CAPITOLO 3 - Persona e Danno

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Antonio Bova
Famiglia e fragilità. Tra vecchi e nuovi strumenti di protezione degli
incapaci e rilevanza della convivenza stabile1
SOMMARIO: 1. Famiglia e diversabilità - 2. L’amministrazione di sostegno: segnale forte di cambiamento culturale
- 3. La rilevanza della convivenza stabile alla luce della l. 9 gennaio 2004, n. 6 - 4. Convivenza e sistema di protezione
degli incapaci : prospettive di riforma.
1. Famiglia e diversabilità
Il tema che mi è stato assegnato è molto ampio, in quanto riguarda il ruolo riconosciuto dalla
l. 9 gennaio 2004, n.6 alla convivenza stabile nel sistema di protezione degli incapaci. Pertanto, ho
tentato di individuare alcuni aspetti che, soprattutto in questa particolare fase storica, appaiono di
centrale rilevanza.
Quanto al rapporto con la famiglia, va sottolineato come essa costituisca, naturalmente, il
luogo principale delle relazioni quotidiane che regolano la vita del disabile, svolgendo diverse
funzioni, che vanno dall’assunzione del ruolo centrale di custode degli affetti, delle speranze e delle
aspirazioni del disabile a quello di interlocutore privilegiato di quei soggetti istituzionali che, per
legge, devono affiancare la famiglia nella protezione dei disabili. Senza dubbio, la nascita di un
disabile cambia la vita della famiglia. Ma qual è la percezione che i genitori hanno della loro vita
accanto al figlio disabile? Cosa determina il sentimento di paura rispetto a questa eventualità?
La fragilità, per usare l’espressione scelta per indicare la nostra sessione tematica, non è
insita nella condizione del disabile, ma è piuttosto il portato di un modo di pensare che concepisce
la disabilità come una condizione estranea alla normalità della vita.
La riflessione sulla condizione di fragilità e sulla famiglia deve costituire, affinchè possa
produrre effetti positivi, un punto di partenza per comprendere gli approcci assistenziali da
utilizzare e le nuove politiche di Welfare da intraprendere. Solo in questo modo, peraltro, sarà
possibile sollevare la famiglia da quello stato di solitudine, che è la vera e unica causa della
disperazione e della paura in cui vivono le famiglie dei disabili2.
Di fronte a questo quadro occorre interrogarsi sui compiti che ciascuno deve seriamente
assumersi allo scopo di promuovere e sostenere la famiglia come solido pilastro della nostra società.
Il presente lavoro costituisce la rielaborazione della relazione svolta dall’autore alla Conferenza Nazionale della
Famiglia, tenutasi a Firenze dal 24 al 26 maggio 2007.
2
A tal fine appare opportuno:creare une rete di protezione per chi vive il dramma della malattia nella propria famiglia;
favorire l’inclusione del disabile nella società, permettendogli, per esempio, di esercitare il diritto di crearsi una famiglia
ai sensi dell’art. 23 della Convenzione dei diritti delle persone con disabilità; rafforzare le azioni tese a sostenere il
disabile e il suo nucleo familiare;migliorare le condizioni di vita del disabile nella propria casa, evitando, così, il
ricovero in istituto; garantire una maggiore presenza dei servizi sociali sul territorio, soprattutto al fine di superare il
forte disagio psicologico, spesso causa ed effetto, di un sentimento di chiusura verso il mondo esterno;concedere
sempre maggiori poteri agli enti locali, i soli capaci, potendo operare più facilmente un monitoraggio sulle situazioni
presenti sul territorio, di disporre le misure più idonee a rispondere alle esigenze e ai bisogni dei disabili; ridurre il
numero dei soggetti istituzionali necessariamente coinvolti negli interventi per l’integrazione dei portatori di handicap,
al fine di una più rapida attuazione della normativa;garantire l’integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali, con il
coinvolgimento delle famiglie e del volontariato, creando, così, un sistema di assistenza a rete, che faciliti il processo di
integrazione del disabile.
1
Occorre tornare a investire risorse materiali in tale direzione; bisogna creare un ambiente favorevole
al formarsi delle famiglie e al dispiegarsi sereno della loro vita.
Il disegno di legge su diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi”(Dico) ha
suscitato diverse prese di posizione nel mondo politico e religioso, determinando una conflittualità
(a tratti parossistica), con toni, contenuti e schieramenti non sempre nitidi.
Ciò è indubbiamente legato all’importante ruolo storicamente svolto dalla famiglia nella
crescita delle persone e della società, in forza del quale qualsiasi introduzione di elementi nuovi va
valutata con grande attenzione.
Dietro questi forti contrasti, che attraversano peraltro trasversalmente sia il modo politico
che quello religioso, si nasconde sostanzialmente una domanda: quale famiglia vogliamo per il
futuro?
Oggi, a tale quesito si risponde con motivazioni e argomentazioni diverse.
Quella parte del mondo politico che non ha bocciato aprioristicamente il disegno di legge
(perché troppo o troppo poco concedeva ai conviventi eterosessuali e omosessuali) ha sottolineato
come i Dico (acronimo di “diritti di convivenza”) non abbiano costituito il tentativo di “legalizzare
forme di paramatrimonio, in quanto la proposta di legge non istituisce alcun tipo di famiglia
alternativa, avendo come obiettivo unico il riconoscimento di diritti individuali.
Il mondo religioso, dal canto suo, pur riconoscendo la dignità di ogni persona e l’esistenza di
situazioni concrete nelle quali poter utilizzare garanzie e tutele giuridiche per la persona che
convive, si oppone nettamente all’istituzione di una figura giuridica alternativa alla famiglia
legittima.
Da questo quadro di opinioni sostanzialmente diverse emergono, tuttavia, alcuni elementi
comuni, che permettono di delimitare spazi di confronto e di condivisione: la difesa della famiglia
legittima da ogni tentativo di contestarne il primato e l’esigenza di riconoscere diritti individuali ai
conviventi in quanto persone.
A parere di chi scrive, un dialogo serio e capace di condurre a risultati concreti
richiederebbe la capacità e la volontà forte di individuare soluzioni possibili alla luce degli evidenti
elementi condivisi, superando così quello stato di smarrimento dovuto all’infinito scenario di
opinioni (a volte meramente ideologiche) e ostacolo principale alla costruzione del bene comune.
Il diritto, come è noto, trae origine dalla volontà dei consociati e resta in vita fin quando
perdura il consenso sociale, ricadendo e imponendosi coattivamente sui consociati stessi come
complesso di regole autoritativamente imposte .
Pertanto, lo studio delle norme giuridiche non può prescindere dall’analisi, anche storica, dei
fatti sociali che la nutrono, in quanto solo in tal modo è possibile cogliere il fluire delle regole
giuridiche.
A tal fine, appare opportuno osservare, con riferimento al fenomeno della famiglia di fatto,
come dagli anni sessanta nei paesi europei si sia assistito al calo dei matrimoni o al loro rinvio nel
tempo, mentre in pochi decenni crescevano le coppie di fatto, concentrandosi soprattutto nei grandi
centri urbani e diverse appaiano le condizioni e i fattori di carattere sociale, culturale, nonché
economico che sembrano aver contribuito a tale risultato.
Un ruolo decisivo è stato senza dubbio svolto dal graduale attenuarsi, legato al mutare dei
tempi e dei costumi, della disapprovazione riservata in precedenza alle convivenze more uxorio e al
progressivo consenso sociale che ne è seguito.
Tuttavia, il rilevato aumento delle convivenze, sia pure nella realtà eterogenea che le stesse
esprimono, rappresenta solo un aspetto dei più complessi mutamenti che si stanno verificando nel
“mosaico” delle strutture familiari.
In passato, per citarne uno, la famiglia monopersonale, quella monogenitore e quella
ricostituita nascevano, di regola, dalla perdita di un componente della coppia coniugale. Oggi,
invece, tali figure sono il frutto di una crisi coniugale o del tentativo di costruire una nuova coppia,
esprimendo in questo modo un forte ridimensionamento dell’istituzione matrimoniale.
Analogo discorso può essere fatto per la filazione naturale. A riguardo, si è evidenziato
come in alcuni paesi, compresa l’Italia, a fronte di un calo complessivo di coppie con figli, si sia
verificato un aumento della procreazione fuori dal matrimonio e in coppie di conviventi more
uxorio. Tale dato, sottolineando la rilevanza delle convivenze anche come relazioni di procreazione,
permette, in quanto più facilmente rilevabile, di cogliere meglio l’andamento del fenomeno della
famiglia di fatto e di richiamare l’attenzione del legislatore
Oggi quest’ultima appare libera da quei giudizi di condanna morale, ma a volte anche
giuridica, che in passato ne avevano ostacolato la piena espressione nella società. Il primato
riconosciuto dall’art. 29 Cost. alla famiglia legittima, infatti, non impedisce un riconoscimento, sia
pure di minore rilevanza, della famiglia di fatto quale aggregazione che assume rilevanza giuridica
in quanto formazione sociale ove si svolge la personalità dell’uomo.
L’urgenza di un intervento chiarificatore appare in modo ancora più evidente, alla luce della
complessità della dinamica della relazione tra la famiglia e la fragilità, quando la famiglia vive la
difficile realtà della disabilità
A riguardo è necessario osservare come essere genitore, coniuge o parente di una persona
disabile costituisca una responsabilità, che richiede la forza sufficiente a impedire la
destabilizzazione della famiglia, con conseguente rottura degli equilibri preesistenti.
Solo di recente, peraltro, gli studi sulla famiglia hanno spostato l’attenzione dalla disabilità
intesa come una variante dal peso immodificabile (e capace di danneggiare irrimediabilmente la
famiglia) all’analisi delle modalità di risposta e reazione della famiglia per affrontare il problema.
Tale mutamento si inquadra in una più vasta evoluzione culturale e sociale, espressa in Italia
con diversi interventi del legislatore (l. n. 118 del 1971, l. n. 104 del 1992), ma riscontrabile anche
in altri paesi.
Il tratto principale di tale tendenza è senza dubbio che la disabilità ed, in particolare, il
disagio mentale non devono essere visti come disagio della famiglia né considerati elemento di
irrimediabile rottura degli equilibri familiari.
Funzionale rispetto a tale scopo apparirebbe un intervento chiarificatore nella impostazione
del problema, a partire anche dalla individuazione di una terminologia capace di cogliere le
differenze, spesso ignote anche agli addetti ai lavori, tra menomazione, deficit e handicap.
Maggiore chiarezza gioverebbe, senza dubbio alcuno, anche sul piano normativo, laddove
l’Italia, pur avendo dato vita ad una legislazione tra le più avanzate nel mondo, ha ancora molta
strada da percorrere.
Nonostante le difficoltà iniziali, dovute in gran parte alle limitate conoscenze scientifiche,
oggi, grazie soprattutto al progresso nelle scienze mediche, si è giunti ad una normativa che, almeno
sulla carta, dovrebbe garantire l’inserimento del disabile nella società. Il processo di integrazione,
infatti, ancora oggi, sembra incepparsi in battute di arresto dovute ad una carenza di informazione,
origine, peraltro, di discriminazioni nello stesso mondo della disabilità.
Quando si parla di handicap “fisici”, infatti, la società appare più pronta ad accettare il
disabile, facilitandone il processo di integrazione. Per i portatori di handicap “mentali”, invece,
tutto diventa più difficile.
Una tappa fondamentale nella evoluzione normativa tesa a favorire il processo di
integrazione del disabile, è costituita senza dubbio dalla entrata in vigore della Costituzione italiana
nel 1948, la quale ha sancito principi (artt. 2, 3, 30, 33 e 34 Cost.) che, soprattutto in forza del
lavoro di interpretazione della Corte costituzionale e della dottrina, hanno agevolato la introduzione
di norme3 sempre più sensibili e attente al mondo e alle problematiche dei disabili. Si pensi, per
indicarne alcune, alla già citata l. n. 118 del 1971 e alla l. n. 104 del 1992.
La Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, inoltre, ha avuto il merito di
collocare la disabilità all’interno di una nuova visione che considera il disabile non più come un
3
Si pensi, per indicarne alcune, alla già citata l. n. 118 del 1971 e alla l. n. 104 del 1992.
cittadino invisibile, ma come persona titolare di diritti e, come tale soggetto attivo nel processo
decisionale relativo alle politiche di assistenza che lo riguardano.
Ciò, naturalmente,vale anche per le famiglie dei disabili, per le quali si profila un impegno
sempre più rilevante.
In questo quadro di attenzione politica alla tematica (espressa con proposte e soluzioni anche
legislative) si inserisce la legge 9 gennaio 2004, n. 6, che ha modificato gli artt. 404 e ss. del codice
civile affiancando alle figure del tutore e, nei casi più lievi, del curatore, quella dell’amministratore
di sostegno
2. L’amministrazione di sostegno: segnale forte di cambiamento culturale
La l. n. 6 del 20044 ha introdotto nel nostro ordinamento la nuova figura
dell’amministratore di sostegno5 e non marginali modifiche agli istituti della interdizione6 e della
inabilitazione. Straordinaria è la rilevanza etico-sociale di tale intervento normativo che, atteso da
molti anni e nato da numerosi dibattiti e proposte, rivoluziona il sistema di protezione dei soggetti
deboli ed esprime in maniera chiara e netta l’attenzione del legislatore verso la tutela della dignità e
della qualità della vita quotidiana delle persone non autosufficienti.
4
Dopo un lungo iter legislativo, il 22 dicembre 2003, la 2° Commissione permanente (Giustizia) del Senato della
Repubblica, in sede deliberante, ha approvato il disegno di legge S375B <<Introduzione nel libro primo titolo XII, del
codice civile del capo I, relativo all’istituzione della amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414,
417, 418, 424, 427, e 429 del codice civile in materia di interdizione e di inabilitazione, nonché relative norme di
attuazione, di coordinamento e finali>>.
5
U. Morello, L’amministrazione di sostegno (dalle regole ai principi), in «Notariato», n. 3, 2004, pp. 225 ss.; B.
Malavasi, L’amministrazione di sostegno: le linee di fondo, in «Notariato», n. 3, 2004, pp. 314 ss.; M. Antonica,
L’amministrazione di sostegno: un’alternativa all’interdizione e all’inabilitazione, in «Notariato», n. 5, 2004, pp. 528
ss.; S. Vocaturo, L’ amministratore di sostegno: la dignità dell' uomo al di là dell'handicap, in «Rivista del notariato, »,
n. 3, 2004, pp. 243 ss.; E. Ruscello, Amministrazione di sostegno e tutela dei disabili impressioni estemporanee su una
recente legge, in «Studium iuris», n.1, 2004, pp. 149 ss.; G. Campese, L’istituzione dell'amministrazione di sostegno e
le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in «Famiglia e diitto», n. 1, 2004, pp. 126 ss.; M. Cappato, E.
Calò, Se non si curano sono matti, in «La Stampa», 2 marzo 2004, p. 27; A. Busani, Nuovo tutor a sostegno dei più
deboli, in «Il sole 24 ore», 29 marzo 2004, p. 23; E. Calice, Commento agli artt. 404 ss. c.c., in G.Bonilini, M.
Confortini, C. Granelli (a cura di), Codice civile ipertestuale aggiornato, Utet, Torino 2004; E. Fassone, Più sostegno ai
soggetti deboli grazie all’ «amministratore» . Cambiano le regole sull’incapacità di agire, in «Diritto e giustizia»., n. 2,
2004, pp. 8 ss.; I. Tricomi, Così uno strumento giuridico flessibile introduce una graduazione nelle misure, in «Guida al
diritto», n. 5, 2004, pp. 26 ss.; S. Monache, Prime note sulla figura dell’amministratore di sostegno: profili di diritto
sostanziale, in «Nuova giurisprudenzacivile commentata», n.2, 2004, , pp. 29 ss.; G. Bonilini, Convivente more uxorio,
«conviventi» , amministrazione di sostegno, in «Familia», n. 2, 2005, pp. 209 ss.; V. Zambrano, Dell’amministrazione
di sostegno, in G. Autorino, P. Stanzione, V. Zambrano (a cura di), Amministrazione di sostegno, Utet, Milano 2004,
pp. 123 ss.; F. Tommaseo, La disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in «Familia Quaderni», n. 4,
2005, pp. 181 ss.; E.V. Napoli, L’interdizione e l’inabilitazione, in «Familia Quaderni», n. 4, 2005, p. 7 ss.
