Stefano Beccastrini IL SOGNO DI UNA COSA Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini ha cinquanta anni Cinquant’anni fa uscì nelle sale italiane Il Vangelo secondo Matteo, 1964, di Pier Paolo Pasolini. Una pietra miliare del cinema cristologico post-conciliare. Ricordiamo tale cinquantenario con un testo di Stefano Beccastrini. Esso costituisce un adattamento del capitolo, al film di Pasolini dedicato, del libro Chi dite che io sia? Introduzione alla cristologia cinematografica che uscirà nel corso di quest’anno, con una Prefazione di Severino Saccaridi, presso le Edizioni ASKA di Firenze. Un fenomeno peculiare del cinema cristologico del secondo 900 è il fatto che vari cineasti a tale impresa dedicatisi fossero non credenti. In genere, contrassegna i loro film un forte interesse per il ruolo educativo di Gesù: parrebbe che, aldilà della sua eventuale ma da essi negata origine divina, ciò che di Cristo li ha appassionati, coinvolti, chiamati a portar sullo schermo tale immensa figura, sia la sua capacità di spingere gli esseri umani a un modo diverso di pensare e di vivere, più giusto e solidale di quello legato alle gerarchie di potere sia religioso che civile così come al denaro, alla forza, a tutti quei fattori di odio, di morte, di sfruttamento che nel corso della storia si sono oppressivamente manifestati. La dimensione pedagogica di Gesù è potentemente enfatizzata ne Il re dei re, 1961, di Nicholas Ray così come ne Il vangelo secondo Matteo, 1964, di Pier Paolo Pasolini o ne Il Messia, 1975, di Roberto Rossellini.. Cristo quale maestro – rabbi - di vita e di cambiamento, guida dei popoli nella loro aspirazione a un mondo migliore e alfine liberato dall’oppressione e dallo sfruttamento, dal dolore e dalla morte ingiusta, ne rappresenta il volto che prevale nei film evangelici di coloro che vivono nell’ambito definito da Ernst Bloch “’ateismo nel cristianesimo”.. Quanto a Pasolini, occorre ricordare com’egli sia stato, in giovane età, un maestro elementare e dunque come, fin dall’inizio del proprio complesso e alfine tragico percorso culturale ed esistenziale, una vocazione pedagogica fosse connaturata al suo approccio alla comunicazione con gli altri, alla scrittura, infine al cinema. Pasolini “uomo di scuola”, “maestro naturale”, “legislatore rivoluzionario” le cui “tavole della legge non sono altro che un trattato pedagogico”, “pedagogo animato da impulsi etico-politici” nonché “precettore di massa”: queste sono alcune delle molte espressioni che Enzo Golino utilizza, nel corso del suo libro sulla vocazione pedagogica di Pasolini, per connotare la durevole volontà educativa che ha dominato la sua vita, il suo pensiero, la sua azione intellettuale. Il suo esordio quale regista cinematografico avvenne, nel 1961, con Accattone: drammatica storia di un giovane sottoproletario, uno di quei borgatari che vivevano ai margini della società e le cui vicende egli aveva già narrato nei propri romanzi realistico/dialettali d’ambientazione romanesca. Aldilà della scioccamente scandalizzata accoglienza ricevuta da un’Italia miserrima nel valutare i propri poeti, anche filmici, Accattone segnò una tappa importante nella storia del cinema italiano del II dopoguerra. Segnò anche il primo incontro del cineasta/Pasolini con personaggi cristologicamente destinati, sullo schermo, all’incomprensione, al sacrificio, alla morte. Vennero infatti, in seguito, Mamma Roma, 1962, e la Ricotta, 1963, oltre a due film di natura documentaristica meno noti, ma tutt’altro che banali, quali La rabbia, 1963, e Comizi d’amore, 1964. Il biennio 63-64 ha rappresentato davvero un periodo di svolta profonda nell’impegno artistico, culturale, pedagogico di Pasolini. Per esempio, egli interruppe, dopo molti anni di durevole successo, la rubrica che teneva settimanalmente su Vie Nuove. Si chiamava 1 Colloqui con Pasolini. I lettori gli scrivevano, lui rispondeva: polemico, poligrafo, pedagogo di massa come sempre. Nel 1963, però, Pasolini interruppe questi suoi colloqui con i lettori del periodico. In quegli anni tornava spesso a riflettere sul rapporto tradizione/rivoluzione, convinto che rivoluzione non significasse affatto scellerata modernizzazione, distruzione del passato, sviluppo senza progresso (sociale, civile, culturale). Evidentemente stava già approfondendo un tema che troverà poi espressione di grande impatto poetico nel versi letti da Orson Welles ne La ricotta: “Io sono una forza del passato/solo nella tradizione è il mio amore”. Salutando i lettori di Vie Nuove, disse di star lavorando a vari film