stato predisposto con attenzione: ‘comandare … è una questione di organizzazione’ e quest’ultima dev’essere davvero ben curata perché ‘un esercito vittorioso lo è prima di cercare la battaglia’. Nel Novecento le guerre si sono protratte invece per anni e anni, nel Duemila anche per oltre un decennio, con spese devastanti per i bilanci e con le società spossate ed esasperate: Sun Tzu deplorerebbe condotte simili e sicuramente le imputerebbe a calcoli sbagliati o addirittura non fatti, ad informazioni lacunose ed errate, insomma ad errori madornali - ed avrebbe pienamente ragione. Secondo Sun Tzu ‘in guerra la miglior politica è prendere lo stato intatto’ e ‘catturare l’esercito nemico è meglio che distruggerlo’ e ciò non solo per motivi umanitari: tutte queste sono infatti risorse e ricchezze che vanno preservate ed utilizzate a proprio vantaggio. ‘Vostro scopo dev’essere prendere intatto ‘tutto ciò che è sotto il Cielo’. In questo modo le vostre truppe resteranno fresche e la vostra vittoria sarà totale’ raccomanda Sun Tzu, ma nei nostri tempi le guerre sono invece bombardamenti spaventosi, distruzioni e devastazioni che farebbero inorridire il saggio generale cinese: al giorno d’oggi la guerra è infatti un affare per l’industria che la prepara, che rifornisce le truppe in azione e che ricostruisce tutto quello che è stato dissennatamente distrutto. Oggi si vive nella società del consumo, dello spreco e della produzione continua, un mondo addirittura volgare rispetto a quello fondato sull’armonia di Sun Tzu per il quale la preservazione dell’esistente e delle forze umane era importantissima e fondamentale: la sua grande lezione è stata completamente trascurata da chi 24 o 25 secoli dopo ha trascinato il mondo in vere e proprie insensate orge di morte e di distruzione – una dimenticanza costata carissima all’umanità. Von Clausewitz: guerra assoluta e guerra reale Il prussiano Karl von Clausewitz (1780-1831) che a 13 anni ebbe il battesimo del fuoco ed a 14 era già ufficiale iniziando così una carriera che l’avrebbe portato ai più alti livelli, si forgiò nelle guerre anti-napoleoniche e dopo Jena (1806) fu prigioniero in Francia per un anno: quando nel 1812 la Prussia si dovette alleare con Napoleone e partecipare all’invasione della Russia egli non esitò ad entrare nell’esercito dello zar ed a combattere (anche a Borodino) contro gli aggressori (prussiani compresi!), riuscendo in seguito a portare dalla parte della Russia stessa altre truppe prussiane. Von Clausewitz dimostrò insomma di essere capace di scegliere il fronte per il quale combattere (a costo di farlo contro il suo stesso paese!). 5 Rientrato in Prussia, dal 1813 partecipò alla guerra di liberazione nazionale antifrancese, l’anno seguente fu reintegrato nell’esercito prussiano e dopo aver partecipato alla battaglia di Ligny fu fra coloro che occuparono Parigi: il resto della sua vita vide la prosecuzione della brillante carriera militare e la stesura (durata 12 anni) del suo capolavoro cui comunque von Clausewitz non potè dare la forma definitiva perché morì improvvisamente di colera prima di essere pronto a darlo alle stampe. ‘Della guerra’ venne così pubblicato postumo nel 1832 (sessant’anni dopo l’arrivo in Europa de ‘L’arte della guerra’ di Sun Tzu) grazie all’interessamento della moglie e di amici che sistemarono le numerose carte che egli aveva lasciato. Von Clausewitz fu uomo d’intelletto oltre che d’azione ed il suo capolavoro è un classico del pensiero, un altissimo sforzo per comprendere filosoficamente la guerra. I Von Clausewitz afferma risolutamente che ‘la guerra … nasce sempre da una situazione politica e viene provocata solo da uno scopo politico’ che ‘continua a costituire elemento precipuo per la sua condotta’. La guerra non è insomma un’attività a se stante, né una volta scoppiata possiede capacità autonoma di direzione perché essa dipende invece dagli scopi e dalle esigenze politiche che l’hanno provocata: ‘la politica si estrinseca attraverso tutto l’atto della guerra’; ‘la guerra non è che una parte del lavoro politico, e non è perciò affatto una cosa a sé stante’ e ‘il lavoro politico non cessa per effetto della guerra … ma continua a svolgersi nella sua essenza, qualunque sia la forma dei mezzi di cui si vale’. E non basta ancora perché secondo von Clausewitz ‘la guerra non è … solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi’: questo riconoscimento (nel 1827 sintetizzato in ‘la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi’) è ancor oggi celeberrimo, una definizione ovunque accettata ed ammirata per la sua chiarezza, concisione, evidenza e (apparente) semplicità, eppure essa non risulta del tutto convincente. Secondo questa definizione sembrerebbe infatti che la vita normale di uno stato proceda in genere (più o meno) pacificamente, ma anche che ogni tanto ciò non sia più possibile e/o sufficiente e che allora il ricorso alla guerra divenga inevitabile: anche Lenin (‘Il fallimento della II Internazionale’, 1915) fece propria questa definizione - affermando che anche Marx ed Engels l’avevano condivisa - ma con l’aggiunta ‘(precisiamo: con la violenza)’ per cui anche secondo lui quando la politica non riesce ad ottenere quello che vuole senza il ricorso alle armi si affida allora alla forza e muove guerra: lo scopo dunque non cambierebbe ma cambierebbero i mezzi impiegati per raggiungerlo. 6 II Eppure sembra più logico pensare invece che i due termini vadano invertiti e che sia invece la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi. Avrebbero avuto insomma ragione Hobbes (1588-1679) ed Hegel (1770-1831). Secondo il primo gli uomini avevano formato le società e vi erano entrati per sopravvivere in sicurezza, così che la sopravvivenza stessa di queste loro società implicava la necessità costante di difendersi e di svilupparsi, cioè di offendere: da ciò derivava ogni azione dello stato, cioè la politica, così che cercare di essere forti e armati era la struttura intima, primaria e fondamentale di ogni nazione o gruppo sociale. Per Hobbes lo stato di guerra era insomma continuo ed ineliminabile e gli stati non si combattevano con le armi solo quando ciò non era per loro conveniente. Per Hegel lo stato si realizzava pienamente e raggiungeva il culmine delle sue potenzialità e del suo valore proprio in guerra, tanto che una pagina di storia (il gigantesco ed onnicomprensivo sviluppo dello spirito del mondo) senza una guerra per lui era una pagina bianca. Certamente è di gran lunga preferibile raggiungere i propri fini senza il bisogno di ricorrere alle armi; ovviamente i fini devono essere possibili e comunque proporzionati all’eventuale sforzo bellico e la miglior difesa è la dissuasione grazie alle proprie forze militari, ma … tutto ciò non è forse guerra? Von Clausewitz ha indubbiamente ragione quando riconosce che la guerra è intessuta di politica, che i suoi scopi sono interamente politici e che è dunque un atto fondamentalmente politico, ma rimane il fatto che è la politica ad essere nata dalla guerra e che la politica stessa è inconcepibile al di fuori di questa prospettiva: la pace non è insomma la condizione normale che ogni tanto viene interrotta dalla guerra, perché la pace è solo la non-convenienza al ricorso alle armi e in se stessa non esiste (se non nei libri dei filosofi). Si pensi pure che lo sviluppo della civiltà è il tentativo di risolvere i problemi senza ricorrere alle armi, ma si consideri anche che senza queste non ci sarebbe nemmeno la trattativa stessa! Appare sicuramente più conveniente e più produttivo trovare sistemi per armonizzare i vari interessi, cercarne di comuni e favorirsi reciprocamente in vista di un’utilità collettiva, ma tutto ciò può funzionare solo se ogni partecipante è in grado di infliggere danni pesanti a chi eventualmente lo attaccasse perchè quando qualcuno pensa invece che per lui sia più conveniente ottenere quello che vuole con la forza allora attacca e scoppia una nuova guerra, nel qual caso o ci si difende o ci si arrende. Probabilmente von Clausewitz penserebbe che qui si tratta di una sottigliezza teorica inutile che non produce nessun cambiamento nella realtà concreta delle cose: posto infatti che la guerra è politica, che importa allora quale delle due abbia la primogenitura logica e storica sull’altra? Ciò è sicuramente vero, ma la filosofia deve fornire comunque il quadro generale della realtà e dunque questa specificazione è importante se vogliamo capire il mondo in cui viviamo nella sua struttura più riposta ed originaria. 7 III Sia come sia, von Clausewitz inizia comunque il suo lungo trattato chiedendosi innanzitutto da vero filosofo che cos’è la guerra e risponde che ‘La guerra è … un atto di forza che ha per scopo costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà’, aggiungendo subito che ‘sono … gli errori risultanti da bontà d’animo quelli maggiormente perniciosi’ perché ‘colui che impiega tale forza senza restrizione … acquista il sopravvento sopra un avversario che non faccia altrettanto e gli detta di conseguenza la propria legge’: ‘la guerra, per la propria essenza, non si ispira a criteri di umanità’; ‘abbattere il nemico è lo scopo della guerra; annientare le forze armate è il mezzo per raggiungere lo scopo della guerra; e ciò tanto nell’attacco che nella difesa.’ La guerra in se stessa, come tale, non muta col progredire della civiltà che semplicemente ne modifica solo la forma ed il modo in cui essa viene combattuta: la guerra era e rimane insomma un ‘atto di violenza’, ‘un atto di forza all’impiego della quale non esistono limiti’: la sua è una ‘energia frantumatrice’. Nonostante nella sua vita von Clausewitz abbia scelto da che parte combattere, nella sua opera invece - come del resto Sun Tzu – non si mette nemmeno a cercare motivi che rendano la guerra giusta né vi accenna mai perché ogni stato ovviamente combatte per motivi che ritiene giusti: egli non si interroga poi su come vivere in pace con gli altri stati perché secondo lui la pace si ottiene solo con la vittoria e col conseguente dominio del nemico sconfitto. Von Clausewitz non si nasconde che la guerra è violenza, morte, sangue, distruzione e sofferenza: al contrario, la guerra è trattata senza che mai vengano taciute tutte le sue terribili necessità e tutto il dolore che provoca nei combattenti e nelle popolazioni civili coinvolte. Egli però non mostra mai il minimo interesse per l’orrore e le tragedie che una guerra comporta né nelle sue pagine traspare la benchè minima compassione per chi è trascinato e stritolato nel vortice di un conflitto: in esse non compare mai nemmeno la più piccola descrizione degli orrori di uno scenario di guerra e tutto viene invece analizzato con la più calma, lucida e fredda razionalità. Ognuno dei molteplici e numerosissimi aspetti della guerra è studiato col massimo distacco di chi calcola probabilità, costi, pesi, ecc. come se parlasse di cose senza vita e non di esseri umani: dato che l’unico scopo della guerra è la vittoria, vanno allora individuati solo i mezzi più adatti per il suo conseguimento senz’altra considerazione che la loro utilità e validità rispetto al raggiungimento del fine. Quella di von Clausewitz è insomma l’assoluta indifferenza di chi si limita a contare e a calcolare. Non stupisce quindi che egli non parla mai - nemmeno per minimo accenno o per trascurabile inciso - di religione, dimostrando così il completo laicismo di chi fa affidamento unicamente sulle forze e sulle risorse umane, le uniche da prendere in considerazione in caso di guerra. Dopo aver risposto alla domanda (filosofica) su che cos’è la guerra all’inizio dell’opera ed averne esaminato i tanti aspetti nello svolgimento dei suoi numerosi 8 capitoli, alla fine di essa (dopo oltre 770 pagine!) von Clausewitz (vero filosofo) ritorna però proprio su questo fondamentale concetto (squisitamente platonico) dell’essenza della guerra: il suo capolavoro inizia e finisce dunque con l’illustrazione di questa idea - perchè essa è di importanza capitale. Von Clausewitz chiama così ‘guerra assoluta’ il suesposto concetto di guerra, la risposta alla domanda ‘cos’è la guerra?’, la guerra nella sua essenza profonda, la guerra pura ed ideale nella sua necessità, specificando che nella ‘forma assoluta della guerra … non vi è che un sol risultato: il risultato finale.’ IV Un trattato sulla guerra deve entrare però anche nel campo ben più problematico della realtà concreta dove ad essere combattuta è la ‘guerra reale’, molto più complicata della logica, semplice e lineare guerra assoluta: nel mondo storico concreto infatti una miriade di ostacoli, attriti, incomprensioni, limiti, errori, ecc. sono ‘la causa per cui la guerra [reale] diviene tutt’altra cosa da quello che dovrebbe essere secondo il suo concetto fondamentale: diviene un prodotto bastardo, una sostanza priva di intima coesione’. Anche se dunque nella realtà concreta la guerra non può svilupparsi secondo la sua essenza teorica, per von Clausewitz quest’idea dev’essere però ugualmente e completamente chiara e presente quando si pensa alla guerra (o la si prepara e conduce) per far sì che nell’azione pratica ci si possa avvicinare al suo concetto (cioè alla sua perfezione) nel maggior e miglior modo possibile: ‘tutte queste conseguenze [dell’interferenza di fattori estranei nella guerra reale], la teoria deve riconoscerle. Ma è tuttavia suo dovere partire dal concetto-base della forma assoluta della guerra’; accade così che le ‘sue [della guerra] forme reali … se ne [dalla guerra assoluta] allontanano più o meno’ così che ‘la guerra può essere più o meno “guerra” ’. ‘La guerra reale non è mai una tendenza così conseguente, così rivolta verso l’estremo, come dovrebbe essere secondo l’idea originaria; essa non è che una mezza misura implicante intima contraddizione e pertanto non può seguire completamente leggi proprie: essa è il frammento di un altro complesso, e questo complesso è la politica. La politica, servendosi della guerra, evita tutte le conclusioni rigorose che l’essenza di questa comporterebbe’: oltre all’impossibilità generale di far corrispondere la guerra reale al suo concetto, ad ogni tipo di scopo politico corrisponde quindi anche un diverso tipo di guerra (più o meno violenta, più o meno ad oltranza, ecc.) mentre la sua conclusione dipende evidentemente anche dall’entità delle forze che ognuno dei contendenti è in grado di mettere in campo e dai prezzi che è disposto a pagare. In conclusione insomma, secondo von Clausewitz in ogni guerra lo scopo è contemporaneamente diverso (perché diversi sono gli scopi politici) ma anche lo stesso perché ‘si tratta sempre ed unicamente di abbattere l’avversario’ ‘fino a che anche la volontà del nemico non sia domata’. 9 Poco più di un trentennio dopo von Moltke e Bismarck avrebbero messo pienamente in pratica gli insegnamenti di von Clausewitz colpendo decisamente al cuore il nemico con le loro brillanti guerre-lampo contro l’Austria e contro la Francia. V Secondo von Clausewitz il concetto filosofico di guerra assoluta dev’essere dunque tenuto sempre presente come linea-guida di tutte le nostre azioni in questo campo, ma, oltre a ciò, visto che la guerra reale è uno sviluppo della politica, è facile comprendere anche che ‘appena … la politica diviene grandiosa e rigorosa, lo diviene anche la guerra [reale], per assurgere fors’anche fino all’altezza in cui … giunge alla sua forma assoluta.’ E fu proprio questo che successe: ‘si potrebbe dubitare che l’idea che abbiamo del suo [della guerra] carattere assoluto possa avere qualche valore pratico, se non l’avessimo vista realizzarsi precisamente ai giorni nostri con una compiutezza assoluta’: la guerra infatti ‘ha assunto, con Bonaparte, la sua forma assoluta.’ Tutta la riflessione di von Clausewitz riposa sulla convinzione che con la rivoluzione francese la guerra era entrata in una fase nuova ed aveva assunto caratteri del tutto inediti (seppur in parte anticipati da Federico II (1740-86)) rispetto a quelle combattute fino a quel momento: la rivoluzione francese aveva infatti burrascosamente infranto tutti gli schemi dell’ancièn regime e la nuova società che ne era nata aveva esaltato ed unito come non mai le forze popolari, giunte così ad un livello di coscienza politica e di partecipazione attiva alla vita pubblica tali da permettere al governo di raccogliere e di mobilitare come non mai tutte le loro energie - e ciò era avvenuto ovviamente anche in campo militare. Mentre ‘durante il XVIII secolo … la guerra era ancora un affare che interessava il solo governo. La nazione vi partecipava solo come cieco strumento’, ‘nel 1793 … improvvisamente la guerra era ridivenuta una questione di popolo’ così che ‘da quel momento i mezzi impiegabili, gli sforzi possibili, non ebbero più un limite conosciuto’ perchè grazie ‘all’efficacia di una leva in massa e ad un popolo in armi … è naturale che tutti gli attriti … vengano a ridursi ad un minimo, e che tutte le fonti di aiuto siano a portata ed abbondanti’. I mutamenti sociali e politici erano stati dunque decisivi per la nascita di un nuovo tipo di guerra: non solo infatti l’esercito era diventato molto più numeroso, ma i soldati erano stati anche educati agli scopi della guerra rivoluzionaria e da passivi esecutori di ordini si erano trasformati in combattenti convinti di avere un ruolo attivo nel suo svolgimento e di star facendo la storia, mentre le carriere nell’esercito erano divenute fulminee ed i gradi si conquistavano sul campo per i meriti riconosciuti durante l’azione. Questa nuova guerra era poi stata elevata ai suoi massimi livelli da Napoleone (che von Clausewitz chiama sempre Bonaparte) - ‘il condottiero più risoluto che mai sia esistito’, ‘il dio stesso della guerra’ - il cui genio militare aveva potentemente contribuito alle stupefacenti affermazioni della nuova forza rivoluzionaria sui campi di battaglia: ‘dacchè tutto questo complesso si fu perfezionato nelle mani di 10 Bonaparte, questa forza militare appoggiata a tutta la potenza della nazione attraversò l’Europa infrangendo ogni resistenza’ - e costrinse le altre nazioni a reagire con mezzi adeguati e simili. Il punto fondamentale di tutta l’analisi di von Clausewitz è tuttavia che questo radicale mutamento della guerra (‘l’elemento della guerra, sbarazzato da ogni barriera convenzionale, irruppe con tutta la sua naturale violenza. Ragione essenziale di ciò, la partecipazione dei popoli a questi grandi interessi politici’) non fu un semplice adeguamento delle forme e della condotta della guerra (reale) alle nuove condizioni sociali e politiche, ma fu invece la miglior realizzazione pratica del concetto (filosofico) di guerra assoluta che mostrò così di essere non tanto il risultato di uno sforzo del pensiero, ma una chiarificazione della realtà stessa: ‘dall’epoca di Bonaparte la guerra, divenendo dapprima per l’una parte e poi per l’altra una causa nazionale, cambiò interamente natura; o piuttosto si avvicinò molto alla sua essenza originaria, alla sua perfezione assoluta. I mezzi impiegati non ebbero più limiti’; ‘sono le ultime guerre che hanno reso possibile alla teoria di adempiere a questo compito [definire il concetto filosofico di guerra assoluta] in modo efficace. Senza questi esempi ammonitori della potenza distruttrice dell’elemento scatenato, la teoria griderebbe invano nel deserto: nessuno crederebbe possibile ciò che tutti hanno visto recentemente’; ‘la guerra ha anch’essa subito modificazioni profonde nella sua essenza e nelle sue forme, sì da ravvicinarle al carattere assoluto. … esse sono nate sia in Francia sia nel resto dell’Europa.’ Continui sono così gli esempi e le analisi delle campagne napoleoniche, e soprattutto di quella di Russia del 1812 in cui si riassunsero ed arrivarono al loro culmine tutte le novità e le radicalità della sconvolgente era militare nella quale l’Europa intera era improvvisamente entrata: la campagna di Russia del 1812 fu infatti la più compiuta guerra di annientamento mai realizzata. Se dunque le guerre degli anni 1792-1815 resero vivo ed avvicinarono alla realtà concreta il concetto teorico di guerra assoluta, per von Clausewitz (testimone diretto degli eventi) tuttavia quest’ultimo si materializzò e realizzò pienamente in tutta la sua radicalità soprattutto nella campagna di Russia del 1812, quando (ripetiamolo) l’annientamento raggiunse la sua forma più compiuta e definitiva e la guerra reale venne così a coincidere con la guerra assoluta. Chiarito il concetto di guerra assoluta ed indicata la sua realizzazione più compiuta nelle guerre scoppiate in seguito alla rivoluzione francese e soprattutto con Napoleone, von Clausewitz si chiede però anche se la guerra (reale) d’ora in avanti si sarebbe mantenuta su questi livelli di partecipazione popolare e di totale distruzione dell’avversario oppure se le società europee sarebbero tornate a lasciar fare la guerra ai loro governi ed a subirla (in forma però attenuata!) più o meno passivamente: ‘Resteranno le cose sempre così … oppure si ristabilirà nuovamente un isolamento fra i governi da un lato e i loro popoli dall’altro?’ Egli non potè evidentemente rispondere e solo il prosieguo della storia avrebbe mostrato che ambedue le strade sarebbero state percorse. 11 VI Nel trattare la guerra reale von Clausewitz dà prova di tutta la sua competenza e conoscenza dell’argomento: dalla sua lunghissima e completa analisi emerge quanto la guerra reale è un processo lungo e complesso nel quale tutte le forze a disposizione vengono messe in campo ed impiegate in un’infinità di modi a seconda della situazione di partenza, dei suoi sviluppi nei vari settori, del terreno, delle risorse a disposizione, della conoscenza del nemico, delle sue manovre, dell’opportunità tattica, ecc., mentre anche il caso e la fortuna, oltre alle capacità dei contendenti, hanno un ruolo di rilievo, tanto importante che von Clausewitz conclude che ‘di tutti i rami dell’attività umana, la guerra è quello che più rassomiglia a una partita con le carte da gioco’ (!). Altro fattore importantissimo della guerra è il famoso morale delle truppe (e della società da cui esse provengono) - da cui deriva il loro coraggio e la loro perseveranza - che è fondamentale in un contesto in cui il pericolo, le fatiche, i disagi, l’incertezza, la paura, ecc. sono continui: visto infatti che ‘la guerra … è lotta …, le energie morali non possono essere escluse, giacchè lo stato dell’animo esercita la più decisiva influenza sulle forze combattenti’. Questi sono gli unici sentimenti che von Clausewitz prova, dei quali si accorge, che tratta diffusamente ed ai quali attribuisce un’importanza estrema. Lungi dall’essere barbarie, la guerra è insomma un atto estremamente razionale, ramificato e complicato che richiede grandi intelligenze e competenze: la guerra spazia dalla preparazione e dall’addestramento alla logistica, dai servizi alle conoscenze tecniche in un’enorme quantità di campi e di attività, e tutto infine va dominato ed organizzato da un centro direttivo unico e superiore. Una dottrina completa della guerra per von Clausewitz è tuttavia impossibile anche perchè il continuo modificarsi della situazione e la costante insorgenza dell’imprevisto necessitano di decisioni per le quali è richiesto un indefinibile talento naturale del tutto particolare e senza del quale il comandante supremo è destinato alla sconfitta: ‘per effetto di una semplice intuizione dello spirito … avviene … la maggior parte delle cose che si fanno in guerra’; il ‘condottiero … deve in certo qual modo congetturare’; i ‘grandi capitani … dalla loro altezza scorgono con un colpo d’occhio l’insieme delle cose’. Ecco allora che ‘il punto di vista libero ed elevato del condottiero, il suo modo semplice di concepire le cose, l’immedesimazione della sua persona nell’atto della guerra costituiscono a tal punto, in modo completo, il nocciolo di ogni buona condotta di guerra, che solo in questo modo grandioso è concepibile la libertà di spirito necessaria per dominare gli avvenimenti [bellici]senza venirne sopraffatti.’ Capacità (anche improvvisazione) e responsabilità crescono ovviamente col crescere del comando finchè ai massimi livelli sono poi indispensabili esperienza, doti eccezionali di carattere e l’assoluta disponibilità all’adattamento cui le circostanze mutevoli ed impreviste costringono continuamente. Oltre che di una mente ordinatrice di prim’ordine, von Clausewitz dà continua prova di grande ampiezza di giudizio e contemporaneamente di possedere una vastissima 12 quantità di informazioni: nulla rimane fuori dalla sua indagine mentre il suo equilibrio, la sua profondità e la completezza del suo esame nel gestire una materia così vasta ed articolata sono semplicemente straordinari. La panoramica della guerra che egli sa offrire al lettore lo conquista e desta in lui la più sincera e meritata ammirazione. VII In un esame così approfondito ed esaustivo come quello che von Clausewitz fa della guerra non poteva mancare il riferimento a quella che oggi chiamiamo ‘guerriglia’ e che lui chiama invece ‘guerra di popolo’: essa si verifica quando non è più l’esercito nazionale che combatte, ma, appunto, è il popolo che si arma e che resiste ad un esercito invasore. Quando insomma ‘la popolazione comincia a prendere parte alla lotta fino all’elevatissimo grado in cui, come in Spagna [1808-14] la guerra è condotta precipuamente dal popolo in armi, si comprende che non si tratta più soltanto di un’accentuazione dell’assistenza popolare [all’esercito nazionale], bensì di una vera nuova potenza.’ E’ evidente che le bande di partigiani e di guerriglieri non potrebbero mai affrontare il nemico in campo aperto perché ne verrebbero irrimediabilmente travolte: esse invece devono rendere impossibile la vita degli invasori i quali se rimangono uniti sono invincibili ma possono controllare soltanto una piccola parte del paese occupato, mentre se si disperdono diventano invece deboli e vulnerabili: l’esercito invasore dev’essere insomma avvolto da una popolazione ostile ed agguerrita e ‘quanto maggiore è il contatto in cui essa [la guerra di popolo] si mantiene coll’esercito avversario, dunque quanto maggiormente esso esercito si allarga, tanto maggiore sarà l’efficacia della guerra di popolo. Essa, al pari di una fiamma che lentamente si propaghi, distrugge le basi della saldezza dell’esercito nemico’, così ‘l’incendio si propaga come in una brughiera e, in definitiva, raggiunge il terreno sul quale l’avversario si basa, invade le sue linee di comunicazione, corrode i nervi vitali della sua esistenza.’ I partigiani sono sostenuti dalla popolazione tutta, aggrediscono i reparti isolati, sanno poi sparpagliarsi immediatamente per raggrupparsi altrettanto velocemente in vista del prossimo colpo. E’ evidente che la guerra di popolo ha dei costi umani spaventosi, ma non sono questi che preoccupano von Clausewitz che, al solito, non li prende mai in consideazione. Un aspetto della guerra di popolo cui von Clausewitz accenna soltanto è poi che un popolo in armi è un popolo che obbedisce solo a se stesso, dunque è inevitabilmente un popolo rivoluzionario che non può non suscitare apprensione ed opposizione in tutti i conservatori i quali infatti sono contrari alla guerra di popolo perchè giustamente ‘la considerano come un mezzo rivoluzionario altrettanto per l’ordine sociale interno proprio quanto per il nemico’. 13 Ai tempi di von Clausewitz questo era un problema che poteva essere solo faticosamente immaginato, ma nel secolo seguente avrebbe avuto invece una rilevanza tanto grande da mutare il carattere della guerra (reale) stessa. VIII La guerra di cui Von Clausewitz parla con tanta competenza era pur sempre quella dei suoi tempi, quella combattuta con eserciti regolari da stati europei che avevano raggiunto sostanzialmente lo stesso livello tecnologico. Egli si chiede allora come raggiungere ed assicurarsi quella superiorità che in caso di guerra garantisca la vittoria, e risponde che, dato che le condizioni materiali erano sostanzialmente le stesse in tutta Europa e che il genio militare di un condottiero è un imprevisto ed imprevedibile dono della natura, bisognava allora puntare sulle importantissime qualità morali, le uniche che permettono ad una nazione di sviluppare e valorizzare tutte le sue potenzialità e le sue energie e ad un esercito di sopportare le terribili durezze che la guerra impone e di possedere quella costanza e quel coraggio di credere e di perseverare fino alla vittoria: è insomma lo spirito che fa la differenza. ‘Ai nostri giorni gli eserciti si rassomigliano talmente per armamento, equipaggiamento ed addestramento, che … all’infuori del talento del comandante supremo … che dipende interamente dal caso, il solo fattore atto a confermare una superiorità notevole ad un esercito è l’abitudine alla guerra.’ ‘Lo spirito d’audacia può essere proprio di un esercito sia perché procede dalla nazione stessa, sia perché è stato generato da una guerra fortunata sotto un capo ardito: nel secondo caso, però, verrà inizialmente [in una nuova guerra ] a mancare. Ora, ai nostri tempi, non esiste altro mezzo che la guerra, e la guerra condotta audacemente, per sviluppare lo spirito nazionale in questa direzione. E’ questo il solo rimedio contro il rammollirsi dei caratteri, contro le tendenze alla comodità verso cui è tratta ogni nazione che aumenta il proprio benessere ed estende le proprie relazioni commerciali. Solo quando il carattere nazionale e l’abitudine alla guerra siano in relazione reciproca e si sostengano a vicenda, una nazione può sperare di occupare una posizione stabile nel mondo politico’. Ripetutamente von Clausewitz assegna quindi la massima importanza alle caratteristiche guerriere di un popolo perché senza di esse la guerra non si vince ed anzi ci si indebolisce progressivamente: una nazione deve essere abituata alla guerra, educata alla guerra, preparata alla guerra e, soprattutto, combattere molte guerre. Solo in questo modo si forgia lo spirito guerriero di un popolo, solo così lo si rende forte e invincibile, maschio e potente, sobrio e determinato, audace e resistente. E’ appena il caso di ricordare che von Clausewitz scriveva negli anni in cui Hegel teneva le sue famose lezioni di filosofia della storia in cui campeggiavano le gesta grandiose dello spirito del mondo e che oltre mezzo secolo dopo Nietzsche avrebbe profetizzato la futura società degli oltreuomini, di coloro cioè che, sereni e terribili guerrieri (dello spirito), sarebbero stati in grado di cogliere e di accettare la logica ed 14 inevitabile conseguenza (per gli spiriti forti) della morte di Dio ed avrebbero quindi abbattuto la morale cristiana e tutti i suoi derivati democratici e socialisti (cioè pacifisti) in vista della gioiosa e terribile affermazione della loro volontà di potenza. Un secolo dopo il fascismo ed il nazismo avrebbero fatto propria questa valorizzazione ed esaltazione clausewitziane della guerra (di conquista) e puntato apertamente a quella formazione del carattere dell’intera società in senso militare e bellicista raccomandata dal grande generale prussiano: è questo un punto che i suoi numerosi ammiratori sembrano trascurare con troppa disinvoltura mentre è la logica conclusione di tutto il suo pensiero. La concezione marxista della guerra Il marxismo ritiene che il motore della storia sia l’economia e che dunque la struttura di una società sia il tipo di economia che in essa vige: a sua volta ogni tipo di economia divide la società in classi a seconda del ruolo svolto nella produzione, ma la divisione fondamentale è quella fra i detentori dei mezzi di produzione (i padroni) e coloro che li utilizzano per produrre (gli sfruttati). E’ evidente che queste due classi sono antagoniste ed in contraddizione fra loro dato che i loro interessi (la ripartizione del prodotto sociale) sono inevitabilmente contrapposti e conflittuali: non a caso lo stesso ‘Manifesto del partito comunista’ di Marx ed Engels si apre proclamando che ‘la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi’ e che dunque la lotta di classe è la logica della storia stessa. Tutto il complesso e multiforme andamento storico e politico di una società deriva ed è comprensibile solo a partire dall’ineliminabile conflittualità (più o meno latente) fra le classi sociali in contrapposizione fra loro: tutto il mondo dello spirito (politica, giurisprudenza, ogni manifestazione della cultura e della mentalità, ecc.) è sovrastruttura che esprime ad un livello astratto precisi interessi economici (cioè è una ideologia) dai quali gli derivano i suoi contenuti particolari. Il comunismo si prefisse di giungere all’abolizione delle classi sociali mediante una rivoluzione che risolvesse finalmente tutte le fratture e le contraddizioni sociali e realizzasse così un mondo di liberi e di uguali. Questi poverissimi e limitatissimi cenni bastano però a farci comprendere perché scoppi e cosa sia la guerra in una prospettiva marxista: la guerra è la difesa o la ricerca di precisi interessi economici da parte delle classi padronali (naturalmente al governo) che non riescono più a mantenere ed a gestire (o ne hanno di nuovi) senza far ricorso alle armi. Il marxismo riesce a spiegare ogni fenomeno storico muovendo dagli interessi economici delle classi padronali al potere e anche la guerra non fa dunque eccezione, ma è evidente che gli sfruttati non hanno il minimo interesse alla guerra di cui oltretutto devono sopportare tutti i pesi e tutti i costi: essi, inquadrati in eserciti che riproducono pienamente le divisioni sociali, devono andare ad uccidere e a morire per favorire gli interessi dei loro sfruttatori, (più o meno) spinti dai valori e dall’ideologia 15 dei loro padroni stessi che cercano di convincerli che una guerra riguarda tutta la società, lo stato, la nazione, e che è una missione collettiva di tutto il popolo. Per il marxismo la guerra è insomma solo un momento acuto della costante lotta del padronato per assicurarsi maggiori e migliori profitti: in guerra lo sfruttamento dei lavoratori ovviamente cresce a dismisura (sui luoghi di lavoro e al fronte) seppur mascherato dalla propaganda nazionalistica, dalla retorica patriottica e dai richiami all’eroismo ed ai valori militaristici … mentre fucilazioni, codici militari di guerra e tribunali militari contribuiscono grandemente al mantenimento della disciplina. Si comprende facilmente dunque perché Marx, Engels e Lenin concordassero pienamente con von Clausewitz che ‘la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi’, visto che per loro il suo scopo era sempre lo stesso, interessi economici e profitti del padronato, e cambiavano solo i mezzi per raggiungerlo ed assicurarselo. Per i marxisti gli sfruttati non hanno invece patria (il famoso internazionalismo proletario), essi sono fratelli solo degli altri sfruttati ed hanno per nemici solo coloro che tolgono loro il frutto del loro lavoro e li fanno vivere in uno stato di alienazione: la loro vera guerra è insomma solo la rivoluzione che ponga termine a questo stato di vera e propria disumanità. Quando scoppiò la prima guerra mondiale Lenin fu netto e deciso nel respingerla e denunciarla per quel che realmente era, anche se dovette assistere al completo fallimento della Seconda Internazionale quando i socialisti francesi ed i socialisti tedeschi si schierarono a fianco dei loro governi ed andarono a combattersi senza quartiere nei crudeli carnai delle trincee, proprio loro (e non solo) che per un venticinquennio erano stati seduti l’uno a fianco dell’altro a denunciare le malefatte del capitalismo ed a preparare la futura era socialista. I Quando i marxisti salirono al potere e fondarono l’URSS la prospettiva in cui considerare la guerra naturalmente cambiò e si verificò un particolarissimo connubio: dopo che l’autonomia e l’indipendenza delle repubbliche che erano nate dal disfacimento della Russia erano state bruscamente soffocate e l’impero zarista era stato riconquistato (almeno in Asia), Stalin continuò a portare avanti la politica imperiale precedente ma la giustificò con la necessità di diffondere e rafforzare la rivoluzione. Tutti i comunisti del mondo dovevano stringersi intorno all’URSS e difenderla contro le minacce che le venivano dal mondo capitalistico che la serrava da ogni parte: il fallimento dell’URSS avrebbe significato infatti una sconfitta gravissima anche per l’intero movimento comunista internazionale (che per parte sua trovava appoggio e protezione proprio nell’unico stato in cui era al potere). La vera patria dei lavoratori (sic) e dei comunisti era l’URSS ed era a lei che essi dovevano la loro fedeltà, di qualunque altro stato fossero ed in qualunque altro stato vivessero: era lei che dovevano difendere e sostenere contro tutti i suoi nemici, compresi i propri governi. 16 Stalin ed i suoi successori praticarono sempre la più aperta politica di potenza imperiale contraddicendo completamente il messaggio di liberazione che pure il marxismo rappresentava, ma sapevano di poter contare sul pieno e convinto sostegno del movimento comunista internazionale: qualsiasi politica l’URSS portasse avanti la giustificava infatti col richiamo alla rivoluzione e colla necessità di sventare le manovre ed i complotti della reazione e del capitalismo perennemente assetato di profitti e di denaro (altrui). Il movimento comunista internazionale non si oppose mai a nessuna guerra offensiva, invasione di stati, soffocamento di popoli, che l’URSS portò avanti: esso giudicò sempre che era lei la vittima o che agiva a fin di bene, rispolverando ed adattando alla bisogna tutta l’ideologia colonialista che pure condannava decisamente (negli altri). Era tuttavia evidente che la politica dell’URSS era la continuazione di quella zarista e che le sue guerre in nulla differivano da quelle degli aborriti capitalisti (se non nella propaganda). Anche gli altri stati che divennero comunisti (Cina innanzitutto) dopo la rivoluzione non mutarono certo la loro politica estera nè il loro atteggiamento verso la guerra (anzi, divennero ancor più espansionisti e bellicisti): anch’essi però la rivestirono della loro stucchevole propaganda. In conclusione, la concezione marxista della guerra ha avuto senso solo fino al 1917: dopo si è trasformata in rozza ipocrisia, in apologia dell’Unione Sovietica, nello sperticato appoggio ad ogni sua aggressione e cioè nel fanatismo di chi si rifiutava di riconoscere per quel che erano anche le realtà più evidenti dell’espansionismo dei nuovi stati comunisti. Marinetti: guerra sola igiene del mondo Il 20 febbraio 1909 su un editoriale del ‘Figaro’ Filippo Tommaso Marinetti (18761944) pubblicò il manifesto del Futurismo dando inizio e vita ad una corrente letteraria, artistica, ma anche politica, che si sarebbe diffusa in tutta Europa (soprattutto in Russia) e che sarebbe presto diventata una delle manifestazioni più caratteristiche dei suoi tempi dei quali seppe esprimere ed interpretare genialmente le tumultuose novità. Marinetti sosteneva che il prodigioso sviluppo scientifico e tecnologico (la cosiddetta ‘seconda rivoluzione industriale’) aveva ormai trasformato l’intera vita dell’Europa (dominatrice allora di interi continenti) il cui spirito però non si era ancora adeguato a questa radicale trasformazione e che dunque era tempo di procedere decisamente in questa direzione: ‘Il Futurismo si fonda sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche’. Arte, letteratura e insomma tutto il pensiero europeo erano infatti ancora legati ai canoni ed alla mentalità di un passato coltivato con cura e dedizione, ma in questo modo sfuggivano completamente le enormi possibilità che ora invece si offrivano all’uomo moderno, potente come mai era stato e proiettato verso realizzazioni fino a quel momento addirittura inconcepibili. 17 Si doveva insomma adeguare il pensiero alla realtà ormai rivoluzionata dalla scienza e dalla tecnica (‘Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico’). Un po’ come quando nel XV e XVI secolo si era continuato a coltivare il classicismo, a scavare nelle polverose biblioteche monastiche all’affannosa ricerca di testi classici e si era ammirato in modo incondizionato l’antichità mentre interi continenti e popoli sconosciuti venivano intanto scoperti e panorami impensabili si offrivano ai navigatori ed agli esploratori che avevano varcato i confini del mondo, anche nel nuovo XX secolo tutto si era messo tumultuosamente in movimento mentre la cultura era rimasta paciosamente rivolta al passato e sembrava non essersi accorta di nulla (!): ‘l’uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto ad una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno’ e bisognava allora spezzare e distruggere questa incomprensibile e perniciosa attitudine alla tranquilla e soddisfatta contemplazione del passato. In questa sede non sono in esame le radicali novità in campo artistico e letterario proposte dal Futurismo e basterà dunque segnalare che esso fu una furiosa negazione (teorica ma anche pratica) della vita quieta che si pasceva del passato, inconcepibilmente inconsapevole delle rivoluzionarie novità del presente e delle straordinarie possibilità del futuro: ‘Il presente non mai come in questi tempi apparve staccato dalla catena genetica del passato, figlio si sé stesso e generatore formidabile delle potenze future’ così che ‘gli uomini ridiventano mitici!’. Marinetti ed i suoi compagni si scatenarono così nella contestazione di tutti i canoni letterari, artistici, filosofici (e politici!) esistenti e nell’elaborazione di nuove forme espressive che fossero finalmente in grado di cogliere le straordinarie novità dei tempi moderni e di essere a loro adeguati. Il Futurismo si proponeva un ‘acceleramento della vita’ (esso aveva un vero e proprio culto per la velocità), professava ‘orrore di ciò che è vecchio … e del quieto vivere’ puntando tutto al contrario su ‘moltiplicazione e sconfinamento delle ambizioni e dei desideri umani’. Alla base di tutto ciò stava il riconoscimento che ‘l’uomo moltiplicato dalla macchina’ aveva aumentato a dismisura (e più ancora l’avrebbe fatto in futuro) le sue possibilità d’azione, ma avrebbe potuto raggiungere ed oltrepassare tutti i confini che fino a quel momento l’avevano fermato solo se avesse spezzato le catene che lo avvincevano ancora alla tradizione e al passato: nel ‘Futurismo … la volontà di distruggere e di rinnovare è tutto’ e bisognava allora assestare ‘pugni schiaffi e calci in faccia ai passatisti’. I Non è possibile cogliere la dirompente e trascinante energia che Marinetti (la ‘caffeina d’Europa’) infondeva nelle sue opere incendiarie se non leggendole e lasciandosi prendere dalla loro freschezza e frenesia, ma fin dall’inizio esse tracimarono dall’arte e dalla letteratura e fecero tutt’uno con una nuova proposta politica - e questa nuova politica futurista (che l’Italia avrebbe dovuto intraprendere al più presto) aveva come sua strategia e suo mezzo principale la guerra. 18 Marinetti incitò alla ‘distruzione!’ dell’esistente proclamando fin dal 1909 ‘l’odio per ogni forma politica pacifista’ e ‘l’esecrazione dell’Austria’ visto che ‘serva è più che mai l’Italia al Pangermanesimo’ (che con la Triplice Alleanza bloccava l’Italia e assicurava equilibrio e stabilità alla vecchia Europa decrepita): tutto si teneva nella visione futurista perché è ovvio che il radicale cambiamento così tanto auspicato e bramato si sarebbe potuto realizzare solo attraverso l’abbattimento del vecchio ordine e l’instaurazione di un sistema politico che, dinamicamente aperto al futuro, si basasse sull’intraprendenza, la novità, il continuo sorpasso fichtiano di limiti e di ostacoli, il raggiungimento di obiettivi sempre nuovi e sempre possibili per chi li avesse davvero compresi e voluti. E tutto ciò sarebbe stato possibile solo con la guerra. II Gli anni in cui Marinetti fondò il Futurismo furono comunque gli anni in cui l’intera Europa era percorsa da fremiti di insoddisfazione, di rifiuto della stabilità soddisfatta, di ricerca della potenza e di un acceso sentimento - giudicato ‘irrazionalista’ – di esaltazione dell’azione di cui si sentiva il bisogno prepotente: l’Europa era appena uscita dalla straordinaria avventura della conquista dell’Africa e dell’Asia, aveva così allargato i confini del proprio dominio come mai le era accaduto nella sua storia millenaria, ma ciò, invece di soddisfazione, tutto al contrario aveva acuito un senso di competizione e di ostilità fra gli stati che si avvertivano l’uno minaccia e limite soffocante dell’altro. La filosofia di Nietzsche aveva già profondamente presagito l’imminente arrivo di una nuova era improntata dalla trasvalutazione di tutti i valori, dalla lotta e dall’autoaffermazione ottenuta grazie alla liberazione ed al trionfo della celeberrima volontà di potenza: in Italia Gabriele D’Annunzio aveva fatto propria (seppur a modo suo) questa filosofia esaltando la figura del superuomo libero da ogni impaccio nel suo insopprimibile diritto al dominio ed all’affermazione di sé. A Firenze nel dicembre 1910 Enrico Corradini fondò l’Associazione Nazionalistica Italiana (o Partito Nazionalista) che propugnava l’unione di tutti gli italiani e la necessità di espansione e di conquista cui essi avevano diritto ma che sarebbero stati possibili solo se essi si fossero sentiti un popolo, fuso insieme e coeso: come riconosce Francesco Gaeta, in questa prospettiva ‘la guerra diventava la suprema manifestazione dello spirito e della potenza della nazione’ e ‘l’immagine più alta della nazione non era … il parlamento, ma l’esercito, perché il parlamento era i ‘partiti’, cioè la divisione della nazione’. Nazionalisti e futuristi erano ambedue frutto dello sviluppo industriale dell’Italia, ma essi aborrivano Giovanni Giolitti, lo statista che aveva realizzato al meglio proprio questo sviluppo! L’Italia di Giolitti era giudicata infatti ‘Italietta’, cioè uno stato che si accontentava, che pensava in piccolo e che voleva vivere comodamente, che non aveva ambizioni, che non voleva correre pericoli, che non sapeva osare, che pensava solo al benessere materiale e che voleva essere lasciato in pace. 19 Fu così in questa temperie politica e spirituale che Giolitti acconsentì comunque alla guerra di Libia (1911-12), ma fu con lo scoppio della prima guerra mondiale che la situazione si mise decisamente in movimento con l’accanito scontro fra interventisti e neutralisti (dall’estate del 1914 alla tarda primavera del 1915). III Nazionalisti e futuristi furono naturalmente tutti ardenti interventisti, ma nel caso di Marinetti il discorso fu molto più generale perché fu in quei mesi bollenti che egli intitolò ‘Guerra sola igiene del mondo’ una serie di suoi interventi e questo titolo era già tutto un programma. Secondo Marinetti occorreva una ‘modificazione della concezione della guerra, diventata il collaudo sanguinoso e necessario della forza di un popolo’ tanto che ‘l’Italia dovrà essere impavida, accanitissima, elastica e veloce come uno schermidore, indifferente ai colpi come un boxeur, impassibile all’annuncio di una vittoria che costasse cinquantamila morti, o anche all’annuncio di una disfatta’. Si è visto che già von Clausewitz aveva richiamato la necessità che un popolo venisse costantemente tenuto in guerra perché questo era l’unico modo per forgiarne il carattere e dargli dunque la superiorità sui nemici, ma nel caso di Marinetti c’era però di più: per Marinetti infatti la guerra era lo strumento principe non solo per affermare la potenza dell’Italia nel mondo, ma soprattutto per gestire quello stravolgimento spirituale che avrebbe dovuto fare finalmente del popolo italiano un popolo futurista. Von Clausewitz era stato insomma un conservatore mentre Marinetti, un secolo dopo, un rivoluzionario, così se per il primo il problema era solo di essere vincitori in un mondo che comunque continuava a rimanere uguale a se stesso, dal secondo invece la guerra era intesa soprattutto come distruggitrice di equilibri e di tradizioni, di sistemi consolidati, di abitudini e di consuetudini, insomma di tutta quella società che guardava, immobile ed immobilizzata, al passato. Ecco perché Marinetti definì ‘la guerra, Futurismo intensificato’, perché la guerra distruggeva per rigenerare, liquidava i pavidi e gli incerti, forgiava i forti e gli ardimentosi, mobilitava tutte le energie e tutte le risorse, era l’affermazione più importante dell’azione, del cambiamento, della rivoluzione e dell’accettazione della sfida del futuro. Un futurista pacifista sarebbe stata insomma una contraddizione di termini. IV I futuristi furono dunque tutti ardenti interventisti e Marinetti fu più volte arrestato (una volta anche insieme a Mussolini): essi partirono tutti volontari per il fronte e Marinetti fu anche ferito (all’inguine) dimostrando così di non limitarsi alle parole ed alla propaganda. All’inizio del 1918 (quando in guerra durava ancora!) egli pubblicò il ‘Manifesto del partito futurista italiano’ col quale proponeva che la guerra (una volta vinta) fosse seguita da un forte rinnovamento del sistema politico secondo le esigenze dei tempi nuovi e rivoluzionari ormai in pieno svolgimento. 20 Marinetti voleva ‘una Italia libera forte, non più sottomessa al suo grande Passato’ e un ‘nazionalismo rivoluzionario’ che prevedesse fra l’altro l’ ‘educazione patriottica del proletariato’, cioè l’inserimento anche della classe operaia - protagonista essenziale della produzione industriale - nei ranghi della nuova nazione rinnovata e cementata dalla guerra. Nulla era trascurato da Marinetti che per permettere ed attuare lo slancio creatore della nuova Italia chiedeva l’ ‘abolizione di molte Università inutili e dell’insegnamento classico’, la ‘ginnastica obbligatoria con sanzioni penali’, ‘scuole di coraggio’, la ‘abolizione del Senato’ (roba da vecchi), la riduzione a 22 anni dell’età per divenire deputati, la ‘trasformazione del Parlamento mediante un’equa partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e di commercianti’, il suffragio universale per uomini e donne, ‘un anticlericalismo d’azione, violento e reciso, per sgomberare l’Italia e Roma dal suo medioevo teocratico’ (bisognava ‘svaticanare l’Italia’) e tutta una serie di altre misure (come il ‘divorzio facile’ e ‘l’avvento graduale del libero amore’) che velocizzassero la vita del paese e che erano tutte improntate al rinnovamento, all’abbattimento delle tradizioni del passato, alla continua mobilitazione di tutte le energie della società che, liberate e libere da ogni vincolo e costrizione, potessero così proseguire sempre più veloci sulla strada del futuro. Ancor oggi, un secolo dopo, la travolgente e focosa passione di Marinetti risulta contagiosa e sprona al movimento ed all’azione: egli propugnava un popolo unito ed affratellato dalla guerra che cementava la sua unità e la sua forza anche e soprattutto mediante l’abitudine alla guerra (intesa in senso puramente clausewitziano) che avrebbe dovuto penetrare in tutte le fibre della società come forza distruttrice del passatismo (ormai senza più radici nell’era industriale) e apertura entusiastica al futuro già iniziato. In un primo momento le ardenti previsioni di Marinetti sembrarono però completamente errate: l’Italia uscita dalla guerra risultò ancora più divisa di prima e visse quattro anni di convulsioni e scontri interni finchè con la marcia su Roma Mussolini e il Fascismo non salirono al potere. Marinetti che era stato al fianco di Mussolini fin dalla campagna interventista, partecipò poi alla fondazione dei Fasci di combattimento (il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro), definì il duce ‘il primo futurista d’Italia’ e lo seguì fino a Salò (anche se morì prima di dover assistere al crollo definitivo del Fascismo). V Nell’adesione di Marinetti (e in genere dei futuristi) al Fascismo non si deve comunque scorgere un abbandono delle proprie posizioni o una conversione al verbo mussoliniano perché in realtà fu Mussolini ad aver adottato (o comunque a condividere) molte delle posizioni del Futurismo: l’unione del popolo italiano, la rivoluzione nazionale, l’educazione patriottica del proletariato, il rinnovamento della classe dirigente, l’anticonformismo e l’amore per l’azione furono infatti tratti 21 caratteristici del Fascismo (e soprattutto di quello della ‘prima ora’) che Marinetti aveva anticipato e che erano parti essenziali anche del Futurismo (politico). Il Fascismo fu la volontà di sanare tutte le fratture della società italiana sopprimendone la causa fondamentale, il rivoluzionarismo di sinistra e le rivendicazioni delle classi lavoratrici, verso le quali si mostrava comprensione solo però in un quadro di stabilità sociale - e anche questo era un obiettivo pienamente condiviso da Marinetti (e in genere dai futuristi). Certamente colla trasformazione del fascismo da movimento a regime molti accordi e molte concessioni furono fatte nei confronti di tutto l’establishment del vecchio stato liberale e cattolico, ma è inevitabile che le tutte rivoluzioni subiscano (e non possano non subire) un processo di mediazione e di adeguamento a quella realtà che pure inizialmente volevano distruggere. Soprattutto però il fascismo fu conseguenza della prima guerra mondiale e della vittoria: esso avrebbe sempre mantenuto il carattere bellicista della nazione in armi che attraverso una serie di guerre (Libia (la seconda), Etiopia, Spagna, Albania e infine la seconda guerra mondiale) intendeva far nascere l’ ‘uomo nuovo’ abituato ed anzi entusiasta dell’impegno militare per la conquista di spazi sempre più grandi e gloriosi: anche – e forse soprattutto – questa natura del Fascismo lo avvicinava al Futurismo fino a farli praticamente coincidere. VI In realtà la politica estera del Fascismo era stata comunque interamente mutuata dal Nazionalismo e la tesi di Luigi Salvatorelli e di Francesco Gaeta secondo cui non fu il Fascismo ad inglobare il Nazionalismo (nel 1923), ma proprio l’esatto contrario, appare interamente condivisibile dato che il primo era nato e si era sviluppato per motivi ed interessi di politica esclusivamente interna. Se Mussolini non fosse salito al potere il Futurismo sarebbe diventato una interessante tendenza semplicemente e solamente letteraria ed artistica e il Nazionalismo sarebbe rimasto uno dei tanti movimenti di minoranza: Mussolini riuscì a comporre queste due politiche (che condividevano comunque la stessa idea clausewitziana di un sempre rinnovato ricorso alla guerra per la formazione ed il consolidamento della nazione in armi) e a fonderle con alcune istanze socialiste a proposito dell’elevazione (materiale e spirituale) delle classi lavoratrici e soprattutto col vecchio stato sabaudo cui infuse nuova linfa e cui diede nuovi obiettivi. E’ notissimo come l’applicazione di questa politica causò morte ed inaudite sofferenze finchè finì in tragedia e quanto sangue costò la fondazione della Repubblica Italiana su basi finalmente razionali. Il concetto clausewitziano di guerre continue per forgiare il carattere di un popolo e di una nazione mostrò nei fatti di essere un’aberrazione del pensiero: gli assurdi disastri degli esaltati allievi del generale prussiano ci tolgono il fastidio di spendere parole per contestarlo e per riconoscerlo come il vaneggiamento di uno squilibrato. 22 Freud: la guerra come liberazione di Thanatos Le atroci violenze della prima guerra mondiale costrinsero Sigmund Freud (18561939) a modificare profondamente la psicanalisi che egli aveva fondato con tanto successo (e con tanto scandalo) un quindicennio prima: non è questa la sede per analizzare la rivoluzionaria teoria di Freud e basterà allora dire che fino a quel momento il grande scopritore dell’inconscio e del meccanismo della sua interazione con la vita cosciente e con quella morale aveva ritenuto che in esso agisse, e premesse con forza per la sua realizzazione, un unico principio che egli aveva chiamato Eros. Secondo Freud questo ribollente, cieco, amorale ed irrazionale istinto fondamentale era di natura sessuale (in senso lato) e tendeva unicamente alla gratificazione della sue pulsioni entrando così in urto con la concretezza ed i condizionamenti della realtà esterna e, soprattutto, coi divieti della morale e della religione che lo bloccavano o quantomeno ne permettevano la soddisfazione solo se incanalato in comportamenti socialmente accettabili e ‘corretti’: la mancata o limitata soddisfazione di questo principio del piacere portava così a conflitti psicologici di ogni genere causando frustrazione, sofferenza, disturbi e vere e proprie malattie (anche gravi). Erano queste le nevrosi, lacerazioni anche profonde della psiche umana (con possibili conseguenze anche somatiche) che si verificavano però a livello inconscio così che il paziente sofferente non riusciva nemmeno a comprendere la natura del suo malessere e del suo dolore. Oltre ad una spiegazione e ad una cura per questa nuova malattia, Freud aveva comunque offerto anche tutta una nuova spiegazione della natura (psicologica) dell’uomo stesso facendo sparire il confine fra ‘normalità’ e ‘malattia’ (nessuno poteva dirsi ‘sano’!), sfatandone e distruggendone alla radice ogni precedente spiegazione e concezione, e infine negando con forza qualsiasi pretesa della religione. La psicanalisi si proponeva insomma di spiegare l’intero meccanismo del funzionamento psichico dell’individuo. Data la natura sessuale (in senso lato) dell’Eros (l’istinto fondamentale dell’uomo connaturato in lui fin dalla più tenera infanzia) ed il riconoscimento della sua natura assolutamente amorale ed irrazionale, la psicanalisi aveva suscitato rifiuto e scandalo: Freud aveva potuto facilmente dar conto anche di queste reazioni ma adesso, con la necessità di spiegare lo spaventoso spettacolo offerto dalla prima guerra mondiale, la sua teoria dovette affrontare uno sviluppo che la rese ben più ‘pessimistica’, terribile e devastante. Ora il problema era infatti comprendere e dar conto della ferocia scatenata e della violenza senza freni dei combattenti, compito che l’analisi psicanalitica, così com’era stata impostata fino a quel momento, non in grado di assolvere ed andava quindi allargata e completata: fu così che nel 1915 Freud scrisse ‘Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte’, un’opera breve ma fondamentale per la comprensione della guerra stessa. 23 I Freud condivise lo sconcerto per l’improvviso scoppio di una nuova guerra europea – e di dimensioni così gigantesche! - che sconvolgeva tutte le previsioni di pace e di sviluppo che erano apparse così logiche e così confortanti fino a quel momento, quando l’Europa dominava interi continenti ed appariva saldamente avviata sulla strada di un vorticoso progresso scientifico e tecnologico, della crescita industriale, dell’aumento dei consumi, del trionfo del liberalismo e del miglioramento della qualità della vita: ‘si osava sperare che almeno le grandi nazioni dominatrici della razza bianca – alle quali era affidata la missione di guidare il genere umano … sarebbero riuscite a sanare i loro malintesi e conflitti di interessi senza ricorrere alla guerra’ scrisse Freud, invece questa tanto celebrata ‘Belle époque’ era crollata in un batter d’occhi ed i carnai delle battaglie e delle trincee superavano ogni immaginazione in una guerra che ‘distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino’. Freud comunque non volle entrare nel campo dell’analisi storica e si limitò così a fornire l’interpretazione psicanalitica della guerra o, meglio, del comportamento umano in guerra – e questa è davvero tanto semplice quanto terribile. II Secondo Freud ‘la parte più intima e più profonda dell’uomo è composta da tendenze di natura elementare … tese alla soddisfazione di … bisogni primitivi’ e ‘tutte le tendenze riprovate dalla società come cattive … fanno parte di queste tendenze primitive’: l’educazione ed il condizionamento sociale compiono così ogni sforzo per reprimerle e/o indirizzarle verso obiettivi accettabili e favorevoli allo sviluppo della società stessa e dello stato, ma il successo apparentemente ottenuto nel civilizzare e nel rendere inoffensivo l’individuo fa sì che ‘noi tendiamo a giudicare l’uomo ‘migliore’ di quanto in realtà sia’. Questa è tuttavia un’illusione perché tale successo in realtà è superficiale in quanto le tendenze primitive non possono scomparire: ‘quanto di primitivo vi è nella nostra vita psichica è imperituro’. Ciò che è realmente accaduto è che ‘la nostra società civile … ha abituato un gran numero di persone ad ubbidire, a conformarsi alle condizioni della vita civile, senza che la loro natura partecipi a questa obbedienza’ tanto che ‘l’individuo … potrebbe essere considerato un ipocrita, anche se egli non ne è assolutamente cosciente. Indubbiamente, la nostra attuale civilizzazione … si basa su questa ipocrisia e … subirebbe cambiamenti profondi se gli uomini volessero cominciare a vivere secondo la loro realtà psicologica’. Secondo Freud l’individuo viene insomma addomesticato fin dalla nascita e il senso di colpa che conseguentemente prova se compie azioni vietate (come quelle violente) è praticamente un riflesso pavloviano: ‘la nostra coscienza … è, per la sua origine, ‘angoscia sociale’, e niente di più’. Ora, in guerra tutto questo scenario si capovolge perché ‘lo Stato in guerra si permette tutte le ingiustizie, tutte le violenze’ e dunque libera l’individuo dal senso 24 di colpa che altrimenti gli deriverebbe dalle azioni che compie in guerra: avviene così che ‘laddove viene a mancare il biasimo da parte della collettività, cessa la compressione degli istinti malvagi, e gli uomini si abbandonano ad atti di crudeltà, di perfidia, di tradimento e di brutalità, che, a giudicare solo dal loro livello di civilizzazione, si sarebbero creduti impossibili’. III Tutto ciò è facilmente comprensibile se si tiene presente che oltretutto l’uomo per sua natura non pensa alla propria morte ed ha sempre compiuto ogni sforzo per allontanarne il pensiero: ‘il nostro inconscio … cioè gli strati più profondi della nostra coscienza … non crede alla possibilità della propria morte’ che così ‘non trova nessun punto d’appoggio nei nostri istinti’ mentre ‘troviamo assolutamente naturale la morte di stranieri e di nemici, infliggiamo loro la morte volentieri’ perché ‘nei nostri desideri inconsci noi sopprimiamo … tutti quelli che si trovano sul nostro cammino’ tanto che ‘a giudicare dai nostri desideri ed auguri inconsci noi non siamo che una banda di assassini.’ La conclusione di tutto ciò è semplice: ‘la guerra … ci indica negli estranei dei nemici che bisogna eliminare’. IV Freud scoprì insomma che nell’inconscio oltre a Eros è presente ed agisce anche un altro istinto che egli chiamò Thanatos (‘morte’ in greco) e che la guerra non fa altro che liberarlo visto che non solo lo stato e la società non ne vietano più la completa emersione, ma anzi l’incoraggiano e lo premiano punendo chi si rifiuta di adempiere a questo compito. L’educazione ed il condizionamento sociale in tempo di pace negano e capovolgono la natura omicida dell’uomo, ma la guerra a sua volta nega e capovolge questa negazione e questo capovolgimento: essa in qualche modo rimette le cose a posto, cioè libera l’individuo e lo fa riappacificare con questa sua intima realtà psicologica togliendogli tutti gli artificiali sensi di colpa ed annullandone la coscienza (superficiale ed impostagli dall’esterno). La conclusione di Freud è allora una domanda davvero terribile ed altrettanto amara: ‘dato che le guerre sono pressappoco inevitabili, non faremmo bene a piegarci di fronte a questa situazione, ad adattarci ad essa? Non faremmo bene a convenire che dal punto di vista psicologico, il nostro atteggiamento nei confronti della morte, quale deriva dalla nostra vita civilizzata, va oltre le nostre forze, e che per noi sarebbe meglio … piegarci di fronte alla verità … ? … In questo modo …avremmo il vantaggio di essere sinceri con noi stessi e di renderci nuovamente sopportabile la vita. 25 V Alla luce del riconoscimento da parte di Freud delle innate ed ineliminabili pulsioni omicide e distruttive di Thanatos assume infine un significato molto più profondo l’invito e l’auspicio di von Clausewitz a che uno stato sia continuamente preparato alla guerra, ragioni sempre in termini di guerra, combatta molte guerre e, insomma, sia costantemente allenato alla guerra: secondo il grande generale ciò avrebbe permesso di conseguire quella superiorità sul nemico che il livello tecnologico degli armamenti non poteva assicurare (dato che era sostanzialmente lo stesso in tutte le nazioni europee), ma ora questa superiorità morale che egli propose di raggiungere appare molto più comprensibile. Secondo von Clausewitz un popolo ed un esercito liberi dai freni inibitori delle pastoie di un’etica tranquillamente pacifista, pronti a rischiare la vita e, soprattutto, ad uccidere ed a distruggere senza provare i sensi di colpa e quei rimorsi che la ‘civiltà’ oppone a simili comportamenti, possono operare in guerra con ben maggiore efficacia e determinazione; essi possiedono infatti il vantaggio decisivo di essere stati educati ad un altro tipo di valori e di sentimenti, a quell’indole guerriera che insistendo sul coraggio, sul sacrificio, sulla sopportazione delle durezze e dei disagi, sulla brama di gloria e di vittoria, sola permette il risveglio ed il pieno dispiego di tutte le energie necessarie in guerra. Freud completa questo quadro: egli afferma infatti che qui si tratta di risvegliare e di liberare la natura più riposta, più vera e più sincera dell’uomo e che quindi il progetto di von Clausewitz fa perno sulla reale natura dell’individuo: l’antica sapienza di SunTzu secondo cui la guerra deve basarsi il più possibile sull’intelligenza ed essere il meno possibile distruttrice appare qui del tutto abbandonata a tutto vantaggio dello scatenamento (certamente anch’esso controllato dalla ragione) di Thanatos in modo da conseguire sempre maggiore potenza e schiacciare senza pietà il maggior numero di nemici. Dopo che già Nietzsche aveva cantato la trasvalutazione di tutti i valori e profetizzato l’avvento dell’oltreuomo, innocente e determinatissimo abbattitore di tutti gli ostacoli sul suo cammino, Marinetti, i futuristi, i nazionalisti, il fascismo ed il nazismo avrebbero fatto tesoro di queste indicazioni e di questi indirizzi, avrebbero proposto ed insistito sulla formazione dell’ ‘uomo nuovo’, sereno e spietato combattente educato alla lotta ed alla sopraffazione, maschio e spregiudicato conquistatore e dominatore: il risultato furono le guerre mondiali e nessuno potrà mai convincermi che in ciò siano potute risiedere liberazione e felicità. VI Tornando comunque alla domanda di Freud (che sicuramente esprime comunque il suo sgomento di fronte alle notizie dal fronte), è davvero strano che egli se la ponga perché essa è in contrasto con uno degli assunti fondamentali della psicanalisi stessa e risulta dunque concettualmente sbagliata. 26 E’ infatti parte fondamentale del pensiero di Freud il riconoscimento (del resto evidente) che la psiche umana non è certamente composta solo dalle pulsioni, dalle tendenze e dagli istinti che affollano l’Es e che premono per la loro soddisfazione, ma anche dall’Io (la razionalità) e dal Super-Io (la moralità): la soddisfazione integrale dell’Es non è quindi possibile e addirittura, se pure avvenisse, porterebbe alla dissoluzione della personalità stessa (più o meno come avviene in Kurtz di ‘Heart of Darkness’ di Conrad). All’uomo non è semplicemente possibile raggiungere l’appagamento totale delle proprie spinte interne non solo per le indubbie e soffocanti censure sociali che lo condannano così alla sofferenza ed alla frustrazione, ma in base alla sua stessa natura che evidentemente non può sfuggire alle concrete e reali condizioni dell’esistenza stessa (compito dell’Io) e non può non darsi delle regole di comportamento (compito del Super-Io): la nostra vita si gioca insomma su questo equilibrio precario fra le tre componenti della nostra psiche e non sull’impossibile liberazione integrale dell’Es. Certamente è auspicabile la massima soddisfazione possibile (appunto: possibile) delle nostre pulsioni, ma su questo punto esiste però una differenza tra la liberazione dell’Eros e quella di Thanatos: mentre la prima (che pure può confluire nella seconda e viceversa) apporta libertà e piacere ed è insomma innocua, anzi benefica, la seconda ha effetti del tutto distruttivi e dunque il suo controllo è assolutamente ben più necessario ed ha (e non può non avere) un ben altro peso. Ammettiamo pure che l’uomo non è certo ‘buono’ e che tendenzialmente è anzi un assassino e un distruttore; che in guerra questa sua natura può liberarsi ed egli può così dar sfogo alle sue pulsioni più intime … ma davvero gli converrebbe vivere così? Non aveva ragione invece il vecchio Hobbes quando propose che per gli uomini è di gran lunga più vantaggioso rinunciare alla loro violenza per vivere sicuri ed in modo produttivo? Certo Freud afferma che qui si tratta di tendenze ineliminabili, ma davvero non è proprio possibile riuscire ad indirizzarle verso scopi positivi (costruttivi) anziché negativi (distruttivi)? VII Diciotto anni dopo, nel 1933, in un celebre carteggio con Freud anche Albert Einstein (1879-1955) si dichiarò convinto ‘che l’uomo, dentro di sé, tenda all’odio e alla distruzione. In tempi normali questa passione è allo stato latente, si manifesta soltanto in circostanze particolari, ma è relativamente facile richiamarla e affidarla al potere delle psicosi collettive’. Egli chiese così lumi al padre della psicanalisi che gli confermò subito che ‘Lei ha esposto … l’essenza del problema’ in quanto ‘assumiamo che esistano due tipi di istinti nell’uomo: quelli che conservano ed uniscono, che chiamiamo ‘erotici’ … e, in secondo luogo, gli istinti a distruggere e a uccidere’. Chiarito che ‘ognuno di questi istinti è altrettanto indispensabile del suo opposto’, ‘non vi è alcuna probabilità che noi riusciamo a sopprimere le tendenze aggressive dell’umanità … la completa 27 repressione delle tendenze aggressive dell’uomo non è in questione; tutto quel che possiamo fare è di cercare di spostarle verso un canale che non sia quello della guerra’. In quest’occasione però Freud mostrò comunque un qualche cauto ottimismo rispetto a quanto aveva sostenuto nel 1915: egli riconobbe infatti che ‘lo sviluppo culturale dell’umanità è stato in progresso fin dai tempi immemorabili’ e che ‘le modificazioni psichiche che accompagnano questo processo di mutamento culturale … consistono nel progressivo rifiuto dei fini istintivi e nella degradazione delle reazioni istintive. … Ora, la guerra si scontra maggiormente contro la disposizione psichica impostaci dallo sviluppo culturale’ e dunque all’interno dell’uomo stesso si starebbe formando un’opposizione psicologica alla guerra che starebbe modificando la natura umana stessa! Certamente i tempi di questo processo sarebbero stati ancora molto lunghi ma ne era comunque prevedibile una conclusione: ‘quanto dovremo attendere prima che tutti gli altri uomini diventino pacifisti? Impossibile dirlo, ma la speranza … di por fine alla guerra in un prossimo futuro non è chimerica’. Schmitt: la nuova guerra ‘discriminatoria’ La vita del famoso giurista della politica e docente universitario Carl Schmitt (18881985) fu segnata dal nazismo e dalla guerra: fin dal 1 maggio 1933 Schmitt si iscrisse infatti al partito nazista, divenne così Consigliere di Stato in Prussia, ottenne la cattedra di Diritto pubblico a Berlino e fu nominato presidente dell’Unione dei giuristi nazionalsocialisti: dopo la ‘notte dei lunghi coltelli’ (il massacro dei capi delle SA il 30 giugno 1934) egli perse però parecchie simpatie negli ambienti del regime dato che continuava a sostenere il primato dello stato rispetto al popolo (ed al partito stesso), ma approvò ugualmente le ‘leggi di Norimberga’ (che nel 1935 cancellarono i diritti civili degli ebrei) ed accentuò addirittura il suo antisemitismo. Nel 1936 sulla rivista delle SS fu tuttavia accusato di opportunismo e nel 1937 un rapporto riservato del partito nazista tacciò la sua dottrina di ‘romanità’ (cioè, ancora una volta, di riconoscere la preminenza dello stato): pur ormai marginalizzato dal partito, Schmitt riconobbe tuttavia la necessità per la Germania di uno ‘spazio vitale’, giustificò così l’espansionismo militaristico del Terzo Reich e sostenne la guerra esaltando le vittorie di Hitler. Arrestato dagli alleati nel 1945, fu internato in un campo di concentramento e nel 1946 fu imputato nel processo di Norimberga dove però riuscì a difendersi dimostrando che i suoi scritti erano stati soltanto analisi teoriche. Prosciolto dalle accuse, si ritirò a vita privata a Plettemberg, la sua città natale, dove trascorse i suoi ultimi quarant’anni di vita. 28 I In questa sede quel che interessa della vastissima produzione di Schmitt è ciò che riguarda la sua riflessione sulla guerra, e dunque non si può che partire da ‘Il concetto politico’ (1927) in cui egli afferma che la politica non si fonda su principi e su valori morali (del tutto trascurabili ed inefficaci), ma sulla fondamentale distinzione amico-nemico: sulla scorta di Hobbes, anche Schmitt ritiene infatti che gli uomini siano naturalmente aggressivi e pericolosi e che dunque il motivo decisivo per cui essi si uniscono nello Stato (e diventano così amici) è la necessità di difendersi dagli altri raggruppamenti umani (i, potenziali o reali, nemici). Per Schmitt ‘la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra. Il diritto internazionale non è altro che un ‘diritto di guerra e di pace’’: la politica nasce insomma dall’antagonismo con l’altro, con lo straniero, ma naturalmente ciò non significa automaticamente che tutti i conflitti debbano essere risolti con la guerra visto che molti di essi possono essere risolti invece anche senza arrivare allo spargimento di sangue. Sulla scorta di Hegel, Schmitt afferma inoltre che l’entità politica fondamentale, sovrana e con la quale si identifica il popolo, è lo Stato, superiore a ogni altra aggregazione politica o sociale che come tale può esistere solo al suo interno: ogni altro raggruppamento (classi, gruppi sociali antagonistici, partiti, associazioni, ecc.) possono dunque esistere ed agire solo finchè non mettono in pericolo l’ordine legale e politico stabilito dello Stato. Il ruolo ed il compito fondamentale dello Stato è garantire ordine e sicurezza ed è per questo che è nato: sovrano è colui che ha il potere di stabilire chi è amico e chi è nemico e quindi solo lo Stato può determinare chi è il nemico (e promuovere la guerra). Il potere dello Stato è insomma il potere originario e solo allo Stato appartiene dunque lo ius belli: esso organizza gli amici per affrontare la minaccia proveniente dai nemici. Le decisioni a livello internazionale sono decisioni di guerra perché in definitiva tutte si risolvono sempre sullo stabilimento di chi è amico e di chi è nemico: un mondo da cui fosse esclusa la possibilità della guerra sarebbe privo allora della distinzione amico-nemico e quindi della politica stessa. In casi estremi lo Stato può poi stabilire se c’è e chi è un nemico interno, cioè dichiarare che c’è un gruppo che minaccia l’esistenza dello Stato stesso, e adottare quindi tutte le misure necessarie: nel caso in cui il contrasto amico-nemico interno allo Stato degenerasse in conflitto armato fra gruppi, allora lo Stato non sarebbe più l’entità politica superiore e ne seguirebbe la guerra civile nella quale ogni gruppo farebbe valere una propria distinzione amico-nemico. Si comprende dunque perché quando nel 1933 il partito nazista si impadronì del potere Schmitt accettò il nuovo regime come legittimo e celebrò Hitler come Führer, capo e guida della nazione e responsabile di tutte le decisioni: l’unità dello Stato era stata salvata dalla guerra civile e c’era un sovrano che poteva decidere chi era amico e chi era nemico. 29 II Questa gestione e questo appannaggio della guerra da parte dello Stato si erano tuttavia affermati piuttosto di recente. Secondo Schmitt infatti fu con la pace di Westfalia (che nel 1648 concluse la guerra dei Trent’anni) che venne finalmente abbandonato il concetto medievale della guerra ‘giusta’, cioè della guerra che doveva avere una ‘giusta causa’ se voleva essere legittima: era questo un principio di chiaro sapore religioso (cristiano) che cercava di giustificare in senso morale il ricorso alla violenza ed all’uccisione e di risolvere così un evidente e grave problema di coscienza. La guerra dei Trent’anni era stata una guerra terribile e devastante nella quale era morto almeno 1/3 della popolazione tedesca: ancor oggi è considerata l’ultima guerra di religione ed i contemporanei evidentemente pensarono che non si poteva continuare a lasciar gestire le guerre a chi, proclamandosi dalla parte del giusto, di conseguenza non poneva e non trovava limiti alla sua ansia di annientare il nemico e si sentiva così legittimato a perpetrare i peggiori eccessi - con prevedibili e gravissimi risultati. Dopo Westfalia la direzione e la gestione della guerra passò così nelle mani dello Stato che abbandonò la pericolosissima pretesa che una guerra per essere combattuta doveva essere ‘giusta’: le guerre divennero affari di Stato e vennero combattute fra Stati che non dovevano dare spiegazioni a nessuno (ognuno aveva ovviamente le sue) se e quando decidevano di entrare in guerra. Per Schmitt questo passaggio fu un vero e proprio ‘capolavoro della ragione umana’ che produsse il ‘miracolo’ di far cessare le guerre di sterminio perché la guerra cominciò allora ad essere finalmente condotta con razionalità e non con la pretesa di trovarsi dalla parte del bene contro il male: il nemico, anche se sconfitto, veniva rispettato perché ogni Stato accettava l’esistenza degli altri Stati cui riconosceva pari dignità alla propria. Dopo Westfalia lo Stato gestì la guerra come un suo problema e, appunto, come un suo affare, agendo di conseguenza con sensatezza: la guerra divenne sobria ed equilibrata perché cominciò a seguire il rapporto costi/benefici e a riflettere sugli scopi da raggiungere e sui mezzi che era più sensato adottare per conseguirli. André Glucksmann (‘La force du vertige’, parte VII) analizzò il passaggio dal concetto di guerra giusta a quello di guerra moderna dal punto di vista filosofico e non più da quello storico come aveva fatto Schmitt: secondo il filosofo francese furono infatti i ‘giuristi classici’ che ‘inventando un diritto di guerra che chiamarono naturale’ abbandonarono il ‘concetto cristiano di guerra giusta … di millenaria durata (da sant’Agostino ai discepoli di san Tommaso d’Aquino)’ e così facendo operarono un vero e proprio (felice e fruttuoso) capovolgimento dell’impostazione del problema, una vera e propria benefica rivoluzione filosofica. I filosofi giusnaturalisti del XVII secolo (Grozio, Bodin, Montaigne, Gentili, Pufendorf) si accorsero infatti che ‘pretendendo di regolare la nostra condotta pratica sulle massime non equivoche di un Bene universalmente valido, sbagliamo. Nella 30 peggiore delle ipotesi prigionieri di un qualunque fanatismo. Nella migliore, nei problemi di coscienza, vissuti come deliziosamente insolubili’ e così abbandonarono decisamente tale impostazione (cristiana) stabilendo che ‘il diritto è il buon diritto non perché è il diritto del Bene … ma perché limita il potere del male’: ‘il diritto definisce la giustizia in senso negativo, esso non dice ciò che conviene fare … ma qualifica ciò che deve essere evitato’ e insomma il diritto naturale dei classici è negativo nel senso che non mira ad un bene da raggiungere, ma a un male da limitare: ‘per il classicismo europeo la lotta per la giustizia è la lotta contro l’ingiustizia’. Così anche ‘le guerre devono essere negativamente giuste’ e ‘finite le guerre sante, il solo diritto alla guerra è quello di difendersi’: anche ‘la pace si presenta ‘negativa’ come assenza di guerra’. Come si vede, Glucksmann completa e rafforza il discorso di Schmitt mostrando l’aspetto filosofico della svolta operata dopo Westfalia: il giusnaturalismo (o classicismo) dell’età moderna nacque precisamente per chiudere l’epoca delle guerre di religione e per trovare un altro fondamento alla convivenza civile in Europa. Lo stato e la sua diplomazia si affermarono così come conquiste laiche e razionali che dovevano porre un freno al dilagante fanatismo religioso ed alle sue inquisizioni e montagne di cadaveri, ma secondo Glucksmann la crisi e l’abbandono di questa felice filosofia classica si verificarono purtroppo già il secolo successivo, quando i ‘nostalgici di una definizione ‘positiva’ del bene comune, dell’intesa e della pace cosmica’ riuscirono a riprendere la direzione del pensiero europeo. Mentre ‘il diritto classico … mirava a colpire lo slancio del fanatismo tagliandone le radici persuasive che lo nutrivano’ e i classici ‘non si affaticavano in dispute sul bene, a loro bastava esporre minutamente i mali con scrupolosa distinzione’, già alla fine del Settecento invece ‘buoni apostoli vennero … ad insegnare come saltare matematicamente, dialetticamente o religiosamente gli abissi [che il diritto naturale aveva] svelato insorpassabili’: nuove filosofie proposero motivi e contenuti per agire in vista di scopi e valori ultimi ed indiscutibili … e in questo modo si ripropose dunque anche la guerra giusta con tutta la ferocia del fanatismo: ‘si annuncia[ro]no … la pace definitiva – fondata su una benevolente ‘legge di natura’ e sull’Amore per il genere umano – e le guerre dichiarate ‘definitive’ perché lasciate alla loro palese inumanità’. III Per Schmitt invece questo miglioramento, questa limitazione, questa razionalizzazione e questa vera e propria umanizzazione della guerra, vera conquista della civiltà europea, venne negata e messa in crisi molto più tardi della rivoluzione francese, e precisamente dalla dichiarazione di guerra del presidente statunitense Wilson il 2 aprile 1917. Wilson infatti giustificò l’entrata degli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale affermando che la guerra navale della Germania era una guerra indiscriminata contro tutti, insomma ‘contro l’umanità’, e che dunque la Germania era nemica del genere umano: secondo Schmitt con questa presa di posizione Wilson negò che la guerra in 31 corso fosse una ‘normale’ guerra fra Stati e, attribuendo a se stesso il diritto di stabilire in modo assoluto chi aveva ragione e chi aveva torto, di fatto reintrodusse il concetto di guerra ‘giusta’, additando la Germania come il nemico universale che stava dalla parte del male contro il bene. Nasceva (o rinasceva) il concetto discriminatorio di guerra che, discriminando appunto fra i partecipanti allo scontro e rifiutando una ‘valutazione paritaria di entrambi i contendenti’, faceva sì che il nemico non poteva più essere rispettato perché combatteva (o aveva combattuto) dalla parte sbagliata ed era quindi solo un criminale: la guerra assumeva così i caratteri della crociata sovrastatale e sovranazionale. Secondo Schmitt una svolta così profonda nel concetto di guerra non si era certo prodotta improvvisamente ed era invece prosecuzione e conseguenza di quella politica di espansione universalistica degli USA i quali, abbandonata la ‘dottrina Monroe’ del 1823 (‘l’America agli americani’, cioè il riconoscimento del proprio ruolo in uno spazio definito), fin dalla fine dell’Ottocento con la guerra ispanoamericana e poi con la presidenza di Theodore Roosevelt si erano arrogati il potere ed il diritto di stabilire - per tutti! - dove stava la giustizia nelle controversie internazionali e quindi la conseguente pretesa di essere legittimati ad intervenire dovunque nel mondo. Wilson faceva compiere a questa nuova strategia americana per l’egemonia planetaria un poderoso passo avanti: egli giustificava il progetto imperiale degli USA radicandolo in valori e principi universali di cui essi si autoproclamavano portatori ed interpreti e di cui pretendevano di avere il monopolio (!). Tutto ciò implicava evidentemente che la guerra non era più regolabile e regolata dagli Stati, che l’Europa perdeva il suo ruolo centrale nella storia del mondo e, soprattutto, che grazie al concetto di guerra ‘giusta’ le ragioni degli Stati e dei loro popoli non contavano più di fronte all’unica verità annunciata da Washington: la vecchia Europa doveva cedere il passo alla giovane e scalpitante nuova America portatrice di una giustizia che si pretendeva universale e al di sopra di tutti, ma che in realtà esprimeva la volontà americana di conseguire un vero e proprio dominio planetario. Per il momento tuttavia Wilson non riuscì nel suo intento: nel 1937 Schmitt scrisse infatti che ‘Se di fronte a tali pretese giuridiche globali si verificasse … il caso di una guerra mondiale totale contro un avversario sufficientemente forte che conduce una guerra ‘ingiusta’, allora questo Stato, con la forza della sua resistenza, imporrà il mantenimento del vecchio concetto di guerra, ovvero la non discriminazione giuridica’ e proprio questo era successo nella ‘guerra mondiale del 1914-1918 condotta contro la Germania. Nonostante tutti i tentativi di trasformarla in una ‘esecuzione’ internazionale contro il governo tedesco, distinto dal popolo tedesco, e nonostante tutte le altre discriminazioni contro la Germania, la guerra è comunque rimasta, grazie alla resistenza del popolo tedesco, una guerra di tipo classico’. 32 IV Nonostante ciò Wilson mantenne fede alla sua impostazione iniziale e pensò di aver coronato il suo progetto di giustizia mondiale patrocinando a Versailles la nascita della Società delle Nazioni, il nuovo organismo sovranazionale che aveva il compito di dirimere le controversie internazionali e di imporre così la giustizia evitando le guerre: tuttavia la Società delle Nazioni fallì miseramente e non è difficile comprenderne il motivo. Albert Einstein espresse in proposito tutto il suo più che motivato scetticismo quando nel 1933 concluse che ‘questo tribunale internazionale [la SdN] è incapace di far eseguire le sue sentenze, ed è grandemente soggetto al fatto di vedere sviate le sue sentenze da pressioni di tipo extragiuridico. … Attualmente siamo ben lontani dal disporre di una qualsiasi organizzazione sovranazionale in grado di conferire una autorità incontestabile alle sentenze e di ottenere un’obbedienza assoluta all’applicazione delle stesse’. Sigmund Freud nello stesso anno concordò che ‘non c’è che un modo valido di por fine alla guerra e questo è la creazione … di un controllo centrale al quale spetti l’ultima parola di ogni conflitto di interessi. Per questo sono necessarie due cose: primo, la creazione di questa corte suprema di giustizia; secondo, il conferimento ad essa di una forza esecutiva adeguata. Se questo secondo requisito non si adempie, anche il primo diventa inutile. … La Lega delle Nazioni … assolve la prima condizione; ma non la seconda. Non ha alcuna forza a sua disposizione’. I due grandi pensatori hanno evidentemente ragione e non desta così nessuna meraviglia dunque che la Società delle Nazioni non potè fermare Hitler con le sue continue violazioni dei trattati di pace né Mussolini quando invase l’Etiopia: con la sua mancanza di forza essa avrebbe infatti potuto offrire soltanto copertura giuridica a chi volesse intervenire - e nessuno allora volle farlo. Norberto Bobbio (1909-2004) nel 1966 tornò sul problema ed individuò i punti deboli della teoria della guerra giusta: secondo lui questa sarebbe il tentativo di assimilare la guerra ad una sorta di procedura giudiziaria, la quale a sua volta consta dei due processi di cognizione e di esecuzione della sentenza. Ora, a proposito della cognizione è manifestamente impossibile assicurare la certezza dei criteri di giudizio e l’imparzialità di chi giudica dato che ogni partecipante al conflitto è in grado di motivare il suo comportamento e che nessuno può ergersi al di sopra delle parti in lotta; circa l’esecuzione della sentenza (cioè una guerra) la situazione è ancora peggiore perché un conflitto armato non si vince certo perchè si ha ragione! Tutto all’opposto, in realtà succede invece che mentre ‘una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha ragione … il risultato della guerra è proprio l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince’. E non basta ancora perché mentre ‘lo scopo principale di una procedura giudiziaria … è la restaurazione dell’ordine costituito … molto spesso … le guerre che appaiono giuste all’opinione pubblica più avanzata non hanno affatto lo scopo di conservare lo status quo, ma di sovvertirlo’ e ‘di fronte a una guerra concepita come rivoluzione la 33 distinzione fra guerre giuste e guerre ingiuste non ha più alcuna ragione d’essere: … la rivoluzione è sempre, per definizione, ingiusta’ perché vuol cambiare proprio il tipo di giustizia vigente! V Tornando comunque a Schmitt, risulta fin troppo facile contestarne la ricostruzione storica: se infatti è vero che con Westfalia nacque in Europa la diplomazia e che gli Stati presero a gestire la guerra come un loro affare (spesso per affermare la propria potenza) spogliandola dalle motivazioni religiose (che accendendo gli animi fino al fanatismo la rendevano particolarmente sanguinosa) Schmitt assolutizza però questa svolta e la carica di significati davvero eccessivi trascurando (incredibilmente) tutta una serie di eventi che smentiscono apertamente le sue affermazioni. Dopo Westfalia le continue guerre di Luigi XIV, lungi dall’essere moderate e contenute, sottoposero infatti l’Europa a sfibranti sacrifici e, se le guerre di successione che caratterizzarono il Settecento furono effettivamente limitate, non importa certo scomodare von Clausewitz per riconoscere (come fa Glucksmann) che quelle napoleoniche furono invece dei veri cataclismi che imposero alla conduzione della guerra un ritmo, un passo ed una scala tali che stupirono ed atterrirono i contemporanei che dovettero ben presto imparare ad adattarsi a questo nuovo corso bellico. Le guerre dell’Ottocento furono sicuramente meno numerose e più contenute, ma gli orrendi carnai della prima guerra mondiale non possono certo essere imputati agli Stati Uniti né alla loro pretesa di essere i portatori della guerra ‘giusta’! Oltretutto, dopo la sua conclusione gli Stati Uniti si ritirarono entro i loro confini e, pentiti di essere intervenuti nel 1917, non entrarono nemmeno nella Società delle Nazioni (voluta da Wilson!) e seguirono una politica isolazionista - comportamento questo ben diverso, anzi opposto, alle intenzioni che invece Schmitt attribuisce loro con così tanta convinzione ed efficacia. Gli USA furono poi trascinati nel secondo conflitto mondiale di cui non erano certo responsabili mentre le raccapriccianti montagne di cadaveri, la Shoah, gli spaventosi annientamenti di paesi e città, le distruzioni senza fine e tutti gli inenarrabili orrori di quel conflitto sono evidentemente da attribuire soprattutto al Terzo Reich ed ai suoi alleati e non certo alla guerra discriminatoria degli USA!, ma Schmitt – lungi dal condannare uno scempio di queste dimensioni o rivedere le sue posizioni - si esaltò addirittura per le vittorie di Hitler e dopo il 1945 non si sarebbe mai pronunciato sul nazismo (!) nei quarant’anni che visse ancora. Vien da chiedersi insomma che senso ha perdere tempo a commentare e a criticare una ricostruzione così mal fatta e così palesemente lacunosa e contraddittoria, e la risposta è che, nonostante tutto, Schmitt ha invece anche qualcosa di importante da dire. 34 VI Innanzitutto va rimarcato che anche Schmitt riconosce, anzi, dà addirittura per scontato, che la guerra non si può eliminare e che dunque è costruttivo ed opportuno prevedere un sistema che, senza la pretesa di cancellarla, sia però in grado di limitarla, razionalizzarla e umanizzarla: Sun Tzu sarebbe stato sicuramente d’accordo, visto che anche lui con la sua antica sapienza aveva raccomandato di evitare al massimo i maltrattamenti, le distruzioni e le uccisioni perché inutili ed anzi controproducenti, mentre von Clausewitz sicuramente no, visto che per lui scopo della guerra era l’annientamento puro, semplice e radicale del nemico. VII Il valore e l’interesse dell’analisi di Schmitt risiedono però soprattutto nella lucidità con cui egli riuscì a prevedere ed a mettere a fuoco la logica del nuovo imperialismo americano, quella vera e propria vocazione messianica con cui dopo la seconda guerra mondiale gli USA giustificarono la loro crescente penetrazione in ogni angolo del pianeta in cui poterono, riuscirono e pretesero di essere presenti e sempre legittimati ad intervenire. Per comprendere l’analisi di Schmitt bisogna così tornare alla proclamazione da parte di Wilson della nuova politica bellica (discriminatoria) e, soprattutto, a quel suo sviluppo e coronamento che fu la Società delle Nazioni. A prima vista lo scopo della Società delle Nazioni era il migliore che si potesse immaginare - impedire la guerra - ma nella realtà le cose stavano in modo differente, anzi opposto: questo alto consesso sovranazionale che pretendeva di bandire la guerra e di pronunciarsi sulle controversie internazionali che intendeva risolvere in base agli alti ideali e principi di giustizia, mancava infatti di un giudice e gli Stati Uniti arrogarono a sé questo ruolo (come Wilson già aveva fatto chiaramente intendere motivando nel modo che si è visto l’entrata in guerra degli USA). Sempre in base alla logica della guerra discriminatoria, a Versailles (Wilson partecipò alle trattative di pace dall’inizio alla fine) la guerra d’aggressione (tedesca) fu definita ‘crimine internazionale’ e furono i delegati americani che chiesero la consegna dei suoi responsabili perché venissero processati, appunto, come criminali di guerra (esattamente come sarebbe avvenuto ventisei anni dopo a Norimberga e a Tokyo). All’opposto di quando le guerre erano regolate dagli Stati, ora i responsabili di una guerra dichiarata illegale non avevano infatti più giustificazioni né diritto ad alcun tipo di protezione - e nel 1946 l’ONU avrebbe definitivamente ratificato questo nuovo concetto di guerra. Dopo un inizio simile Schmitt previde allora che in futuro sarebbe stata proprio questa la logica e la giustificazione dell’imperialismo americano che vide profilarsi con chiarezza all’orizzonte: una volta autodefinitisi giudici supremi del bene e del male, essi sarebbero stati ipso facto ingiudicabili ed avrebbero preteso di imporre ovunque la loro giustizia dei vincitori. 