6
E. V. Napoli, L’infermità di mente – L’interdizione – L’inabilitazione, in Il Codice Civile - Commentario (Artt. 414 –
432) diretto da P. Schlesinger, Milano 1991, pp. 20-43; A. Venchiarutti, Profili della salute mentale nel diritto privato,
in «Diritto della famiglia e delle persone», n. 4, 1998, pp. 1240 ss.; A. Bompiani, Ragioni giuridiche ed etiche di una
recente iniziativa legislativa, in «Rassegna di diitto civile», n. 1, 1994, pp. 212 ss.; L. Bruscuglia, L'interdizione per
infermità di mente, Milano 1983; G. Lisella, Interdizione giudiziale e tutela della persona: gli effetti dell'incapacità
legale, Napoli 1984; E. Amato, Interdizione, inabilitazione, amministrazione di sostegno. Incertezze legislative,
itinerari giurisprudenziali e proposte della dottrina, in «Rivista critica di diritto privato», n.1, 1993, pp. 101 ss.; P.
Cendon, Un altro diritto per il malato di mente: esperienze e soggetti della trasformazione, in www.personaedanno.it;
R. Pescara, Tecniche privatistiche e istituti di salvaguardia dei disabili psichici, in Trattato di diitto privato, III, diretto
da P. Rescigno, Torino 1997, p. 735; P. Matera, Norme di attuazione, di coordinamento e finali, in Amministrazione di
sostegno, cit., p. 275 ss.; T. Naddeo, Della interdizione, della inabilitazione e della incapacità naturale, Ivi, pp. 18 ss.
Come si evince dai lavori preparatori e dalla stessa legge7 la finalità delle nuove regole
consiste nel tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, persone prive in
tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana quando non c’è
necessità di procedere ad una interdizione o una inabilitazione.
La novella8 segue cronologicamente riforme già attuate da altri Paesi dell’area
occidentale, che, a seconda dei casi, hanno privilegiato la tecnica degli aggiustamenti 9 del vecchio
sistema con relativa modificazione della normativa già esistente (Belgio, Francia, Lussemburgo,
Olanda, Spagna, Svizzera) oppure la via di una riforma radicale10, con un taglio al passato e la
costruzione di un nuovo istituto (Austria, Germania ).
7
È inusuale che un importante principio sia affermato all'art. 1 della legge e non inserito nel nuovo testo dell'art. 404
c.c. Il principio potrà peraltro valere come un punto ufficiale e rilevante che tiene luogo (in maniera più pregnante) di
regole espresse nei lavori preparatori e vincola, quindi, l'interprete (sia pure nei limiti del carattere generale del
principio).
8
Sulla scia delle previsioni già contenute nella Declaration on the Rights of Mentally Retarded Persons, adottata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nella seduta plenaria n. 2027 del 20 dicembre 1971 e richiamata al punto
4 della successiva più ampia Declaration on the Rights of Disabled Persons, emanata con la risoluzione 3447 del 9
dicembre 1975 -nella quale si evidenzia come non vi debbano più essere soggetti etichettati con il termine interdetti o
inabilitati quando vi è soltanto bisogno di un aiuto temporaneo nel corso della vita- e nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea che all’art. 26 riconosce il diritto dei disabili a beneficiare di misure intese a
garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.
9
Il legislatore francese , con la legge 68-5 del 3 gennaio 1968 ha riformulato per intero il titolo XI del libro I del code
civil, intitolato “De la majoritè et des majeurs qui sont protègès par la loi” introducendo, accanto a regimi
maggiormente protettivi quali la tutela e la curatela, uno strumento di protezione temporanea denominato “sauvegarde
de justice”, cui ricorrere nel caso in cui il maggiore di età abbia bisogno di protezione nel compimento degli atti di vita
civile, a causa di un’alterazione delle facoltà mentali (dovuta ad una malattia, un’infermità o un affievolimento legato
all’età) o per la impossibilità di esprimere la propria volontà a seguito di un’alterazione delle facoltà fisiche. La persona
soggetta alla misura della “sauvegarde de justice”, in caso di conseguenze per lui svantaggiose derivanti da attività
dalla stessa poste in essere, potrà a sua difesa, non solo chiedere l’annullamento per incapacità naturale, ma anche
esercitare due azioni specifiche: la rescissione per lesione semplice o la riduzione per eccesso. È evidente, quindi, come
lo strumento di protezione in esame permette di coniugare diverse esigenze: da un lato, quella di non subire alcuna
restrizione alla capacità di agire mantenendo integra l’attitudine ad esercitare i propri diritti, dall’altro, di non
danneggiarsi nella conclusione dei contratti. Anche in Spagna il legislatore ha preferito seguire la tecnica degli
aggiustamenti al vecchio sistema con relativa modificazione della disciplina già esistente, prevedendo, accanto alla
tutela e alla curatela, un altro regime di protezione denominato “defensor judical”. La dichiarazione di incapacità ha
come fine la protezione degli interessi del soggetto ed è giustificata solo se l’infermità fisica e psichica costituisce
realmente un ostacolo che impedisce di partecipare alla vita politica, economica, culturale e sociale. In sostanza,
l’eventuale dichiarazione deve fungere da misura di protezione e non da ostacolo alla libera e piena realizzazione della
personalità. È necessario, pertanto, un nesso di causalità tra menomazione psicofisica e incapacità di provvedere ai
propri interessi. Non è la legge a predeterminare gli effetti derivanti dalle sentenze di “incapacitation” ma, a
prescindere dal regime di protezione prescelto (tutela, curatela o defensor judical ) sarà il giudice a stabilire i limiti
dell’incapacità indicando inoltre gli atti che l’interessato potrà porre in essere validamente da solo. Neppure il
provvedimento che dispone l’incapacità assoluta potrà incidere su tutta la sfera giuridica del disabile poiché, in base al
disposto dell’art. 267 codigo civil, vi sono atti che l’incapace potrà compiere autonomamente per espressa disposizione
di legge.
10
Diverso intervento invece è stato operato dal legislatore austriaco, il quale ha preferito tagliare nettamente con il
vecchio sistema di protezione degli incapaci (basato sugli istituti della interdizione e della inabilitazione) sostituendolo
con un nuovo ed unico strumento di aiuto al disabile denominato “Sachwalterschaft”. Si tratta di uno strumento di
protezione cui può ricorrere chi è affetto da una malattia psichica o è minorato mentale. Questa tuttavia è una
condizione necessaria ma non sufficiente in quanto vi deve essere anche una effettiva inidoneità del soggetto a gestire,
con evidente pericolo di pregiudizio tutti o alcuni dei suoi affari. Anche in questo caso le limitazioni alla capacità di
agire non sono predeterminate dalla legge ma sono di volta in volta stabilite dal giudice, sulla base delle possibilità del
disabile, indicando in modo preciso l’ambito delle competenze del curatore (Sachwalter). Solo in questo modo gli
strumenti predisposti dal legislatore per proteggere gli incapaci svolgono realmente tale funzione e non si trasformano
paradossalmente in un ostacolo ed ulteriore limite alla piena realizzazione della personalità del disabile. Come quello
austriaco, anche il legislatore tedesco ha preferito superare le tradizionali strutture giuridiche totalizzanti previste per la
protezione degli incapaci maggiorenni costruendo un nuovo istituto denominato “Betreuung” volto all’assistenza di
soggetti maggiorenni che, per malattia psichica o un impedimento, non siano più idonei a provvedere alla cura dei loro
affari. Lo strumento in esame non coinvolge globalmente la capacità di agire della persona in difficoltà in quanto
l’intervento del curatore (Betreuer) nell’attività negoziale della persona da proteggere si traduce in una riserva di
L’intervento normativo in esame offre un’alternativa all’interdizione e all’inabilitazione,
misure totalizzanti rivelatesi spesso sproporzionate rispetto alla necessità di protezione del
soggetto11.
La vecchia disciplina, incentrata esclusivamente sul paradigma sano di mente/non sano di
mente, ossia soggetto pienamente capace di autodeterminarsi/soggetto debole da proteggere ed
escludere dai traffici giuridici, mostrava ormai in modo evidente il suo anacronismo12.
La ridotta elasticità, la pesantezza delle conseguenze e la complessità delle sue
procedure, peraltro lunghe e talvolta anche dispendiose, non permettevano di offrire una tutela
adeguata ai soggetti incapaci di curare i propri interessi ma non del tutto infermi di mente13. In
sostanza un sistema creato per la protezione della dignità e della libertà del malato,
nell’applicazione concreta, finiva paradossalmente per costituire una sorta di condanna ad una
permanente condizione di inferiorità giuridica14.
Sono proprio le persone, nei cui confronti una pronuncia di interdizione (o di
inabilitazione) risulterebbe sproporzionata mentre l’assenza di ogni forma di tutela si rivelerebbe
pericolosa, i soggetti destinatari del nuovo strumento giuridico.
Il concetto alla base delle istanze socio-culturali accolte dalla nuova disciplina è che la
persona ha diritto di partecipare alla vita di relazione nella misura in cui essa è idonea a farlo,
affiancata, nei momenti di necessità, da adeguate forme di tutela e di sostegno 15. L’obiettivo della
consenso all’atto compiuto dell’assistito. Pertanto, fino al consenso del curatore il negozio posto in essere dall’assistito
vive una situazione di inefficacia.
11
Anteriormente alle modifiche introdotte dalla L. n. 6 del 2004 il codice civile prevedeva due forme di protezione di
diversa intensità: l’interdizione giudiziale, in relazione a soggetti considerati del tutto privi della capacità di provvedere
ai propri interessi (quindi, sia di natura personale che di natura patrimoniale); l’inabilitazione, in relazione a soggetti
semplicemente reputati non in grado di provvedere in maniera adeguata ai propri interessi di natura patrimoniale. Alla
rigida alternativa originariamente contemplata dal legislatore, la ricordata L. n. 6 del 2004 ha sostituito un sistema
flessibile, da un lato, rendendo maggiormente malleabili, da parte dell’autorità giudiziaria, i provvedimenti di
interdizione e di inabilitazione (dal momento che gli stessi provvedimenti di interdizione e di inabilitazione possono ora
comportare restrizioni della capacità di agire del soggetto più o meno ampie), dall’altro, introducendo il nuovo istituto
dell’amministrazione di sostegno.
12
S. Vocaturo, L’ amministratore di sostegno: la dignità dell' uomo al di là dell'handicap, in «Rivista del notariato », n.
3, 2004, p. 242.
13
Si pensi alla persona bisognosa di essere temporaneamente sostituita nella gestione dei propri interessi a causa di una
menomazione fisica oppure alla persona anziana non più del tutto autosufficiente, pur se ancora incapace di intendere e
di volere. In particolare l’interdizione, peccando per eccesso rispetto al reale disagio, si rivelava spesso, a fronte di una
dichiarata finalità di protezione dell’incapace, più uno strumento di isolamento ed esclusione delle persone, che di tutela
della stesse, costituendo fonte di disagio relazionale e di una permanente condizione di inferiorità giuridica.
L’assolutezza, la lentezza procedurale, la macchinosità, la eccessiva severità sul piano delle conseguenze (incapacità
totale rispetto a qualunque atto giuridicamente rilevante) e la rigidità rendevano tale misura (come del resto
l’inabilitazione) pregiudizievole per i soggetti e contraddittoria rispetto alle finalità per le quali la stessa era stata
concepita. La misura dell’interdizione o, per i casi meno gravi, dell’inabilitazione dell’infermo, “annullando” in tutto o
in parte la capacità di agire di quest’ultimo, apparivano spesso sproporzionati e poco funzionali.
14
I progressi in sede psichiatrica hanno evidenziato l’eterogeneità delle situazioni di disagio e come oggi non sia più
possibile pensare che esse sfocino sempre in una malattia mentale, mettendo così in crisi il tradizionale paradigma
soggetto capace-soggetto incapace sul quale si basava il precedente sistema di protezione dei c.d. soggetti deboli.
Prima dell’entrata in vigore della L. n. 6 del 2004, anziani colpiti da malattie come l’arteriosclerosi, l’alzheimer o da
demenza senile, persone colpite da ictus cerebrale, portatori di handicap fisici, persone che vivono le conseguenze di
stati comatosi, gli esiti di trombosi e le situazioni che si producono nello stato terminale della vita rimanevano in pratica
privi di ogni forma di tutela oppure la ottenevano solamente forzando gli istituti classici dell’interdizione o
dell’inabilitazione ed al “prezzo” di una forte menomazione delle residua autonomia del soggetto. A riguardo è
necessario evidenziare come nel testo della legge in esame non sia stata confermata la norma, introdotta dal Senato nel
D.d.l. S 375, circa l’estensione dell’amministrazione di sostegno anche alle perone anziane: pertanto queste ultime
potranno beneficiare dell’amministrazione di sostegno non semplicemente in quanto tali ma solo e in quanto non
autosufficienti (ossia non in grado di amministrare se stessi e bisognosi dell’ausilio di altri ).
15
Beneficiario della amministrazione di sostegno sarà quasi sempre un soggetto capace di intendere e di volere. Se si
tratterà di un incapace, non sarà comunque un disturbato senza speranza, o non lo sarà tanto gravemente da dover essere
addirittura interdetto, ma sarà qualcuno che avrà semplicemente bisogno di essere “sostenuto” nel compimento di una
riforma è quello di realizzare una forma di tutela più elastica e su misura, che tenga conto delle
specifiche e mirate esigenze del bisognoso e si preoccupi di provocare la minore limitazione
possibile della capacità di agire del soggetto di cui si richiede l’assistenza 16. L’interdizione17 cessa
di essere il rimedio necessario e vincolante per le ipotesi di totale e permanente infermità di mente e
diventa una soluzione meramente residuale e sussidiaria, limitata ai casi nei quali non possa essere
fornita un’adeguata protezione con l’istituzione dell’amministrazione di sostegno. Allo stesso modo
l’inabilitazione18 riveste oggi una funzione meramente residuale, utile nelle sole fattispecie nelle
quali la protezione non può essere idoneamente fornita con l’amministrazione di sostegno: si pensi,
per esempio, alla prodigalità19.
3. La rilevanza della convivenza stabile alla luce della l. 9 gennaio 2004, n. 6.
Venendo alle novità della riforma20, nella prospettiva del presente lavoro, è prestata
particolare attenzione al ruolo riconosciuto dalla novella alla convivenza more uxorio.
La stretta correlazione esistente tra gli istituti in esame rende opportuno un approccio
metodologico che si fondi su un’analisi puntuale e parallela degli strumenti di protezione degli
incapaci predisposti dal nostro ordinamento giuridico a seguito della l. n. 6 del 2004.
Essenziale si rivela la individuazione del significato della espressione “persona stabilmente
convivente”, utilizzata dal legislatore della riforma, di cui peraltro manca nella legge la
definizione21. Solo nell’art. 407, 1° comma, c.c. si utilizza l’espressione “conviventi”. Spetta
sfera più o meno ampia di atti giuridici, in base alla valutazione del giudice competente e di chi sarà chiamato a valutare
concretamente le situazioni.
16
Così evitando stati di disagio, di difficoltà o di umiliazione di persone non fisicamente autonome e diminuendo il
rischio di raggiri o pressioni improprie su persone con diminuita capacità per età, malattia o altre situazioni che le
norme del sistema non potevano sovente tutelare (non è facile dimostrare il dolo e annullare il contratto; non è facile
annullare il contratto per incapacità naturale ex art. 428 c. c.).