e di voler conoscere il Mondo e soprattutto il Terzo Mondo. Rispetto ai nuovi problemi di quegli anni, Pasolini tendeva a dislocare la propria ispirazione poetica, e la propria vocazione pedagogica, verso altri orizzonti rispetto a quelli italiani, verso scenari storicamente e geograficamente più vasti e con aperture di pensiero e risonanze poetiche ben più radicali e universali. Egli, ormai, andava scorgendo intorno a sé soltanto due segnali di speranza futura, escatologica per così dire: il rinnovamento della Chiesa Cattolica messo in moto, con la proclamazione del Concilio Vaticano II, da papa Giovanni XXIII e la nascita di movimenti di liberazione, sia nel Nord che nel Sud del mondo, non più ispirati da un marxismo mummificato e soffocante come quello sovietico bensì da un marxismo dal volto umano, utopico, liberatorio. Con Il vangelo secondo Matteo – nel quale Cristo assunse le fattezze, rammemoranti la pittura di El Greco ossia dolci e dolenti, miti ed irate a un tempo, dello studente basco, antifranchista ed esule in Italia, Enrique Irazoqui - Pasolini compì un passo decisivo, e irreversibile, verso nuovi mondi poetici, nuove identificazioni mitiche, muovi interessi storici ed ideologici: tutto il lavorìo di riflessione compiuto in quegli anni su se stesso, sulla società italiana, sulla storia del mondo esplose in forme nuove.. La spinta a girare un film evangelico l’aveva ricevuta durante un soggiorno ad Assisi presso la Pro Civitate Christiana.. Ma come si accostò ai Vangeli? Egli stesso, parlando del futuro film, ebbe a dire:“…è un’opera di poesia che voglio fare. Non un’opera religiosa nel senso corrente del termine… In parole molto semplici e povere; io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: cioè che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell’umanità…”. Ma perché, nel proprio leggere i Vangeli in quel di Assisi e nel proprio invogliarsi a trarne un film,. scelse quale fonte il testo di Matteo (in realtà, almeno in un’occasione, egli tradì questa univoca scelta matteana: nell’episodio di Giuda che si indigna per l’accettazione da parte di Gesù dell’omaggio della donna che gli unse i piedi con costosi profumi e li asciugò con i propri capelli, la fonte evangelica è invece giovannea)? Matteo è, con Marco, l’evangelista meno orientato a disegnare un profilo di Gesù quale Messia, facendone invece il messaggero d’una buona novella, d’una nuova etica terrena, d’un nuovo modo di vivere prima ancora che di credere. Non casualmente, proprio sui vangeli di Marco e di Matteo s’era incentrata la proposta d’un Cristo non messianico, o comunque celante la valenza messianica della propria predicazione, di Albert Schweitzer nonché quella di un libro importante della cristologia novecentesca, ancorché ormai misconosciuto, quale Gesù Cristo e il Cristianesimo di Piero Martinetti. Però, Pasolini sceglie Matteo e non Marco. Perché? Perché Matteo è l’unico evangelista che riporta compiutamente il Discorso della montagna. Chiunque abbia visto il film pasoliniano ha notato il ruolo centrale che, narrativamente e artisticamente, tale Discorso svolge sullo schermo: Filmando il proprio Gesù mentre pronuncia, alto e solenne su una montagna che raffigura una sorta di cattedra universale, la propria mirabile orazione - non rivolta ad alcun ascoltatore visibile sullo schermo bensì direttamente agli spettatori seduti in sala - Pasolini mette in scena un educatore/riformatore sociale quali egli stesso cercava di essere. Nonostante che il film cristologico di Pasolini venga, in quasi tutti i manuali di storia del cinema, presentato quale un’opera dedicata a Cristo da un regista che, in quanto non credente, doveva certamente aver avuto l’intenzione di demitizzare e desacralizzare il personaggio, tale interpretazione non corrisponde affatto alla realtà del testo filmico che si sviluppa davanti ai nostri occhi. Esso ci appare, anzi, quale una delle pellicole più sacrali e mitizzanti che il cinema del 900 abbia dedicato alle vicende evangeliche. Lo stesso Pasolini ha sempre affermato che non era suo intento quello di desacralizzare né demitizzare un bel niente (tale sarà invece, più o 2 meno dieci anni dopo, l’intento de Il Messia di Roberto Rossellini). Pasolini accettò invece pienamente, nell’avvicinarsi alla vicenda di Gesù Cristo, la dimensione mitica, sacrale, sublime del personaggio e fu interessato, soprattutto, a lavorare poeticamente ed ideologicamente dentro di essa, per proporne una visione solennemente progressiva, rivoluzionaria, escatologica (in fondo, quella della