35 Schmitt riteneva che solo gli Stati potessero gestire la guerra in forma responsabile e che dunque si sarebbe dovuto lasciarla nelle loro mani: strappargliela per affidarla ad organismi sovranazionali (di fatto agli USA) significava annullarli in quanto tali e trasformare così la guerra in una ‘guerra civile mondiale’ in una situazione di incontrollabile anarchia generalizzata. Schmitt previde insomma l’avvento di ‘guerre globali’ che non sarebbero potute essere che di annientamento del nemico, incarnazione del torto e del male contro i portatori (gli Stati Uniti) del giusto e del bene: secondo lui le guerre del futuro sarebbero state ‘totali’ ma, per quanto devastanti, queste guerre sarebbero state definite ‘giuste’ ed anzi ‘umanitarie’ perché condotte contro i nemici dell’umanità, verso i quali ovviamente non ci sarebbe più potuta essere alcuna forma di rispetto. Non ci sarebbe stato più posto per gli Stati e per le loro ragioni nè gli Stati avrebbero gestito più le guerre in base ad un principio di reciprocità (riconoscendo cioè i motivi di ogni contendente). Schmitt vide giusto e la sua teoria è ancor oggi pienamente valida. La strabordante potenza industriale ed economica degli Stati Uniti richiese che la loro presenza si estendesse senza limiti e fornì loro i mezzi materiali e militari necessari per realizzarla: ove le soluzioni ‘pacifiche’ non erano più sufficienti essi fecero (e fanno) disinvoltamente ricorso alla guerra, ma la novità fu, appunto, che essi presentarono (e presentano) tutte le loro guerre come combattute in difesa dell’umanità e per il suo stesso bene. Nella loro lotta al comunismo, al terrorismo, per l’affermazione della democrazia e dei diritti civili, ecc., gli Stati Uniti hanno sempre ripetuto che ciò che li guidava (e li guida) era (ed è) una vera e propria missione per il bene comune (che – guarda caso! – coincideva coi loro interessi): le guerre degli USA sono state (e sono) tutte ‘umanitarie’, combattute cioè per il bene dell’umanità intera, ma Schmitt aveva già denunciato per tempo che ‘l’intervento umanitario … ‘denazionalizza’ la guerra, ovvero … abolisce la guerra tra Stati per ‘internazionalizzarla’, e cioè per trasformarla in una guerra civile.’ Perché gli Stati Uniti potessero perseguire una politica simile fu necessario che nascessero e si affermassero istituzioni sovranazionali (come la Società delle Nazioni e poi l’ONU) all’interno ed in nome delle quali essi si arrogarono il diritto di stabilire cos’era giusto e cos’era sbagliato, spogliando così gli Stati della gestione autonoma dei loro affari e, soprattutto, della guerra: nel 1937 Schmitt scrisse così che ‘il concetto discriminatorio di guerra … viene istituzionalizzato con l’ausilio della distinzione, propria della Società delle Nazioni, tra guerre lecite e guerre illecite: in questo modo si giunge a scardinare l’ordinamento internazionale finora vigente, ma … così viene soltanto avanzata una nuova pretesa di dominio mondiale’. Una volta stabilito ed imposto il concetto di guerra ‘giusta’ per gli Stati Uniti fu infatti facile impadronirsene ed impiegarlo per assumere il ruolo di portatori del bene contro il male ed isolare e screditare così il nemico di turno, colpirlo, sconfiggerlo e magari farlo processare da una corte internazionale una volta fatto prigioniero. Nel mio ‘Stati Uniti d’America: espansione ed imperialismo di una democrazia in armi’, parte terza e quarta (cui si rimanda) sono state ripercorse le tappe di questa 36 nuova politica medievale in cui gli USA hanno sempre preteso (e pretendono) di essere i giudici supremi ed inappellabili, naturalmente a loro volta ingiudicabili (e da chi?), sempre dalla parte della ragione e al di sopra di ogni sospetto. Per il trionfo del loro programma di affermazione planetaria essi dovettero scontrarsi a lungo con l’URSS e col comunismo, sconfitto il quale hanno proceduto ancora più speditamente rifiutando sempre di porsi sullo stesso piano dei loro nemici di turno fino ad arrivare a chiamarli ‘impero del male’, ‘asse del male’ ed a stilare addirittura elenchi di ‘stati-canaglia’ che bisognava estirpare dalla comunità internazionale per il suo stesso bene. Schmitt comprese con grande anticipo questo unilateralismo americano, questa pretesa di una loro indiscutibile superiorità morale, questa svolta nel concetto stesso di guerra che egli chiamò ‘guerra discriminatoria’ (o ‘concetto discriminatorio di guerra’) perché, appunto, il nemico non veniva più riconosciuto come tale, ma discriminato, squalificato ed accusato in modo inappellabile di essere un criminale che andava definitivamente e semplicemente distrutto: una volta confermato questo principio, strappata cioè la guerra dalla gestione degli Stati, essa ha perso così ogni reciprocità, i contendenti non sono più posti sullo stesso piano e verso di loro non c’è più alcun rispetto. A causa di questo ‘superamento del politico’ (la dissoluzione dello Stato) la guerra è tornata così ad essere incontrollata e combattuta non fino alla sconfitta del nemico, ma fino al suo annientamento: ‘la nozione di discriminazione … distrugge una teoria ordinatrice del diritto internazionale … fino ad oggi [1937] efficace, senza che al suo posto subentri qualcosa d’altro che sia alternativo a una pretesa universalistica che distrugga Stati e popoli’. Schmitt getta insomma luce sull’aspetto giuridico della nuova guerra americana ed offre così una preziosa chiave di lettura dei tempi che stiamo ancor oggi vivendo: già nel 1937 egli affermò che con il venir meno del freno degli Stati erano cadute le barriere frapposte da questi alla hobbesiana guerra di tutti contro tutti così che oggi ‘si presenta … una nuova epoca storica, con nuove e più aspre guerre.’ Anonimous condivide pienamente l’analisi di Schmitt e usa parole di fuoco per contestare questa politica nata con Wilson: ‘oggi [2004] non c’è dovere più grande cui gli americani devono ottemperare per la loro nazione e per i loro posteri che abbandonare finalmente il sordido lascito dell’internazionalismo di Woodrow Wilson – che ha inzuppato il ventesimo secolo in molto o in più sangue di ogni altro ‘ismo’’. Mao: la guerra rivoluzionaria di popolo Una grande novità nella concezione e nella condotta della guerra venne inaugurata nel XX secolo dai partiti comunisti dei paesi non-industrializzati quando stavano ancora preparando la rivoluzione o lottando per la conquista del potere: si trattò della ‘guerra di popolo’ o ‘guerriglia’ che già in epoca moderna, nel 1808, era stata intrapresa dagli spagnoli contro l’occupazione napoleonica del loro paese e di cui parla anche von Clausewitz. 37 Chi esplicitò e teorizzò per primo le caratteristiche di questa guerra particolare fu Mao Tse-tung (1893-1976) il grande capo della rivoluzione cinese, l’unificatore della Cina, il suo liberatore dal dominio e dall’oppressione straniera, ma anche il folle sanguinario fanatico che una volta al potere impose al suo paese le assurdità del ‘grande balzo in avanti’ e della ‘rivoluzione culturale’ che costarono alla Cina decine di milioni di morti, arretratezza, fame, miseria e la spietata dittatura del suo comunismo radicale e allucinatorio. Solo alla sua morte la Cina potè cominciare a rimettersi sulla strada della razionalità iniziando così quello straordinario corso che oggi l’ha resa il gigante con cui tutti devono fare i conti. In questa sede verranno esaminate la tattica e la strategia della guerra di popolo che Mao seppe teorizzare e dirigere fino al completo successo finale. I Il 18 settembre 1931 il Giappone iniziò la sua facile invasione della Manchuria (la grande regione all’estremo nord-est della Cina) che ben presto trasformò nello statofantoccio del Manchukuò e dove potè così instaurare una politica di rapina e di sfruttamento: in quel periodo il PCC era stato marginalizzato e ridotto a mal partito dal Kuomintang (il partito nazionalista al potere) di Chiang Kai-shek che, dopo averlo espulso fin dal 1927 dalle città, stava conducendo massicce campagne di accerchiamento per annientarlo anche nelle campagne. Riconoscendo di non poter resistere alla quinta campagna di accerchiamento, Mao dall’ottobre 1934 al luglio 1935 guidò i suoi seguaci nella ‘lunga marcia’ (12mila km.) fino alla periferica regione settentrionale dello Shaanxi, ma proprio allora, di fronte all’aggravarsi della situazione in Europa in seguito all’ascesa di Hitler e del nazismo, al VII Congresso del Comintern (l’Internazionale Comunista) Dimitrov lanciò la nuova strategia dei Fronti Popolari. Abbandonando la dissennata logica del ‘socialfascismo’ secondo cui i comunisti erano contro tutti gli altri partiti (dai socialisti ai fascisti!) ora l’Internazionale rovesciava completamente questa sua impostazione e proponeva invece l’alleanza dei comunisti con tutti gli antifascisti in funzione, appunto, della lotta al nazifascismo: Mao aderì subito a questa nuova linea e si alleò al Kuomintang per combattere contro il Giappone che, dopo l’incidente del ponte Marco Polo (7 luglio 1937), diede inizio all’invasione della Cina anche a sud della Grande Muraglia. Oltre a ciò, Mao e il PCC vollero costruire un polo alternativo a quello del Kuomintang per collegare, unire e dirigere tutti coloro che erano disposti a resistere all’invasore ben comprendendo che ‘la chiave per guidare la guerra nazionale rivoluzionaria anti-giapponese fino alla vittoria è spiegare, applicare e sostenere il principio ‘indipendenza ed iniziativa [del PCC] all’interno del fronte unito’.’ Così contro gli invasori giapponesi i nazionalisti e i comunisti combatterono due guerre largamente distinte e separate, ma mentre il Kuomintang aveva dalla sua lo stato e l’esercito regolare, Mao, i comunisti e i loro alleati potevano contare solo sui 38 loro militanti e sul sostegno (più o meno volontario) che potevano ottenere dagli abitanti delle zone da loro ‘liberate’. La tattica e la strategia rivoluzionaria della guerra di popolo nacquero dunque in una situazione disperata, quando era il popolo stesso che doveva organizzarsi per resistere all’invasore. II Per affrontare il temibile e spietato esercito giapponese quello del Kuomintang, pur forte di 2 milioni di uomini, non era assolutamente sufficiente mentre le truppe dei comunisti di Mao, limitate di numero e male armate, erano un esercito solo di nome: sulla carta dunque il Giappone sembrava destinato alla vittoria, ed infatti potè avanzare velocemente ed occupare città e zone industriali (macchiandosi di atroci brutalità), eppure Mao riuscì ad individuare la strategia e la tattica giuste per resistere. Mao riconobbe la chiave del successo nella mobilitazione rivoluzionaria del popolo e nel suo coinvolgimento nella lotta: la guerra di popolo che Mao propose ed attuò si fondeva ed era tutt’uno con la rivoluzione tanto che per tutta la durata dell’occupazione giapponese i suoi rapporti col Kuomintang furono sempre tesi, ed anche conflittuali, pur nella comune lotta contro l’invasore. La guerra rivoluzionaria di popolo non era una guerra tradizionale (come quella che combatteva il Kuomintang) non solo per i mezzi che impiegava, ma anche e soprattutto perché faceva parte invece della rivoluzione stessa: mentre infatti il difensore in una guerra tradizionale (come quella combattuta dal Kuomintang) vuole semplicemente respingere l’invasore e tornare così alla situazione (più o meno) precedente, la guerra di popolo punta al contrario anche al rovesciamento del vecchio regime e dunque vede la sconfitta dell’invasore come un momento ed un passaggio nella generale e ben più complessa strategia rivoluzionaria. Ciò era d’altra parte inevitabile: il coinvolgimento dell’intera società nella guerra e la richiesta dei pesantissimi sacrifici e delle mille sofferenze che questo comportava non potevano non prevedere anche una radicale trasformazione dell’intero assetto sociale. Questa linea politica venne chiaramente spiegata da Mao e rispondeva in pieno alla sua rivisitazione della filosofia dialettica (vedi la mia ‘La filosofia della storia di Mao’) secondo la quale c’è un ordine di priorità e una tempistica diversa nella risoluzione delle varie contraddizioni che nel tempo muovono la storia ed agitano la società e che possono essere risolte solo una alla volta. III ‘Il partito [comunista cinese] partì dal presupposto che la Cina aveva la forza per resistere all’aggressione e che alla fine avrebbe trionfato. La sorgente ultima di questa forza era il vasto numero della popolazione’ (e, va aggiunto, anche la vastità stessa del territorio cinese) e dunque ‘solo mobilitando ed organizzando la popolazione la Cina avrebbe potuto resistere al potente nemico’. 39 Era così necessario creare ampie ‘zone libere’ e liberate alle spalle ed ai fianchi dell’esercito giapponese che avanzava e da qui organizzare una guerriglia mobile per insidiarlo, disarticolare le sue linee di comunicazione e sorprenderlo ogni volta che se presentassero le condizioni: nelle zone libere poi andava intrapresa tutta una serie di riforme che cominciassero ad intaccare le struttura ancora semi-feudale della Cina e migliorassero le condizioni dei contadini. Come si è detto, resistenza e rivoluzione erano due momenti della stessa azione politica. Mao affermò che ‘nonostante avesse grandi capacità militari, il Giappone era un paese relativamente [alla Cina] piccolo, scarso di risorse umane e di risorse belliche, finanziarie e materiali, e non poteva sopportare una lunga guerra’ (e previde facilmente che la guerra sarebbe stata lunga). ‘Avendo truppe in numero limitato, i giapponesi potevano controllare solo le città e le linee di comunicazione, mentre nella vasta campagna e nei piccoli paesi il loro dominio era debole’: così per quanto avanzasse, vincesse battaglie ed occupasse città e aree industriali, l’esercito giapponese si trovò sempre di fronte quello regolare cinese del Kuomintang mentre da ogni lato le formazioni partigiane comuniste (o guidate dai comunisti) gli impedivano di consolidare veramente le sue conquiste e le zone libere e liberate crescevano di numero ed in estensione rendendo le truppe comuniste sempre più forti e con ranghi sempre più folti. E’ ovvio che ciò comportò frequenti ostilità dei comunisti con il Kuomintang che mentre era costretto a ritirarsi davanti ai giapponesi comprendeva bene che i suoi ‘alleati’ stavano portando avanti la rivoluzione anche contro di lui: non mancarono così gli scontri e gli attacchi al PCC ma l’emergenza della guerra contro il Giappone, volenti o nolenti, non poteva non avere la precedenza. Il Giappone fu sconfitto ed espulso, dopo altri quattro anni di guerra civile il Kuomintang fu a sua volta sconfitto ed espulso e Mao potè fondare la Repubblica Popolare Cinese. L’esempio cinese sarebbe stato seguito in Europa nella Resistenza alle occupazioni del nazifascismo e soprattutto in Asia, in Africa e in America Latina, continenti in cui la guerriglia sarebbe diventata spesso un fenomeno endemico e si sarebbe sostituita alla guerra tradizionale travagliando per anni e anni interi stati e aree geografiche: quando il nemico che si vuole abbattere è troppo forte in campo aperto è questa infatti l’unica opzione praticabile. Sulla guerra rivoluzionaria di popolo ci sono da fare però almeno due considerazioni. IV Innanzitutto è evidente che la guerra rivoluzionaria di popolo si fonda e presuppone il (più o meno) convinto sostegno e la (più o meno) decisa partecipazione della società civile alla lotta: Mao afferma che il partigiano deve potersi muovere fra la popolazione civile come il pesce nell’acqua, ma ciò comporta costi umani spaventosi perché l’invasore si sente costantemente in mezzo al nemico e sa che per isolare e battere i guerriglieri deve far terra bruciata intorno a loro. 40 La guerra rivoluzionaria di popolo coinvolge completamente la popolazione civile che inevitabilmente subisce ogni sorta di violenze, di devastazioni e di uccisioni: chi si pone sulla strada della guerra rivoluzionaria di popolo sa che questo popolo sarà chiamato a pagare un altissimo tributo di sangue, un costo che non sarà possibile risparmiargli. Data la situazione disperata in cui si trova un popolo quando è invaso, è più che comprensibile che questo raccapricciante prezzo venga giudicato inevitabile e, oltretutto, in Cina i giapponesi ricorsero fin dall’inizio a comportamenti di incredibili ferocia e brutalità (che raggiunsero l’apice nell’infernale ‘stupro di Nanchino’), ma in nessuno degli scritti di Mao si trova traccia di questo aspetto della guerra rivoluzionaria di popolo e questo silenzio rivela quanta indifferenza egli provasse per i costi umani della rivoluzione. Né fu il solo: le guerre condotte per l’affermazione del comunismo sono state tutte combattute senza riguardo alcuno per le perdite e per le sofferenze della società civile ad ulteriore testimonianza dell’assoluta convinzione e dell’inflessibile determinazione che animavano i rivoluzionari. Non c’è quindi da stupirsi se una volta al potere i comunisti continuarono a non tenere in alcuna considerazione le vite dei loro concittadini, sia in guerra sia nella costruzione della nuova società per la quale evidentemente nessun prezzo da pagare era ritenuto troppo alto. V Altro aspetto fondamentale della guerra rivoluzionaria di popolo è che essa è riuscita a vincere con le sue sole forze soltanto a Cuba negli anni Cinquanta del secolo scorso: in tutti gli altri casi essa ha potuto avere successo perché era condotta nell’ambito di una guerra tradizionale in cui due eserciti si scontravano. Se i giapponesi non fossero stati impegnati contro il Kuomintang e poi contro gli Stati Uniti (e l’Inghilterra) Mao e i comunisti (aiutati e sostenuti per di più dall’Unione Sovietica) non avrebbero mai potuto vincere e questo vale per la Resistenza antinazifascista e per ogni altra guerra rivoluzionaria di popolo a partire da quella spagnola contro Napoleone: la guerriglia può tormentare un esercito invasore e creargli in vuoto intorno ma quest’ultimo può essere veramente sconfitto solo da un altro esercito (come già von Clausewitz aveva riconosciuto). Ciò non significa tuttavia che la guerra rivoluzionaria di popolo non sia ugualmente importantissima perché essa come si è già visto è in realtà una fase e un momento imprescindibile della rivoluzione: essa prepara il popolo alla rivoluzione, lo educa alla lotta, lo organizza in forme nuove, lo tempra e ne seleziona la classe dirigente per il nuovo corso storico che intende affermare. L’Europa post-bellica uscì trasformata dalla Resistenza in senso politico, morale, civile, in una parola, spirituale, ma i partigiani non avrebbero mai potuto sconfiggere gli eserciti del nazifascismo con le loro forze militari così risicate e limitate. 41 La guerra rivoluzionaria di popolo segna dunque un momento di altissima elevazione del popolo che l’intraprende e che merita il pieno riconoscimento del suo vero e proprio eroismo, ma solo un esercito può sconfiggere un altro esercito. La guerra assurda Come risulta anche dal mio ‘Stati Uniti d’America: espansione ed imperialismo di una democrazia in armi’ (parte terza e quarta) nell’era atomica la guerra è diventata assurda, un vero rompicapo logico la cui soluzione è impossibile e che ha reso paradossale la storia dell’ultimo mezzo secolo. I termini del problema sono notissimi: una guerra termonucleare può portare alla completa estinzione dell’umanità e questa novità (assoluta in tutta la storia del mondo!) ha condotto a tutta una serie di contraddizioni. Questa guerra infatti non può essere combattuta perché la sua escalation porterebbe all’estinzione del genere umano; in essa dunque non può esserci un vincitore ed anche la superiorità assicurata dal ‘primo colpo’ durerebbe il brevissimo lasso di tempo prima dell’immancabile, uguale e contraria ritorsione dell’aggredito. Questo riconoscimento (addirittura banale) annulla d’un colpo tutto il pensiero militare precedente sul senso, sul significato e sulle modalità della guerra, comprese tutte le considerazioni possibili sui modi per conseguire la vittoria: il concetto stesso di guerra atomica – una guerra che non si può nemmeno iniziare, nè combattere nè tantomeno vincere - è illogicità pura. Nonostante ciò, subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale le due superpotenze (e non solo loro) si scatenarono ugualmente in una travolgente (e costosissima) corsa agli armamenti nucleari che li moltiplicò a dismisura, tanto che per cancellare l’umanità intera (e non solo lei) dalla faccia della Terra sarebbe bastato l’impiego di una frazione sempre più piccola di tali ordigni: insomma, nel momento in cui e perché le due superpotenze avevano raggiunto (e superavano continuamente) un’immensa ed incalcolabile capacità militare fino a poco prima nemmeno immaginabile, proprio per questo erano impossibilitate ad agire e rimanevano paralizzate nel cosiddetto ‘equilibrio del terrore’ o ‘dissuasione’. La pace era imposta alle due superpotenze nucleari dalla loro stessa forza per cui esse potevano minacciarsi quanto volevano, aumentare fuori di ogni sensatezza le loro armi nucleari, … tanto non potevano farvi ricorso!!! Questa situazione, già di per sé così paradossale ed assurda, era poi resa (se possibile) ancor più grottesca da altre due inevitabili conseguenze. La prima era che, se USA e URSS non poterono scontrarsi direttamente, di fatto però tutte le altre guerre gestite e/o sostenute da loro scoppiarono ugualmente e continuarono ad essere combattute come prima, cioè con armi non-nucleari: dato infatti che le armi nucleari non potevano essere impiegate era come se non esistessero! La seconda era che, oltre al fatto che un errore, un malinteso, un calcolo sbagliato, un azzardo o la follia di qualche politico poteva pur sempre far scoppiare davvero la 42 guerra atomica e portare all’olocausto finale dell’umanità, i mezzi e gli strumenti per la nostra estinzione erano minacciosamente branditi (ed aumentati) in continuazione: l’umanità viveva insomma ‘sull’orlo dell’abisso’ e questo clima da fine del mondo diffondeva un profondo, sottile e pervasivo sentimento di angoscia. Questo sentimento di assurdo e di spaesamento, di incomprensibilità e di impotenza, di vanità e di aleatorietà della vita a causa dell’onnipresente e continuamente incombente minaccia nucleare è affine a quello esistenzialistico nei confronti dell’esistenza umana stessa e dunque sono i parametri di questa corrente filosofica quelli più utili ed adatti per comprendere e sentire la precarietà dell’era atomica. I Karl Jaspers (1883-1969), uno dei filosofi più rappresentativi dell’esistenzialismo, lo riconosce con facilità: ‘La situazione originaria dell’uomo è che noi ci troviamo al mondo, e non sappiamo di dove veniamo e dove andiamo. Questa situazione è resa nota, diversamente da quanto prima lo fosse, con la possibilità dell’autodistruzione totale.’ Nell’era atomica per toccare con mano l’impalpabilità dell’esistenza - con la morte come suo momento più vero e caratterizzante – non è necessario leggere libri di filosofia e riflettere sull’insostenibile leggerezza dell’essere, basta infatti rendersi conto che sulla testa di ognuno pende una quantità di esplosivo capace di ucciderlo molte volte e che capi politici lontani possono decidere in qualsiasi momento di sganciarlo. Ma il parallelismo fra esistenzialismo ed era atomica si spinge molto più avanti: come noi nella nostra vita (inautentica, direbbe Heidegger) rifiutiamo di compiere una riflessione totale su noi stessi e sulla nostra natura nè pensiamo alla (nostra) morte, concentrati come siamo solo sul quotidiano e sulla vita di tutti i giorni, così facciamo nei confronti della minaccia atomica: ‘come … il sano dimentica che deve morire … forse così ci comportiamo anche noi di fronte alla bomba atomica’ perché ‘c’è il pericolo … che [questo pensiero] renda la vita insopportabile’ (esattamente come quello della (nostra) morte!), così ‘non si vorrebbe neppure pensare un tale pensiero’ ma ‘quale concetto volutamente cieco della vita! … è come seguire il contegno dello struzzo’. Tutto al contrario, secondo Jaspers se vogliamo invece operare per sperare di trovare una qualche via d’uscita dalla minaccia atomica ‘la prima cosa da fare è oggi accrescere l’angoscia … dei popoli perché cresca fino a diventare una potenza sopraffacente … che produca uomini di stato ad essa adeguati’: ‘solo qualora la coscienza del fatto nuovo giungesse ad influenzare la vita, anche la consueta politica … potrebbe mutarsi in una nuova politica, all’altezza della minaccia distruggitrice’. Forse la speranza di Jaspers venne almeno in buona parte realizzata perché se per un certo periodo (come in generale a proposito dell’esistenza) anche in politica i pensieri (ed i comportamenti) preferirono dimenticare l’abisso sul cui stretto bordo l’umanità si trovava e si continuò a produrre armi nucleari ed a minacciarne l’impiego … 43 finalmente nei primi anni Settanta e soprattutto alla fine degli anni Ottanta le due parti concordarono un massiccio ed impressionante disarmo. Il motivo di questi trattati e di questa ritrovata razionalità era comunque semplice: si erano prodotte troppe e costosissime armi che, inutili perché inutilizzabili, di conseguenza erano diventate un peso ed un impaccio sempre più insopportabile!!! Al giorno d’oggi comunque la minaccia atomica sembra svanita anche se il numero di ordigni nucleari rimasto (e non solo agli USA e all’URSS) è più che sufficiente a cancellare ancora varie volte l’uomo dalla faccia della Terra: l’assurdità dunque continua (seppur su scala molto minore) e con essa quella di vivere come se tale minaccia non ci fosse (o non ci fosse più) … e quella che forse essa non c’è e non c’è mai stata per davvero visto che un’arma inutilizzabile in realtà non è nemmeno un’arma! In ogni caso riflettere anche per un attimo su tutte queste follie fa comprendere subito che Jaspers ha sicuramente ragione quando riconosce che solo l’esistenzialismo può esprimere tutta l’ assurdità dell’era e della minaccia atomica. II Martin Heidegger (1889-1976) inserisce la sua riflessione sull’era atomica nel più ampio contesto della sua analisi, condanna e rifiuto della modernità - del resto uno dei temi centrali di tutta la sua speculazione. Secondo Heidegger l’Occidente ha smarrito se stesso (o, meglio, si è caratterizzato come tale) fin da quando Platone e Aristotele hanno fatto trionfare la loro concezione della metafisica distruggendone la corretta impostazione precedente: prima di loro infatti la verità era consistita nell’alétheia, cioè nell’auto-disvelamento della realtà e nel suo spontaneo rivelarsi all’uomo, mentre con Platone essa divenne la conoscenza dell’oggetto da parte del soggetto (l’uomo). Da allora questa contrapposizione soggetto-oggetto non avrebbe fatto altro che svilupparsi dispiegandosi per tutta la storia della filosofia occidentale e culminando nel pensiero moderno (soprattutto ad opera di Galilei) finchè con Hegel l’oggetto stesso del pensiero divenne addirittura anch’esso pensiero: la realtà insomma era tale in quanto posta dal soggetto ed essa così ne dipese sempre di più finchè Nietzsche arrivò alla logica conclusione che allora era il soggetto (l’uomo o l’oltreuomo) a creare (liberamente ed artisticamente) i valori e la realtà stessa. Secondo Heidegger da Platone in poi scienza e tecnica procedettero dunque sul binario della metafisica occidentale che fa della natura un oggetto-per-l’uomo, ma in questo modo per 24 secoli l’Essere ed il suo senso andarono perduti: essi non vennero più nemmeno immaginati da un pensiero che celebrava i suoi massimi trionfi nella scienza (fondata sulla contrapposizione soggetto-oggetto) la quale a sua volta si era venuta identificando sempre più con la tecnica, cioè con la capacità di agire da padroni sulla natura e di trasformare il mondo a proprio piacimento. Per secoli e secoli tutti i sempre più potenti ritrovati della scienza e della tecnica (culminati nell’era atomica) sono stati ottenuti sviluppando sempre lo stesso programma di dominio e di impossessamento della natura e le continuamente 44 nuove conquiste tecnologiche sono così solo sviluppi e conferme della medesima impostazione metafisica, seppur su scala accresciuta ad ogni passo: anche USA e URSS (Heidegger scriveva negli anni Cinquanta) non erano altro se non ‘sinistra frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici [nell’Essere]’. Questo oblio dell’Essere ha sradicato l’uomo e l’ha gettato nel nulla angoscioso della sua esistenza inautentica così che egli è ormai del tutto incapace ed impossibilitato di trovare fini e valori per decidere e dirigere davvero il mondo. Il pensiero è diventato ormai solo la serie di operazioni logiche per poter agire da padroni sull’oggetto e nel vuoto angoscioso in cui si è ridotta l’esistenza dell’uomo, perso nel nulla della sua inautenticità, non si medita più: in questo mondo dominato dalla tecnica ‘l’uomo è ‘la più importante delle materie prime’’. Nonostante tutta la volontà di dominio e di potenza esaltata, celebrata e pretesa dall’uomo, è invece la tecnica che in realtà procede per conto suo a briglia sciolta, liberamente e ciecamente: ‘la potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, … incalza, avvince, trascina l’uomo di oggi [1955] … è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede’. ‘Nessun gruppo di uomini … ha il potere di frenare o di dirigere il corso storico dell’era atomica. … L’uomo dell’era atomica, allora, potrebbe trovarsi, sgomento e inerme, in balia dell’inarrestabile strapotere della tecnica, e ciò accadrà senz’altro se l’uomo di oggi rinuncia a gettare in campo, in questo gioco decisivo, il pensiero meditante contro il pensiero calcolante’. Questa per Heidegger è davvero una partita decisiva perché ‘questo calcolare domina completamente la volontà’ nel senso che l’uomo, vagante nel nulla ed autosradicato dall’Essere perché non medita più, non può dunque scegliere nulla, così che ogni novità non può che seguire il corso, cieco e completamente irresponsabile, imposto al mondo dalla tecnica: ‘si crede che i capi … si arroghino ogni cosa e dispongano tutto secondo il loro capriccio. In realtà, essi sono la conseguenza necessaria del fatto che … il vuoto [di Essere] … esige un unico ordinamento … In vista di ciò devono essere predisposti e apprestati uomini che possano essere usati per la direzione’; ‘tutti i tipi di stato sono solo uno strumento di direzione fra altri. Poiché la realtà consiste nell’uniformità del calcolo pianificabile’, ciò ‘esclude anticipatamente che le differenze dell’elemento nazionale e dei popoli siano ancora fattori essenziali’. Ciò del resto non è una novità: ‘le ‘guerre mondiali’ e il loro carattere di ‘totalità’ sono già conseguenze dell’abbandono dell’essere’. La filosofia di Heidegger volle divenire allora la reazione a questa caduta e a questa perdita e si concentrò così sulla ricerca dell’Essere e del suo senso, delle vie insomma per riportare l’uomo alle sue vere radici in modo da renderlo finalmente padrone di se stesso e del suo destino. Era questa la partita decisiva per le sorti dell’umanità stessa: ‘l’uomo si trova su questa terra in una situazione pericolosa. Per quale motivo? Soltanto perché da un momento all’altro potrebbe scoppiare una terza guerra mondiale che avrebbe per conseguenze il completo annientamento dell’umanità e la devastazione della terra? No. Nell’era atomica che sta iniziando, un pericolo ancora più grande ci minaccia …: 45 la rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell’era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l’uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l’unico ad avere ancora valore, ad essere effettivamente esercitato. … Allora l’uomo avrebbe rinnegato … il suo carattere più proprio: la sua essenza pensante. E’ necessario pertanto salvare l’essenza dell’uomo, è necessario tener desto il pensiero’. III E’ semplicemente patetico commentare il cumulo di sciocchezze che Heidegger sforna con tanta drammaticità, ma, d’altra parte, in queste pagine egli è stato ricordato solo per la sua grande (ed inspiegabile) notorietà. E’ senz’altro giusto da parte sua insistere che la tecnica deve essere un mezzo che la società usa e che non dev’essere invece lei ad imporci la sua logica, nè basta insomma poter fare una cosa per doverla fare come se fosse inevitabile (perché diviene inevitabile solo se non ci mettiamo nelle condizioni di essere noi a decidere), ma i meriti di Heidegger si fermano qui: a parte questa (banale) esortazione, tutto il resto della sua lunghissima e complicatissima filosofia è il delirio libresco e l’allucinazione maniacale di chi ha vissuto (e pensato!) chiuso in una biblioteca scambiata per il mondo e per la realtà. Risalire a Platone e far derivare tutta la nostra storia da lui; considerare tutto il cammino dell’Occidente come il logico sviluppo della sua concezione della metafisica; non solo non comprendere il rischio dell’olocausto nucleare, ma ritenerlo un problema secondario di fronte a quello di impedire la vittoria definitiva del pensiero calcolante; invocare in tono misterico, allusivo, ispirato ed iniziatico, l’Essere e il suo senso senza specificarne mai nemmeno un carattere costitutivo, ecc.; sono solo stucchevoli bizzarrie di un filosofo che capì tanto della vita da aderire fin dall’inizio al nazismo e che per gli oltre trent’anni che visse dalla fine della guerra non seppe né volle dire una parola su di esso. Certamente fu meno compromettente discettare dell’oblio dell’Essere che di Auschwitz: se infatti anche i campi di sterminio non furono (come tutto) che uno dei tantissimi frutti dell’abbandono dell’Essere e del suo senso a che serviva parlarne in particolare? Ed Heidegger come potè mai sostenere seriamente che una terza guerra mondiale (termonucleare) sarebbe stata davvero scongiurata solo quando l’umanità si fosse aperta all’Essere e si fosse così liberata dal pensiero calcolante (perché era questo il vero pericolo!!!) e dal dominio della tecnica (che ci ha tolto dalla fame e dal bisogno fornendoci un benessere prima inimmaginabile ma in cui comunque non sta certo la vera felicità, raggiungibile solo nel ritrovamento dell’Essere)? Non ha davvero senso continuare a prendere sul serio affermazioni come queste. Clemenceau disse una volta che la guerra era una cosa troppo seria per lasciarla fare ai generali: che questo avvertimento valga anche per la filosofia da non lasciare ai filosofi come Heidegger!!! 46 IV Arthur Koestler (1905-83), ebreo ungherese trapiantato in Inghilterra, fu uno scrittore di argomenti storico-politici ed ebbe sempre un forte interesse per la scienza: quando affronta il tema della prospettiva della guerra nucleare - e riflette sulla natura della guerra stessa - anche lui prova comunque una profonda angoscia, seppur lontana da considerazioni filosofiche (con cui non aveva familiarità). Dopo aver fortemente paventato il nazifascismo e dopo aver dato per scontata l’avanzata del comunismo sovietico in tutta Europa negli anni Cinquanta, nelle sue opere degli anni Settanta (‘The Heel of Achilles’ e ‘Janus - A Summing Up’) esprime tutto il suo timore per l’inevitabilità di un olocausto nucleare: ‘fin da Hiroshima l’intera umanità si trova a vivere colla prospettiva della sua propria estinzione in quanto specie biologica’ perché per la prima volta nella storia era la sopravvivenza della razza umana stessa ad essere seriamente minacciata, situazione mai esistita e nemmeno immaginabile fino a pochissimi decenni prima. Koestler è molto impressionato da questo nuovo e terribile scenario e, come gli era sempre capitato in passato, mentre sente tutta l’ imminenza del pericolo vede però che la società continua invece a vivere normalmente come se il problema non esistesse nemmeno e non esita ad autodefinirsi una Cassandra: ‘solo una piccola minoranza è consapevole che da quando il vaso nucleare di Pandora è stato aperto la nostra specie vive in un tempo preso a prestito’. Che fare dunque? ‘Il primo passo verso una possibile cura è una diagnosi corretta’ sulla natura della guerra stessa, risponde Koestler, e questa diagnosi corretta consiste nel riconoscimento che l’uomo è l’unico essere che uccide sistematicamente i membri della propria specie, quindi quella umana ‘è una specie aberrante, sofferente per un malfunzionamento biologico, con uno specifico disordine comportamentale che la differenzia da tutte le altre specie animali’: cinque sono punti in cui questo aberrante disordine comportamentale, particolare della sola specie umana, si manifesta: 1) ‘il sacrificio umano … è un rituale diffuso’ in quanto ‘queste pratiche sorsero indipendentemente [l’una dall’altra] nelle civiltà più diverse’; 2) ‘la debolezza dei freni inibitori contro l’uccisione di un appartenente alla stessa specie’; 3) lo ‘stato di guerra permanente con le sue sotto-variabili della persecuzione di massa e del genocidio’: la ‘legge della jungla consente di depredare altre specie ma vieta la guerra all’interno della propria … [e] l’homo sapiens è l’unico a violare questa legge’; 4) ‘la permanente quasi-schizofrenica separazione fra ragione e sentimento’; 5) ‘l’impressionante sintomatica disparità … fra i poteri dell’intelletto quando vengono applicati al padroneggiamento dell’ambiente e la loro impotenza se applicati alla conduzione delle vicende umane’. Koestler nota inoltre che - anche come conseguenza del lunghissimo periodo che ogni membro della razza umana deve passare nelle mani degli adulti, accudito, protetto, educato ed allevato senza essere in alcun modo autosufficiente - ‘una delle 47 caratteristiche centrali della condizione umana è questa irrefrenabile capacità e bisogno di identificazione con un gruppo sociale e/o un sistema di credenze che è indifferente alla ragione, indifferente al proprio interesse e persino alle esigenze dell’autoconservazione’: ed è precisamente questa caratteristica a far sì che ‘il problema con la nostra specie non è un eccesso di aggressività per la propria affermazione, ma un eccesso di autotrascendente devozione, … di amore disinteressato per la propria tribù, nazione, dinastia, chiesa o ideologia’. Le guerre sarebbero dunque atti d’amore perché, paradossalmente, ‘il problema della nostra specie non è l’eccesso di aggressività, ma di devozione’, molto più pericoloso perché ‘l’identificazione con il gruppo implica sempre il sacrificio delle facoltà critiche individuali e l’aumento del suo potenziale emotivo’. Questo bisogno e questa capacità di identificazione fanno sì che l’homo sapiens creda e si leghi a simboli, valori, dottrine, ecc., cioè a messaggi e a parole: dunque ‘le guerre sono combattute per delle parole. Esse sono l’arma più letale dell’uomo’ e ‘il linguaggio è … la minaccia principale alla nostra sopravvivenza’ visto che ‘agisce come potente forza coesiva all’interno del gruppo e come altrettanto potente forza divisiva fra gruppi.’ V L’aspetto davvero originale – e fortemente discutibile – dell’analisi di Koestler risiede però nella causa di questa anomalia e di questo eccezionale comportamento dell’uomo che secondo lui consisterebbe nella particolare evoluzione biologica della specie umana (!): ‘nelle ultime esplosive fasi dell’evoluzione biologica dell’homo sapiens qualcosa è andata storta’ perché ‘la corteccia cerebrale degli ominidi nell’ultimo mezzo milione di anni si è evoluta ad una velocità esplosiva … [e] le nuove strutture non si sono integrate propriamente con quelle filogeneticamente più vecchie’, quelle cioè che l’homo sapiens ha in comune coi rettili e coi mammiferi primitivi. La parte emotiva e istintiva del cervello dell’homo sapiens (quella più vecchia) non sarebbe dunque in accordo nè in armonia con quella razionale (quella più recente) che non riuscirebbe così a controllarla: secondo Koestler questa sfasatura spiegherebbe perché allo strepitoso successo della scienza e della tecnica (la ragione quando agisce da sola) corrisponde la paralisi, l’irrazionalità e l’arretratezza del comportamento umano, dell’etica e della morale, cioè del rapporto dell’uomo coi membri della sua stessa specie (l’impotenza della ragione nei confronti dell’emotività). ‘L’homo sapiens è una specie biologica aberrante, un errore evolutivo’ perché le due parti del suo cervello – quella razionale e quella emozionale - e del suo sistema nervoso si sono formate ed evolute in periodi differenti così da non essere coordinate né armonizzate fra loro: secondo Koestler una simile mancanza, per quanto grave, non deve poi stupire perché, d’altra parte, ‘l’evoluzione ha compiuto molti errori … Per ogni specie esistente centinaia in passato sono perite; l’archivio fossile è il bidone dei rifiuti dei modelli scartati dal Progettista-Capo.’ 48 Riassumendo: per Koestler la guerra scoppia come atto d’amore e di devozione per qualcosa che va ben al di là dell’individuo in armi e ‘i disastri causati dagli eccessi dell’autoaffermazione individuale sono quantitativamente trascurabili [se] paragonati al numero di ammazzati ad maiorem gloriam, [cioè] per una disinteressata devozione a una bandiera, a un leader, a una fede religiosa o a una convinzione politica … La tragedia dell’uomo non nasce dalla sua aggressività, ma dalla sua devozione a ideali che lo trascendono’. Questa devozione è poi ascrivibile al fatto che ‘l’infante umano è soggetto a un periodo di impotenza e di dipendenza totale dagli adulti più lungo [di quello delle altre specie] … Questa prolungata esperienza può essere alla radice della pronta sottomissione dell’adulto all’autorità e della sua quasi-ipnotica suggestionabilità a dottrine ed a comandamenti etici – della sua brama di appartenenza, di identificazione con un gruppo o con un sistema di pensiero.’ A sua volta ‘l’identificazione con un gruppo comporta sempre un certo sacrificio delle facoltà critiche degli individui [parte più recente del cervello] che lo costituiscono e un aumento del loro potenziale emozionale [parte più vecchia]’, e questa imperfetta evoluzione del cervello umano rende la sua parte più recente incapace di controllare razionalmente gli impulsi emotivi che risiedono nella sua parte più antica. VI Dati questi presupposti, sembrerebbe proprio che le guerre siano inevitabili e che anche quella nucleare non potrà che scoppiare con la sua catastrofica conseguente cancellazione della specie umana (e non solo) dalla faccia della Terra, ma in realtà, dopo tanto pessimismo, Koestler intravede anche una possibile via d’uscita. Il suo discorso è semplice: se la vera e profonda causa della guerra è che nell’uomo la neo-corteccia cerebrale – sede della ragione – non controlla né si integra né si armonizza con le parti del suo cervello formatesi in precedenza (e in comune col resto del mondo animale) – sede dell’emotività -, se insomma tale causa è di ordine biologico e fisiologico, beh, allora anche il rimedio non potrà che essere biologico e fisiologico (!). ‘Dobbiamo cercare una cura per la schizofrenia endemica della nostra natura’ e ‘la cura non è al di là del raggio d’azione della biologia contemporanea’: essa consisterà in ‘quella combinazione di ormoni o di enzimi benefici che dovrebbe risolvere il conflitto fra le vecchie e le recenti strutture nel cervello [umano] fornendo alla neocorteccia il potere di controllare gerarchicamente i più bassi centri arcaici [del cervello stesso]’. Il ragionamento insomma è questo: se l’emotività (che ha sede nelle vecchie parti del cervello) sfugge al controllo della ragione (che ha sede nelle nuove) e se questo sfuggire produce comportamenti aberranti come le guerre (atti d’amore e di dedizione dovuti al lungo periodo di dipendenza dell’infante umano dagli adulti), per evitare queste ultime sarà del tutto inutile far leva sulla ragione che, così com’è, è impotente, ma bisognerà invece metterla in grado di poter controllare impulsi ed emotività. 49 Infine, visto che quest’impotenza della ragione è di ordine evolutivo e biologico, si dovrà agire allora a livello biologico: ‘se bisogna salvare la nostra specie malata, la salvezza non verrà dalle risoluzioni dell’ONU e dai summit diplomatici, ma dai laboratori biologici. E’ ragionevole che una malfunzione biologica richieda un correttivo biologico.’ Alla domanda ‘sarà possibile cambiare i fondamentali delle emozioni inducendo mutamenti molecolari nelle sostanze biologicamente attive nel cervello?’ Koestler risponde affermativamente: egli è moderatamente fiducioso che un traguardo del genere – questa sorta di Viagra della parte razionale del cervello - sia alla portata della scienza del Novecento e chiarisce che ‘quel che propongo non è la castrazione dell’emotività ma la riconciliazione di emotività e ragione … non un’amputazione, ma un processo di armonizzazione’ (ottenuta con trattamenti biologici). VII A parte ogni ovvia considerazione sulla mutazione del funzionamento del cervello umano indotta ed ottenuta con procedimenti medico-biologici - procedimenti da rifiutare assolutamente! -, il discorso di Koestler non appare comunque convincente perché – molto stranamente - trascura troppi fatti che smentiscono la sua teoria: se infatti le guerre sono frutto di amore e di dedizione mal controllati dalla ragione, se in queste catastrofi l’aggressività umana gioca un ruolo del tutto secondario, se insomma in guerra l’uomo è mosso da stimoli emotivi positivi, seppur eccessivi e non gestiti razionalmente, come mai proprio in tempo di guerra la ragione celebra trionfi facendo progredire con tanto vigore scienza e tecnologia? Si deve forse concludere che in guerra sarebbe l’emotività che sottometterebbe la ragione? E poi: che dire della schiavitù e dello sfruttamento? Nell’opprimere i suoi simili l’uomo non ha conosciuto (né conosce) limiti e ne ha sempre abusato (e ne abusa) senza freni: si può davvero sostenere che anche in questi infiniti casi di violenza sfrenata la molla fondamentale sia stata (e sia) l’amore e la dedizione al proprio gruppo o ai propri convincimenti? O non è ben più evidente che questa ferocia, costante ed istituzionalizzata in tutti i tempi e in tutti i luoghi, era (ed è) frutto dell’aggressività dell’uomo e del suo interesse squisitamente personale? Anche ammesso che guerra da una parte e schiavitù e sfruttamento dall’altra siano fenomeni diversi, non sembra comunque in alcun modo sensato sostenere che la loro radice sia completamente differente, addirittura a livello biologico. In conclusione, l’analisi di Koestler coglie sicuramente un aspetto caratteristico della guerra, ma lo assolutizza in modo del tutto arbitrario: tale analisi risulta insomma monca e azzardata e conseguentemente neanche il rimedio proposto può essere preso in seria considerazione. Se un rimedio alla guerra è possibile, sembra insomma più sensato cercare dottrine favorevoli all’integrazione fra i gruppi, valori – e interessi concreti! - che possano essere condivisi più o meno universalmente, parole che uniscano i popoli in modo da indirizzare quel sentimento di devozione che Koestler ha individuato e su cui insiste 50 tanto verso l’umanità nella sua interezza piuttosto che verso la piccola parte cui si appartiene. VIII Come Heidegger, anche il filosofo francese (nato nel 1937 da genitori ebrei austriaci) André Glucksmann nella sua prima opera, ‘Le discours de la guerre’ (1967), negò che la minaccia atomica fosse quella novità radicale che faceva entrare il mondo in un’era del tutto nuova e che sconvolgeva ed annullava tutto il pensiero politicomilitare precedente. Per illustrare questa sua convinzione egli innanzitutto chiarì e definì il concetto stesso di guerra: ‘la guerra è … stupida …, è ‘annientamento naturale, … devastazione furiosa’. Essa ‘illustra la rivincita della natura sulla cultura, dell’inorganico sull’organico, della morte sulla vita … La guerra non ha significati nascosti, essa manifesta quel che è, una … assenza di senso.’ La guerra non è mai divenuta più sensata o più umana – né avrebbe mai potuto: essa in sé è sempre rimasta ricerca del puro annientamento del nemico ed addirittura, come aveva sostenuto von Clausewitz, con la svolta imposta dalla rivoluzione francese e da Napoleone essa era diventata illimitata nei mezzi e nei fini, cioè terroristica, e si era quindi avvicinata ed aveva realizzato al meglio la sua stessa essenza. Oltre a ciò, Glucksmann accettò poi il corollario di Hegel secondo cui è proprio sulla guerra che ‘la società costruisce il suo stato’ perché è la guerra che unisce nella prova suprema gli individui dispersi nei loro interessi particolari (e conflittuali) nella società civile: col passaggio dalla moralità all’eticità è lo stato che dà unità alla società, ma senza la guerra esso non nascerebbe mai (e la società rimarrebbe sempre un ammasso di individui scollegati e chiusi nell’egoismo dei loro interessi particolari) perché è in guerra che trionfa il comune interesse, il comune destino e il comune sforzo a rischio della propria vita: ‘la guerra sola permette ad un popolo di superare le sue contraddizioni morali, economiche e sociali: … essa dissolve le opposizioni più solidificate … Lo stato regna allora grazie al ‘potere del sacrificio’.’ E ancora: ‘dalla guerra nasce un ordine, sia interiore che esterno, e non può nascere che da essa’. Ecco allora che ‘La guerra è la vera ragion di Stato. Senza di essa un popolo non è un popolo’: ‘la guerra nella vita di un popolo è … la scoperta di sé’ perché ‘nella guerra, nello scontro mortale e nella rivoluzione … la volontà è universale in quanto … la morte non lascia fuori nulla.’ La bomba atomica si inserisce pienamente in questa visione clausewitziana ed hegeliana così estremizzata della guerra proprio perchè la sua forza annientatrice corrisponde perfettamente alla più intima natura della guerra stessa: con la bomba atomica la guerra ha raggiunto la perfezione della sua essenza … esattamente come Hegel e von Clausewitz avevano pensato avesse fatto con Napoleone! I rispettivi contemporanei giudicarono Napoleone e la bomba atomica allo stesso modo: per la loro radicalità ambedue infatti parvero incarnare definitivamente l’essenza stessa della guerra (cioè il puro e semplice annientamento). 51 IX Dopo aver mostrato insomma che il concetto di guerra estrema era già stato formulato più di un secolo prima di Hiroshima, per Glucksmann l’era atomica non rappresentava poi veramente una novità anche sotto un altro aspetto. Era vero infatti che per la prima volta nella storia una guerra (termonucleare) non poteva essere combattuta perché ciò avrebbe rischiato di spazzar via l’umanità intera, ma, d’altra parte, proprio queste impasse ed impossibilità richiedevano che d’ora in avanti il pianeta venisse organizzato in modo unitario e gestito razionalmente: ‘il riconoscimento del possibile annullamento del mondo rende di per se stesso necessario un ordine universale’. Questo per Glucksmann era un punto importantissimo: una sistemazione politica finalmente razionale della società era stata infatti pensata per secoli da tanti filosofi (Glucksmann ricorda il ‘Leviatano’ di Hobbes (1651) e la ‘Fenomenologia dello spirito’ di Hegel (1806)) che avevano elaborato progetti ideali di una comunità ordinata e perfetta che ora - proprio grazie alla minaccia nucleare!!! – avrebbe potuto concretamente realizzarsi addirittura a livello mondiale! L’extrema ratio strategica coincideva perfettamente con la summa ratio politica o, meglio, l’extrema ratio strategica cessava di esistere come tale e si trasformava in necessità politica! Oltre che a proposito della realizzazione dell’essenza della guerra, per Glucksmann la situazione creatasi dopo Hiroshima (1945) ricordava pienamente quella riconosciuta da Hegel (e da Goethe) dopo Jena (1806) anche come premessa e garanzia di ordine e razionalità politica. Napoleone era apparso allora ad Hegel come la personificazione della storia stessa del mondo la quale con la ‘pax napoleonica’ aveva compiuto un passo fondamentale sulla strada della razionalità del reale (e della realtà della ragione): dopo Hiroshima la nuova fase della storia del mondo era invece la ‘pax americana’, ma era pur sempre lo stesso modello politico di ordine universale che veniva riproposto, come aveva sostenuto lo stesso Henry L. Stimson quando, informando subito dopo la morte del presidente Roosevelt (aprile 1945) il successore Truman del ‘progetto Manhattan’ (la costruzione delle prime bombe atomiche), aveva osservato che ‘se risolveremo il problema dell’utilizzo giudizioso dell’arma [atomica] avremo la possibilità di condurre il mondo in uno stato di perfezione nel quale potranno essere salvaguardate la pace universale e la nostra civiltà’. La terribile minaccia (reale) diveniva fondamento dell’ordine (ideale): ‘il destino del mondo è nelle ‘nostre’ mani’; ‘la bomba piega il furore guerriero’ e, giunto ‘sul margine dell’abisso, il mondo deve trovare la sua unità e la sua sicurezza’. Per Glucksmann insomma proprio l’incombente minaccia dell’apocalisse nucleare era la miglior garanzia della realizzazione di quell’ordine e di quella pace sognati per secoli dai filosofi! 52 Glucksmann: logica della dissuasione nucleare A prima vista queste affermazioni di Glucksmann possono sembrare il disinvolto ed elegante esercizio verbale di chi ricorre e si aggrappa ai filosofi del passato per negare - chissà perché - l’evidente e sconvolgente novità della guerra nucleare e che stranamente - non vede che fra Napoleone e la bomba atomica c’è l’incolmabile e decisiva differenza che due secoli fa la popolazione del pianeta Terra non corse alcun rischio di estinzione (nessuno se l’immaginò nemmeno) né in secondo luogo che la minaccia atomica non ha reso il mondo più ordinato e razionale perché tutto è continuato invece come e peggio di prima (gli arsenali nucleari impedirono solo lo scontro diretto fra USA e URSS, comunque un risultato di non poco conto). Si tratterebbe però di un’impressione sbagliata perché in realtà Glucksmann non si limita certo ad inserire la guerra (o non-guerra?) termonucleare in un ordine mentale precedente (come fa anche Heidegger), bensì considera ed analizza anche la politica che scaturì da tale situazione e cioè la dissuasione nucleare. I Nell’era atomica le due super-potenze sono diventate talmente forti da non potersi affrontare direttamente: ‘la difesa fondata sulla minaccia di una risposta illimitata ad un attacco illimitato’ non è possibile perché porterebbe all’estinzione dell’umanità. Duplici sono allora le conseguenze di questa nuovissima e sconvolgente situazione: innanzitutto, fra USA e URSS si è imposta una vera e propria ‘dissuasione reciproca’ dal ricorrere alle armi nucleari (impossibili da usare) col risultato che nell’era atomica ‘lo scopo della strategia è divenuto necessariamente negativo, difensivo’ in quanto ognuno dei due avversari minaccia l’altro di ritorsione nucleare massiccia in caso venga aggredito: ma in questo modo allora ‘la vittoria ha perso il suo significato tradizionale’ perché, dato che in una guerra atomica non ci possono essere vincitori, l’unico successo consiste nell’impedire all’altro di scatenarla per primo! In secondo luogo, Glucksmann si contraddice perché dopo aver sostenuto che la bomba atomica porta necessariamente a quell’ordine tanto sperato dai filosofi, afferma poi che la dissuasione fra le due super-potenze è invece un (chiamiamolo così) gioco - un confronto-scontro - estremamente complesso ed articolato che tuttavia non può che essere condotto in modo limitato per conseguire obiettivi limitati: impossibilitati ad andare fino in fondo (lo scontro diretto), i due antagonisti si devono allora accontentare di bloccarsi reciprocamente e possono aspirare solo a risultati sempre parziali e provvisori. La dissuasione consiste allora nel passaggio da una crisi ad un’altra e una crisi è il tentativo di mettere l’avversario di fronte ad un fatto compiuto (ovviamente vantaggioso per chi l’ha prodotto) più l’inevitabile reazione ad esso: avviene così che ‘i rapporti di forza perdono la loro purezza metallica trasformandosi in rapporti di 53 rischio, l’arma assoluta sbriciola la grande battaglia senza rimpiazzarla. Essa polverizza l’universo napoleonico’. ‘Il riferimento alla ‘grande battaglia’ governa il pensiero classico della pace come quello della guerra. La minaccia nucleare li sconvolge, una stessa architettura … di concetti che dirigono l’insieme delle relazioni internazionali si trova improvvisamente decapitata. Sostituto della battaglia, la crisi incide meno chiaramente, essa non può risolversi che in un’altra crisi perché l’idea stessa di un pareggiamento dei conti il gran giorno del pagamento in contanti è sospeso. … la crisi … perpetua ed introduce uno stato di né guerra né pace’. La conclusione di tutto ciò è che ‘il tempo della dissuasione non è orientato (né verso una pace totale, né verso una guerra definitiva)’ e che ‘la dissuasione organizza mezzi offensivi … a scopo … difensivo’ giocando sempre sul filo del rasoio perché in ogni crisi un’escalation che sfugga di mano e divenga incontrollata è pur sempre una deriva possibile (‘ogni crisi … può scatenare l’olocausto’). Compito degli strateghi americani (Glucksmann non può prendere in esame quelli sovietici che mantenevano segrete le loro analisi) fu allora quello di offrire un ‘ventaglio completo … di possibilità, non di realtà, [così che] le loro conclusioni non regolano la necessità di un calcolo univoco … [e] si afferma [invece] una produzione di scenari’: ‘il discorso della dissuasione si costituisce come logica del probabile’ la cui ‘incertezza è sovrana [data] la natura del suo oggetto’: anche Kissinger riconobbe che ‘ci troviamo immersi in un processo interminabile e non nella ricerca di una destinazione ultima’ in quanto ‘la dissuasione non è assolutamente una teoria della decisione … [e] le condotte che essa analizza … non sono in alcun modo e in nessun grado decisive’. ‘Dissuasione = indecisione’ ma ‘la dissuasione … non è e non può essere la logica sicura che ha per oggetto avvenimenti semplicemente probabili … è [invece] una logica verosimile del verosimile, l’arte di discutere senza concludere rigorosamente. Con questa discussione essa sviluppa la subtilitas; l’elegantia’. Come la retorica fin dai tempi di Gorgia e degli scolastici medievali, la dissuasione opera in scenari sempre cangianti e spesso imprevedibili e diviene così l’arte di valutare tutte le possibilità, di misurare tutte le forze e di prevedere tutte le possibili mosse: già von Clausewitz aveva affermato che la guerra era l’attività più simile al gioco a carte mentre adesso lo stesso paragone si può fare per tutto il complesso delle crisi ognuna delle quali deve però rimanere limitata per non sfociare in una guerra (nucleare). Glucksmann può concludere allora che ‘per Clausewitz la guerra era la continuazione della politica con altri mezzi. Se fosse vissuto nei nostri tempi avrebbe osservato che la politica è divenuta la continuazione della guerra con altri mezzi’ perché è la guerra (impossibile) che deve necessariamente cedere il campo a pratiche diverse come le ‘minacce graduali’ e le ‘risposte flessibili’ tenendo costantemente ben presente il ‘punto di arresto’ in modo da saper ‘valutare il troppo (rischio di guerra nucleare esagerata) ed il troppo poco (rischio di avvantaggiare l’avversario) nell’impiego delle forze e delle minacce’. 