17
L’art. 414 c.c. afferma testualmente che “il maggiore d’età ed il minore emancipato, i quali si trovano in condizione
di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti quando ciò sia
necessario per assicurare la loro adeguata protezione”. Si sottolinea in primo luogo come il riferimento alla “abituale
infermità di mente” faccia sorgere il dubbio su come questa forma patologica si distingua dalla “menomazione
psichica” cui fa riferimento l’art. 404 c.c. che ha istituito l’amministratore di sostegno. A riguardo la dottrina ritiene che
il discrimen non possa essere assolutamente rappresentato dall’ “abitualità” prevista dall’art 414 c.c. in quanto nell’art.
404 c.c. l’espressione “anche temporanea” sottintende anche la menomazione “non temporanea” e, quindi, abituale. Si
osserva, inoltre, come in questa nuova formulazione il legislatore, mediante il riferimento alla “necessità per assicurare
una adeguata protezione”, manifesti un sostanziale rifiuto dell’interdizione, considerandola non essenziale se non
quando necessaria per assicurare una adeguata protezione dell’incapace (in contrasto con la giurisprudenza e la dottrina
prevalente che nel vigore del previgente testo hanno sempre ritenuto doverosa l’applicazione dell’interdizione nei casi
previsti dal predetto articolo).
L’art. 415 c.c. statuisce che “il maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo
all’interdizione, può essere inabilitato. Possono anche essere inabilitati coloro che, per prodigalità o per abuso abituale
di bevande alcoliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici. Possono infine
essere inabilitati il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia se non hanno ricevuto un’educazione
sufficiente, salva l’applicazione dell’art. 414 c.c. quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri
interessi”. Riguardo all’ infermità di mente richiamata dal primo comma dell’articolo in esame è necessario sottolineare
l’estrema difficoltà di tracciare una sicura linea di confine con la menomazione psichica cui fa riferimento l’art. 404 c.c.
in materia di amministrazione di sostegno e il rischio che quest’ultima riduca ulteriormente le ipotesi che in passato
potevano giustificare il ricorso all’inabilitazione.
19
È opportuno chiarire che l’amministrazione di sostegno non è applicabile agli stranieri (art. 43, L. n. 218 del 1995) e
che questa situazione muterà solo quando entrerà in vigore la Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000 sulla
protezione internazionale degli adulti, anche se non si esclude che detta disciplina, per via di adeguamento, possa
comunque trovare applicazione in taluni casi ai non cittadini.
20
La cui ambizione è quella di consegnare agli operatori del diritto uno strumento modulabile in funzione delle
specifiche e mirate esigenze del bisognoso e che si preoccupa di provocare la minore limitazione possibile della
capacità di agire del soggetto.
21
Destinata a suscitare una serie di problemi sul piano concreto dell’applicazione della disciplina.
18
pertanto all’interprete stabilire cosa si debba intendere per convivenza stabile e come vada
apprezzata detta stabilità.
Sul primo punto si rende opportuna una breve digressione sottolineando come in
generale la scelta della terminologia con la quale il legislatore indica un fenomeno è già di per sé
indicativa della rilevanza che a tale fenomeno vuole o non vuole riconoscere. L’impiego di alcune
espressioni vale a definire o a determinare un comportamento o, come nel nostro caso, a descrivere
un fenomeno.
Ciò premesso, è possibile osservare in primo luogo come l’utilizzo da parte del
legislatore della espressione “persona stabilmente convivente”, apparentemente chiara, possa essere
oggetto di diverse interpretazioni, soprattutto se si tiene presente che all’art. 407, 1° comma, c.c.,
con riferimento al ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno, si prevede anche
l’indicazione del nominativo e del domicilio, se conosciuti, dei “conviventi del beneficiario”,
mentre al 3° comma dello stesso art. 407 c.c. e nei successivi (artt. 408, 410, 411, 413, 417, 424 e
426 c.c.) si opera un ritorno al singolare utilizzando, per rinvio all’art. 406 o direttamente,
l’espressione “persona stabilmente convivente”.
Perchè il legislatore adopera solo nell’art. 407, 1° comma, c.c. l’espressione al plurale,
peraltro senza alcun riferimento alla stabilità del rapporto?
Pur rinviando la trattazione della questione appena prospettata, non si può non
sottolineare sin da ora la particolare rilevanza della interpretazione della norma in esame ai fini
della individuazione della portata sostanziale della espressione normativa “persona stabilmente
convivente”, più volte richiamata dalla normativa in materia di amministrazione di sostegno.
A riguardo bisogna sottolineare come siano emersi in dottrina due diversi orientamenti.
Alla tesi sostenuta da alcuni interpreti22, secondo la quale per persona stabilmente convivente non
deve intendersi soltanto il soggetto che viva una relazione paraconiugale, ma, altresì, qualsiasi
soggetto che coabiti (anche un amico o una domestica) con la persona interessata alla misura di
protezione, si contrappone la tesi di altri autori23, secondo la quale l’espressione in esame farebbe
riferimento soltanto al convivente more uxorio24 (eterosessuale o omosessuale25), escludendo così
chi semplicemente coabiti con il beneficiario.
Naturalmente quest’ultima interpretazione sottolineerebbe maggiormente la piena
equiparazione del convivente more uxorio al coniuge e ai parenti e la loro comune appartenenza
alla cerchia in senso lato familiare dell’interessato. Tuttavia il problema appena prospettato non
deve assumere dimensioni superiori a quelle reali, in quanto, a prescindere dalla tesi che si intenda
seguire, la espressione in esame dà comunque risalto almeno alle convivenze paraconiugali,
esprimendo così il pieno riconoscimento del valore della convivenza more uxorio e una chiara
apertura del legislatore verso la c.d.”famiglia di fatto”. La disposizione in esame dimostra come il
legislatore prenda atto della pluralità delle relazioni familiari esistenti nel nostro paese,
riconoscendo una certa rilevanza alle situazioni di fatto che abbiano la stessa consistenza di stabilità
e serietà di quelle giuridiche. .
La questione consiste quindi nello stabilire se all’espressione persona stabilmente
convivente possano essere ricondotte, come sostenuto da parte della dottrina, anche forme di
convivenza non paraconiugale.
Nel tentativo di dare una risposta alla questione appena prospettata, si può osservare in
primo luogo come nel linguaggio giuridico l’espressione “persona stabilmente convivente” alluda,
con immediatezza, alla condivisione di vita spirituale e materiale simile a quella che si fonda sul
B. Malavasi, L’amministrazione di sostegno: le linee di fondo, in «Notariato», n. 3, 2004, p. 324.
E. Ruscello, Amministrazione di sostegno e tutela dei disabili impressioni estemporanee su una recente legge, in
«Studium iuris», n.1, 2004, p. 150.
24
F.Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano 1983; S. Alagna, Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo
diritto, Milano 1983; M. Dogliotti, Famiglia di fatto, in Dig. disc. priv., Sez. civ., VIII, Torino 1990, p. 188.
25
La genericità dell’espressione legislativa permette di ricostruire il passaggio dall’antica e confermata valorizzazione
della famiglia “allargata” ad una nozione post-moderna e nuova di famiglia, comprensiva delle diversità di orientamenti
sessuali.
22
23
matrimonio26. Se il legislatore avesse voluto far riferimento con la espressione in esame anche a
convivenze non paramatrimoniali, comprendendo così chi semplicemente coabiti con l’interessato
alla misura di protezione, avrebbe utilizzato il più preciso termine “persona stabilmente coabitante”.
Se però il legislatore adopera alcune espressioni, lo fa in quanto le ritiene idonee a definire o a
descrivere un determinato fenomeno.
In tale cornice interpretativa della espressione “persona convivente” si può rilevare come
il riferimento alla stabilità del rapporto (in sè non attenuativa della genericità, a mio avviso
apparente, della espressione in esame, data la possibile stabilità anche della semplice coabitazione)
svolga un ruolo importante in quanto, presupponendo implicitamente la distinzione tra convivenza
stabile e quella che tale non è, dimostra che la L. n. 6 del 2004 si riferisce ad un tipo particolare di
convivenza e non ritiene degna di tutela ogni relazione sentimentale, ma solo quella caratterizzata
da un’effettiva, stabile, duratura comunanza di vita, spirituale e materiale.
È pur vero che in altri luoghi normativi in cui si è inteso fare richiamo al fenomeno della
convivenza more uxorio, sono stati utilizzati termini più idonei a raffigurare detto fenomeno, ma
tale circostanza non mi pare provi, da sola, la riconducibilità anche delle convivenze non
paraconiugali alla espressione persona stabilmente convivente. Del resto apparirebbe quanto meno
singolare dare rilevanza, ai fini della individuazione della portata sostanziale di una espressione
normativa, alla terminologia adoperata da altri interventi normativi, sia pure nella descrizione dello
stesso fenomeno, e non tener conto, invece, di termini adoperati dalla stessa legge contenente
l’espressione di cui si intende individuare il significato.
In tale ottica non si può non considerare, pur rinviandone l’approfondimento, che in tutte
le norme della L. n. 6 del 2004 in cui è richiamata la persona stabilmente convivente essa è indicata
subito dopo il coniuge, salvo che nell’art 407, comma 1°, c.c. ove, a conferma a mio avviso della
tesi qui sostenuta (riconducibilità delle sole convivenze paraconiugali alla espressione persona
stabilmente convivente), si fa riferimento ai “conviventi”, senza alcun cenno alla stabilità del
rapporto e non subito dopo l’indicazione del coniuge.
In definitiva, alla luce delle osservazioni appena compiute (alcune delle quali saranno
meglio sviluppate nel prosieguo), l’espressione “persona stabilmente convivente”, impiegata nelle
norme affidate alla l. n. 6 del 2004, sembra presentare un significato più ristretto rispetto a quello
prospettato da altra parte della dottrina, tale da ricomprendere solo il convivente more uxorio
(eterosessuale e omosessuale) e non anche colui che abbia una stabile convivenza non
paraconiugale. Quest’ultimo potrebbe pur sempre essere designato, con apposito atto, dalla persona
interessata alla misura di protezione o chiamata all’incarico dal giudice tutelare in quanto ritenuto
persona idonea alla realizzazione degli interessi della persona da proteggere, pur essendo estranea
alla cerchia in senso lato familiare dell’interessato.
Quanto al modo in cui l’interprete dovrà valutare la stabilità della convivenza bisogna
osservare come un indice significativo della stabilità27 del rapporto di fatto potrebbe essere
considerata la nascita di figli, in quanto manifesterebbe all’esterno, proprio per i doveri di
protezione e tutela, seppure verso i figli, l’esistenza di una famiglia di fatto .
Sebbene la tutela della prole prescinda dalla sussistenza del vincolo coniugale, la scelta
dei genitori naturali di convivere rappresenta un indubbio indice di “completezza” familiare,
socialmente rilevante. Tale indice trova però il suo limite intrinseco nel non poter essere esteso ad
alcune convivenze more uxorio (specie quelle tra omosessuali) e alle convivenze non paraconiugali
per le quali naturalmente andranno individuati criteri diversi.
Altro elemento da non sottovalutare è la durata della convivenza.
Tale carattere risulta senza dubbio di più facile accertamento in esperienze giuridiche
dove si prescrive una durata minima, e, soprattutto, si individua, senza incertezze, il dies a quo della
convivenza, accertato da una iscrizione anagrafica o, comunque, a rilevanza pubblica.
26
27
G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Torino 2002, pp. 34 ss.
T. Auletta, Il diritto di famiglia, Torino 2000, p. 14.
Diverso discorso va fatto per il nostro ordinamento che, come è noto, non dando uno
statuto generale alla convivenza more uxorio e assicurando solo in via di interpretazione dottrinale e
giurisprudenziale, a parte le ipotesi normative in cui è dato risalto alla stessa, diritti e garanzie ai
conviventi more uxorio, finisce in definitiva per rimettere al giudice la verifica del carattere della
stabilità con il palese rischio di incertezza che ne deriva.
Alcune decisioni della giurisprudenza e alcune leggi regionali in materia di edilizia
28
popolare prevedono per i conviventi che vogliono succedere all’assegnatario, che la stabile
convivenza duri da almeno due anni. Invece alcune posposte di legge per regolamentare la
convivenza more uxorio richiedono (come requisito minimo per ottenere il riconoscimento della
loro unione dall’Ufficiale di Stato civile) che i conviventi siano insieme da almeno un anno.
La legge sull’amministratore di sostegno non prende posizione a riguardo riferendosi
genericamente alla figura della persona stabilmente convivente.
A parere di chi scrive per convivenza familiare more uxorio deve intendersi la stabile
comunione di vita spirituale e materiale tra due persone non coniugate tra loro, dello stesso sesso o
di sesso diverso, con fissazione di una comune dimora abituale continuativa per almeno tre anni.
Diverso discorso va fatto, invece, per altre forme di convivenze che, pur non avendo
carattere paraconiugale, rientrerebbero comunque (secondo una parte della dottrina) nel concetto di
convivenza richiamato dalla normativa in materia di amministrazione di sostegno. Con riferimento
ad esse andranno proposte soluzioni diverse. Ad esempio nel caso della domestica assunta al fine di
assistere una data persona, il carattere della stabilità potrebbe essere rintracciato, come attentamente
sottolineato da un autore29, nella stessa circostanza che è in atto un rapporto di lavoro,
tendenzialmente proiettato a svolgersi nel tempo e, come tale, per sua natura stabile, seppure a
rischio di scioglimento, per scelta del datore di lavoro o del dipendente.
Si riconosce in questo modo pienamente il valore della convivenza more uxorio la quale,
seppure non unica (secondo la tesi di parte della dottrina), sembra essere, data la scelta del termine
utilizzato30, la ipotesi principale da ricondurre al concetto della “stabile convivenza”.
Individuato il significato della espressione persona stabilmente convivente, è possibile ora
analizzare le diverse disposizioni della legge in esame che, richiamando per motivi diversi la figura
della persona stabilmente convivente, devono essere lette, alla luce di quanto detto in precedenza,
come una chiara apertura del legislatore verso la c.d. famiglia di fatto.
La l.. n. 6 del 2004 detta la disciplina processuale del nuovo istituto dell’amministrazione
di sostegno affidandola non solo a norme inserite nel novellato XII titolo del I libro del codice
civile (artt. 405 e 407 c.c.), ma anche al nuovo art. 720 bis c.p.c., che estende l’ambito di
applicazione della disciplina processuale dell’interdizione al nuovo istituto, sia pure con il filtro
della riserva di compatibilità e con l’esclusione di quanto disposto dagli artt. 714, 715, 717, 718
c.p.c. Tale estensione costituisce chiaro indice dell’affinità strutturale dei due istituti.
Entrambi i procedimenti hanno i caratteri propri dei processi a contenuto oggettivo quali
l’oggetto dell’accertamento (costituito non da un diritto soggettivo ma da una situazione di fatto,
ossia l’infermità o la menomazione fisica), la prevalenza del principio inquisitorio, l’estensione dei
poteri ufficiosi del giudice, il fondamento della legittimazione al ricorso introduttivo e la
compressione del principio della domanda e di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (per la
possibilità di archiviazione della domanda).
Il forte legame esistente sul piano della disciplina processuale tra l’amministrazione
di sostegno e l’interdizione (e l’inabilitazione) si manifesta anche nella individuazione dei soggetti
legittimati a chiedere tali misure di protezione.
L’art. 406, 1° comma, c.c. stabilisce, infatti, che il ricorso per l’amministrazione di
sostegno può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario, anche se minore, interdetto o
inabilitato, ovvero da uno dei soggetti indicati nell’art. 417 c.c (coniuge, persona stabilmente
28
Sul tema, v. in questo lavoro ampiamente Bove, Parte III, cap. 1.
G. Bonilini, Manuale di diritto di famiglia, Torino 2002, p. 216.
30
La L. n. 6 del 2004 utilizza l’espressione “stabilmente convivente”.