demitizzazione era stata una cristologia tipicamente borghese, positivistica). Per questo il suo film è, stilisticamente e cristologicamente, meno laico, nel senso di desolennizzato, di quanto continuino a sostenere molti dei suoi distratti esegeti (dai quali non mi divide la valutazione dell’opera, di cui resto un convinto e commosso ammiratore, ma il sottolinearne una sorta di laicità dissacrante che non c’è per nulla e che è invece assai maggiore in alcuni altri film cristologici di quegli anni quali, appunto, quello di Ray e quello di Rossellini)..Due scene, su tutte, a riprova di quanto sto affermando: quella del battesimo da parte del Battista sul Giordano (Pasolini, unico nella storia del cinema, la mostra alla fin fine quale una soggettiva di Dio stesso, che la osserva dall’alto e ne svela il significato messianico) e quella appunto del Discorso della montagna, luogo centrale del testo matteano e del film pasoliniano. In tale, lunga sequenza di scene, Cristo parla, sempre in primo piano, mentre cambiano la luce, il clima, l’ambiente, l’ora del giorno, le stagioni, il suo abbigliamento persino. Il suo non è un discorso rivolto alla folla di ascoltatori che lo stava a sentire quel giorno in Palestina bensì un discorso fuori dal tempo, messianico, utopico, una lezione al mondo intero d’ieri e di oggi. Si confronti, per esempio, questa grande scena pasoliniana con il Discorso della montagna, in tal senso più laico ed umile, del Gesù di Nicholas Ray, in quel Il re dei re che fu realizzato in America tre anni prima. Il Gesù di Ray scende tra la folla, dialoga con la gente, trasforma il proprio insegnamento in un colloquio con il popolo, mentre il Gesù di Pasolini pronuncia quella sorta di altissima, e toccante, orazione etica rivolgendosi non ai suoi ascoltatori nel film ma al mondo intero. Ciò detto, vale la pena di sottolineare alcuni altri aspetti, tra i molti che fanno de Il Vangelo secondo Matteo un’opera memorabile. Esso è girato con uno stile e con un linguaggio decisamente poco classici: Pasolini fa sovente uso del teleobiettivo, dello zoom, della macchina a mano, dei primi e primissimi piani, insomma di tutti quegli artefatti tecnico-linguistici che fanno volutamente sentire, non celandola affatto, la presenza della macchina da presa allo spettatore e che invece, proprio per questo, il cinema classico rifuggiva dal mettere in evidenza, dall’enfatizzare pur talvolta adoperandoli. Come in ogni grande autore, anche in Pasolini le scelte stilistiche e linguistiche non restano meramente tecniche ma si fanno poetiche e ideologiche. Un esempio tra i molti possibili, relativo al già ricordato e anticlassico utilizzo che Pasolini spesso fa della macchina da presa portata a spalla dall’operatore e dunque necessariamente traballante . L’esempio riguarda i due processi subìti, l’uno di seguito all’altro, da Gesù dopo il suo arresto a Gerusalemme: quello davanti al Sinedrio e quello davanti a Pilato. Nel primo caso, Pasolini lo filma, appunto utilizzando la macchina a mano, come visto in soggettiva da Pietro, che vi assiste mescolato tra la folla; nel secondo caso, come visto in soggettiva da Giovanni, anch’egli mescolato tra la folla, questa volta nel cortile del palazzo di Pilato. In entrambi i casi, Gesù e i suoi giudici sono visti in lontananza, si sente poco di quanto stanno dicendo, le teste degli altri spettatori della scena – che si muovono, si agitano, commentano, coprono le voci dei protagonisti - nascondono spesso la visuale (di Pietro e di Giovanni ma anche nostra, che stiamo vedendo la scena con i loro occhi) e gli spintoni fanno oscillare l’immagine. Insomma, Pasolini ci mostra quello che, di tali processi, avrebbe potuto vedere, e poi narrare agli altri, chi vi avesse assistito trovandosi davvero sul posto ma da lontano e in mezzo a una folla, agitatamente accalcata e rumoreggiante, di cittadini di Gerusalemme. Che è il modo con cui gli evangelisti, o meglio coloro che narrarono tali fatti agli evangelisti, a tali processi forse assistettero veramente, così lasciando una profonda incertezza su come davvero siano andate le cose e su cosa effettivamente sia stato detto. Così, non interessato a porsi problemi storiografici (cosa si saranno davvero detti Caifa e Gesù? Cosa avrà davvero pensato Pilato di Gesù?) in quanto egli si è accostato alla vicenda di Cristo da mitologo e non da storico, Pasolini risolve le questioni, annose, del capire su cosa sia davvero accaduto, su chi abbia davvero condannato Gesù, su chi abbia la responsabilità della sua morte. Essa ricade sul potere, sulla