54 ‘La guerra perde la sua autonomia se la strategia militare non può essere concepita come la scienza della vittoria militare … e … la strategia militare è divenuta la diplomazia della violenza’. ‘Il calcolo strategico diventa un calcolo politico’. ‘La strategia nucleare unifica l’insieme delle condotte strategiche … essa realizza un principio di unità che rende ogni guerra limitata e localizzata il caso particolare di uno scontro globale’ ma ‘la strategia nucleare non può enunciare nessuna regola … e … quando propone un ‘rischio calcolato’ non calcola niente … è la politica che, alle sue spalle, calcola, agisce e decide’. L’epoca della dissuasione è caratterizzata insomma dall’incertezza, dalla precarietà della situazione, da uno status quo che in realtà è in continuo movimento - ma anche fondamentalmente sempre lo stesso. II Glucksmann afferma che ‘la crisi di Cuba (autunno 1962) è considerata da tutti l’esempio più trasparente di una strategia di dissuasione nucleare’, strategia che ‘cessava di essere un’astrazione’ . Si vide allora con chiarezza infatti che ‘la superiorità nel campo degli armamenti nucleari … non basta[va] più, la cosa importante [era] l’uguaglianza del terrore’: la coesistenza pacifica diveniva lo sbocco inevitabile del rapporto fra le due superpotenze impossibilitate a combattersi e le cui forze non aveva senso si accrescessero (anche se lo facevano continuamente). Secondo Glucksmann ‘la lezione della crisi cubana è permanente’ perché essa ‘mostra i meccanismi di tutte le crisi’ e che ‘nell’era termonucleare il momento della verità è la crisi, non la guerra’. III ‘La dissuasione … cioè … guerra limitata’, non pace sostiene Glucksmann: la dissuasione riesce ad evitare la guerra termonucleare ma non le guerre limitate (‘centotrenta conflitti con dozzine di milioni di morti’) che evidentemente non possono venir combattute che con mezzi tradizionali, ma come limitare queste guerre limitate? Come stabilire la soglia insorpassabile dello scontro? Insomma: fino a che punto le due super-potenze possono combattersi senza rischiare l’olocausto nucleare? Tenuto anche conto che più che conoscere le forze dell’avversario nell’era atomica bisogna valutarne soprattutto i piani e le intenzioni, l’unica soluzione possibile a questo problema è la trattativa con tutte le sue varianti, metodi e risorse, e la trattativa presuppone dialogo costante. I due nemici mortali sono e devono restare continuamente in contatto fra loro e fu estremamente rivelatore di questo aspetto della questione il fatto che questa necessità fu avvertita proprio durante la crisi dei missili a Cuba, quando i due contendenti si resero conto che avevano bisogno di comunicare costantemente fra loro ed istituirono allora il famoso ‘telefono rosso’. 55 I due avversari sono in trattativa costante e giocano così la loro ininterrotta partita sullo scacchiere internazionale: essi si affrontano e si combattono senza interruzione, ben attenti però a non lasciare che la situazione sfugga loro di mano (essa non può e non deve degenerare fino al punto di non ritorno) e sottoponendo a negoziato ogni mossa che fanno. ‘Le guerre limitate si limitano fra di loro’ e ‘la strategia diviene così la determinazione dei rapporti fra differenti rapporti di forza’. ‘La condotta strategica è irriducibilmente risky behavior … in cui il razionale e l’irrazionale sono … indiscernibili’. Glucksmann: elogio delle armi nucleari Fino a questo punto Glucksmann non ha fatto altro che riepilogare sull’equilibrio del terrore che caratterizzò la ‘guerra fredda’: esso è sempre stato unanimamente giudicato a dir poco angosciante (e gli armamenti nucleari dei ritrovati infernali), ma Glucksmann sull’intera questione esprime invece un giudizio molto più articolato e (come sempre) decisamente originale e controcorrente. In ciò consiste il suo vero contributo alla discussione. I Innanzitutto, secondo Glucksmann oltre al fatto che grazie ad esse ‘la sicurezza internazionale sembrerebbe garantita’, soprattutto però le armi nucleari conducono una grande e benefica operazione di verità sulla guerra (‘il primo effetto dei missili è un effetto di verità’ e ‘il missile è un’arma di verità’) perchè costringono tutti a guardare finalmente in faccia la realtà della guerra ed a non potersi più illudere ed ingannare sul suo significato (‘io sono la prima arma veramente psicologica’ dice il missile e ‘la mia prima carica è spirituale. Le mie prime vittime i vostri tabù’). ‘Ben condotta, la dissuasione rivela il volto nascosto della guerra, … essa mostra in grande quello che ogni guerra effettua in dettaglio … Essa offre occhi per il disastro’: ‘la dissuasione … costringe al faccia a faccia con la guerra nella sua verità’ e Glucksmann le fa così dire che ‘io non sono né buona né cattiva, … io sono vera’. In secondo luogo, l’equilibrio del terrore è tanto più benefico e positivo in quanto in Europa occidentale pone finalmente termine agli stermini in nome delle ideologie. Inevitabilmente, la possibilità dell’olocausto dell’intera umanità non solo impedisce (finalmente!) di mentire ma annulla anche quella logica delle ideologie che, a partire dalla crociata di Wilson (vedi Schmitt), per tutto il Novecento hanno difeso e sostenuto ogni sorta di massacri, dipinti come operazioni per la liberazione e la purificazione dell’umanità, avvenuti dunque a fin di bene e per un futuro migliore. Torna qui potente il tema di fondo dei ‘nuovi filosofi’ (fra i quali Glucksmann venne arruolato), quella radicale denuncia delle ideologie che legittimarono e giustificarono gli orrori degli universi concentrazionari del Novecento: esse accecarono le menti 56 prima delle coscienze e quando non poterono negare le orribili conseguenze che esse stesse avevano prodotto, allora le falsificarono dipingendole come missioni benefiche per l’umanità e riuscendo così a spacciare quegli inferni per paradisi!!! Con la dissuasione ciò non è più possibile: essa è infatti un concetto (e una pratica) negativo che – come presso i giusnaturalisti del XVII secolo - non ha valori e ideali da proporre in nome dei quali si possa quindi sterminare (‘la giustizia dissuasiva non si presenta come un bene che si stacca e si volge contro un male’) e che, rendendo la guerra impossibile, costringe i nemici al dialogo (‘la dissuasione è l’intesa di coloro che non si intendono’). Glucksmann fa così dire ad un missile nucleare che ‘dissuasione si oppone a persuasione. Io apro uno spazio in cui le ragioni della forza non sono assolutamente più costrittive in quanto la violenza delle ragioni si blocca, impotente ad imporre assenso. Ecco perché i persuasi di tutti i colori mi aborriscono, io rendo indeterminate le loro azioni più radicali. … I tempi delle crociate sono finiti’ come sono ‘finite le gioiose cavalcate che promettono la felicità dell’umanità attraverso lo sterminio incondizionato dei suoi nemici’. Insomma, conclude il missile, ‘grazie a me la necessità di una pace si manifesta continuamente’. Glucksmann è talmente convinto del ruolo assolutamente salutare svolto dai missili (che rendono impossibile il successo della logica totalitaria in Europa occidentale) che dopo l’annuncio di Reagan sulla possibilità di abbattere in volo i missili nucleari (le cosiddette ‘guerre stellari’) e dunque di rendere l’America inviolabile, arriva a concludere che ‘se … gli Stati Uniti e l’URSS diventano nuclearmente intoccabili, se … l’Europa occidentale viene inclusa nello scudo antimissile americano, la catastrofe arriva subito: la dissuasione si azzera e nel vecchio continente sono permesse tutte le avventure coi mezzi ‘classici’ di un inaudito potere distruttore. … Il giorno che [la dissuasione] fallirà non avremo abbastanza lacrime per piangerla’ (!!!) II Dopo i totalitarismi del Novecento e lo scatenamento di tutta la loro follia Glucksmann sottolinea dunque i lati positivi dell’equilibrio del terrore – unica garanzia di pace e di impedimento della follia del totalitarismo - ed espresse questa sua valutazione favorevole anche ai tempi della crisi degli euromissili durante la quale con ‘La force du vertige’ (1984) prese apertamente posizione contro il pensiero pacifista e contro gli oppositori della strategia NATO: i fatti erano noti ma Glucksmann li riepilogò ugualmente per tutti coloro che preferivano ignorarli. Il 28 ottobre 1977 il cancelliere tedesco (socialdemocratico) Schmidt denunciò che l’URSS aveva silenziosamente schierato in Europa i temibili missili SS 20 a testata nucleare multipla proprio mentre le discussioni sulla riduzione degli armamenti nucleari si stavano intensificando (!): ‘fino a quel momento i due campi avevano schierato lungo la cortina di ferro missili già nucleari, sia tattici, a corto raggio, limitati al campo si battaglia, sia strategici … I missili di prima categoria non arrivavano ai centri di gravità (capitali, stati maggiori) [e] … non erano decisivi. … 57 La seconda categoria di missili avrebbe comportato l’annientamento … senza vinti e vincitori’, ma ora questi ‘missili ‘a medio raggio’ stravolgevano la situazione strategica precedente e per la prima volta rendevano concrete le condizioni sufficienti per una totale nuclearizzazione dei conflitti continentali’ (cioè limitati all’Europa). ‘A differenza delle armi tattiche, gli SS 20 possono colpire tutti i centri nervosi dell’Europa occidentale … A differenza dei missili intercontinentali strategici la loro estrema precisione … garantisce un urto selettivo, detto perfino chirurgico, che permette la decapitazione del sistema di difesa avversario senza radere al suolo popolazione e ricchezze. La loro mobilità inoltre … li rende quasi invulnerabili. … Terza caratteristica essenziale, la portata strettamente continentale delimita chiaramente un teatro di operazioni: essa copre tutta l’Europa ed essa soltanto’. ‘Nessuno dei numerosi esperti e strateghi ufficiali aveva avuto presentimento dell’evento’ e ‘l’Europa si svegliò di soprassalto all’ombra di missili in grado di annichilirla’. Dopo che nella primavera 1979 il SALT 2 firmato da Breznev e da Carter aveva semplicemente ignorato questo nuovo tipo di missile (!), fu allora il nuovo presidente Reagan che volle parare il colpo sia proponendo che anche gli USA schierassero in Europa nuovi missili tattici (soprattutto i Pershing 2), sia ammettendo apertamente la conseguente possibilità di una guerra nucleare limitata (all’Europa). In realtà la proposta di Reagan non era una novità per gli strateghi della NATO che già oltre vent’anni prima non avevano escluso che in Europa potesse essere condotta una guerra con armi nucleari senza che questa ne oltrepassasse i confini, ma né questo né – soprattutto! - il fatto che erano stati i sovietici che con lo schieramento degli SS 20 avevano reso possibile una guerra nucleare limitata nel continente impedì che dal movimento pacifista fosse invece proprio Reagan ad essere additato all’opinione pubblica occidentale come un guerrafondaio incosciente ed uno scriteriato che giocava in modo irresponsabile coi destini dell’Europa e del mondo. Incalzata da Reagan, la NATO scelse infatti di ‘equilibrare la capacità degli SS 20 sovietici di aprire e gestire una guerra limitata in Europa con una capacità analoga’ in modo da ‘equilibrare una minaccia geopolitica specifica con la contro-minaccia appropriata’ attirandosi però opposizioni diffuse in tutto l’Occidente tanto che ‘l’ondata delle contestazioni ha assunto proporzioni tali da costituire ormai una sfida fondamentale al sistema strategico stabilito in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Infatti rifiutando l’arma nucleare i ‘movimenti per la pace’ mettono direttamente in discussione la dissuasione cioè il fondamento stesso della sicurezza’. Glucksmann si impegnò attivamente in difesa della decisione di schierare i Pershing 2 in Europa occidentale e combattè decisamente i pacifisti, i filo-sovietici e gli stessi sovietici che si trovavano tutti uniti nella condanna e nel rifiuto degli euromissili americani, ne smontò gli argomenti e denunciò le falsità contenute nella loro propaganda. 58 III Innanzitutto egli affrontò i pacifisti convinti, quelli che a prescindere da ogni altra considerazione fondano il loro pensiero sull’amore per la pace come valore assoluto fine a se stesso: ‘‘Io amo la pace’ è una dichiarazione d’intenti così obbligante che … riguarda tutte le dichiarazioni di guerra’, tuttavia ‘questa ‘pace’ non esprime nessuna preferenza per il tale o tal altro genere di vita’, in modo che Glucksmann può concludere ironicamente che ‘nessuno può rimproverare all’amore di essere cieco’. Ciò che rende insomma inaccettabile il pacifismo è che dovendo scegliere fra libertà e vita esso opta sempre, preventivamente e sistematicamente, per la seconda a scapito della prima: ‘colui che afferma ‘niente è più importante della pace’ si sottomette … all’intimazione definitiva. Egli invita la terra intera a sacrificare credenze, glorie ed ideali sull’altare della Vita, egli postula in essa un Bene supremo’. Dato che fra libertà e vita sceglie la seconda, il pacifista accetta così di vivere da schiavo: egli preferisce ‘annullare tutto quello che fa amare la vita in nome della vita’ senza riuscire a comprendere che ‘non c’è pace senza libertà’ e che ‘una pace a tutti i costi vale per definizione meno di niente’ perchè ‘l’uomo … trova ragioni per vivere. Le difende. Esse diventano per lui ragioni per cui morire’, così che ‘il prezzo della vita qualche volta è la morte’ in quanto ‘esiste una morte peggiore della morte’ e ‘possiamo perdere più dell’esistenza’. IV Ma Glucksmann spinge lo scontro coi pacifisti molto più a fondo: seguendo l’impostazione di tutta la ‘nuova filosofia’ egli ne rivela infatti i malsani fondamenti ideologici e li coinvolge nella denuncia della cecità e della malafede della sinistra. Secondo lui il pacifismo degli anni Ottanta aveva le sue radici nel principio di Adorno secondo cui ‘Hitler ha imposto agli uomini un nuovo imperativo categorico: pensare ed agire in modo che Auschwitz non si ripeta, che nulla di simile giunga’: dopo questa prima decisa presa di posizione antiautoritaria fu poi la volta di quella sulla decolonizzazione quando anche lì ‘abbiamo spezzato la complicità dei carnefici’, ma dopo di ciò la sinistra si perse. Innanzitutto tacque e tace sulle colpe del comunismo: ‘da sessant’anni un orco concentrazionario [il comunismo] divora i nostri simili a milioni’: ‘l’URSS interviene, reprime, uccide, fa sciamare la sua dittatura su tutti i continenti’ ma non riceve nessuna condanna da parte di chi ha sempre visto torti e malefatte solo dall’altra parte. Dell’URSS non si parla e questa ‘ignoranza riposa su una volontà di ignorare’ mentre la stessa rimozione si ripropone a proposito del silenzio, o della giustificazione, o della comprensione, per gli orrori operati dai decolonizzati nel mondo decolonizzato stesso: ‘solo un’infusione di cretinismo fa immaginare che il mondo decolonizzato ha mantenuto le promesse della decolonizzazione’. Questo unilateralismo della sinistra nel denunciare sempre e solo l’Occidente si ripropone imperterrito nel mondo pacifista: ‘i pacifisti si danno un bersaglio, 59 l’armamento occidentale, sul quale fanno convergere l’insieme delle loro azioni’ perché per loro ‘lo ‘sterminismo’ [è] la fase suprema dell’imperialismo fase suprema del capitalismo’. A questo insostenibile unilateralismo se ne accompagna poi un altro, ‘la focalizzazione sull’armamento nucleare – consacrato come ostacolo principale alla felicità universale … Bloccate la minaccia della distruzione di massa, fermate la corsa agli armamenti, la fame sparisce dai cinque continenti e le libertà fioriscono nelle dittature che coprono i tre quarti delle terre abitate. Il pacifismo … fa girare il mondo intorno alla Bomba’. Secondo i pacifisti ‘la pace … disarma le dittature, dissolve gli odi, blocca i genocidi e fa rifluire su se stessa la marea delle attività belliche che monta crescente … fin dal neolitico!’ perché per loro ‘l’estirpazione del nucleare’ è ‘l’alfa e l’omega della concordia universale’: insomma: ‘il pacifismo rimpiazza le ideologie dell’ultimo secolo … diventa la nuova ideologia e la risposta a tutto’. Nel pacifismo allora ‘un suicidio intellettuale precede quello politico’ perché con la riduzione del male alla sola bomba (occidentale) si annulla ogni riconoscimento di tutti i terribili mali che affliggono il mondo da sempre e che se taciuti continueranno più e peggio di prima. V Entrando nello specifico dopo queste premesse generali, Glucksmann facilmente osserva che ‘sono gli SS 20 che rendono materialmente possibile una guerra nucleare limitata in Europa, ma nei cervelli pacifisti sono i propositi di Reagan espressi qualche anno più tardi che soli hanno introdotto la sinistra eventualità!’ Dato che l’URSS non compare mai nelle loro denunce e nelle loro condanne, i pacifisti si oppongono ai Pershing 2 ma non agli SS 20 che li hanno preceduti e ne sono la causa (!): il pacifismo ‘si alza contro l’installazione futura dei missili americani in Europa più che contro gli ordigni sovietici che già minacciano’ (e contro i quali non ebbe niente da dire quando furono installati)! Visto poi che ai pacifisti premeva tanto la pace, ebbene, nei primi anni Ottanta era ‘l’URSS [che] presenta[va] … la forma finalmente trovata di una società sulla strada della pacificazione totale’, ma era anche il triste e notissimo universo concentrazionario e per questo andava assolutamente rifiutata e combattuta altrimenti ‘disarmandosi di fronte alla più stabile e moderna tirannia l’Europa direbbe addio alla sua volontà democratica, alla sua passione anticoloniale’: ‘non vi parlo del gulag esistente fin d’ora sulla maggior parte dell’Eurasia, io vi ricordo soltanto il diritto che hanno quegli europei [cioè noi] che per il momento sfuggono a questo sistema di difendersi a qualunque prezzo – sì, a qualunque prezzo – contro una simile minaccia’; ‘una ragione … essenziale fonda la volontà dissuasiva sul diritto di difendersi … costi quel che costi’. Per Glucksmann la situazione degli anni Ottanta era la stessa di quella degli anni Quaranta quando ‘Einstein … e Thomas Mann … sollecitarono gli Stati Uniti a produrre al più presto l’arma terribile. Essi non ignoravano che Hitler stava 60 fabbricando questa bomba e che era capace del peggio. Perché del peggio? Perché era capace di sterminare etnie e di costruire i campi. … Osereste rispondere a Einstein: piuttosto Hitler che il nucleare?’ Insomma: senza gli euromissili americani ‘come tenere a distanza un sistema concentrazionario? ... [Con essi] ci si premunisce contro l’estensione di Auschwitz e dei suoi succedanei. Conoscete altri rimedi preventivi?’ Precisamente ‘questa preferenza antidispotica – ed essa soltanto – fonda[va] l’installazione di missili contro-minaccianti [quelli sovietici] sulla riva orientale dell’Atlantico’ e Glucksmann ribadì nel modo più chiaro che la minaccia nucleare sovietica andava contrastata a tutti i costi e con tutti i mezzi disponibili: ‘preferisco rischiare di soccombere con un bambino che amo in uno scambio di Pershing 2 e di SS 20 piuttosto che immaginarlo trascinato verso qualche Siberia planetaria’; ‘colla mia famiglia preda dell’arcipelago nazista nella memoria dovrei accettare che mio figlio subisca l’arcipelago sovietico?’ Su questo punto Glucksmann è terribilmente lucido e radicale e ‘La force du vertige’ si conclude con queste parole: ‘Abbiamo il diritto di prendere in ostaggio donne, figli, figli dei figli, sull’intero pianeta? Possiamo minacciare le popolazioni civili, noi compresi, di apocalisse? Una civiltà continua ad essere tale se rischia consapevolmente la sua estinzione per sopravvivere? Questa è la più filosofica, la più seria, la più comune domanda che la semplice attualità pone. La risposta, non se ne dispiacciano le coscienze troppo tranquille, è sì’. VI Al di là dell’opposizione di principio dei pacifisti, gli oppositori degli euromissili americani mossero comunque altre numerose obiezioni al loro schieramento e Glucksmann le contestò tutte. La prima e più importante sosteneva che lo schieramento degli euromissili americani era un ulteriore passo della corsa agli armamenti nucleari che aveva da tempo oltrepassato la soglia del razionale e del ragionevole: data ‘la capacità di uccidere più volte … dei rispettivi arsenali’ ‘a che pro disputare la superiorità nucleare relativa su un terreno limitato …?’ ‘Non c’è del ridicolo nel brandire armi di cui si intende fare il minor uso possibile?’ Secondo Glucksmann quest’obiezione (fatta ancora una volta solo alla NATO e non all’URSS) non teneva conto del reale motivo dell’installazione degli SS 20 sovietici: ‘il primo impiego di un’arma … è d’intimidazione’ così ‘la strategia europea di Andropov … non fa la guerra ma mette alla prova la determinazione dei leaders e delle popolazioni, tenta una battaglia mentale’. ‘I missili mirano innanzitutto ai cervelli. Le grandi battaglie di oggi sono essenzialmente mentali. Un’invasione … tutto si gioca prima di essa. Se i russi … invadessero l’Europa occidentale, sarebbe perché avrebbero giudicato possibile la spedizione, stimando che gli europei non si difenderebbero fino al termine funesto. 61 Essi avrebbero vinto prima di agire, la loro passeggiata militare, ben abbellita di milioni di cadaveri, eseguirebbe una sentenza già pronunciata, raccoglierebbe un bottino acquisito in precedenza. I russi occuperebbero quando non avrebbero più bisogno di occupare per dominare’. Ecco allora che ‘l’installazione dei Pershing 2 … priva i russi di un mezzo di pressione’ e se non ci fosse risposta agli SS 20 per Andropov sarebbe davvero ‘difficile resistere alle molteplici tentazioni che un’Europa disarmata offrirebbe … di cedere alle sue ‘pacifiche’ esigenze’. Questo fu il punto fondamentale e il fulcro di tutto il ragionamento di Glucksmann ma ciò non toglie che egli avesse ancora altre considerazioni da fare ed altre obiezioni cui ribattere. Secondo lui un equilibrio di forze solo convenzionali in Europa sarebbe ‘folle’ perché ‘lo spazio che separa la linea del fronte dall’oceano Atlantico è troppo limitato per permettere di assorbire lo shock in caso di attacco a sorpresa, pur condotto con mezzi ‘convenzionali’ ma con tutte le risorse dell’alta tecnologia’: per fermare un attacco convenzionale con forze solo convenzionali bisognerebbe semmai che queste ultime fossero molte volte superiori a quelle attaccanti (ipotesi irrealizzabile) e comunque ‘una terza guerra … ‘convenzionale’ … significherebbe … la fine del vecchio continente’. In conclusione: ‘se l’Europa occidentale non è difesa nuclearmente non è difesa per niente’. Un’ulteriore obiezione affermò che con l’installazione dei Pershing 2 ‘gli americani … usano … missili europei senza esporsi direttamente’ e, insomma, che Reagan aveva deciso di scaricare sull’Europa, e sull’Europa soltanto, i costi di una guerra nucleare appunto limitata. Per Glucksmann questa obiezione non sta in piedi perché ‘poco importa da dove arriva la freccia … è chi l’ha scoccata che va punito’, così se ‘gli americani distruggono Mosca … poco importa se … il lancio strategico … parte da un sottomarino o da rampe installate sui cinque continenti’, perché ovviamente la rappresaglia e l’escalation sarebbero – né non potrebbero non essere - esattamente sempre le stesse. Un ultimo motivo di opposizione insisteva sul fatto che l’installazione dei Pershing 2 avrebbe potuto far scoppiare una guerra nucleare limitata (in Europa) molto più facilmente di una guerra totale al che Glucksmann ribattè che questo faceva parte di ‘una strategia dello spavento che cerca di ottenere … una decerebrazione che preceda o renda inutile la decapitazione militare’: la differenza fra una guerra nucleare limitata e una totale per gli europei consisterebbe infatti soltanto nel fatto che nel primo caso la morte arriverebbe qualche minuto prima che nel secondo, ma sempre morte sarebbe e si può morire una volta sola. 62 VII Glucksmann considerò anche che la Cina di Mao rifiutò e si oppose alla logica della dissuasione e delle guerre limitate e convenzionali nell’ambito dello status quo (l’equilibrio del terrore nucleare). Tutto il pensiero strategico di Mao si incentrò infatti sulla politica perché secondo lui in guerra e nella rivoluzione è il popolo che decide e che conta, costi quel che costi e la guerra duri quel che deve durare (egli fu sempre completamente indifferente ai sacrifici ed alle sofferenze che la guerra e/o la rivoluzione comportavano). Secondo lui una volta imboccata la strada giusta, corretti i propri errori ed imparato dal nemico, bisognava continuare indefinitamente fino alla vittoria che non sarebbe potuta mancare: ‘il problema della rivoluzione cinese fu risolto con la guerra di lunga durata’ ed il suo successo confermò Mao nella giustezza della sua strategia. In quest’ottica andavano considerati anche gli armamenti nucleari che per quante morti e devastazioni avessero pur potuto infliggere alla Cina (allora potenza nonnucleare) in nessun modo sarebbero potuti divenire la chiave della vittoria su di essa: la famosa affermazione del 1946 ‘la bomba atomica è una tigre di carta’ ben esprime questa ferrea convinzione di Mao secondo cui in una guerra e in una rivoluzione il fattore decisivo risiede nel popolo e solo nel popolo. Per Mao in guerra o nella rivoluzione ‘il fattore decisivo è l’uomo e non il materiale. Il rapporto di forze si determina non solo con quello delle potenze militari ed economiche, ma anche con quello delle risorse umane e delle forze morali. Il fattore uomo non umanizza la guerra ma lo radicalizza’ infatti ‘i cinesi sono nuclearmente disarmati ma non c’è miglior sordo di chi non vuol sentire’, così secondo loro una volta intrapresa una guerra (o la rivoluzione) non si può tornare indietro né fermarsi di fronte ad alcun ostacolo: ‘colui che brucia i ponti dietro di sé non contratta più e pone l’avversario … di fronte al tutto o niente’. Tutto al contrario dell’URSS (che condivise in pieno con gli USA la strategia della dissuasione) ‘il ragionamento che governa la strategia cinese non è … la logica della dissuasione’ e ‘la tesi della tigre di carta … consiste nel mettere in gioco i fattori che frenano l’utilizzo dell’arma nucleare’: visto che ‘chi conduce una guerra di lunga durata può impedire che un avversario tecnicamente superiore prenda possesso del territorio – ma non di annientare puramente e semplicemente il territorio ed i suoi abitanti’, ‘per far … cedere [i cinesi] bisognerà atomizzare un quinto dell’umanità’, cioè ammazzarli tutti, ma è dubbio che ciò sia politicamente, moralmente e giuridicamente accettabile, sostenibile e fattibile. La radicalità (il fanatismo?) di Mao è stupefacente e lo rende un nemico pericolosissimo perché pronto a tutto ed inflessibile nella sua tensione verso la vittoria totale (unico risultato accettabile), ma la realtà delle sue imprese fu piuttosto diversa da questo modello ideale perché, come già aveva affermato von Clausewitz e si è già visto nel paragrafo dedicato a Mao, la guerra di popolo da sola non basta e infatti non bastò nemmeno a Mao. Si è già ricordato che se il Giappone non avesse invaso la Cina Chiang kai-Shek sarebbe riuscito ad eliminare il PCC, del resto già estremamente provato e comunque 63 sostenuto dall’URSS; mentre il PCC combatteva contro il Giappone adottando la strategia della guerra di lunga durata gli invasori nipponici erano impegnati contro l’esercito regolare cinese e dal 1941 anche contro gli Stati Uniti; dopo che l’URSS volle concludere la guerra di Corea la guerra di Corea venne conclusa, piacesse o no a Mao. Questo non può significare dimenticare l’inesorabile decisione con cui i comunisti cinesi, coreani, vietnamiti, cambogiani, si comportarono nelle guerre e nelle rivoluzioni che combatterono; i prezzi immensi che furono sempre disposti a pagare per compensare la loro inferiorità tecnologica e bellica; la sicurezza incrollabile nella giustezza della loro missione: su questo punto la differenza con l’URSS è davvero notevole, anzi incolmabile. L’URSS era infatti pur sempre un paese europeo che riconobbe che la dissuasione nucleare era una strategia inevitabile e l’unica politica praticabile: non così i comunisti asiatici che a noi possono apparire senz’altro scriteriati esaltati ma che percorsero fino in fondo la strada che avevano imboccato. VIII Glucksmann giudicò la dissuasione un dato ormai costante e stabilito della storia e, come si è visto, ne fu un acceso sostenitore perchè la considerò foriera di pace ed insuperabile ostacolo al risorgere dei regimi totalitari concentrazionari e guerrafondai. La visione di Glucksmann fu tuttavia a sua volta unilaterale: egli interpretò con favore ogni mossa dell’Occidente che giudicò sempre e solo difensiva; le colpe dell’Occidente per lui appartenevano tutte ad un passato con cui i conti erano stati chiusi; vide nell’URSS (e nel comunismo) solo male e volontà aggressiva e repressiva; ecc. ecc.. La sua analisi storica risulta così del tutto squilibrata ed incentrata sul pericolo totalitario comunista che egli paventa e combatte con passione chiudendo però a sua volta gli occhi sulle colpe e malefatte dell’Occidente che per lui era sufficiente tenesse duro contro il comunismo. IX Glucksmann sviluppò con grande competenza e vastità di argomentazioni il periodo della dissuasione nucleare al tempo della guerra fredda: quando scrisse l’opera nessuno poteva immaginare che pochissimi anni dopo, già alla fine degli anni Ottanta, le due super-potenze avrebbero proceduto a massicci e storici disarmi, ma è proprio anche per questo che nella sua opera il tempo e l’atmosfera della guerra fredda furono colti meglio e vennero analizzati ed esposti con maggior efficacia. Essi furono vissuti, per così dire, dal di dentro. Solo in forma del tutto teorica Glucksmann ammise, una volta sola e di sfuggita, che all’età della dissuasione ‘esiste una via d’uscita. Una sola. La dissuasione fallirà se sparirà un dissuasore, o due, o tutti’. 