29
convivente, parenti entro il quarto grado, tutore o curatore ovvero dal pubblico ministero) 31. E’
opinione pacifica che tale elencazione tassativa non implichi un ordine di precedenza tra le persone
indicate, cosicché la domanda può essere presentata da uno qualunque dei legittimati, il quale ha
solo l’obbligo di nominare nel ricorso gli altri soggetti. Si deve ritenere che il legislatore abbia
individuato i soggetti legittimati al ricorso, senza alcuna predilezione per uno di essi 32, tenendo
conto principalmente di quelle persone che sono o dovrebbero essere, per vincoli parentali o di
natura diversa (coniugio o convivenza33), più vicini alla persona del beneficiario. Anche con
riguardo alla legittimazione della “persona stabilmente convivente”, alcuni autori34 ritengono che il
legislatore abbia voluto riferirsi esclusivamente alla cd. convivenza more uxorio e non ad altre
forme di convivenza - che sarebbe più corretto definire coabitazione - fondate su un vincolo diverso
dalla maritalis affectio, il che, tra l’altro, viene avallato dalla menzione, nell’art. 417 c.c., del
convivente immediatamente dopo il coniuge. L’obiettivo della norma è quello di consentire alle
persone materialmente ed emotivamente più vicine al disabile di prendersi cura di lui facendosi
portavoce delle sue esigenze di protezione. In questo modo il destinatario del provvedimento è
sufficientemente garantito nei confronti di eventuali iniziative provenienti da soggetti la cui
sostanziale estraneità rispetto alla vita ed alle vicende personali dell’interessato non consente una
corretta e ponderata valutazione della condizione e delle esigenze di quest’ultimo. E’ stata sollevata
una questione di costituzionalità35 sulla legittimazione della persona stabilmente convivente alla
richiesta di interdizione, nella parte in cui non viene specificato il limite della rilevanza della
convivenza e previsto un sistema di accertamento, che prescinda da unilaterali e incerte
affermazioni del convivente. In sostanza non sembra corretto che un soggetto affermi di essere
convivente di un altro per richiedere un provvedimento di interdizione verso chi non è in grado di
confermare tale convivenza ed è costretto a subire il procedimento di incapacità 36. Senza dubbio la
dottrina appena richiamata ha il merito di aver individuato uno dei principali problemi della legge in
commento circa la qualificazione della convivenza stabile e la individuazione di un sistema di
accertamento della stessa. Tuttavia essa perviene a delle conclusioni non condivisibili in quanto la
novella si colloca sulla scia di una tendenza legislativa ad una progressiva equiparazione, sia pure
per specifici profili, della famiglia non fondata sul matrimonio alla famiglia legittima, sulla base
proprio di principi costituzionali quali sono espressi dagli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.
Con riguardo all’amministrazione di sostegno, l’art. 407 c.c., integrato da quanto previsto
per l’interdizione dall’art. 712 c.p.c. (applicabile all’amministratore di sostegno in virtù del
richiamo operato dal nuovo art. 720 bis c.p.c.), indica quali elementi essenziali del ricorso per la
Competente a nominare l’amministratore di sostegno è il giudice tutelare del luogo in cui la persona da assistere ha
la residenza o il domicilio, il quale provvede con decreto motivato entro sessanta giorni dalla presentazione della
richiesta da parte dei soggetti indicati all’art. 417 c.c. Il primo aspetto che va sottolineato con riferimento a detta
statuizione attiene ai tempi rapidi per la nomina dell’amministratore di sostegno che, come appena evidenziato, deve
avvenire entro sessanta giorni dalla data di presentazione della richiesta al giudice tutelare. Novità importante rispetto
ai procedimenti di interdizione e di inabilitazione, che rimangono di competenza del tribunale, è l’attribuzione della
competenza, in materia di amministrazione di sostegno, al giudice tutelare. Su tale scelta del legislatore deve aver inciso
la maggiore distribuzione sul territorio di tale ufficio giudiziario e, pertanto, la possibilità, da parte di quest’ultimo, di
conoscere meglio fatti e persone rispondendo così alle reali esigenze degli interessati. Dal punto di vista territoriale,
occorre fare riferimento al luogo in cui la persona bisognosa di protezione “ha la residenza o il domicilio”. I due criteri
di collegamento sono analoghi a quelli previsti dall’art. 712, comma 1, c.p.c. per il procedimento di interdizione e
inabilitazione e sono da ritenersi tra loro alternativamente concorrenti, purché effettivi. La competenza è inderogabile ai
sensi dell’art. 28 c.p.c., trattandosi di procedimento in camera di consiglio.
32
Ad esempio per il coniuge rispetto al convivente stabile.
33
A nostro avviso solo more uxorio, mentre anche non paraconiugale secondo altra parte della dottrina.
34
V. Zambrano, Dell’amministrazione di sostegno, in G. Autorino, P. Stanzione, V. Zambrano (a cura di),
Amministrazione di sostegno, Utet, Milano 2004, pp. 123 ss.; E. Ruscello, Amministrazione di sostegno e tutela dei
disabili impressioni estemporanee su una recente legge, in «Studium iuris», n.1, 2004, p. 150.
35
E. V. Napoli, L’infermità di mente – L’interdizione – L’inabilitazione, in Il Codice Civile - Commentario (Artt. 414 –
432) diretto da P. Schlesinger, Milano 1991, p. 21.
36
Senza dubbio maggiori sono le difficoltà di accertamento dello stato di coniugio, di parentela entro il quarto grado o
di affinità entro il secondo grado, o di tutore o curatore, unici legittimati privati nel codice del 1942.
31
nomina dell’amministrazione di sostegno: a) le generalità del beneficiario; b) la sua dimora
abituale; c) le ragioni per cui si chiede la nomina dell’amministratore di sostegno; d) il nominativo e
il domicilio, se conosciuti, del ricorrente, del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e
dei conviventi del beneficiario. Particolare rilevanza, ai fini della presente indagine, assume l’ultimo
elemento, indicato alla lettera d). A riguardo si sottolinea da parte della dottrina come, con una certa
sciatteria, la legge prescriva che si debbano indicare nel ricorso con il loro “nominativo” il coniuge,
i discendenti, gli ascendenti, i fratelli e i “conviventi” del beneficiario. L’interpretazione da dare a
questo riferimento ai conviventi pone, a mio avviso, una serie di quesiti. Perchè il legislatore
utilizza in tale ipotesi il termine “conviventi del beneficiario” e non quello di “persona stabilmente
convivente” (espressione adoperata in tutte le altre disposizioni di detta legge che fanno riferimento
alla convivenza)? Perché il legislatore colloca materialmente il richiamo ai conviventi dopo quello
agli ascendenti e non, come negli altri casi, dopo il riferimento al coniuge? Per quale motivo
utilizza il plurale e non il singolare come negli altri casi? Perché non fa alcun riferimento alla
stabilità del rapporto? Queste differenze sono frutto di una semplice disattenzione del legislatore o
viceversa esprimono la volontà di distinguere forme diverse di convivenza (convivenza non
paraconiugale e convivenza more uxorio) cui riconoscere una diversa rilevanza?
Parte della dottrina 37 si limita ad affermare, dando così per scontato che si tratti di una
svista del legislatore, che tale riferimento al plurale vada rivolto al singolare, essendo chiaro il
riferimento qui operato alla persona stabilmente convivente, che la legge indica quale legittimata al
ricorso e designata a titolo preferenziale all’ufficio di amministratore di sostegno. Altra parte della
dottrina ha ritenuto, invece, che l’ampia dizione in esame non costituisca il frutto di un semplice
lapsus calami, ma sia stato pensato per includere nella sfera di operatività della norma non solo il
convivente more uxorio (eterosessuale o omosessuale) ma qualsiasi soggetto che coabiti. Secondo
tali autori, però, sarebbe giocoforza concludere che per persona stabilmente convivente non debba
intendersi soltanto il soggetto che vive con l’interessato una relazione paraconiugale, ma altresì
qualsivoglia soggetto che coabiti stabilmente con lo stesso. Personalmente concordo con coloro38
che, escludendo che si tratti di un lapsus calami, dubitano che il legislatore abbia inteso alludere
con l’espressione “conviventi” soltanto alle convivenze more uxorio. La tesi contraria
presupporrebbe, peraltro, la possibilità, assai improbabile nella nostra esperienza, sia pure
limitatamente al campo extramatrimoniale, di una incrinatura del principio monogamico. Tuttavia
non condivido l’utilizzo della dizione in esame, unita ad altre circostanze, per sostenere che
l’espressione “persona stabilmente convivente” (utilizzata in tutti gli altri articoli della legge in
esame) sia comprensiva non solo della convivenza more uxorio (tra eterosessuali o omosessuali),
ma anche di convivenze non paraconiugali (amico o domestica che semplicemente coabiti con il
beneficiario). A mio avviso proprio l’argomento letterale permette di escludere la tesi appena
prospettata. Se le convivenze non paraconiugali fossero state già comprese nella espressione
“persona stabilmente convivente” non sarebbe stato necessario utilizzare la diversa e più ampia
espressione “conviventi”. Evidentemente con tale riferimento il legislatore ha inteso soddisfare una
determinata esigenza. Probabilmente si è inteso mettere il giudice, mediante il possibile
coinvolgimento di ulteriori soggetti39 (convivente anche non paraconiugale) nel procedimento, in
condizione di “assumere tutte le necessarie informazioni” per una decisione consapevole in merito
all’apertura dell’amministrazione di sostegno nonché alla nomina del titolare di detto ufficio. In
tale prospettiva si osserva, infatti, come l’omessa menzione del nominativo e del domicilio di tali
soggetti, dato il temperamento della obbligatorietà di dette indicazioni, derivante dalla clausola “se
conosciuti dal ricorrente”, pur non comportando alcuna conseguenza in ordine alla validità e
all’ammissibilità del ricorso, determina la necessità di acquisire, anche d’ufficio, le loro generalità
F. Tommaseo, La disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in «Familia Quaderni», n. 4, 2005, pp. 190
ss.
38
B. Malavasi, L’amministrazione di sostegno: le linee di fondo, in «Notariato», n. 3, 2004, p. 324; G. Bonilini,
Manuale di diritto di famiglia, Torino 2002, p. 209.
39
Rispetto al quale sembra essere funzionale l’indicazione nel ricorso.
37
nel prosieguo del procedimento. Si tratterebbe in sostanza di soggetti che non sono parti in senso
proprio ma sono comunque considerati dal legislatore fonti di utili informazioni per il giudice .
Invero questa regola rende palese, come attentamente osservato 40, che i soggetti indicati nel ricorso
non sono parti necessarie del giudizio di apertura dell’amministrazione di sostegno: il giudice
ordina di notificare il decreto non già a tutti i soggetti legittimati a proporre la domanda
introduttiva, ma soltanto a quelli che, fra costoro, appaiono in grado di dare utili informazioni. La
regola non vuol quindi radicare il contraddittorio nei confronti di parti necessarie del procedimento,
ma ha solo lo scopo di consentire al giudice di individuare, utilizzando le indicazioni contenute nel
ricorso introduttivo, quanti possano dare utili informazioni e soddisfare così, sia pure in forme
particolarmente energiche, le esigenze istruttorie di un procedimento di giurisdizione oggettiva.
Infine si evidenzia come l’elencazione dei soggetti che debbono essere indicati nel ricorso
(coniuge, discendenti, ascendenti e conviventi del beneficiario) coincide solo in parte con quella dei
legittimati attivi (coniuge, persona stabilmente convivente, parenti entro il quarto grado, affini entro
il secondo grado) e con quelle dei designandi a titolo preferenziale (coniuge non separato
legalmente, la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio, il fratello e la sorella, il
parente entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento,
atto pubblico o scrittura privata). Tale parziale coincidenza tra le elencazioni in esame emerge non
solo in ordine alla convivenza, ma anche con riferimento ai rapporti di coniugio, parentela e
affinità. Relativamente al rapporto di coniugio, si osserva, come solo nell’elencazione dei soggetti
designandi a titolo preferenziale si faccia riferimento allo stato di non separazione legale,
ammettendo così implicitamente che il coniuge separato legalmente rientri a pieno titolo nella
diversa elencazione dei soggetti da indicare nel ricorso e di quella dei legittimati attivi. Con
riferimento al rapporto di parentela si sottolinea, invece, come solo nell’elencazione dei legittimati
attivi si faccia esclusivo riferimento alla parentela entro il quarto grado, passando, invece, ad una
più precisa indicazione dei parenti nelle altre due indicazioni. Infine, relativamente all’affinità, si
sottolinea come la stessa sia richiamata solo nella elencazione dei legittimati attivi. La ragione di
tale parziale coincidenza tra le elencazioni appena esaminate va evidentemente ricercata nella
diversità di interessi ed esigenze che le stesse sono chiamate a soddisfare e che evidentemente
hanno costituito per il legislatore validi criteri di scelta.Nella costruzione dell’elenco dei legittimati
attivi si è evidentemente fatto riferimento non solo ai più stretti congiunti del beneficiario, ma anche
a coloro che si trovano costantemente in contatto con il medesimo e quindi sono maggiormente in
grado di rendersi conto della opportunità per il beneficiario di essere assistito e/o rappresentato da
un amministratore per il compimento di specifici atti. In questa prospettiva si spiega la
legittimazione del coniuge, anche separato legalmente, il richiamo generico ed ampio alla parentela
entro il quarto grado e il riferimento, solo in questa sede, agli affini entro il secondo grado. Diversi
criteri sembrano, invece, aver guidato il legislatore nella individuazione dei soggetti da indicare nel
ricorso. Probabilmente, in questa sede, il legislatore ha tenuto conto non solo del legame esistente
con il possibile beneficiario della misura, ma anche della utilità delle informazioni che da essi
possono provenire. Va infatti sottolineato come il ricorso debba essere notificato solo ai soggetti
che vi sono indicati semprechè il giudice ritenga di poterne avere utili informazioni. In questa logica
si giustificano il riferimento al coniuge anche separato legalmente, quello agli ascendenti e ai
discendenti (e non genericamente ai parenti entro il quarto grado), quello ai conviventi (espressione
comprensiva non solo delle convivenze more uxorio, ma anche delle convivenze non paraconiugali)
e il mancato riferimento agli affini (non aventi necessariamente con il beneficiario un rapporto tale
da far presumere l’utilità delle loro informazioni).
Infine, relativamente all’elenco dei soggetti designandi a titolo preferenziale, si osserva
preliminarmente come l’art. 408 c.c. preveda che la scelta dell’amministratore di sostegno avvenga
con esclusivo riferimento alla cura e agli interessi della persona del beneficiario. Proprio alla luce di
tale criterio va letta la individuazione dei soggetti capaci dell’investitura di amministratore di
40
F. Tommaseo, La disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in «Familia Quaderni», n. 4, 2005, p. 190.
sostegno. A riguardo si sottolinea come il giudice tutelare nomini la persone designata (indicata in
funzione di una nomina ad opera di altri) dall’interessato, ma, in mancanza di designazione o,
sussistendo gravi motivi che portino a disattenderlo, debba nominare altro soggetto, scegliendo
preferibilmente tra quelli elencati dal legislatore (coniuge non separato legalmente, persona
stabilmente convivente, padre, madre, figli o fratello o sorella, il parente entro il quarto grado
ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata
autenticata, oppure, quando ne ravvisi l’opportunità, altra persona idonea).
Quanto appena sottolineato dimostra che il legislatore reputa più adatti alla realizzazione
degli interessi del beneficiario della misura - salvo le ipotesi di designazione (nelle quali la idoneità
del soggetto è valutata dallo stesso beneficiario o comunque da una persona a lui direttamente
legata, quale il genitore superstite) - soggetti legati al beneficiario da stretti vincoli familiari o di
convivenza tali da poter far presumere il corretto svolgimento dell’incarico.
In questo quadro si giustificano il riferimento al solo coniuge non legalmente separato41,
alla persona stabilmente convivente (e non ai meri conviventi), il preciso riferimento a determinati
parenti entro il quarto grado e il mancato richiamo agli affini42.
Quindi sembra corretto ritenere che il legislatore - sia pure solo con riferimento al limitato
aspetto regolato dall’art. 407, primo comma, c.c. e per soddisfare determinate esigenze istruttorie abbia inteso fare riferimento, mediante l’utilizzo di una terminologia in parte diversa 43, anche a
categorie di rapporti non riconducibili alla convivenza more uxorio.