classe della ricchezza, sugli oppressori di turno. e tanto, a Pasolini, basta. Notevole e coraggiosa, oltre che 3 lungimirante nel suo inventare una innovativa location evangelica presto diventata una vera e propria tradizione, risulta anche la scelta, compiuta dopo numerosi sopraluoghi in Palestina e anch’essa di grande rilievo sia poetico che politico, di ambientare il film nel meridione d’Italia, facendo sì che i Sassi di Matera diventino sullo schermo, di volta in volta, Betlemme, Nazareth, Gerusalemme e insomma quel mondo antico, contadino, cui sempre più d’ora in poi Pasolini guarderà con amore e nostalgia. La decisione di porre la vicenda evangelica in un contesto pauperista e meridionalista, del resto, non è testimoniata soltanto dalla scelta dell’ambientazione geografica del film ma anche nei costumi dei personaggi: per esempio, negli scialli neri indossati dalle donne, Maria prima di tutte, che assistono alla crocifissione. C’è dunque, a monte di tali scelte, una precisa intenzione di veicolare, con il film, un messaggio profondamente poetico (tale è, in fondo, l’approccio cristologico di Pasolini: anzitutto liricamente, tragicamente commosso dalla figura di Gesù, giungendo a identificarsi con essa) e a un tempo profondamente politico (i segni di tale spessore politico del film sono tanti e diffusi in ogni sua sequenza: da quella, caso rarissimo nei film di questo genere ove l’evangelico episodio per lo più non viene messo in scena, dell’incontro di Gesù con il ricco giovane che chiede cosa fare per poter accedere al Regno e si sente rispondere che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco vada in Paradiso, a quella della strage degli innocenti, che mostra i turpi sicari di Erode addobbati con fez chiaramente fascisti). Occorre sottolineare, infine, il motivo autobiografico. Personalmente credo che i più bei film su Gesù siano stati spesso quelli in cui il regista si è in qualche modo identificato con lui, con la sua figura, con il suo personaggio. In tal senso, Pasolini e il suo Il vangelo secondo Matteo non fanno eccezione. Però, Pasolini va oltre quanto anche altri cineasti hanno fatto ma in forma implicita. Egli non lascia che tale identificazione resti sottintesa, nel corpo del film e nel suo svolgimento, consegnando agli spettatori il compito di coglierla.. Egli la esplicita chiaramente, la espone scandalosamente, la mette in scena appassionatamente, attraverso la scelta – che rappresenta una delle note più originali e poetiche del film – di far interpretare la Madonna, nella sua età matura, alla propria madre Susanna (mentre nelle scene iniziali, quelle di Betlemme e di Nazareth, quando Maria era ancora una fanciulla dalle fattezze solennemente popolari e mediterranee della Madonna del Parto di Monterchi, ella era impersonata da Margherita Caruso, una giovanissima siciliana, figlia del dottor Lucio Caruso della Pro Civitate Christiana). Fare della propria madre la madre di Gesù significa fare di sé una Figura Christi, come Gesù chiamata a predicare e menar scandalo, come Gesù destinata a soffrire e ad essere perseguitata e crocifissa Il film, presentato a Venezia, vinse il Gran Prix 1964 dell'Office Catholique International du Cinema (OCIC): evento doppiamente memorabile, in quanto mai un film italiano lo aveva in precedenza vinto e in quanto a vincerlo fu un cineasta che, soltanto un anno prima, era stato incriminato, a seguito di varie denunce provenienti da associazioni cattoliche tradizionaliste, di blasfemia, di irrisione della religione cattolica e varie altre, sciocche, accuse del genere. Mi avvio a concludere. Nella poetica sia letteraria che cinematografica di Pasolini sono riconoscibili, tenuti assieme in una profonda unità ideologica, vari temi, alcune passioni, diversi nuclei mitopoietici e filosofici. Uno di essi, particolarmente costante e durevole, consiste nella tensione verso una prospettiva, storica e metastorica, di riscatto e redenzione per gli oppressi e gli offesi del mondo. In un romanzo giovanile, egli aveva chiamato tale tensione Il sogno di una cosa. Un’espressione tratta da una lettera, scritta nel 1843 dal giovane Karl Marx ad Arnold Ruge, nella quale era scritto “Il mondo ha da tempo il sogno di una cosa”, riferendosi a una società giusta, libera, ove nessuno fosse più sfruttato ed oppresso. Anche I Vangeli hanno rappresentato, storicamente e filosoficamente, una tappa importante di quel sogno. Lo sanno bene credenti e non credenti di mente aperta e cuore sensibile e dunque chiamati su ciò a dialogare e collaborare tra loro. 4