64 Ebbene fu esattamente questo che accadde cinque anni dopo la pubblicazione de ‘La force du vertige’, quando l’URSS dopo tutta una serie di convulsioni sarebbe improvvisamente crollata cogliendo tutti di sorpresa. Ancora una volta - come sempre imprevedibile - la storia correva più veloce della filosofia ed apriva nuovi scenari sui quali bisognava ricominciare a pensare da capo. Si apriva l’età della globalizzazione, una nuova fase del cammino della storia dell’uomo - e con essa una nuova guerra e un nuovo tipo di guerra. Il dibattito sul mondo post-bipolare Il crollo dell’Unione Sovietica ed il disfacimento del suo impero sia interno che esterno giunsero inaspettati e sconvolsero profondamente il mondo intero per il quale iniziava improvvisamente una nuova era che ben presto si sarebbe caratterizzata come ‘globalizzazione’. I mutamenti furono a dir poco traumatici e profondi: essi si fecero sentire in ogni angolo del pianeta costringendo tutti a fronteggiare la nuova ed inattesa realtà. Al vasto dibattito che seguì l’avvento della nuova era parteciparono molti autori e studiosi: in questa sede verranno prese in esame le posizioni più significative e la cui fama è più diffusa. I Francis Fukuyama (n. 1952), senior researcher presso la Rand Corporation, scienziato politico, docente universitario e titolare di vari incarichi anche presso il Dipartimento di Stato USA, con la notissima ‘La fine della storia e l’ultimo uomo’ (1992) fu il primo a tentare un bilancio della nuova situazione e del suo significato profondo riproponendo senza esitazioni quella filosofia storicistica che fin dal secondo Novecento era stata ormai abbandonata. Lo storicismo è la filosofia che ritiene che la storia sia storia universale (cioè storia del mondo intero) e che essa proceda incessantemente sulla strada dello sviluppo e del progresso lungo un percorso necessario: soprattutto dopo gli orrori delle guerre mondiali l’ottimismo di fondo che anima una filosofia del genere era sembrato francamente improponibile, ma Fukuyama continua invece a vedere nello svolgimento degli eventi la progressiva realizzazione di un processo unico e costantemente teso al miglioramento. Lo storicismo afferma che noi viviamo dunque nel migliore dei mondi possibili non perché, come aveva sostenuto Leibniz, Dio non può che volere il meglio per un mondo che rimane comunque imperfetto (come già aveva sostenuto Sant’Agostino), ma perché tutto vi accade necessariamente (tutto accade come deve accadere e come non può non accadere) secondo un ordine che tende al bene ed allo sviluppo, seppur scontrandosi (e superando) con difficoltà ed ostacoli di ogni genere. Secondo Fukuyama questo processo della storia universale non era poi un progresso all’infinito come aveva immaginato Fichte ma, come aveva invece sostenuto Hegel, 65 aveva una vera e propria fine: per Hegel questa fine era stato il raggiungimento della completa autocoscienza dello spirito assoluto (avvenuto nella sua filosofia) mentre dal punto di vista storico-politico (lo spirito oggettivo) essa si era realizzata nello stato prussiano post-napoleonico dei suoi tempi, mentre per Fukuyama il processo riguarda solo il campo della storia e così la sua fine è avvenuta in un ben preciso sistema sociale, politico ed economico, il capitalismo liberaldemocratico, che a sua volta si è affermato e compiuto al meglio negli Stati Uniti. Insomma: sia per Hegel che per Fukuyama il momento culminante e terminale della lunga e necessaria evoluzione storica dell’intera umanità era ed è il sistema politico vigente nel loro stato ai loro tempi e questo risultato era ed è stato finalmente raggiunto dopo che questo loro stato era ed è uscito vincitore dallo scontro contro un grande e terribile nemico – Napoleone in un caso e l’URSS nell’altro. E’ evidente che queste autocelebrazioni lasciano il tempo che trovano e possono servire semmai ad illustrare i sentimenti di coloro che escono trionfatori dopo una dura prova, ma per comprendere appieno il discorso di Fukuyama è necessario prendere in considerazione anche le motivazioni che lo conducono a questa conclusione. Come Comte aveva sostenuto che l’attività fondamentale dell’uomo erano la conoscenza e la spiegazione dei fenomeni naturali, così anche secondo Fukuyama l’unica attività umana che è costantemente cumulativa e progressiva è (oggettivamente) lo sviluppo della scienza e della tecnica: Comte aveva poi affermato che l’organizzazione politica derivava le sue forme e i suoi modi da questa primaria attività, ed anche Fukuyama sostiene che lo sviluppo costante della scienza e della tecnica comporta un analogo sviluppo della storia umana dovuto al continuo aumento (qualitativo e quantitativo) della produzione di beni e della capacità di soddisfazione dei bisogni (che crescono insieme alla possibilità di essere soddisfatti). Dato questo assunto, così come Comte aveva esaltato il progresso industriale dei suoi tempi, anche Fukuyama conclude facilmente che lo sviluppo tecnico-scientifico si realizza al meglio nel sistema liberalcapitalistico occidentale (e non nel sistema comunista) che a sua volta può esprimere in pieno ed al meglio tutte le sue potenzialità nell’attuale epoca liberista e globalizzata. L’inevitabile vittoria del sistema liberalcapitalistico sul suo ultimo nemico, il comunismo, ha comportato così anche la fine della storia nel senso che ormai esso non potrà che procedere realizzandosi ed affermandosi sempre più definitivamente: il mondo descritto da Fukuyama appare così ordinabile e ordinato a seconda del grado di sviluppo del sistema liberalcapitalistico (e conseguentemente delle economie) nei vari paesi, tutti giudicabili con un unico metro di valutazione e collocabili lungo un’unica scala. Sarebbe questo il nuovo ‘pensiero unico’ - di cui Fukuyama è sicuramente uno dei maggiori rappresentanti – quello cioè capace di ragionare su un solo modello e di servirsi di una sola tipologia di valori (quelli occidentali), nuovo letto di Procuste con cui gli altri sistemi possono essere solo confrontati (e rifiutati). 66 Non varrebbe nemmeno la pena di prendere in considerazione la tesi di Fukuyama (qui riassunta in modo estremamente succinto) se essa non avesse avuto il successo clamoroso in tutto il mondo che ebbe. Dal punto di vista filosofico essa non dice nulla perchè è evidente (e assolutamente inutile) sostenere che qualsiasi cosa sia accaduta ha avuto motivi per accadere e che questi motivi sono stati necessari perché accadesse; è del tutto fantasioso concludere che esisterebbe dunque un piano ed un disegno superiori che guiderebbero fin dall’inizio gli eventi in una direzione precisa; ed è infine infondato ed arbitrario proclamare che il fine ultimo di questa unica ed organica storia universale sarebbe stato finalmente raggiunto: nella posizione di Fukuyama si trovano riuniti insomma gli errori concettuali degli storicisti (la legittimazione a posteriori del fatto compiuto e l’impossibilità di esprimere giudizi su un processo proclamato inevitabile e necessario) e le miserie dei conservatori (tutto è perfetto così com’è e nulla deve cambiare). Dal punto di vista storico i silenzi e le omissioni di Fukuyama sono talmente grandi da risultare incredibili: tacere sull’imperialismo occidentale e particolarmente americano e sulle mille tensioni che costellano il mondo del XXI secolo e limitarsi così a considerare il mondo globalizzato solo come un insieme di economie che competono liberamente e pacificamente sul mercato unificato è una sciocchezza su cui non ha davvero senso soffermarsi. Purtroppo però non si tratta qui di un discorso semplicemente inutile o ignorante perché sono proprio autori come Fukuyama a fornire il sostegno ideologico alle politiche aggressive ed invasive degli USA (e dell’Occidente in genere), a proclamare la superiorità degli occidentali su tutti gli altri popoli del mondo che risultano così sempre arretrati ed in ritardo e dunque bisognosi di ‘spinte’, di ‘aiuti’ e di (più o meno violenti) interventi ed intrusioni. Quello di Fukuyama è insomma l’ultimo aggiornamento della solita (sempre più insopportabile) pretesa dell’Occidente di avere il diritto e il dovere di portare dovunque i propri valori, religione, progresso, sviluppo, civiltà, libertà, diritti civili, democrazia, ecc. ecc., mentre invece è del tutto evidente che vuole semplicemente mettere le mani sulle risorse e sui territori degli altri. II Samuel P. Huntington (1927-2008), politologo, consigliere dell’Amministrazione Carter, direttore degli Studi Strategici e Internazionali di Harvard, fondatore di ‘Foreign Policy’, nel 1993 rispose al libro di Francis Fukuyama coll’articolo ‘Scontro di civiltà?’ (ma questa ormai famosa definizione non era sua) cui nel 1996 seguì il libro ‘Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale’. Huntington si oppone all’ingenua ed ideologica convinzione che dopo la guerra fredda la sola scelta e l’unica alternativa possibile per tutti i popoli e gli stati del mondo siano ormai la liberaldemocrazia ed i valori dell’Occidente: ben diversamente, secondo Huntington l’ordine internazionale bipolare colla sua intrinseca costrizione a schierarsi da una parte o dall’altra aveva congelato e bloccato 67 spinte e tensioni preesistenti, aveva imposto alleanze o contrapposizioni innaturali, aveva semplificato un mondo ben più complesso e diviso ed aveva avuto insomma un effetto distorsivo sull’evoluzione della storia di molta parte del pianeta (si potrebbe aggiungere che anche il comunismo aveva prodotto semplificazioni e riorganizzazioni dello spazio politico e molto spesso (più o meno imposte) forzature). Fu così inevitabile che il crollo dell’URSS e la fine del comunismo e del bipolarismo non generarono un mondo più unito ed armonico grazie al trionfo ed all’affermazione di un modello unico di civiltà (e di pensiero), ma permisero invece la riemersione di quelle linee di divisione che correvano e corrono non tanto o non solo fra stati, quanto fra quei raggruppamenti umani di lenta formazione e di lunga durata che sono le civiltà (occidentale, ortodossa, latino-americana, islamica, indù, cinese, giapponese, buddhista e africana). Dopo la divisione bipolare del pianeta (ma andrebbe aggiunto anche dopo la fine del colonialismo e con la crisi degli stati di fronte all’internazionalizzazione dei mercati) per Huntington oggi sta riaffiorando insomma quella storia profonda e radicata che sono le civiltà, ben più fondative, resistenti ed importanti di ogni altra divisione politica (come gli stati) perché in loro si è formata e riposa la vera identità dei popoli e delle persone: si tratta insomma di un vero e proprio trionfo dello spirito sulla materia e il mondo di oggi va riacquistando così la sua varietà, la sua complessità … ma anche tutte le sue conflittualità. L’intero pianeta è destinato a dividersi lungo le linee di confine delle civiltà con conseguenti collaborazione fra simili ed inimicizia (più o meno forte) fra dissimili: ‘la mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro’. Corollario di questa teoria e che secondo Huntington è poi in corso una vera e propria de-occidentalizzazione del mondo destinata ad ampliarsi sempre di più a causa della crescita demografica dei popoli delle altre civiltà ed allo sviluppo economico della Cina, dell’India e del Sud-Est asiatico (e non solo): nei paesi non-occidentali infatti ‘via via che il processo della modernizzazione [tecnologica e produttiva] aumenta … il tasso di occidentalizzazione si riduce e la cultura autoctona torna ad emergere. In seguito, l’ulteriore modernizzazione finisce con l’alterare gli equilibri di potere tra l’Occidente e la società non occidentale, alimenta il potere e l’autostima di quelle società e rafforza in esse il senso di appartenenza alla propria cultura’. Queste tesi di Huntington parvero riecheggiare la tenebrosa profezia del ‘tramonto dell’Occidente’ di Oswald Spengler, ma in realtà sembra più sensato riconoscere che per Huntington il pianeta – pur globalizzato - sta tornando al multipolarismo ed al multiculturalismo pre-coloniale e che l’Occidente sta tornando a rioccuparvi il posto (ridotto) che gli compete. 68 Secondo Huntington è tempo insomma che l’Occidente riconosca di essere semplicemente una fra le altre civiltà e non l’unica e l’universale (e quindi col diritto di dominare): la politica della continua interferenza con le altre civiltà per impor loro la propria basata su democrazia e diritti umani va dunque finalmente abbandonata (anche perché, aggiungiamo noi, imporre con la forza la democrazia e i diritti umani è una palese contraddizione e/o un evidente pretesto). Per Huntington l’Occidente dovrebbe invece limitarsi a difendere entro i propri spazi la propria identità ed i propri valori che non sono, né prevedibilmente saranno mai, universalmente condivisi. Il discorso di Huntington (fin qui estremamente sintetizzato) è senz’altro ben più accettabile del patetico fervorino di Fukuyama, ma purtroppo anch’esso è fortemente riduttivo rispetto alla complessità del nuovo scenario internazionale e basteranno pochi esempi e poche considerazioni per rendersene conto. Innanzitutto, la modernizzazione (tecnologica e industriale) del mondo è stata opera dell’Occidente che ha così imposto al resto del pianeta almeno questa (estremamente rilevante) parte della sua civiltà: le altre otto civiltà oggi non esistono più se non mescolate e fuse con quella degli ex-dominatori (dunque sono completamente diverse da quel che furono) e l’esistenza del mercato globale con tutti i suoi annessi e connessi sta lì a dimostrarlo. Huntington tenta di distinguere fra occidentalizzazione e modernizzazione (‘l’Occidente era Occidente prima di essere moderno’), ma questa è un’affermazione che non ha semplicemente senso perché una civiltà non è fatta di parti separabili; perché la modernizzazione poteva nascere solo in Occidente e ne compie e realizza la civiltà; e perché prima di modernizzarsi l’Occidente non era Occidente (se non in senso geografico). In secondo luogo, una delle nove civiltà identificate da Huntington è quella africana, ma proprio i conflitti fra i popoli africani sono particolarmente violenti e sanguinari; un’altra è quella ortodossa e proprio in questa primavera 2014 Ucraina e Russia sono in uno stato di tensione acuta e sull’orlo di una guerra dalle conseguenze imprevedibili; un’altra ancora è quella islamica ma soprattutto in questi ultimi anni nel mondo islamico si sono scatenate lotte interne durissime e guerre civili come quelle attualmente in corso in Libia e soprattutto in Siria. Si potrebbe continuare, ma questi semplicissimi e banali accenni sono prove evidenti che le linee di frattura sono ben più numerose, complesse e soprattutto disordinate di quelle riconosciute e catalogate da Huntington: la conclusione è che non è possibile riassumere lo stato del mondo in un’unica teoria ed ogni caso va analizzato in se stesso. III Joel Kotkin, newyorkese di nascita ma docente di sviluppo urbano in California e titolare di ulteriori incarichi, condivide sostanzialmente l’analisi di Huntington e ritiene infatti che i ‘legami tribali – razza, etnia e religione -’ stanno diventando tanto 69 più importanti dei confini fra stati da fargli prevedere ed immaginare per la metà del XXI secolo una completa ridistribuzione e divisione della popolazione mondiale in nuove aree geopolitiche ridisegnate secondo queste appartenenze. Ahmet Davutoglu, cattedratico divenuto ministro degli esteri turco, ritiene che il suo paese (ma è questo un discorso che riguarda tutti) non deve certo costruire barriere alle sue frontiere ma integrarsi progressivamente con sempre più popoli e stati in una rete di rapporti e relazioni fondati sulla cultura e sull’economia che lui chiama ‘profondità strategica’. In ambedue gli autori torna ancora una volta il concetto di superamento dei confini nazionali grazie al riconoscimento della loro crescente irrilevanza in un mondo in cui riaffiorano sempre più evidenti i legami profondi e secolari che hanno unito per tempi lunghissimi gli appartenenti alle stesse civiltà: queste ultime erano state giudicate spesso ricordi e cascami di un passato sepolto dal progresso (più o meno violentemente imposto), onnivoro divoratore ed uniformatore nel suo nuovo modello di tutto ciò che l’aveva preceduto, ed invece colla fine del bipolarismo sono riapparse in tutta la loro importanza per aver forgiato e per forgiare l’identità stessa di popoli e di etnie – e dunque come elementi fondamentali nella storia del XXI secolo. Anche nei confronti di questi ultimi studiosi – come di tutti - non si può però non ricordare quel che si è concluso a proposito di Huntington: il mondo è ben più complicato e complesso di quel che menti pur brillanti cercano di immaginare, esso è troppo più disordinato e quindi – ripetiamo - è semplicemente impossibile racchiuderlo ed esprimerlo in un’unica teoria. Sul senso della storia Il mondo può essere certamente esaminato da un punto di vista e di osservazione (per esempio quello dell’imperialismo americano) ed appare allora unico, ordinato ed ordinabile, ma i punti di vista e di osservazione sono molteplici e spesso inconciliabili e conflittuali: non esiste - né può esistere – dunque una teoria in grado di fonderli in un’unità e di esprimere così la condizione oggettiva del mondo. Insomma: le teorie che pretendono di dire una parola definitiva sulla situazione politica internazionale hanno validità se e solo se sono elaborate per guidare le azioni di uno stato (o di una qualsiasi altra formazione), cioè se riassumono, chiariscono e condensano una prospettiva particolare fra le tante, ma filosoficamente – in quanto pretese di enunciare il reale stato del mondo – esse valgono quanto le idee della metafisica secondo Kant, e cioè nulla (anche se possono esercitare una qualche funzione orientativa dei nostri pensieri). Visto che il mondo è il luogo in cui molteplici forze si incontrano e si scontrano ognuna secondo i suoi motivi, la sua storia ed il suo pensiero, non è possibile uscire da questa relatività di posizioni per cogliere una loro supposta unità ed un presunto ordine generale, né è possibile assurgere ad una punto d’osservazione unico e superiore e ciò per almeno due motivi. 70 Innanzitutto, un ordine superiore in cui le varie e particolari motivazioni umane trovassero unità e coerenza fra loro implicherebbe evidentemente una mente, una logica, uno spirito, una ragione, un dio, ecc., che le avesse volute e che le dirigesse: si tornerebbe a quella filosofia che asserisce (come Hegel) che non sono gli uomini a fare la loro storia e che anzi essi sono mossi e diretti come marionette inconsapevoli da una qualche forza onnipotente che ne tira i fili - ma questa è un’evidente ed insostenibile sciocchezza. In secondo luogo, risulta incomprensibile come mai e in virtù di quale capacità superiore qualche uomo sarebbe riuscito ad elevarsi al di sopra dell’umanità stessa per cogliere la realtà profonda delle azioni, altrimenti inconsapevoli, di tutti gli altri uomini. Eppure non ci si può fermare a questo risultato puramente negativo: il discorso sulla storia ha bisogno di essere approfondito per cercare di rispondere alla domanda se la storia ha comunque un senso, se questo senso esiste e, se esiste, qual è. Per senso della storia qui si intende che gli eventi sono connessi fra loro e che tali connessioni (o, almeno, le principali) sono conoscibili. I I filosofi che per semplicità possono essere chiamati irrazionalisti (come per es. Schopenhauer, Kierkegaard, ecc.) negano che questo senso esista, o che comunque valga qualcosa, ed alla loro posizione si adatta benissimo la proposizione 6.341 del ‘Tractatus’ di Wittgenstein (che comunque qui stava parlando d’altro): “… Pensiamo una superficie bianca, con sopra macchie nere irregolari. Noi diciamo ora: Qualunque immagine ne nasca, sempre posso avvicinarmi quanto io voglia alla descrizione dell’immagine, coprendo la superficie con un reticolato di quadrati rispondente al fine e dicendo d’ogni quadrato che è bianco, o nero. A questo modo avrò ridotto la descrizione della superficie in forma unitaria. Questa forma è arbitraria, poiché avrei potuto impiegare con uguale successo una rete di maglie triangolari o esagonali. … Alle diverse reti corrispondono diversi sistemi di descrizione del mondo. …”. Il significato di tutto ciò è chiaro: i fatti sono quelli che sono e non hanno alcuna connessione fra loro; le varie filosofie (della storia) vengono calate su di essi per permetterci di organizzarli in un disegno che li renda comprensibili, ma esse non fanno parte della storia stessa (sono invece nostri artifici intellettuali), quindi il disegno tracciato in base ad esse è una creazione arbitraria: ogni filosofia sarebbe insomma in grado di ricostruire e di spiegare la storia a sua immagine e somiglianza ed ognuna di queste ricostruzioni e spiegazioni della storia sarebbe diversa da quelle offerte da ognuna delle altre filosofie. La storia, insomma, non avrebbe un suo senso proprio, ma dargliene uno sarebbe sempre possibile, seppur arbitrario. Questa concezione della storia che la considera un caotico guazzabuglio di eventi senza alcun ordine non è tuttavia accettabile perché cozza contro l’evidenza di tutta 71 la serie di praticamente infiniti nessi causali che li connettono invece fra loro - e che possono oltretutto essere compresi e spiegati. Il senso della storia esiste. II Il vero problema comincia però adesso, proprio quando – stabilito che c’è - si deve chiarire però di che senso si tratti. Su questo punto le posizioni dei vari filosofi della storia sono ancora una volta numerose e diverse, ma, dovendo semplificare, esse possono venir divise in due aree a seconda della risposta che danno alla domanda ‘chi è l’artefice della storia?’: a tale domanda si può infatti rispondere che: a) la storia non è fatta dagli uomini; b) la storia è fatta dagli uomini. a) A partire almeno dagli Stoici (III a.C.) per finire con Vico (XVIII), Hegel (XIX) ed il neoidealismo italiano (Croce e Gentile), molti filosofi hanno sostenuto che la storia ha un suo ordine interno, una sua logica di sviluppo, una sua forza intima (il Logos, la Ragione, lo Spirito, ecc. o, per alcuni cristiani, Dio) che muove gli uomini come passeggeri su un vagone; Hegel arrivò a parlare di ‘astuzia della Ragione’ per far comprendere come questo soggetto universale usava i grandi protagonisti della storia (lui aveva in mente Napoleone) che, credendo di perseguire i loro obiettivi, in realtà realizzavano fini di cui non erano nemmeno consapevoli. Versioni meno ‘intellettuali’ di queste filosofie parlano di destino, fatalità, ecc., ma il principio è sempre lo stesso: noi non siamo padroni (né dunque responsabili!) di quel che accade e che ci accade. Probabilmente le motivazioni che portano a queste filosofie sono fondamentalmente due, ma entrambe rispondono allo stesso principio di economia psichica, cioè al tentativo di trovare spiegazioni (al senso del corso degli eventi) col minor sforzo intellettuale possibile. La prima è che è confortante credere che gli eventi accadono come accadono perché qualcuno o qualcosa li vuole così e che questo qualcuno o qualcosa è talmente grande che possiamo solo accettarlo (e metterci l’animo in pace): ‘Perché è successo questo?’ ‘Perché era destino, perché l’ha voluto Dio’, ecc.: tutto è chiaro e non ci si pensi più. La seconda motivazione dei sostenitori di questo tipo di filosofia è che essi partono anche (e, si spera, soprattutto) da un’osservazione senz’altro giusta, e cioè che troppe cose accadono senza che nessuno le abbia previste e volute e che continuamente si verificano esiti imprevisti (ed imprevedibili): per esempio da almeno un millennio possiamo parlare di ‘progresso’ senza che nessun piano umano sia stato concepito (né sarebbe stato umanamente concepibile, né tantomeno attuabile) in questo senso. Come non concludere allora che ci dev’essere una regia universale ben al di sopra degli uomini e che di conseguenza questi sono solo pedine inconsapevoli (o, comunque, ben poco consapevoli)? 72 L’osservazione di cui sopra è sicuramente fondata e merita una spiegazione, ma quella che sostiene l’esistenza di un soggetto autore universale (comunque lo si chiami) è a dir poco infantile (cioè mitologica) e non vale niente: alla domanda ‘perché è accaduto questo?’ rispondere ‘perché Dio ha voluto così’ o ‘perché la legge del progresso ha richiesto questo passaggio’, ecc., significa ‘questo è accaduto così perché doveva accadere così’ … ma questo è un semplice giro di parole! b) Chi dunque sostiene – come avviene in queste pagine - che sono gli uomini a fare la storia si trova anche a dover spiegare perché allora essa li sorprende così spesso e come è possibile che sia tanto imprevedibile. Ebbene, i piani, i progetti, le azioni di ogni uomo e di ogni gruppo si incrociano continuamente con quelli di altri e da ognuno di questi incontri le motivazioni degli uni e quelle degli altri escono modificate e cambiano così la direzione dell’intero corso degli eventi. Ecco perché la storia è imprevedibile, ecco come si risolve l’apparente paradosso dell’ ‘eterogenesi dei fini’ di Max Weber e perché i futurologi sbagliano sempre: essi tengono conto solo della direzione di una sola serie di fatti, non anche del suo incrociarsi con quelli di altre serie e quindi delle conseguenti continue modifiche dell’intero corso degli eventi. Un esempio: un minuto prima che due futuri genitori si incontrassero per la prima volta nessuno dei due conosceva nemmeno l’esistenza dell’altro e si trovarono dunque nello stesso luogo nello stesso momento per cause (o serie causali) diverse ed indipendenti l’una dall’altra, ma quell’incontro - che evidentemente non potè assolutamente essere voluto da nessuno dei due - nondimeno cambiò le loro vite perché da quel momento essi agirono in un modo nuovo e (ripetiamolo) prima imprevedibile (e fece sì che un bambino venisse al mondo). Insomma: è ovvio che furono i due futuri genitori a scegliere di sposarsi, ma non di incontrarsi e, dunque, agirono anche in seguito ad un evento del tutto fortuito. Ecco allora che solo ricostruendo a posteriori quel che è avvenuto lo storico può scoprire quel mix di caso e di necessità (queste due parole sono impiegate volutamente per ricordare ‘Il caso e la necessità’ di Jacques Monod, anche se venne scritto a proposito dell’evoluzionismo) che rendono gli eventi comprensibili e razionali nel loro accadere, ma, appunto, solo a posteriori, solo dopo che sono accaduti perché, mentre accadevano (o, addirittura, prima che accadessero), il loro incrociarsi, e dunque la nascita di altri eventi e comportamenti, non era in alcun modo prevedibile: le previsioni sono insomma sempre un azzardo perché non tengono (né possono tenere) conto del possibile (e probabile) incrocio con altre serie causali indipendenti appunto da quelle su cui si erano fondate le previsioni stesse. Intendiamoci: così come Newton disse che se avesse conosciuto precisamente lo stato di quiete e di moto di ogni particella dell’Universo avrebbe potuto prevederne la storia (fisica) dei secoli seguenti, allo stesso modo ci sarà sempre qualcuno che potrà dire che Dio o lo Spirito o la Ragione ecc. ha predisposto in partenza tutto questo intrico ed incrociarsi di serie causali che modificano l’intero divenire per muovere l’intera storia secondo i suoi disegni superiori, ma questo pensiero non dice nulla 73 (quindi non è nemmeno un pensiero) perché noi siamo uomini, solo uomini, e non possiamo né pensare né agire al di sopra dei nostri limiti: oltretutto immaginare che siamo nelle mani di forze onnipotenti ed imperscrutabili lascia le cose esattamente come sono e non può modificare in alcun modo i nostri comportamenti - a meno che una casta sacerdotale non pretenda di esercitare il potere in nome di una sua supposta conoscenza di questo mistero, ma questa è davvero un’altra faccenda. Anonimous: l’asimmetrica jihad difensiva Lo studio di Anonimous sulla guerra al terrore è un bell’esempio di quanto appena sostenuto. Nel 2004 Anonimous si autodefinì così: ‘io sono stato un analista [statunitense] ed ho gestito attività di analisi ed operative. Negli ultimi diciassette anni la mia carriera si è focalizzata esclusivamente su terrorismo, insurrezioni islamiche, Islam militante e sugli affari riguardanti l’Asia meridionale – Afghanistan e Pakistan’: il suo studio su al-Qaeda e su Osama bin Laden è dunque quanto di meglio si possa trovare. Anonimous prende in esame i nudi fatti e li fa parlare per quel che sono in se stessi; ascolta tutti gli attori della vicenda, li prende tutti sul serio e sa porsi dal punto di vista di ognuno di essi; pur essendo (ovviamente) completamente dalla parte degli USA, egli studia anziché demonizzare il nemico perché ritiene che per combatterlo bisogna comprenderlo e che per comprenderlo bisogna prenderlo sul serio – rispettarlo! - ; infine, non si affida mai a teorie generali e preconfezionate ed anzi se vi accenna lo fa per dire che sono sbagliate e frutto di ignoranza e/o di pregiudizio. Grazie a questo abbandono delle teorie globali onnicomprensive ed a questo completo radicamento del pensiero nella realtà (‘effettuale’ direbbe Machiavelli) Anonimous riesce dunque ad esaminare freddamente e realisticamente l’intera situazione: la sua è dunque una grande lezione di metodo che in queste pagine - che parlano di filosofia piuttosto che di storia - viene particolarmente apprezzata e valutata. I Innanzitutto Anonimous si chiede qual è la causa del cosiddetto terrorismo islamico di al-Qaeda e di Osama bin Laden in particolare - e la risposta la trova in quel che gli stessi cosiddetti terroristi vanno da sempre dicendo e proclamando apertamente (ma che in Occidente non è mai stato ascoltato): ‘bin Laden è stato preciso nel dire all’America le ragioni perché ci sta muovendo guerra. Nessuna di queste ragioni ha a che fare con la nostra libertà e con la nostra democrazia, ma esse hanno tutto a che fare con le politiche e le attività americane nel mondo mussulmano. … Egli non potrebbe avere tanto successo se i mussulmani non credessero che la loro fede, i loro fratelli, le loro risorse e le loro terre sono sotto attacco da parte degli Stati Uniti e più in generale dell’Occidente’. 