Del resto solo questa interpretazione sembra assicurare un senso alla norma in esame,
escludendo il sospetto di una svista del legislatore.
Verosimilmente con la disposizione oggetto di attenzione si è inteso soddisfare l’esigenza
di sentire, prima di procedere alla nomina dell’amministrazione di sostegno, non solo persone legate
da vincolo familiare in senso lato quali il coniuge, il convivente more uxorio (cui è esclusivamente
riconducibile, almeno secondo parte della dottrina, l’espressione “persona stabilmente convivente”)
e parenti, ma anche chi, per motivi di lavoro o per rapporti di tipo amicale, semplicemente coabiti
con l’interessato alla misura di protezione.
In definitiva siffatta interpretazione della norma in esame dimostra, a mio avviso, anche
alla luce delle considerazioni fatte in precedenza e di quelle che seguiranno, come la portata
sostanziale della espressione normativa persona stabilmente convivente vada ridimensionata,
collegando la stessa alla sola convivenza more uxorio ed escludendo, in contrasto con quanto
sostenuto da altra parte della dottrina, chi semplicemente coabiti con l’interessato
all’amministrazione di sostegno.
Ad ogni modo, a prescindere dalla tesi che si scelga di seguire sulla portata sostanziale
dell’espressione normativa “persona stabilmente convivente”, emerge con chiarezza anche dalla
norma in esame il pieno riconoscimento del valore della convivenza more uxorio operato dalla L. n.
6 del 2004.
Relativamente alle istanze di interdizione e inabilitazione emerge nell’operazione
ermeneutica lo scarso coordinamento normativo tra l’art 407 c.c.(in materia di amministrazione di
sostegno) e l’art. 712, ult. comma, c.p.c il quale, nell’individuare il contenuto della domanda per la
interdizione o inabilitazione, richiede, fra l’altro, l’indicazione del nome e cognome oltre che la
residenza44del coniuge, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado ma non
anche, a differenza del citato art. 407 c.c. in materia di amministrazione di sostegno, dei conviventi
(espressione alla quale, come si è visto, sono riconducibili sia le convivenze more uxorio sia quelle
non paraconiugali).
41
La situazione conflittuale normalmente esistente a seguito della separazione sarebbe incompatibile con il corretto
svolgimento dell’incarico.
42
Probabilmente in ragione della volontà di assegnare in primo luogo alla famiglia di origine il ruolo centrale di tutela
del disabile, sull’esempio della corrispondente normativa tedesca e di quella austriaca.
43
Conviventi del beneficiario e non persona stabilmente convivente.
44
E non il domicilio come nell’analoga norma in materia di amministrazione di sostegno.
Tale mancato riferimento ai conviventi va imputato, a mio modesto avviso, non ad un
giudizio negativo del legislatore nei confronti del fenomeno della convivenza, che riguarderebbe
peraltro in questo caso il limitato aspetto del contenuto della istanza di interdizione e di
inabilitazione, bensì ad un difetto di coordinamento della norma in esame (nata in una cornice
ordinamentale che alcuna rilevanza riconosceva al convivente) con le nuove norme in materia di
interdizione e di inabilitazione, dalle quali, come la restante analisi della normativa confermerà, è
desumibile l’importante ruolo attribuito al fenomeno della convivenza. Ciò ci permette, pertanto, di
estendere anche ai procedimenti di interdizione e di inabilitazione le considerazioni già compiute
sull’utilizzo della espressione conviventi , alle quali si rinvia.
Il giudice tutelare, esercitando i poteri indicati e attribuiti dall’art. 713 c.p.c. (al quale
rinvia l’art. 720 bis c.p.c.) al presidente del tribunale nei giudizi di interdizione, fissa, con decreto
in calce al ricorso, l’udienza di comparizione davanti a sé, ordina al cancelliere di comunicarlo al
pubblico ministero e assegna un termine al ricorrente per la notifica del ricorso (con il decreto), non
solo all’inabile (naturalmente parte necessaria del procedimento), ma anche alle persone indicate
nell’atto introduttivo le cui informazioni ritenga utili.
Proprio il fatto che il giudice ordini di notificare il ricorso con il decreto non a tutte le
persone indicate nel ricorso ma soltanto a quelle che, fra costoro, sembrano in grado di fornire
informazioni utili, dimostra che la indicazione nel ricorso e la partecipazione al procedimento del
coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario, non mirano
a soddisfare l’esigenza di radicare il contraddittorio, ma soltanto a fornire utili informazioni e
soddisfare esigenze istruttorie.
Tali regole (contenute nel già citato art. 407, 1° comma, c.c. là dove si prescrive di
corredare il ricorso anche delle indicazioni del nominativo e del domicilio del coniuge, dei
discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario, e nel commentato art. 713
c.p.c.) non possono non legarsi alle norme racchiuse nel successivo secondo comma dell’art. 407
c.c., nel quale si impone al giudice tutelare (al quale sono riconosciuti ampi poteri istruttori) di
provvedere “assunte le necessarie informazioni e sentiti i soggetti di cui all’art. 406 c.c. (che
richiama i soggetti menzionati nell’art. 417 c.c. fra i quali vi è anche la persona stabilmente
convivente).
La coincidenza solo parziale tra l’elenco delle persone da indicare nel ricorso ai sensi
dell’art. 407 1° comma, c.c. quello dei soggetti di cui all’art 406 c.c. che il giudice tutelare deve
sentire prima di provvedere, fermo restando che il ricorso deve essere notificato solo ai soggetti che
vi sono indicati, semprechè il giudice ritenga di poterne avere utili informazioni, induce a ritenere, a
mio avviso, che il legislatore abbia inteso di poter45 presumere l’utilità delle sole informazioni
provenienti da quei soggetti legati da vincolo familiare in senso lato con l’interessato
all’amministrazione di sostegno (ossia i soggetti indicati nell’art.406 c.c., tra i quali figurano il
coniuge, la persona stabilmente convivente, i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il
secondo) rimettendo invece al giudice la valutazione di tale interesse con riferimento agli altri
soggetti indicati nel ricorso ai sensi dell’art. 407 1° comma, c.c. ossia “parenti entro il quarto
grado” e “conviventi” (termine quest’ultimo comprensivo, come è già stato sottolineato, anche
delle convivenze non paraconiugali ).
Probabilmente si è inteso fare riferimento, nel quadro degli ampi poteri istruttori del
giudice, all’opportunità di sentire, prima di procedere all’istituzione dell’amministrazione di
sostegno, non solo le persone legate da vincolo familiare in senso lato con l’interessato
all’amministrazione di sostegno di cui all’art. 406 c.c., tra i quali rientra la “persona stabilmente
convivente”(espressione riferibile, a mio avviso al solo convivente more uxorio) ma anche gli altri
soggetti indicati nel ricorso ai sensi dell’art. 407, 1° comma, c.c. ossia parenti in linea retta anche
L’audizione è obbligatoria quando una norma giuridica impone al giudice di sentire determinate persone. Detti
soggetti hanno un vero e proprio diritto soggettivo ad essere sentiti, perciò il giudice è obbligato a sentirli, anche se non
è vincolato dall’opinione da questi espressa.
45
oltre il quarto grado e conviventi (termine quest’ultimo comprensivo sia delle convivenze more
uxorio sia delle convivenze non paraconiugali).
Le osservazioni appena espresse, alla luce anche delle considerazioni altrove compiute,
costituiscono, a mio avviso, un ulteriore argomento a favore della tesi secondo la quale la portata
sostanziale della espressione normativa persona stabilmente convivente va ridimensionata,
collegando la stessa alla sola convivenza more uxorio ed escludendo, in contrasto con quanto
sostenuto da altra parte della dottrina, chi semplicemente coabiti con l’interessato
all’amministrazione di sostegno.
A conferma di tale ricostruzione si sottolinea come il coniuge, i parenti entro il quarto
grado e gli affini entro il secondo grado – soggetti che, come la persona stabilmente convivente, il
giudice deve ascoltare ai sensi dell’art. 407, 3° comma, c.c.- sono persone legate al beneficiario da
uno stretto46 vincolo familiare e da un forte sentimento di solidarietà familiare, alle quali può essere
accostata la sola figura del convivente more uxorio ma non anche chi, per motivi di lavoro o per
rapporti di tipo amicale, semplicemente coabiti stabilmente con l’interessato alla misura di
protezione. Del resto se il legislatore avesse voluto far riferimento anche alle convivenze non
paraconiugali avrebbe potuto utilizzare la più ampia espressione “conviventi”, peraltro già
adoperata nel 1° comma del medesimo art. 407 c.c.
Se le convivenze non paraconiugali fossero state già comprese nella pur ampia espressione
“persona stabilmente convivente” non sarebbe stato necessario utilizzare la diversa e più ampia
espressione “conviventi” nel solo 1° comma dell’art. 407 c.c., per ritornare poi alla prima
espressione nel 3° comma del medesimo articolo e negli articoli successivi della legge in esame.
Evidentemente con il riferimento ai conviventi, come è stato già sottolineato, il legislatore ha inteso
soddisfare determinate esigenze istruttorie.
Anche in questo caso il legislatore dimostra di essere consapevole che, nel mutato contesto
storico - connotato dai caratteri del pluralismo culturale, delle diversità sociali e dell’autonomia
degli individui - il legame familiare legittimo non costituisce più l’unico esclusivo modello di
strutturazione della società e la famiglia di fatto si pone come modello di aggregazione individuale
e struttura sociale alternativa alla famiglia legittima. In definitiva la legge prende atto della pluralità
delle relazioni familiari esistenti nel nostro paese e del dato fattuale che sempre più persone
decidono di costruire un rapporto affettivo e di reciproca solidarietà non utilizzando l’istituto
matrimoniale.
Considerazioni analoghe possono essere compiute con riferimento al procedimento di
interdizione.
Gli atti successivi alla proposizione delle istanze di interdizione e di inabilitazione
trovano la loro disciplina nell’art. 419 c.c. e negli artt. 713-714 c.p.c47. Nel corso del procedimento,
il Presidente del tribunale48 ordina la comunicazione del ricorso al pubblico ministero, nomina il
giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione del ricorrente, dell’interdicendo e delle altre
persone indicate nel ricorso le cui informazioni, secondo la sua discrezionalità ritenga utili.
Il ricorso e il decreto sono comunicati a cura del ricorrente a dette persone (art. 713 c.p.c.).
Nel corso dell’udienza di comparizione il giudice istruttore, con l’intervento del pubblico
ministero, esamina l’interdicendo, sente il parere della altre persone citate, le interroga sulle
circostanze che ritiene rilevanti ai fini della decisione e può disporre anche d’ufficio l’assunzione
di ulteriori informazioni (art. 714 c.p.c.), avvalendosi degli poteri istruttori che l’art. 419 c.c. gli
mette a disposizione. Potrà quindi farsi assistere da un consulente tecnico e, anche d’ufficio,
46
Gli artt. 410, ult. comma, e 426 c.c. fanno riferimento ai soli ascendenti e discendenti e non anche ai parenti entro il
quarto grado.
47
Naturalmente in quanto compatibile e considerato che per l’amministrazione di sostegno non è previsto un intervento
del presidente del tribunale.
48
È da sottolineare come l’ampiezza dei poteri del giudice in materia denoti la presenza di un interesse generale ad
assicurare la protezione del soggetto che si pretende essere incapace.
disporre i mezzi istruttori utili ai fini del giudizio, interrogare i parenti prossimi dell’interdicendo o
inabilitando e assumere le necessarie informazione (art. 419 c.c.).
Tacendo di altri profili (non particolarmente rilevanti ai fini della nostra indagine) è
opportuno sottolineare preliminarmente lo scarso coordinamento normativo delle disposizioni del
codice di rito sull’interdizione e sull’inabilitazione (che ora trovano applicazione anche per il
procedimento di amministrazione di sostegno) e le modifiche apportate dalla L. n. 6 del 2004 alla
disciplina racchiusa nel codice civile, difetto questo che rivela una realtà normativa contorta e di
non semplice interpretazione.
Le disposizioni in esame pongono alla nostra attenzione diversi quesiti.
Perché si fa riferimento al parere e non all’audizione delle altre persone citate? Perché
non si opera alcun riferimento, neanche indiretto, all’audizione della persona stabilmente
convivente?
Con riferimento al primo punto va preliminarmente chiarito che in numerosi procedimenti
di volontaria giurisdizione il giudice, prima di emettere il provvedimento, deve sentire altri soggetti
e che soprattutto a seconda della natura del soggetto interpellato, ossia che si tratti di un altro
organo giudiziario o di soggetti estranei all’ordinamento giurisdizionale, si parlerà rispettivamente
di parere in senso tecnico o più propriamente di audizione49. In relazione alla fattispecie in esame
va osservato come sia evidente la estraneità all’ordinamento giurisdizionale dei soggetti dei quali il
giudice deve sentire il parere e che pertanto si debba concludere che in detta fattispecie non si sia di
fronte ad un parere in senso tecnico, bensì ad una audizione avente medesime natura e funzione
dell’audizione già analizzata nell’ambito del procedimento diretto all’istituzione
dell’amministrazione di sostegno.
Con riferimento al secondo quesito va sottolineato come la L. n. 6 del 2004 non abbia
minimamente modificato le norme relative ai procedimenti di interdizione e inabilitazione
contenute nel codice di procedura civile e che, con riferimento al procedimento diretto
all’istituzione dell’amministrazione di sostegno, si sia limitata, mediante il nuovo art. 720 bis
c.p.c., a richiamare dette disposizioni, fatta eccezione per gli artt. 714, 715, 717 e 719 c.p.c.
Da qui una serie di problemi di coordinamento tra la vecchia e la nuova normativa.
L’assenza di un qualsiasi riferimento anche indiretto all’audizione della persona
stabilmente convivente va imputato proprio ad un difetto di coordinamento, ossia alla mancata
previsione della persona stabilmente convivente tra le persone da indicare nel ricorso ai sensi
dell’art.712 c.p.c., tra le quali, come è stato sottolineato, sarà il giudice a dover individuare, guidato
dal criterio della utilità delle informazioni in funzione della decisione finale, le persone chiamate a
comparire (persone citate) e, come tali, da ascoltare nella fase istruttoria (art 714 c.p.c.).
Alla luce delle osservazioni appena compiute si ritiene pertanto di poter confermare anche
per la fase istruttoria del procedimento di interdizione e inabilitazione le considerazioni fatte in
relazione al ruolo riconosciuto al convivente more uxorio nella istruttoria del procedimento diretto
alla istituzione dell’amministratore di sostegno, alle quali si rinvia.
Quanto ai criteri per la scelta dell’amministratore di sostegno (estesi alla scelta del tutore
dell’interdetto e del curatore dell’inabilitato50), la norma cardine è contenuta nell’art. 408 c.c., in
forza del quale, in mancanza di una preventiva designazione dell’amministratore da parte del
beneficiario51 o sussistendo gravi motivi52 che portino a disattenderla, il giudice tutelare nomina
altro soggetto, scegliendo preferibilmente tra il coniuge non separato legalmente, la persona
stabilmente convivente, la madre, il figlio, il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado
ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata
49
G. Santarcangelo, La volontaria giurisdizione, Giuffrè, Milano 2003, pp. 104-105.
Attraverso la sostituzione del 3° comma dell’art. 424 c.c. e il richiamo all’art 408 c.c.
51
In previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata.
52
Si pensi al caso in cui il designato sia nell’impossibilità di svolgere la funzione, perché deceduto, malato o a sua
volta incapace o ancora al caso in cui egli si sia reso responsabile di condotte pregiudizievoli per il beneficiario o
comunque confliggenti con i suoi interessi.
50
autenticata53. Rinviando a quanto già osservato in merito ai criteri probabilmente seguiti dal
legislatore nella costruzione di tale elenco di soggetti e non ponendosi particolari problemi di
individuazione delle altre categorie di soggetti, è necessario in questa sede soffermarsi sulla figura
della persona stabilmente convivente. Anche in questo caso si ripropone il problema della
individuazione della portata sostanziale della espressione “persona stabilmente convivente” e il
contrasto in merito tra le diverse opinioni emerse in dottrina. Ad una prima impostazione che, alla
luce di dati sistematici già individuati in precedenza, ritiene l’espressione in esame comprensiva
anche del soggetto estraneo e non necessariamente del solo convivente paraconiugale, si
contrappone altra ricostruzione che, invece, considera il termine persona stabilmente convivente
riferibile al solo convivente more uxorio, consolidando così la prassi normativa che mira alla
progressiva e sostanziale equiparazione del ruolo dalla famiglia di fatto a quella legittima. A favore
di quest’ultima ricostruzione sembrerebbero militare non solo gli argomenti già evidenziati, ma
anche le riflessioni derivanti dall’analisi attenta dell’elenco dei soggetti che il giudice deve preferire
ai sensi dell’art. 407 c.c. La mancanza di un ordine di preferenza tra i soggetti indicati, la menzione
del convivente immediatamente dopo il coniuge e la ratio delle norme in esame dirette a consentire
alle persone materialmente ed emotivamente più vicine al disabile di prendersi cura di lui facendosi
portavoce delle sue esigenze di protezione sembrano avallare tale ricostruzione. Ad ogni modo il
problema, soprattutto ai fini della nostra indagine, non va enfatizzato, in quanto il riferimento alla
persona stabilmente convivente e l’importante ruolo riconosciutole nel sistema di protezione degli
incapaci, a prescindere dalla tesi che si intenda seguire, devono essere letti come una chiara
apertura del legislatore verso la convivenza more uxorio che, come è stato già osservato, costituisce
se non l’unico almeno il principale fenomeno riconducibile al concetto di convivenza stabile, più
volte richiamato dalla l. n. 6 del 2004. In definitiva, l’equiparazione del soggetto stabilmente
convivente ai soggetti legati da vincoli parentali o di coniugio con il beneficiario dimostra che la
legge prende atto della pluralità delle relazioni familiari esistenti nella nostra società, operando così
un pieno riconoscimento del valore della convivenza more uxorio.
L’ultimo comma dell’art. 411 c.c., riprendendo le disposizioni sulla durata in generale della
tutela e della curatela (art.426 c.c.), sancisce che nessuno è tenuto a continuare nello svolgimento
dei suoi compiti oltre dieci anni ad eccezione dei casi in cui tale incarico è rivestito dal coniuge,
dalla persona stabilmente convivente, dagli ascendenti o dai discendenti.
Da queste disposizioni emerge ancora una volta l’importanza del ruolo che la riforma in
esame riconosce alla persona stabilmente convivente. Tale figura, come è stato già sottolineato,
non solo rientra tra i soggetti legittimati a chiedere l’adozione di una misura di protezione
dell’incapace ed è tra quelli che il giudice deve preferire, ove possibile, ai fini della designazione
dell’amministratore di sostegno (come del tutore o del curatore), ma compare anche tra quei
soggetti i quali, assunta la veste di amministratore (tutore dell’interdetto o curatore dell’inabilitato),
sono tenuti a continuare nello svolgimento dei loro compiti oltre dieci anni.
A riguardo però sorgono più quesiti. Perché il legislatore opera questa ulteriore
associazione della persona stabilmente convivente alla indicazione del coniuge e a quella degli
ascendenti e dei discendenti del beneficiario? Cosa accomuna detti soggetti alla persona
stabilmente convivente? A quali rapporti si intende alludere con l’utilizzo dell’espressione “persona
stabilmente convivente”? Quali sono le possibili conseguenze giuridiche della cessazione della
convivenza in rapporto alla prosecuzione dell’incarico?
In primo luogo va analizzata la ratio della norma.
Il decorso dei dieci anni è causa di cessazione dell’amministrazione (come della tutela e
della curatela) su richiesta dell’amministratore. Tuttavia la stessa disposizione fa salve le ipotesi in
53
Non indicati dalla norma in un ordine preferenziale e tutti in una posizione paritaria ai fini della designazione. Nella
scelta il giudice deve valutare l’idoneità di ciascuno di essi allo svolgimento dell’incarico e considerare chi nel caso
concreto abbia la più stretta relazione di vita e di assistenza con il beneficiario.
cui l’ufficio di amministrazione (tutela o curatela) sia ricoperto da soggetti legati all’incapace da un
vincolo familiare particolarmente stretto.
La legge, come è stato attentamente osservato54, si preoccupa di evitare che l’esercizio
della amministrazione di sostegno (della tutela o della curatela) divenga troppo gravoso a causa
della sua durata e perciò solleva gli “estranei” dall’obbligo di proseguire nelle loro funzioni per
oltre il decennio. L’obbligo, invece, permane per il coniuge, gli ascendenti e i discendenti, per
un’evidente ragione di solidarietà familiare che prevale sull’interesse ad essere liberato
dall’incarico55. Si deve ritenere ancora una volta che il legislatore abbia individuato tali soggetti
tenendo conto principalmente di quelle persone che sono o dovrebbero essere, per vincoli parentali
o di natura diversa come il coniugio e la convivenza, essere più vicine alla persona del beneficiario.
Si sottolinea infatti, ad ulteriore conferma di quanto appena sostenuto, come nelle norme in esame56
si faccia specifico riferimento solo agli ascendenti e ai discendenti e non anche ai parenti entro il
quarto grado (espressione comprensiva anche dei fratelli, dei cugini e di altri parenti in linea
collaterale). Probabilmente il legislatore ha visto in questi soggetti (coniuge, persona stabilmente
convivente, ascendenti e discendenti) e non negli altri gli unici capaci di sostenere il gravoso dovere
di continuare oltre dieci anni nello svolgimento dei compiti di amministratore di sostegno (tutore o
curatore).
Alla luce delle osservazioni appena compiute deve ritenersi condivisibile la tesi di quella
parte della dottrina secondo la quale la espressione normativa “persona stabilmente convivente” va
riferita esclusivamente alla convivenza more uxorio, espressione, questa, che tecnicamente induce
ad escludere chi semplicemente coabiti (convivenze non paraconiugali). A conferma di tale
ricostruzione si sottolinea come il coniuge, gli ascendenti e i discendenti - soggetti tenuti, come la
persona stabilmente convivente, a continuare oltre 10 anni lo svolgimento dei compiti di
amministratore di sostegno (tutore o curatore) - sono persone legate al beneficiario da uno stretto57
vincolo familiare e da un forte sentimento di solidarietà familiare, alle quali può essere accostata la
sola figura del convivente more uxorio ma non anche chi, per motivi di lavoro o per rapporti di tipo
amicale, semplicemente coabiti stabilmente con l’interessato alla misura di protezione. Del resto se
il legislatore avesse voluto far riferimento anche alle convivenze di tipo non paraconiugale avrebbe
potuto utilizzare la più ampia espressione “conviventi”, peraltro già adoperata nel 1° comma
dell’art. 407 c.c.
La stessa dottrina si è interrogata sulle possibili conseguenze giuridiche della cessazione
della convivenza in ordine alla prosecuzione dell’incarico. A riguardo si è ritenuto - analogamente a
quanto sostenuto per le ipotesi di sopravvenuta separazione personale , scioglimento del matrimonio
o cessazione degli effetti civili dello stesso - che il vincolo temporale imposto dall’art. 426 c.c.
debba ritenersi inapplicabile, con la conseguenza che il giudice non potrà mai costringere il
soggetto a continuare nell’ufficio per oltre dieci anni.
La possibilità di revoca dell’amministrazione di sostegno così come la possibilità di
sostituzione dello stesso sono la logica conseguenza della volontà del legislatore di creare con
l’istituto in esame uno strumento di promozione della persona del beneficiario che tenga conto delle
diverse forme di incapacità e della possibile temporaneità della situazione di incapacità (in senso
positivo verso la riacquisizione del pieno delle facoltà o in senso negativo rendendo inevitabile la
dichiarazione di interdizione e di inabilitazione).
54
G. Stella Richter, V. Sgroi, Delle Persone e della famiglia. Filiazione. Tutela degli incapaci, in Comm. cod. civ.,
Torino 1962, p. 667.
55
G. Stella Richter, V. Sgroi, Delle Persone e della famiglia. Filiazione. Tutela degli incapaci, in Comm. cod. civ.,
Torino 1962, p. 688.
56
L’art. 407, 1° comma c.c. fa riferimento fra gli altri non solo ai discendenti e agli ascendenti ma anche al fratello e
alla sorella. L’art. 408, 1° comma c.c. fa riferimento fra gli altri non solo al padre, alla madre e al figlio, ma anche al
fratello, alla sorella e al parente entro il quarto grado.
57
Gli artt. 410, ult. comma e 426 c.c. fanno riferimento ai soli ascendenti e discendenti e non anche ai parenti entro il
quarto grado.
Poichè la misura in esame è diretta a far fronte anche a situazioni temporanee di
debolezza58, allorchè il beneficiario, l’amministratore di sostegno, il pubblico ministero e taluno dei
soggetti di cui all’art. 406 c.c. (tra i quali rientra anche la persona stabilmente convivente) ritengano
che si siano determinati i presupposti per la cessazione dell’amministrazione di sostegno o per la
sostituzione dell’amministratore, rivolgono istanza motivata al giudice tutelare.
Con riferimento alla revoca va in primo luogo rilevato che il nuovo art. 413 c.c. individua
due ipotesi distinte: la revoca su istanza dei soggetti indicati (quando siano venuti meno i
presupposti della misura) e quella d’ufficio (quando la misura si sia rilevata inidonea a realizzare la
piena tutela del beneficiario).
In entrambi i casi si instaura un procedimento che ha gli stessi caratteri di quello di
apertura. Per l’art. 720 c.p.c., applicabile anche all’amministrazione di sostegno per effetto del
rinvio operato dal nuovo art. 720 bis c.p.c., nei giudizi di revoca dell’interdizione e
dell’inabilitazione “ si osservano le norme stabilite per la pronuncia di esse”.
L’applicazione di detta norma permette anche ai legittimati alla domanda di apertura
dell’amministrazione di sostegno di intervenire nel giudizio di revoca e di impugnare la decisione
sul reclamo anche se non hanno partecipato a tale giudizio.
Particolare attenzione ai fini della nostra indagine merita la revoca su istanza dei soggetti
indicati.
Anche in questo caso, infatti, sono legittimati il beneficiario stesso, l’amministratore di
sostegno, il pubblico ministero, il coniuge e la persona stabilmente convivente.
Stessa legittimazione è prevista per la differente ipotesi della sostituzione
dell’amministratore di sostegno di cui è fatta menzione nello stesso art. 413, 1° comma, c.c.,
accanto alla revoca alla cui disciplina è accomunata59.
Le disposizioni in esame non determinano il sorgere di particolari problematiche, in quanto
la legittimazione della persona stabilmente convivente alla revoca (peraltro naturale conseguenza
della legittimazione della stessa alla nomina dell’amministratore di sostegno), il rinvio alle norme
stabilite per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno e la possibilità, attribuita a coloro che
avevano diritto di promuovere tale misura di protezione, sia di intervenire nel giudizio di revoca per
opporsi alla domanda sia di impugnare la sentenza pronunciata in quest’ultimo procedimento,
permettono di rinviare a quanto già osservato in merito all’importante ruolo indubbiamente
riconosciuto, a prescindere dalla tesi che si scelga di seguire sulla portata sostanziale della
espressione normativa “persona stabilmente convivente”, al convivente more uxorio nelle diverse
fasi del procedimento di istituzione dell’amministrazione di sostegno.
Perplessità sorgono, invece, dal confronto delle norme appena esaminate con quella
contenuta nell’art. 429 c.c. in forza del quale l’interdizione e la inabilitazione possono essere
revocate su istanza, fra gli altri, del coniuge, dei parenti entro il quarto grado e degli affini entro il
secondo grado ma non anche della persona stabilmente convivente, a differenza di quanto previsto
in materia di amministrazione di sostegno.
L’intervento del legislatore sull’art. 429 c.c., infatti, lascia immutato l’elenco dei soggetti
legittimati a proporre istanza di revoca, contenuto nel primo comma della disposizione in esame,
spezzando, senza alcuna spiegazione razionale, la tendenziale simmetria, propria dell’originario
sistema codicistico, esistente tra la legittimazione a promuovere il giudizio di revoca e quella a
proporre domanda di interdizione o inabilitazione.
È infatti possibile che l’incarico sia a tempo determinato.
I presupposti per cui si dà luogo alla sostituzione sono tali da incidere o sul funzionamento dell’amministrazione di
sostegno o sulla persona dell’amministratore. Nella individuazione degli elementi che possono rendere inidonea la
permanenza dell’amministratore può costituire un criterio guida il nuovo art. 411 c.c. che richiama espressamente, in
quanto applicabile all’amministrazione di sostegno anche le disposizioni comprese negli articoli da 374 a 388 del
codice civile, ivi incluse dunque le norme dettate in tema di esonero e di rimozione del tutore. Sul punto V. Zambrano,
Dell’amministrazione di sostegno, in G. Autorino, P. Stanzione, V. Zambrano (a cura di), Amministrazione di sostegno,
Utet, Milano 2004, p. 180.
58
59
Particolare rilevanza ai fini della nostra indagine assume l’esclusione della legittimazione a
presentare istanza di revoca della persona stabilmente convivente, pur inclusa dal novellato art. 417
c.c. fra i soggetti che possono proporre domanda di interdizione o inabilitazione.
La evidente irrazionalità del mancato adeguamento dell’art. 429 c.c. alla modifica operata
in sede di novellazione dell’art. 417 c.c. è del resto accentuata dal confronto della disciplina in
questione con quella della revoca dell’amministrazione di sostegno appena esaminata che, seppure
mediante una serie di rinvii normativi, assicura la legittimazione alla revoca di tutte le persone cui è
conferita la legittimazione a chiedere la nomina dell’amministratore.
Pertanto tale mancato riferimento alla persona stabilmente convivente deve essere inteso
non come la espressone di un giudizio negativo del legislatore nei confronti del fenomeno della
convivenza (e in particolare della convivenza more uxorio), che riguarderebbe peraltro il limitato
aspetto della legittimazione a proporre istanza di revoca dell’interdizione e dell’inabilitazione, bensì
come la conseguenza del mancato adeguamento della norma in esame con le nuove norme in
materia di interdizione e di inabilitazione, dalle quali, come la compiuta analisi della normativa ha
confermato, è desumibile l’importante ruolo attribuito al fenomeno della convivenza.
In conclusione il carattere contraddittorio della disciplina, con i connessi dubbi di
legittimità costituzionale della disciplina stessa, ci inducono a ritenere che la stessa sia l’ennesimo
esempio della imprecisione e della disattenzione del legislatore che caratterizzano, come è stato
possibile constatare, diversi punti del suo operato in materia. Bisogna perciò accedere ad una
conclusione che includa anche il soggetto stabilmente convivente tra i soggetti legittimati alla
domanda di revoca.
L’art. 720 bis c.p.c. prevede che contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo
alla corte d’appello a norma dell’art. 739 c.p.c. e che contro il decreto della corte d’appello
pronunciato ai sensi del secondo comma può essere proposto ricorso per cassazione .
Vengono così previste regole speciali per quanto riguarda l’impugnazione nei confronti dei
decreti sull’amministrazione di sostegno.
Con particolare riferimento al reclamo l’art. 720 bis c.p.c. prevede l’applicazione della
disciplina dell’art. 739 c.p.c. solo per quanto concerne le forme del procedimento in camera di
consiglio e il termine di dieci giorni per la proposizione del gravame. Per il resto, invece, detta una
disciplina specifica stabilendo la competenza della corte d’appello (e non del tribunale) e non
escludendo la ulteriore proposizione di mezzi di impugnazione contro il decreto emesso in sede di
reclamo.
Il sistema delle impugnazioni si chiude con quanto dispone l’ultimo comma dell’art. 720
bis c.p.c., per cui contro il decreto della corte d’appello pronunciato in sede di reclamo può essere
proposto ricorso per cassazione. La scelta, opportuna e necessaria alla luce dell’art. 111 Cost.,
assicura alle parti quelle garanzie del giusto processo che da un punto di vista qualitativo debbono
essere equivalenti con quelle previste nell’ambito dei giudizi di interdizione e inabilitazione.