74 L’aggressione e la minaccia occidentale si aggravarono ulteriormente al tempo della prima guerra del Golfo all’inizio degli anni Novanta, quando le truppe americane e quelle degli alleati occuparono tranquillamente e sciamarono liberamente in tanti stati arabi e soprattutto in Arabia Saudita, la custode dei principali luoghi santi dell’Islam. Secondo i cosiddetti fondamentalisti islamici i mussulmani sono aggrediti dovunque nel mondo: ‘la politica USA sostiene l’oppressione e spesso l’aggressione dell’India indù in Kashmir, dei cattolici filippini a Mindanao, della Russia cristiana ortodossa in Cecenia, dei comunisti cinesi nello Xinjiang, degli apostati sauditi nella Penisola Arabica, degli ebrei israeliani in Palestina. Per assicurarsi la cooperazione di questi governi contro al Qaeda … gli USA hanno anche inviato truppe per aiutare i governi ad uccidere i mujaheddin nelle Filippine, nel Caucaso, nello Yemen e in Africa orientale’, oltre naturalmente a sfruttare le risorse dei paesi mussulmani e ad insediarvisi con proprie basi grazie a governi compiacenti, apostati e corrotti. Ecco allora quali sono ‘i chiari, focalizzati, limitati e largamente popolari scopi della politica estera di bin Laden: la fine del sostegno americano a Israele e la definitiva eliminazione di tale stato; il ritiro delle forze americane ed occidentali dalla Penisola Arabica; il ritiro delle forze americane ed occidentali dall’Iraq, dall’Afghanistan e dalle altre terre islamiche; la fine del sostegno americano all’oppressione dei mussulmani operata da Russia, Cina e India; la fine della protezione americana dei repressivi ed apostati regimi in Arabia Saudita, Kuwait, Egitto, Giordania, ecc.; la conservazione delle risorse energetiche del mondo mussulmano e la loro vendita a prezzi più alti’. Anche Huntington riconosce che ‘l’Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata. Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non-occidentali mai’, ma negli USA e in Occidente questa pur ovvia verità è troppo scomoda e politicamente troppo scorretta per poter essere accettata, così si preferisce non prenderla nemmeno in considerazione e precisamente questa è una delle due cause della cecità occidentale nei confronti del fenomeno, l’altra essendo semplice ignoranza e pigrizia mentale. Anche Rashid Khalidi (a proposito della guerra in Iraq piuttosto che di quella in Afghanistan) riconosce con amarezza questa completa ed oltretutto veramente offensiva ignoranza e conseguente impreparazione dell’Occidente a proposito del mondo arabo ed islamico, ma Anonimous su questo punto è addirittura violento e continuamente sferzante. Come si vede, per Anonimous le motivazioni degli insorgenti islamici sono più che comprensibili, sicuramente fondate ed erano già state decisive nella resistenza contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan quando ‘bin Laden … e migliaia di mussulmani non afghani accorsero per combattere l’Armata Rossa non perché i sovietici erano atei e comunisti … ma piuttosto perché erano atei e comunisti che avevano invaso e occupato una terra mussulmana, avevano ucciso indiscriminatamente più di un milione di uomini, donne e bambini mussulmani, ne avevano spinti oltre tre milioni in esilio e chiaramente cercavano di sradicare l’Islam dal paese’. 75 II Comunque, riconosciuto o no dall’Occidente, era in questo contesto di sentimenti offesi e di minacce percepite che bin Laden operava: ‘bin Laden e i suoi sodali non sono spinti dal ‘fallimento della società mussulmana’ di modernizzarsi e di evolversi secondo il riuscito modello occidentale’: anche se è vero che soprattutto nei paesi arabi ‘le disposizioni dei governi postcoloniali … hanno ulteriormente asservito i mussulmani anziché liberarli’ e che ‘molti milioni di mussulmani … incolpano l’Occidente di questo fallimento e bramano di ricorrere alla violenza indiscriminata alla ricerca di vendetta … bin Laden … non è uno di questi’ perché ‘attribuisce il successo dei [moderni] crociati al fatto che molti mussulmani … mancarono di prendere parte alla jihad difensiva … e quindi di lavorare per riaffermare la grandezza dell’Islam’. Bin Laden è stato fondamentale nell’orientare il profondo risentimento del mondo mussulmano e nel dargli una nuova ed unitaria direzione perché, dopo essere accorsi in Afghanistan per combattere contro l’Armata Rossa ed averla scacciata, ‘molti [mujaheddin] tornarono a casa dopo la guerra per combattere contro i loro governi nazionali’ e fu proprio da allora che ‘bin Laden ha lavorato duro per spostare il fuoco dell’attacco dagli stati-nazione mussulmani verso gli Stati Uniti, sostenendo che gli stati-nazione sopravvivevano solo grazie alla protezione ed al supporto USA’. L’invito di bin Laden a tutti i combattenti per fede (‘State attenti … a non frammentare i vostri sforzi e a non dissipare le vostre risorse in battaglie marginali coi lacchè e con le parti, ma concentrate i colpi alla testa dell’infedele finchè non collasserà. Una volta che sarà collassato tutte le altre parti collasseranno, svaniranno e saranno sconfitte’) li convinse a mirare tutti insieme al cuore del nemico: anche se i colpi contro i regimi dei paesi mussulmani non cessarono certamente, è in questa concentrazione contro gli USA che ‘la multinazionale e multietnica organizzazione al Qaeda rappresenta un risultato tremendo – davvero senza precedenti nel mondo islamico moderno – attribuibile in larga parte alla leadership di bin Laden ed alla sua abilità nel mantenere l’odio dei membri di al Qaeda fisso sugli Stati Uniti’: ‘il genio di bin Laden consiste … nel costruire ed articolare la consistente e convincente tesi che è in corso un attacco all’Islam guidato e diretto dall’America’ e ‘il modo in cui bin Laden percepisce gli intenti delle politiche e delle azioni americane risulta essere condiviso dalla gran parte del mondo islamico’, così che ‘gran parte del miliardo e trecento milioni di mussulmani ci odia’ e questo ‘odio bin Laden l’ha convogliato e concentrato – ma non causato – contro gli Stati Uniti e più generalmente contro l’Occidente’; ‘l’odio modella ed informa le reazioni dei mussulmani alle politiche americane ed alla loro messa in atto’ e ‘la minaccia che Osama bin Laden pone risiede nella coerenza e nella compattezza delle sue idee, nella loro precisa articolazione e negli atti di guerra che egli intraprende per renderle effettive’. ‘Atti di guerra’ li chiama Anonimous perché ‘le azioni militari di al Qaeda e dei suoi alleati sono atti di guerra, non terrorismo; esse fanno parte di una jihad difensiva’. 76 Insomma: ‘bin Laden vuole cambiare drasticamente le politiche americana ed occidentale nei confronti del mondo islamico, non necessariamente distruggere l’America, ancora meno le sue libertà. Egli è un guerriero pratico, non un terrorista apocalittico’ ed è sbagliato sostenere come si fa abitualmente in Occidente che ‘bin Laden predica e pratica una forma aberrante di Islam … [e che] è semplicemente un assassino esaltato che usa la retorica religiosa per giustificare i suoi attacchi’ perché in realtà ‘bin Laden sta conducendo una jihad difensiva contro gli Stati Uniti’ che non a caso chiama colonialisti (cioè eredi e continuatori del colonialismo europeo) e crociati (cioè aggressori e conquistatori delle terre islamiche). ‘Il governo USA ritiene … che … al Qaeda ed i suoi alleati … sono terroristi, grossomodo dello stesso tipo dei terroristi di stato che abbiamo affrontato fin dagli anni Settanta, solo che ce ne sono di più. Questo non è l’assunto sul quale operare. Mentre è chiaramente sbagliato identificare al Qaeda come uno stato-nazione – soprattutto perché non ha un indirizzo stabile – è un errore più grande e più dannoso descriverli come terroristi. … Dobbiamo … accettare il fatto … che bin Laden e al Qaeda stanno guidando un’insurrezione islamica popolare, mondiale e sempre più potente … e le guerre contro un’insurrezione guidata in modo competente … durano di più, costano più vite e denaro e sono più sistematicamente brutali che episodici confronti coi terroristi. … l’America è in guerra con una forza diretta religiosamente’. Le modalità di questa jihad difensiva sono gli eclatanti e sanguinosi attentati spesso suicidi contro gli americani che hanno puntellato tutta la storia di al Qaeda: Aden (Yemen) nel 1992, Mogadiscio (Somalia) nel 1993, primo tentativo alle Torri Gemelle (1993), Riyadh (Arabia Saudita) nel 1995, Dharhan (Arabia Saudita) nel 1996, Nairobi (Kenia) e Dar es Salaam (Tanzania) nel 1998, ancora Aden nel 2000 fino alle Torri Gemelle di New York il famosissimo 11 settembre 2001. Per scompaginare l’avversario e chiamare a raccolta le masse islamiche per la lotta gli attentati clamorosi sono la tattica militare giudicata la più adatta per due motivi principali: innanzitutto, la sproporzione delle forze è talmente immensa da rendere impensabile qualsiasi scontro aperto con l’Occidente (per questo quella che si sta svolgendo fra mondo mussulmano e Occidente è una ‘guerra asimmetrica’) e, in secondo luogo, bin Laden si muove nel mondo islamico la cui fede è certamente ben più accesa, sicuramente ben più militante (combattere l’invasore infedele è un dovere di ogni mussulmano!) e molto più pervasiva di quella cristiana, tanto da esaltare addirittura il martirio, cioè il sacrificio volontario della propria vita per la riuscita di un attentato, cioè di un’azione della guerra santa. Tuttavia questi due motivi spiegano solo le modalità con cui la guerra viene vissuta e condotta dal mondo islamico - non la guerra stessa! III Di fronte a questo tentativo di riscossa del mondo islamico gli USA e l’Occidente si sono trovati di fronte ad un brutto (per loro) dilemma: o riconoscere le ragioni dell’avversario e cambiare la propria politica – ma ciò avrebbe significato negare se 77 stessi! – o eliminare le organizzazioni islamiche nate contro il loro imperialismo e continuare come prima e come se niente fosse questa loro politica. Data la sua concreta e completa impraticabilità, la prima alternativa non è mai stata presa nella minima considerazione e ovviamente non potè che essere scelta senza discussioni la seconda: questa ‘politica dello status quo non lascia all’America che l’opzione della guerra di annientamento’, ma questo non può giustificare la disonestà e/o cecità intellettuale che l’Occidente continua a manifestare a proposito del problema: ‘nel decidere come affrontare la minaccia islamica uno dei più grandi pericoli per gli americani consiste nel continuare a credere … che i mussulmani ci odiano e ci attaccano per quello che siamo e che pensiamo piuttosto per quel che facciamo’, ma questa tesi occidentale è fin troppo comoda innanzitutto perché scarica tutte le colpe e tutte le responsabilità sull’avversario che viene considerato un fanatico, pazzoide e sanguinario oscurantista, e in secondo luogo perché continua a giustificare, legittimare e proclamare portatrici di progresso e di libertà le politiche imperialiste americane e occidentali. Soprattutto però è completamente falsa perché, come Anonimous ha già ampiamente sostenuto, in generale ‘i mussulmani prendono il mondo come viene … nonostante possano essere più offesi dei membri di altre confessioni da alcuni aspetti della modernità’ ma ‘la minaccia focalizzata e letale posta alla sicurezza nazionale americana non nasce dal fatto che i mussulmani sono offesi da quello che l’America è, ma piuttosto dalla loro plausibile percezione che le cose che essi più amano e considerano – Dio, Islam, i loro fratelli e le terre mussulmane – sono attaccate dall’America’. ‘In bin Laden e nei nostri nemici islamici non c’è nulla di apocalittico o di narcisistico. Essi non stanno cercando di distruggere il mondo in uno scontro tipo Armageddon, né sono persone psicologicamente sconvolte inclini e deliziate nell’assassinare innocenti’; quella di bin Laden e dei militanti islamici ‘è una guerra contro un obiettivo specifico e per scopi specifici e limitati … il loro scopo non è quello di spazzare via la nostra democrazia secolare, ma di dissuaderci con mezzi militari dall’attaccare le cose che amano’. IV Il metodo di indagine di Anonimous è sicuramente quello da adottare ed è apprezzabile il suo sforzo di esaminare le posizioni del nemico con assoluta apertura mentale libera dai pregiudizi e dalle chiusure del politicamente corretto, però anche alla sua analisi possono essere mosse obiezioni che appaiono effettivamente insuperabili. Innanzitutto, Anonimous meritoriamente racconta e prende sul serio tutte le accuse che il mondo mussulmano muove all’Occidente (e soprattutto agli USA) e quanto esso si senta minacciato dalle loro politiche neo-coloniali (dopo quelle coloniali), tanto da individuare la causa dell’insorgenza islamica nel conseguente desiderio di liberazione e di riscossa, tuttavia non spende una parola (una) per giudicare se queste accuse sono fondate o no, se corrispondono o no a verità, né – soprattutto - cosa 78 l’Occidente e gli USA rispondono (se lo fanno) ad esse: in questo modo Anonimous viola così il suo stesso metodo perché trascura una delle parti in causa (la propria!). In secondo luogo, bin Laden, al Qaeda e i fondamentalisti sono considerati tout court il mondo islamico, gli unici che lo rappresentano, tutti gli altri essendo corrotti e/o traditori: non c’è dubbio che questo sia quel che pensano i mussulmani che insorgono, ma è evidente che essi non sono i soli islamici e che quelli fra loro più moderati o laicizzati che non scendono in guerra dovrebbero avere esattamente gli stessi loro diritti, ma Anonimous non li nomina nemmeno mai! In terzo luogo, visto che Anonimous non ha mai nulla da obiettare alle accuse ed alle motivazioni di bin Laden e di al Qaeda, ipso facto le riconosce pienamente veritiere: dalla sua analisi risulta allora inequivocabilmente che secondo questo singolare agente dei servizi USA bin Laden ed al Qaeda sono interamente dalla parte della ragione (e l’Occidente e gli USA da quella del torto), ma nonostante ciò Anonimous non spende una parola una per indicare rimedi a questa situazione che non siano la guerra a bin Laden e ad al Qaeda. In quarto luogo, agli USA Anonimous riserva sempre e solo sferzanti rimproveri che si traducono in costanti, aperti e ripetuti insulti ma - oltre al fatto che sembra poco credibile che egli non trovi una sola cosa buona nella risposta del suo paese (per il quale attivamente lavora!) all’insorgenza islamica – tutti gli errori che egli rileva nella politica USA vertono sull’inadeguatezza della loro risposta che egli ritiene dovrebbe essere sì di (una generica ed appena accennata) revisione della loro politica estera, ma contemporaneamente e soprattutto più radicalmente ed efficacemente militare! Insomma: bin Laden e al Qaeda hanno ragione a dichiarare guerra agli USA, i quali a loro volta sbagliano completamente le strategie e le tattiche che impiegano per schiacciarli … come dovrebbero fare!!! In quinto luogo, Anonimous è troppo occupato a difendere bin Laden e al Qaeda (per i quali mostra solo comprensione e apprezzamento) per considerare anche i torti e le colpe del mondo islamico che nel suo discorso risulta essere sempre la vittima di oppressioni subite e di ingiustizie patite, ma ciò è assolutamente falso ed inaccettabile: dovunque nel mondo, ma attualmente soprattutto in Africa (araba e nera) è fin troppo palese invece quanto sia difficile, per non dire impossibile, convivere coi mussulmani, quanto intolleranti essi sono e quanta violenza sanno impiegare nei confronti di coloro che giudicano infedeli, cioè di tutti gli altri. In conclusione: Anonimous è assolutamente troppo parziale e, oltretutto, lo è a favore della parte avversa a quella in cui milita e lavora; anche se giudica che la ragione è totalmente da questa parte avversa e contro la quale milita e lavora, vorrebbe ugualmente che venisse annientata tanto che rimprovera gli USA (che afferma essere dalla parte del torto) di non averlo saputo fare: pensa infatti che a causa dei suoi ritardi e delle sue indecisioni ‘l’America … ha perso l’occasione unica di far saltare al Qaeda e i talebani all’età della pietra’ (!) e si propone così di insegnare ai suoi connazionali proprio le giuste tattiche e strategie adatte allo scopo! E’ vero che egli afferma che ‘la vittoria [degli USA, s’intende] risiede in un’ancora indeterminata mescolanza di azioni militari più decise con un drammatico 79 cambiamento di politica estera; nessuno dei due basta da solo’, ma su questo drammatico cambiamento di politica estera formula solo isolati e vaghi accenni. V Comunque, dopo l’11 settembre gli USA intrapresero (in ritardo) la guerra in Afghanistan per schiacciare al Qaeda che vi si era insidiata fin dal 1996 in seguito alla vittoria dei talebani del mullah Omar, ma qui (come in Iraq per chiudere i conti con un altro nemico) essi non vollero combattere semplicemente una guerra ‘normale’ ma, sempre in nome della stessa cieca e ignorante presunzione, insistettero (e insistono) invece nel voler imporre agli afghani (ed agli irakeni) il sistema di governo e di valori occidentali, una pretesa assurda che non può che provocare disastri, nuovi odi ed ulteriori incomprensioni: anche Huntington lo riconosce: ‘nel mondo che emerge, un mondo fatto di conflitti etnici e scontri di civiltà, la convinzione occidentale dell’universalità della propria cultura comporta tre problemi: è falsa, è immorale, è pericolosa ... l’imperialismo è la conseguenza logica e necessaria dell’universalismo’. La storia della guerra in Afghanistan non rientra nei temi di queste pagine (che vogliono essere di filosofia) cui interessa invece il metodo di ricerca di Anonimous, fatto di spregiudicatezza e, soprattutto, di abbandono delle facili teorie globali in favore di studi ogni volta particolari e fondati su una stretta aderenza ai fatti: egli scrive nel 2004 e, data l’adozione delle sopra ricordate premesse e strategie sbagliate, prevede che la guerra in Afghanistan finirà in un disastro perché secondo lui ‘è una guerra che l’Alleanza non può vincere a meno che l’America … non sia disposta ad occupare indefinitamente l’Afghanistan’; ‘l’attuale regime afghano [di Karzai] non può sopravvivere a meno che le forze straniere guidate dagli USA non vengano massicciamente incrementate, non siano preparate ad uccidere generosamente e non rimangano in permanenza in Afghanistan’. VI Dieci anni dopo è fin troppo facile riconoscere che gli americani ed i loro alleati sono effettivamente rimasti nell’Afghanistan spartito in zone d’influenza e che hanno dimostrato la massima risolutezza nel voler stroncare con la forza e senza scendere a nessun compromesso quello che chiamano terrorismo islamico eliminando i nemici uno alla volta (come è avvenuto con lo stesso bin Laden il 2 maggio 2011). A dispetto delle previsioni di Anonimous la missione in Afghanistan sembrerebbe quindi compiuta e per quest’anno - tre anni dopo quello completo dall’Iraq - è previsto il ritiro delle truppe straniere (o, almeno di un gran numero di esse) dal paese, ma è dubbio che davvero questa sia la strada per risolvere il problema – ammesso poi che sia risolvibile!: Anonimous (e tanti altri) sono infatti lì a ricordarci che le cause dell’insorgenza islamica sono ancora tutte sul campo né si riducono certo alla sola al Qaeda, anzi forse si sono addirittura accresciute o approfondite, e non è combattendone gli effetti che esse spariscono. 80 Secondo Anonimous bisognerebbe allora che innanzitutto l’Occidente e, soprattutto, gli Stati Uniti imparassero a riconoscere le ragioni del mondo islamico invece di pensarlo sempre secondo le proprie categorie – giudicate le uniche vere e giuste ma, come direbbe Glucksmann, questa è innanzitutto una battaglia mentale. Il fatto è che questa ignoranza e cecità nei confronti delle ragioni e dell’esistenza stessa dell’altro, anzi, la sua vera e propria negazione, è ‘un modo di pensare che le élites americane hanno acquisito fin dalla fine della seconda guerra mondiale’ e la polemica nei suoi confronti è uno dei temi su cui Anonimous insiste con maggior forza: secondo lui la cieca fiducia in se stessi è arrivata al punto tale che ‘mandiamo diplomatici, ufficiali e predicatori a persuadere forzosamente i mussulmani ad occidentalizzare il Corano, le tradizioni e i detti del Profeta’, convinti come siamo che ‘l’America non ha bisogno di riconsiderare le sue politiche, né tantomeno cambiarle; essa deve semplicemente spiegare meglio al mondo mussulmano che non li capisce la rettitudine delle sue vedute e la purezza dei suoi propositi’. Anonimous fa così proprie le parole di Joshua Mitchell secondo cui ‘la politica estera americana in Afghanistan e in Iraq è guidata da un principio così inscritto nella psiche americana da diventare una sindrome: caccia via i tiranni e allora cittadini e leaders si uniranno per portare quella libertà che la presenza del tiranno impediva. Accadde in America; sicuramente accadrà altrove. Di qui la nostra guerra di liberazione per liberare l’Iraq del suo Giorgio III. … La nostra politica estera soffre della sindrome del re Giorgio. La libertà non è un’aspirazione né spontanea né universale’ ma noi non ci rendiamo conto che ‘gran parte del mondo al di fuori del Nordamerica non è, non vuole essere e probabilmente non sarà mai come noi’. A questa vera e propria hubris (come la chiama Anonimous) - cioè alla ‘tracotanza’ che nell’antica tragedia greca era la violazione di leggi divine che causava inevitabili disgrazie e punizioni (la nemesi) – negli Stati Uniti dagli anni Novanta si è accompagnata anche una nuova e conseguente concezione della guerra. Anonimous: il disastro della guerra a bassa intensità Dimentichi di ogni insegnamento di pensatori come Clausewitz e quindi che in guerra, come aveva detto il generale Sheridan, ‘niente dev’essere lasciato … [al nemico] se non occhi per piangere’, o l’ammiraglio Halsey secondo cui bisognava ‘uccidere giapponesi, uccidere giapponesi, uccidere più giapponesi’ e continuare ad ucciderli finchè ‘il giapponese sarà parlato solo all’inferno’, gli odierni leaders americani hanno ordinato invece ai loro generali di ‘combattere e vincere in fretta; di non uccidere molti nemici, di non distruggere molte loro proprietà e di non uccidere molti dei suoi civili; e soprattutto di perdere il numero minimo di soldati americani perché la delicata opinione pubblica americana non sopporta alte perdite’. Ora, tutto ciò è perfettamente logico se si considera la fiducia che gli americani hanno nel valore indiscusso della loro civiltà che quindi pensano basti venga conosciuta per essere accettata: per loro la vittoria consiste insomma nell’imporla in un primo 81 momento (quindi al minor costo possibile) perché essa agirà poi da sola convertendo il nemico sconfitto in un ammiratore ed in un alleato. La hubris degli USA (e l’impresentabilità all’opinione pubblica di guerre combattute sul serio) li ha condotti così ad intraprendere guerre a bassa intensità ed a bassi costi umani che però – nonostante le continue proclamazioni di vittoria – hanno lasciato invece i nemici ancora sul campo ed ancora decisi a continuare lo scontro per il momento solo rimandato: ciò è particolarmente vero nel caso della guerra contro quello che viene chiamato fondamentalismo islamico e di quelle in Afghanistan e in Iraq, dei cui abitanti si è preteso ed immaginato che ‘il più ardente desiderio’ fosse ‘il trapianto dello stile di vita americano’ e che dunque bastasse abbatterne i governi per aver vinto i loro cuori. Ecco così che per esempio in Afghanistan e in Iraq non si sono sigillati i confini prima di iniziare l’avanzata, che si sono occupate le città e si sono proclamati governi amici lasciando che i nemici si disperdessero e si riorganizzassero nelle campagne, nelle province e nei paesi confinanti. Anonimous usa parole di fuoco per denunciare la follia di questa ‘ricetta per il disastro’ e la vigliaccheria dei comandanti militari che non denunciano mai tale strategia sicuramente sbagliata e dunque perdente e fallimentare: secondo lui ‘solo un pazzo conta di ottenere la vittoria in un modo simile’, così in ‘Iraq …, Somalia, Haiti, Serbia, Kosovo, Afghanistan, ancora in Iraq … i lasciti [delle guerre così malcondotte] inquinano il panorama internazionale come potenti mine che attendono solo di essere fatte esplodere’. Forse questa baldanza degli USA deriva dal successo nella seconda guerra mondiale quando i loro peggiori nemici (italiani, tedeschi e giapponesi) una volta sconfitti ne divennero entusiasti sostenitori, ma, a parte il fatto che allora si combattè in modo durissimo ed estremamente distruttivo e sanguinoso, per Anonimous nell’ultimo quarto di secolo contro nemici così estranei all’Occidente, e quindi così irriducibili, come i mussulmani questo modo di concepire e gestire la guerra ha comportato, e non poteva non comportare, che ‘le guerre combattute fin dal 1991 non sono state vinte. Nella migliore delle ipotesi esse hanno represso problemi che si riproporranno ancora per costare all’America più sangue e più denaro’. Gli USA devono aprire finalmente gli occhi e comprendere fino in fondo che quella che stanno combattendo contro il terrore (così la chiamano) è una vera ed inevitabile guerra: se essi si decideranno ad aggiustare una buona volta la loro politica nei confronti del mondo mussulmano potranno solo renderla meno prolungata, ma dovranno ugualmente fronteggiare ‘moderni combattenti capaci di assoluta spietatezza. … Il progresso sarà misurato dal ritmo delle uccisioni e, sì, dalla conta dei cadaveri … una conta veritiera che arriverà a cifre estremamente elevate. Le pile dei cadaveri conterranno tanti o più civili che combattenti. … Uccidere in gran numero non è sufficiente a sconfiggere i nostri nemici mussulmani … ma rimarrà l’unica opzione dell’America finchè essa insiste nelle sue politiche fallimentari nei confronti del mondo mussulmano’. In conclusione, così come già aveva detto (per esempio) von Clausewitz due secoli fa ‘la guerra è l’ultima risorsa e … una volta iniziata è immorale ed inutilmente costoso 82 non distruggere il nemico e finire la guerra il più presto possibile’, ma questa strategia contrasta troppo con la presunzione a stelle e strisce: ancora una volta, come direbbe Glucksmann, si tratta qui innanzitutto una battaglia mentale – come sempre e come dappertutto. Conclusione Desta stupore che fra gli autori qui considerati un nazista (Schmitt) rimpiangesse la guerra moderata e un antico cinese (Sun Tzu) la volesse la meno distruttrice possibile mentre quelli occidentali – con tutti i discorsi sulla pace che circolano - ne hanno esaltato la furia annientatrice. E’ poi sorprendente che, nonostante la loro diversità e quella dei tempi in cui scrissero, gli autori qui presi in considerazione giungono però tutti alle stesse conclusioni che quindi non possono che essere accettate e fatte proprie: eccone allora un brevissimo elenco. Innanzitutto, la guerra è una costante ineliminabile della storia dell’umanità e dunque invece di cianciare di pace è utile e produttivo affrontarla con razionalità. In secondo luogo, la guerra è il fondamento di ogni società che nasce ed esiste in quanto provvede innanzitutto alla propria difesa e sicurezza. In terzo luogo, lo scopo della guerra è l’annientamento del nemico, dunque essa è e rimane sempre la stessa. In quarto luogo, il suo corso ‘naturale’ viene continuamente alterato, rallentato, ostacolato, modificato, ecc. oltre che dagli imprevisti soprattutto dalle concrete condizioni politiche del momento. In quinto luogo, ogni contendente esibisce i propri motivi che dunque sono sempre relativi e spesso soltanto semplici mascheramenti ideologici di comodo. In sesto luogo, la rivoluzione è una guerra civile. In definitiva allora l’unico modo per evitare la guerra – che è e rimane orribile sembra essere o quello di renderla inutile e controproducente grazie all’adozione di politiche pacifiche più convenienti (come si è meritoriamente fatto in Europa), o, come sostiene Glucksmann, di costruire un equilibrio – anche del terrore! – degli armamenti che renda impossibile il successo di un’aggressione. Non ci si illuda però che l’uomo potrà mai diventare ‘migliore’. Sottomarina maggio 2014 (le pagine 46-50 su Arthur Koestler sono state aggiunte il 19 marzo 2017) 83 Bibliografia Sun Tzu:’L’art de la guerre’ – Flammarion, Saint-Armand-Montrond (Cher) 1991. Karl von Clausewitz: ‘Della guerra’ – Oscar Mondadori, Cles (TN) 1978. F. T. Marinetti: ‘Teoria e invenzione futurista’ – Arnoldo Mondadori Editore (I Meridiani), Vicenza 1983. F. Gaeta: ‘Il nazionalismo italiano’ – Editori Laterza, Bari 1981. S. Freud: ‘Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte’ (in ‘psicoanalisi e società’) – Newton Compton Editori, Roma 1969. Carl Schmitt: ‘Il concetto discriminatorio di guerra’ – Editori Laterza, Bari 2008. Hu Sheng (chief editor): ‘A Concise History of the Communist Party of China’ – Foreign Languages Press, Beijing 1994. A cura di Luigi Bonanate: ‘La guerra nella società contemporanea’ – Principato, Milano 1976. Arthur Koestler: ‘The Heel of Achilles’ – Random House, New York 1974. Arthur Koestler: ‘Janus – A Summing Up’ – Vintage Books A Division of Random House, New York 1979. Martin Heidegger: ‘Umanesimo e scienza nell’era atomica’ (a cura di Angelo Crescini) – Editrice La Scuola, Brescia 1986. André Glucksmann: ‘Le discours de la guerre’ – Editions de l’Herne, Vanves 1967. ‘La force du vertige’ – Bernard Grasset, Paris 1984. Rashid Khalidi: ‘La resurrezione dell’impero’ – Bollati Boringhieri, Fabriano2004. Anonimous: ‘Imperial Hubris - Why the West Is Losing the War on Terror’ Brassey’s Inc., Washington D.C. 2004.