Il provvedimento che conclude il procedimento dell’amministrazione di sostegno, pur
avendo forma di decreto e non di sentenza, ha comunque un contenuto decisorio in materia di diritti
e status della persona, che non giustifica una riduzione delle garanzie giurisdizionali.
Mancando nell’art. 720 bis c.p.c.qualsiasi previsione relativa al termine per proporre
ricorso per cassazione, è necessario far riferimento alle disposizioni generali degli artt. 325, 326 e
327 c.p.c. Il termine è dunque di sessanta giorni se vi è stata notificazione ad istanza di parte,
altrimenti è di un anno dal deposito in cancelleria del provvedimento.
Particolare rilevanza ai fini della nostra indagine assume l’aspetto della legittimazione
all’impugnazione (reclamo o ricorso per cassazione).
A riguardo si sottolinea come essa non sia riconosciuta solo a quanti hanno partecipato
come parti al giudizio, ma “sarebbe” estesa a tutti coloro che avrebbero diritto di proporre le
domande anche se non parteciparono al giudizio. Il condizionale è giustificato dal fatto che tale
principio è stabilito per il procedimento di interdizione e di inabilitazione dall’art.712 c.p.c. ed è
confermato dall’art 720 c.p.c. per il giudizio di revoca ma non per l’amministrazione di sostegno,
in quanto l’art.720 bis c.p.c. non richiama l’art. 718 c.p.c. ma solo l’art. 719 c.p.c.
Tuttavia la identità di ratio e il rinvio (quello dell’art. 719 c.p.c. all’art 718 c.p.c.)
permetterebbero comunque di pervenire alla conclusione in esame.
Diversamente, si finirebbe con l’imporre a tutti i soggetti indicati nell’art 406 c.c. (tra i
quali rientra, come si è più volte sottolineato, la “persona stabilmente convivente”) l’onere di essere
parti nel giudizio avanti al giudice tutelare, al solo scopo di non vedersi preclusa la legittimazione
all’impugnazione.
In definitiva, anche dalle disposizioni in esame emerge, ancora una volta, il ruolo chiave
riconosciuto dalla l. n. 6 del 2004 alla convivenza stabile e, quindi, a prescindere dalla
impostazione seguita nella interpretazione della espressione “persona stabilmente convivente”, alla
convivenza more uxorio.
Quanto alle norme che possono essere estese all’amministrazione di sostegno, infine,
l’art. 411, 1° comma, c.c. dichiara applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli
articoli da 349 a 353 e da 375 a 38860 61c.c. Inoltre il 2° comma statuisce che sono applicabili
altresì, in quanto compatibili, gli articoli 596 e 599 c.c. (che sanciscono la nullità delle disposizioni
testamentarie, anche sotto nome di interposta persona, in favore del tutore che non sia ascendente,
discendente, fratello, sorella o coniuge del testatore fatte dopo la sua nomina e prima
dell’approvazione del conto) e 77962c.c. (che prevede la nullità della donazioni effettuate, anche
sotto nome di interposta persona , a favore del tutore dopo la sua nomina e prima dell’approvazione
del conto), facendo in ogni caso salve le disposizioni e le convenzioni in favore dell’amministratore
di sostegno, qualora quest’ultimo sia parente entro il quarto grado o coniuge o, con particolare
importanza ai fini della nostra analisi, persona stabilmente convivente.
Particolarmente rilevanti ai fini della nostra indagine sono i disposti del secondo e terzo
comma dell’art. 411 c.c e gli artt. 596 e 599 c.c. da quest’ultimo richiamati.
Al fine di una lettura consapevole e della individuazione della reale portata dell’art. 411
c.c., soprattutto sul piano dei riflessi nel campo successorio63, appare opportuno partire da
un’analisi, seppure breve, dei citati artt. 596 e 599 c.c.
Per la verità l’art 350 c.c. e i successivi articoli, richiamati dal citato art. 411 c.c. per l’amministrazione di sostegno e
dall’art. 424 c.c. per la tutela degli interdetti, parlano di minore. Appare chiaro che i soggetti di riferimento nel nostro
caso sono il beneficiario dell’amministrazione di sostegno e l’interdetto. Le norme dettate in materia di curatela dei
minori emancipati, invece, stante il rinvio operato dal citato art. 424 c.c., sono applicate alla curatela degli inabilitati.
61
Si deve ritenere che i divieti di cui agli artt. 378, 596, 599 e 779 c.c. siano comunque operanti, indipendentemente da
una menzione dei medesimi nel decreto di apertura dell’amministrazione di sostegno. Si tratta, infatti, di ipotesi non già
di incapacità del beneficiario a disporre, bensì di incapacità dell’amministratore a ricevere le disposizioni patrimoniali,
con la conseguenza che non è applicabile il principio di cui al comma 1 dell’art. 409 c.c. (della generale capacità di
agire del beneficiario per tutti gli atti non espressamente indicati nel decreto di nomina dell’amministratore).
62
Secondo A.TORRENTE, La donazione, Milano 1956, p. 381, “la norma si inquadra nel generale principio posto
nell’art. 388 c.c., che vieta le convenzioni tra il tutore e il minore divenuto maggiorenne o, in forza del rinvio operato
dall’art. 424 c.c., l’interdetto uscito dalla tutela, ma, parallelamente a ciò che è disposto a proposito della successione
testamentaria, la forza protettiva impressa alla norma stessa è più vigorosa: mentre nell’art. 388 c.c. è comminata
l’annullabilità della convenzione posta in essere in violazione del divieto, per le donazioni, attese le ben note
conseguenze che questa produce nel patrimonio del donante, è stabilito il più grave effetto della nullità. Il divieto
concerne anche la donazione fatta a favore del tutore che sia ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge del
donante. La deroga stabilita nell’ultimo comma dell’art. 596 a favore di tali persone è in correlazione con il carattere di
atto di ultima volontà del testamento, che rende opportuna la conservazione della disposizione a favore di prossimi
congiunti del testatore, ma non ha ragion d’essere per la donazione che può ben essere fatta a tali persone, dopo che è
stata superata la fase a cui si riferisce il divieto medesimo. Il divieto, per il suo carattere eccezionale, non si applica nei
confronti del curatore dell’emancipato e dell’inabilitato”.
63
Per quanto poi riguarda l’art. 692 c.c., relativo al c.d. “fedecommesso assistenziale”, esso non pare applicabile nel
caso dell’amministratore di sostegno. La norma, infatti, fa specifico ed esclusivo riferimento all’interdetto (anziché
all’incapace legale) e ha carattere eccezionale rispetto al generale principio del divieto assoluto di sostituzione
fedecommissaria, ossia di duplice disposizione testamentaria della stessa cosa a favore di due persone diverse, chiamate
a succedere successivamente, con l’obbligo per il primo chiamato di conservare e restituire alla sua morte la cosa al
secondo chiamato. In assenza di un richiamo da parte della L. n. 6 del 2004, la natura eccezionale dell’art. 692 c.c. ne
60
L’art 596 c.c. sollecita una serie di osservazioni .
In primo luogo va rilevato come in esso la individuazione delle disposizioni
testamentarie della persona sottoposta a tutela64 in favore del tutore colpite da nullità avvenga
avendo riguardo al rapporto di tutela e al tempo di redazione del testamento e ciò comporti la
piena validità di tutte le altre disposizioni a favore del tutore fatte in un tempo che cada fuori dei
termini indicati dalla norma in esame.
In secondo luogo deve essere sottolineato come per le stesse disposizioni testamentarie
fatte nel tempo indicato dalla legge si distingua a seconda che il tutore, sia o meno ascendente,
discendente, fratello o coniuge del testatore, prevedendo la nullità nel primo caso e la validità nel
secondo65. Da qui sorgono una serie di quesiti. Perché il legislatore ha sancito tale particolare norma
protettiva? Cosa giustifica la deroga prevista a favore del tutore che sia ascendente, discendente,
fratello, sorella o coniuge del testatore? Perchè non è richiamata la persona stabilmente
convivente?
Quanto al primo punto va rilevato come il divieto in esame sembra essere giustificato in
funzione della delicata situazione che tra l’ex incapace e il tutore si profila alla cessazione della
situazione di incapacità, sia per la somma dei poteri che al tutore erano attribuiti, sia anche perché,
prima della resa del conto, tutti gli elementi dell’amministrazione sono nelle mani del tutore. I
continui rapporti personali tra il tutore e l’ex incapace possono giustificare il sospetto di pressioni,
influenze e ingerenze sull’animo di quest’ultimo.
In risposta al secondo interrogativo va osservato come non a caso il divieto, giustificato,
come abbiamo sottolineato, da una sorta di complesso di inferiorità dell’ex incapace nei confronti
del tutore, dura fino all’approvazione del conto o all’estinzione dell’azione per il rendimento del
conto medesimo (per cessare allorché tali avvenimenti si sono verificati) ed è derogato solo a favore
di determinati soggetti (ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge del testatore) legati da
vincolo familiare rispetto ai quali evidentemente il legislatore presume, dato il rapporto che li lega
al testatore, che la disposizione testamentaria fatta nei loro confronti sia voluta dal testatore per
affetto e non per pressioni.
Più complesso appare l’ultimo quesito il quale richiede un attento raffronto della
disposizione in esame con il citato art. 411 c.c., in forza del quale, come è stato già sottolineato,
all’amministratore di sostegno si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 596,
599 e 79966 c.c., facendo in ogni caso salve le disposizioni testamentarie e le convenzioni in favore
dell’amministratore qualora quest’ultimo sia parente entro il quarto grado o coniuge o, con
particolare importanza ai fini della nostra indagine, persona stabilmente convivente.
La disposizione in esame costituisce uno spunto importante per una serie di riflessioni. In
primo luogo va rilevato come essa determini un ampliamento non solo qualitativo ma anche
quantitativo delle eccezioni alla incapacità a ricevere per testamento delineate al secondo comma
dell’art. 596 c.c.
Quanto al primo tipo di aumento si osserva come, con riferimento al tutore dell’incapace,
l’art. 596, 2° comma, c.c. parli genericamente di disposizioni (testamentarie) e l’art. 779 c.c. non
preveda alcuna deroga al divieto concernente la donazione fatta a favore del tutore, benché
quest’ultimo sia ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge del testatore mentre il citato art.
411, 3° comma, c.c., si riferisca tanto alle disposizioni testamentarie che alle convenzioni,
includendo così, tra l’altro, le donazioni e gli altri negozi a titolo gratuito
impedisce un’applicazione analogica al beneficiario dell’amministrazione di sostegno. Del resto, la disciplina in esso
contenuta è strettamente correlata alla generale privazione della capacità di agire che caratterizza l’interdizione, tant’è
vero che la sostituzione fedecommissaria rimane priva di effetto in caso di revoca dell’interdizione.
64
Il divieto naturalmente non può non riferirsi che al minore divenuto maggiorenne o all’interdetto uscito di tutela:
invero, il minore e l’interdetto, prima di divenire capaci, non possono disporre per testamento(art. 591 c.c.)
65
L. Coviello Jr., Capacità di ricevere per testamento, in Encicl. dir.,VI, Milano 1958, p. 64 ss.
66
Per le quali valgono le considerazioni già fatte con riferimento al tutore dell’interdetto alle quali pertanto si rinvia.
Quanto all’aumento qualitativo si sottolinea come la previsione della persona stabilmente
convivente, associata all’indicazione del coniuge e dei parenti entro il quarto grado, tanto in linea
retta, quanto in linea collaterale (e quindi non solo ascendenti, discendenti, fratelli e sorelle come
prevede l’art. 596 c.c.), rappresenti, dal lato soggettivo, una importante apertura rispetto al rigido
sistema della tutela 67 ed una ulteriore conferma, alla stregua delle considerazioni precedentemente
compiute e a prescindere dalla tesi che si scelga di seguire sulla portata sostanziale della espressione
normativa “persona stabilmente convivente”, della posizione di rilievo riconosciuta alla figura del
convivente more uxorio dalla riforma in esame.
Quest’ultima riflessione costituisce però, a sua volta, occasione per una ulteriore
considerazione in merito all’art. 596 c.c.
Deve essere infatti sottolineato come appaia contraddittoria, alla luce dell’ammissione
della persona stabilmente convivente a proporre istanza di interdizione e soprattutto della più
generale equiparazione di detta figura a quelle del coniuge e dei parenti entro il quarto grado
dell’interdetto (emergente chiaramente dalla disciplina del procedimento in esame), la mancata
modifica delle eccezioni alla incapacità a ricevere per testamento delineate al secondo comma
dell’art. 596 c.c., nel quale alcun riferimento è fatto alla figura della persona stabilmente
convivente. Volontà del legislatore di riservare, seppure limitatamente alla tutela dell’interdetto e, in
particolare, all’aspetto delle eccezioni alla incapacità a ricevere per testamento del tutore o
protutore, una posizione privilegiata al coniuge e ai parenti dell’interdetto o difetto di
coordinamento con le nuove norme in materia di interdizione?
Il dato normativo emergente dall’art. 596 c.c., aggiunto alla circostanza che la l. n. 6 del
2004 non ha apportato espresse modifiche a riguardo se non con riferimento all’amministrazione di
sostegno, dovrebbe indurre all’accoglimento della prima delle due alternative prospettate.
Tuttavia, come è stato già sottolineato, il divieto di cui all’art 596 c.c. sembra essere
giustificato in funzione della delicata situazione che tra l’ex incapace e il tutore si profila alla
cessazione della situazione di incapacità, sia per la somma dei poteri che al tutore erano attribuiti,
sia anche perché, prima della resa del conto, tutti gli elementi dell’amministrazione sono nelle mani
del tutore. I continui rapporti personali tra il tutore e l’ex incapace possono, si è detto, giustificare il
sospetto di pressioni, influenze e ingerenze sull’animo di quest’ultimo. Detto divieto è però
derogato a favore di alcuni soggetti (ascendente, discendente, fratello, sorella e il coniuge del
testatore e ai sensi del 3° comma dell’art. 411 c.c., sia pure limitatamente all’amministrazione di
sostegno, la persona stabilmente convivente e i parenti entro il quarto grado) rispetto ai quali
evidentemente il legislatore presume che la disposizione testamentaria fatta nei loro confronti sia
voluta dal testatore per affetto e non per pressioni.
In definitiva, la ratio di tale deroga a favore solo di determinati soggetti, tra i quali figura,
sia pure limitatamente all’amministrazione di sostegno, la persona stabilmente convivente e la
generale equiparazione di quest’ultima alle figure dei parenti entro il quarto grado e del coniuge,
operato dalla l. n. 6 del 2004 non solo nell’ambito dell’amministrazione di sostegno ma anche in
quello della stessa interdizione e inabilitazione inducono, a mio avviso, a considerare il mancato
riferimento alla persona stabilmente convivente non come il frutto di un giudizio negativo del
legislatore nei confronti del fenomeno della convivenza, bensì come la conseguenza di un difetto
di coordinamento della norma in esame, non modificata minimamente dalla l. n. 6 del 2004 (e nata
in una cornice ordinamentale che alcuna rilevanza riconosceva al convivente), con le nuove norme
in materia di interdizione e di inabilitazione, dalle quali, come la compiuta analisi della normativa
ha confermato, sono desumibili l’importante ruolo attribuito alla persona stabilmente convivente e,
a prescindere dalla tesi che si scelga di seguire sulla portata sostanziale di tale espressione
normativa, la rilevanza riconosciuta al fenomeno della convivenza more uxorio
67
B. Malavasi, L’amministrazione di sostegno: le linee di fondo, in «Notariato», n. 3, 2004, p. 326.
4. Convivenza e sistema di protezione degli incapaci : prospettive di riforma.
Al termine dell’analisi appena compiuta emergono due fondamentali considerazioni: da un
lato, diverse sono le disposizioni che, richiamando per motivi diversi la figura della persona
stabilmente convivente, comportano una chiara apertura del legislatore verso la c.d. famiglia di
fatto; dall’altro, buona parte68 dello spirito della L. n. 6 del 2004 deve essere ancora attuato.
Con riferimento alla prima, si osserva come, pur trattandosi ancora una volta di un
riconoscimento episodico e relativo a materia specifica, la L. n. 6 del 2004 dimostra che colui che
decide di intraprendere una convivenza more uxorio deve farlo nella consapevolezza di divenire
titolare di situazioni giuridiche soggettive attive e passive legate allo status di convivente, a
prescindere quindi dalla formalizzazione del vincolo.
Detta legge conferma come coloro che scelgono di realizzare i loro progetti di vita
nell’ambito di una convivenza di fatto non possono ritenere di vivere il loro rapporto in una “zona di
non diritto”. La rilevanza giuridica attribuita alla convivenza more uxorio indica che tale fenomeno
è preso in considerazione dall’ordinamento, in quanto determina delle conseguenze nei rapporti
umani che interferiscono con l’assetto dei valori in cui la società si riconosce attraverso il proprio
ordinamento giuridico. In un gioco di perenne interazione tra realtà sociale e realtà giuridica le
relazioni sociali provocano l’intervento del diritto e questo a sua volta, imponendosi ad esse come
regola, le orienta .
Naturalmente spetta all’ordinamento il compito di mediare le contrapposte posizioni,
assicurando ad ogni fenomeno sociale la debita rilevanza giuridica, così componendo il conflitto
che ogni fenomeno nuovo, immancabilmente, suscita fra i diversi orientamenti ideologici o le
diverse istanze morali e religiose.
Nella materia in esame le controversie specifiche chiamano i giudici, posti di fronte alle
carenze e agli anacronismi del sistema, a fronteggiare e a rispondere alle nuove istanze espresse
dalla società finendo così per costituire le risorse più valide nella elaborazione del diritto vivente.
Non condivido le idee di quella parte della dottrina che, pur evidenziando il valore
simbolico di una normativa organica della convivenza more uxorio, considera un mero pregiudizio
culturale contemporaneo che tutte le nuove esigenze degne di una tutela giuridica debbano essere
regolate dalla legge. Accanto alle motivazioni prima prospettate vi è infatti una esigenza pratica,
finalizzata alla certezza del diritto, di ridurre il rischio di lacune, imprecisioni e difetti di
coordinamento conseguenti a interventi episodici del legislatore circa la rilevanza giuridica della
convivenza more uxorio. Pertanto il legislatore, fermo il primato della famiglia legittima, dovrà
dimostrare di essere capace di “fotografare” la società così come essa si presenta, avendo ben chiaro
di essere chiamato ad offrire un ventaglio di possibilità per la convivenza che dovranno attestare
un diverso grado di ingerenza del diritto nella determinazione delle regole di comportamento delle
parti del rapporto.
La recente iniziativa del governo per giungere a una normativa riguardante le cosiddette
coppie di fatto ha suscitato reazioni contrastanti e la preoccupazione di gran parte del mondo
cattolico: ma ha avuto un primo effetto, avendo rilanciato il dibattito sul pianeta-famiglia, da tempo
latitante dalla scena pubblica nazionale.
Dico e Family day, infatti, hanno sollecitato riflessioni e prese di posizione e costituiscono
un punto di partenza, oltre il quale ricercare e promuovere sempre più, a livello locale e in forme
sobrie e positive, occasioni d’incontro e di sostegno alle famiglie in difficoltà e ai giovani che
guardano in modo incerto e disorientato al futuro.
Non basta però, come da molti sottolineato anche nel mondo cattolico, fermarsi al no a una
legge o a una manifestazione di piazza. Occorre andare alle ragioni strutturali della debolezza della
famiglia.
68
Si pensi ad aspetti come il consenso al trattamento medico, il testamento biologico, il mandato in previsione
dell’incapacità e infine la riforma della norma di conflitto, affinché la legge italiana possa applicarsi anche ai disabili
stranieri.
Certamente resteranno tanti problemi che non si possono negare e che precedono il varo dei
Dico. La diminuzione dei matrimoni civili e religiosi, l’aumento dei divorzi, la crescita
esponenziale delle convivenze etero, il moltiplicarsi delle coppie omosessuali, confermano un
complessivo indebolimento dell’istituto del matrimonio.
Allo stesso tempo la natalità decrescente e il differimento delle scelte procreative ci
segnalano una genitorialità timorosa, ovvero la paura crescente di diventare mamme e papà, con le
responsabilità che ciò comporta.
Senza trascurare il crescente disagio di molti nuclei sul versante economico.
I problemi della famiglia appena descritti assumono ulteriore rilevanza, quando vittime
degli stessi sono quei nuclei familiari che vivono la realtà difficile di un figlio o altro membro
disabile e, in particolare, quelle famiglie che affrontano il disagio mentale.
A tal fine, è apparso senza dubbio opportuno fissare come obiettivo principale
l’individuazione di una più idonea rete di servizi, a partire dalla istituzione del fondo per le non
autosufficienze, avviato con la Finanziaria 2007, e di sostegni sempre più efficaci.
Tutto ciò, però, appare possibile solo partendo da un diverso modo di concepire la disabilità:
non più come contrapposizione tra mondo normodotato ed handicap, ma come luogo di
condivisione delle cose che si hanno in comune, al fine di arricchirsi della diversità dell’altro.
Paradossalmente solo abbassandosi, come farebbe chiunque per poter guardare negli occhi un
disabile in carrozzella, è possibile percepire quella elevazione che è frutto di una crescita.
In tal senso appare orientata la recente messa in cantiere del progetto69 di rafforzamento
dell’amministrazione di sostegno e abrogativo dell’interdizione e dell’inabilitazione, una tappa
fondamentale in quel percorso di creazione di un nuovo sistema di protezione degli incapaci, che ha
trovato, non a caso, il suo incipit proprio nell’introduzione dell’amministrazione di sostegno.
La proposta dovrebbe porre riparo alla disomogeneità che spesso ha caratterizzato gli
interventi nel settore70 e coprire gli spazi disciplinari lasciati vuoti dalla vigente normativa, dando
attuazione alle diverse indicazioni che il diritto italiano ha visto sbocciare.
Affidando le ipotesi di rinnovamento ad una serie di disposizioni che si collocherebbero
lungo i singoli libri del codice civile nei settori71 non esplicitamente toccati dalla riforma del 2004,
la proposta in esame pone come questione di fondo la ricerca di una nozione capace di orientare
nella individuazione specifica dei “soggetti deboli”. In tale ottica, infatti, non sono prese in
considerazione esclusivamente le persone intrinsecamente fragili 72, ma, più ampiamente, le
‘persone indebolite’, ossia gli individui che, impossibilitati a “farcela” da soli quanto alla gestione
dei passaggi della vita quotidiana (in quanto toccati da impedimenti di carattere fisico, o psichico, o
sensoriale, o logistico, o anagrafico), continuano a non trovare nella comunità organizzata supporti
idonei a consentire la realizzazione del loro progetto di vita proprio.
In questo modo la nozione di “capacità d’intendere e di volere” risulta superata da quella di
“inadeguatezza gestionale” o “fragilità negoziale”73, rendendo necessaria una interpretazione
P. Cendon , Rafforzamento dell’amministrazione di sostegno e abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione, in
www.personaedanno.it
70
Basti pensare alla riforma (e ai vari provvedimenti regionali) sull’handicap, alla riformulazione del collocamento
obbligatorio, alla disciplina sulla tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, a quella sull’adozione, ai provvedimenti a
favore dei non vedenti, alle normative attinenti ad altri tipi di disabilità; e si potrebbero ricordare, ancora, leggi come la
180, la 194, la 104, la 328.
71
Matrimonio e istituti connessi alla filiazione, capacità d’agire del minore, regime di annullabilità dei contratti,
negozi mortis causa, donazione, titoli di credito, fatti illeciti.
72
Gli individui versanti in condizione di disagio per effetto di patologie cliniche, vere e proprie, oppure a causa dei
problemi di natura fisica o psichica che li affliggano.
73
Figure dai contorni ben più ampi e frastagliati, in grado di abbracciare anche condizioni non patologiche, sul terreno
fisio-psichico, e tuttavia caratterizzate dalla presenza di intralci organizzativo/funzionali di un certo peso. La categoria
dei ‘soggetti deboli’ appare destinata a comprendere, di qui in poi, non soltanto gli svantaggiati psichici o fisici in
sensi stretto, ma più in generale tutte le persone che stanno “così così” - l’insieme degli esseri che si trovino privi cioè,
per ragioni di varia natura, dell’autonomia relazionale e della ‘fragranza burocratica’ necessaria a condurre
appropriatamente la vita quotidiana.
69
estensiva per lo stesso art. 404 c.c., rispetto ai riferimenti testuali all’infermità e alla menomazione,
in vista di una lettura idonea ad abbracciare anche condizioni non patologiche sul piano fisicopsichico.
Il progetto de iure condendo, in piena continuità con la riforma del 2004, permetterebbe il
superamento di un grave limite nel sistema codicistico del 1942, che si occupava, com’è noto,
solamente degli individui più seriamente colpiti dal destino, soprattutto a livello mentale,
disinteressandosi, invece, dei soggetti incapaci di curare i propri interessi ma non del tutto infermi
di mente da poter essere interdetti o inabilitati.
La riduzione della incapacità legale come figura dotata di senso solo con riferimento ai
minori74, la introduzione della categoria della inadeguatezza gestionale75, la conferma della
incapacità naturale (sia pure mediante alcune modifiche della relativa disciplina) come strumento
di protezione di natura occasionale e reattiva76, l’estensione della sfera di azione
dell’amministrazione di sostegno anche all’area residua77 fin qui conservata all’interdizione e
all’inabilitazione e il contemperamento tra libertà e protezione 78 sono solo alcune delle linee guida
Con l’abrogazione dell’interdizione giudiziale, dell’inabilitazione e dell’interdizione legale quella dell’incapacità
legale rimane, entro il sistema, come una figura dotata di senso solo con riferimento ai minori. Nel progetto si
sottolinea come “per quanto riguarda i soggetti maggiorenni, ad un tipo di espropriazione sul piano negoziale, a tutto
campo, viene a sostituirsi la possibilità di un’incapacitazione funzionale, depersonalizzata; nulla che possa implicare,
cioè, un etichettamento dell’interessato quale incapace di agire, una volta per sempre, bensì una mera e contingente
sospensione di poteri, giustificata da specifici pericoli sul terreno gestionale, e comunque circoscritta, secondo la
modulazione che verrà stabilita dal giudice tutelare, nel caso concreto, ad uno o a più (in limitatissimi casi, a tutti quanti
gli) atti e operazioni da compiersi. Vale la pena sottolineare che anche l’eventuale approdo a un’ ‘incapacitazione’
totale, estesa cioè all’insieme degli atti personali e patrimoniali (esclusi quelli della vita quotidiana), avrà natura
prettamente funzionale, essendo revocabile o ritoccabile - oltre tutto in qualsiasi momento. I casi in cui potrà addivenirsi
ad ‘incapacitazione piena’ dovranno essere pur essi contingentati - circoscritti, rigorosamente, alle situazioni di
malessere psichico tali da comportare seri rischi di autolesionismo: e si può pensare, abbiamo detto, al disabile
intenzionato a porre in essere atti di tipo rovinoso/autodistruttivo, o all’individuo del tutto inerte/ostile rispetto al
compimento di un negozio necessario per fronteggiare qualche necessità”.
75
“Ridimensionata, riguardo al soggetto maggiorenne, la categoria dell’ incapacità di agire, il sistema di protezione
delle persone deboli viene a imperniarsi sulla neo-figura dell’ ‘inadeguatezza gestionale’. Tutti coloro i quali presentino
difficoltà più o meno estese, sul piano organizzativo e gestionale, potranno, di qui in poi, beneficiare del ‘nuovo’ assetto
protettivo che offre l’ amministrazione di sostegno - compresi i ‘clienti’ dei tradizionale modelli incapacitanti. Sarà l’
‘inadeguatezza gestionale’, come già detto sopra, a fornire i tratti delle persone aventi titolo all’intervento di protezione,
e ciò mediante il riscontro (non necessariamente di una patologia fisio-psichica, bensì) di una mancanza di autonomia
sul versante del “fare”, quand’anche riferibile alle cause più eterogenee - non necessariamente, valga ripeterlo, di rilievo
clinico/positivistico. In tale contesto, lo stesso art. 404 c.c. finisce per postulare nuove chiavi di lettura - non più
riduttivamente letteralistica (con un’ accentuazione dai riferimenti all’infermità e alla menomazione), quanto
incardinata sulla nozione di ‘impossibilità/difficoltà di fare’. Riferendosi a condizioni personali anche fortemente
disomogenee e variegate, l’inadeguatezza gestionale assume una connotazione dai contorni inevitabilmente sfumati; è
dubbio se essa si presti ad essere inserita nel codice civile come categoria formale (sostitutiva - in un certo senso- della
svuotata incapacità d’agire); diventa, comunque, una nozione-guida per identificare le situazioni in cui si richieda l’
intervento di protezione”.
76
“Accanto al modello generale di soluzione dei problemi gestionali della stragrande maggioranza delle persone disabili
(da intendere nell’accezione ampia suggerita dalla nozione di inadeguatezza gestionale) si pone uno strumento di natura
reattiva, volto cioè a salvaguardare l’incapace di intendere e di volere (il quale non risulti già protetto dall’AdS) rispetto
ad un atto o ad un contratto per sé pregiudizievole. Può di conseguenza concludersi, per quanto concerne il diritto
privato, che il sistema di protezione dei ‘soggetti deboli’ si reggerà – essenzialmente - su un doppio binario: quello
principale, costituito dal sistema dell’amministrazione di sostegno, e quello secondario, rappresentato dall’annullabilità
degli atti e dei contratti compiuti dall’incapace naturale”.
77
Area residua identificata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 13584 del 12 giugno 2006 nelle situazioni in
cui debba essere compiuta un’ attività particolarmente complessa, o in cui debba contrastarsi il rischio che il soggetto
compia atti per sé pregiudizievoli.
78
L’equilibrio tra rispetto della sovranità del beneficiario e intervento di protezione viene perseguito, nel progetto de
iure condendo, in vario modo. “In primo luogo attraverso la previsione, all’interno di una varietà di disposizioni del
codice civile, dell’ assistenza/affiancamento dell’amministratore di sostegno per il compimento di atti di natura
personale. Si tratta di una forma di assistenza che non si identifica con l’assistenza necessaria contemplata dall’art. 409
c.c., e che rivela invece contorni più morbidi; siamo di fronte, per meglio dire, una sorta di ‘tutoraggio’ che è apprestato
74
del presente progetto, ma sono sufficienti a dare il senso della nuova filosofia79 che, con molte
probabilità, sorreggerà il nuovo impianto del sistema di protezione delle persone “deboli”e può
essere ben sintetizzata in quelli che sono considerati i principi cardine della riforma del 2004: “non
abbandonare” e “non mortificare la dignità della persona fragile”.
dall’amministratore di sostegno – dietro indicazione del g.t. - ai fini del compimento dell’atto stesso da parte
dell’interessato, il quale resta l’unico facoltizzato al compimento dello stesso. Introducendo, inoltre, spazi di capacità
d’agire per il minore, seppure limitatamente agli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana e
prevedendo, al contempo, una intensificazione dei doveri del tutore del minore, sulla falsariga dei doveri genitoriali
contemplati dall’art. 147 c.c. (si veda il nuovo testo degli artt. 382 e 384 c.c.). Infine, salvaguardando la sovranità
testamentaria, e in materia di donazione, del disabile, nonché del beneficiario dell’ads pur ‘incapacitato’ rispetto a tali
atti, con l’ introdurre modalità e forme ad hoc, atte a preservarlo dal rischio di impugnazione da parte dei parenti o di
terzi (in tal senso gli artt. 591 bis e 775 bis c.c.)”.
79
Diffusa, sia pure nella diversità di soluzioni, nei sistemi stranieri in ambito europeo.
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