Negli ultimi decenni del XX secolo nei paesi occidentali abbiamo assistito a una rivoluzione concettuale fondata su manipolazioni del linguaggio, cioè la sostituzione del concetto di differenza sessuale con il termine indeterminato “gender”. In sostanza, hanno cercato di rendere concreta e condivisa l’affermazione del famoso libro di Simone de Beauvoir Il secondo sesso: “Donne non si nasce, ma si diventa”. Le ragioni che hano permesso e favorito il sorgere di questa nuova ideologia sono molte, e di diversa natura. Da una parte, la caduta del muro di Berlino, a cui è pochi anni dopo seguita la grave recessione economica mondiale, hanno messo in crisi tutti gli apparati ideologici che avevano intessuto la vita politica: crollano infatti tutti i tipi di ideologia comunista e socialista, e poi anche il liberalismo capitalista. In questo vuoto, la caccia a nuovi valori con cui giustificare le scelte politiche ha portato a una sorta di “divinizzazione” dei Diritti umani, che da obiettivo che le società si dovevano porre sono diventati i valori guida indiscutibili, anche se spesso manipolati, subendo un ampliamento ed una trasformazione. L’utopia dell’uguaglianza, che aveva animato la lotta politica dell’800 e del 900, rinasce in settori prima marginali, come il femminismo, che diventa così una forma ideologica centrale, capace di riempire il vuoto lasciato dal fallimento delle ideologie comuniste. Per rafforzarsi, il femminismo doveva costituirsi come ideologia utopica che si richiamava all’utopia dell’uguaglianza, e doveva avere una conferma “scientifica”, così come il comunismo di Marx, che si era autodichiarato “socialismo scientifico”. La teoria del gender è un’ideologia a sfondo utopistico basata sull’idea, già propria delle ideologie socio-comuniste e fallita miseramente, che l’eguaglianza costituisca la via maestra verso la realizzazione della felicità. Negare che l’umanità è divisa tra maschi e femmine è sembrato un modo per garantire la più totale e assoluta eguaglianza – e quindi possibilità di felicità – a tutti gli esseri umani. Nel caso della teoria del gender, all’aspetto negativo costituito dalla negazione della differenza sessuale, si accompagnava un aspetto positivo: la totale libertà di scelta individuale, mito fondante della società moderna, che può arrivare anche a cancellare quello che veniva considerato, fino a poco tempo fa, come un dato di costrizione naturale ineludibile. La teoria del gender comprende quindi un aspetto politico (la realizzazione dell’uguaglianza e la possibilità senza limiti di scelta individuale), un aspetto storico-sociale (la giustificazione a posteriori della fine del ruolo femminile nelle società occidentali), un aspetto filosoficoantropologico più generale, cioè la definizione di essere umano e il rapporto fra questo e la natura. L’ideologia del gender è dunque una delle tante derive che ha preso l’utopia dell’uguaglianza: (p.17) scrive Michael Walzer “alla radice, il significato dell’uguaglianza è negativo” mira eliminare non tutte le differenze ma un insieme particolare di differenze, che varia secondo l’epoca e il luogo. Che si stesse trasformando in modo non controllabile il rapporto fra sessualità e genere lo aveva già capito Ivan Illich all’inizio degli anni Ottanta, e lo aveva raccontato nel suo libro Il genere e il sesso. Per una critica storica dell’uguaglianza (1984). Secondo Illich, il gender indica “una differenza di comportamenti, rintracciabile in tutte le culture vernacolari”, cioè distingue i luoghi, i tempi, gli utensili, i modi di parlare, i gesti e le percezioni associati agli uomini da quelli associati alle donne in modo proprio di un periodo e di un luogo. Il gender indica, in altre parole, una complementarità asimmetrica fra donne e uomini. Il sesso, invece, è il frutto di un discorso scientifico – nato nel tardo Settecento –che definisce la differenza in base a caratteristiche biologiche, e traccia una linea di confine fra normalità e anormalità. Illich sostiene che il processo storico è andato verso una cancellazione del genere – “il passaggio dal dominio del genere a quello del sesso costituisce un cambiamento della condizione umana che non ha precendenti” – e ne vede le cause nella modernizzazione: “Una società industriale non può esistere se non impone certi presupposti unisex: il presupposto che entrambi i sessi siano fatti per lo stesso lavoro, percepiscano la stessa realtà e abbiano, a parte qualche trascurabile variante esteriore, gli stessi bisogni”. Illich – che naturalmente era più favorevole al genere, cioè alla differenza complementare, che però avrebbe voluto meno diseguale – aveva intuito il processo di trasformazione sociale in corso, ma non i suoi sviluppi ideologici. Questi sarebbero invece andati in un’altra direzione: quella della condanna della differenza sessuale biologica in favore di una riscoperta del gender, non più come ruolo imposto dalla società, ma come possibilità di scelta sessuale individuale secondo la teoria queer – sviluppo libertario del gender – e cioè secondo scelte rinnovabili anche più volte nel corso della vita. Pur se in modo diverso, Illich aveva però senza alcun dubbio capito che la trasformazione sociale in corso stava muovendosi verso la cancellazione di tutte le differenze – anche di quella, fondamentale in tutte le culture, fra donne e uomini – con un ritmo che si è fatto sempre più veloce dopo la diffusione degli anticoncezionali chimici, negli anni Sessanta. La separazione fra sessualità e riproduzione, infatti, ha permesso alle donne di adottare un comportamento sessuale di tipo maschile – che forse non si adatta alla natura femminile, e dunque probabilmente non contribuisce ad aumentare la felicità delle donne, anche se questo è un altro discorso – e quindi di svolgere dei ruoli maschili rimuovendo ogni ostacolo, e cioè abolendo anche la maternità. La separazione fra sessualità e procreazione ha provocato una separazione fra procreazione e matrimonio, e quindi anche fra sessualità e matrimonio: poasiamo cogliere qui le condizioni per l’affermarsi dei “diritti” al matrimonio e al figlio avanzati dai gruppi omosessuali, e strettamente collegati all’idea di gender, cioè alla negazione dell’identità sessuale “naturale”. Come Gauchet ha messo in luce, queste trasformazioni hanno profonde conseguenze sul piano sociale: se la sessualità smette di essere un problema collettivo collegato al prolungamento del gruppo umano nel tempo, e diventa un affare privato ed espressione della propria individualità, ne discende ovviamente una crisi dell’istituto famigliare e un cambiamento nello statuto dell’omosessualità. Mentre una volta, infatti, era la famiglia che produceva il figlio come ovvia conseguenza dell’attività sessuale dei coniugi, oggi sempre più spesso è il figlio desiderato che crea la famiglia. E può essere considerata famiglia quella di chiunque desideri un figlio. Circa cinquanta anni dopo che la de Beauvoir aveva scritto quella frase, la sua idea sembrava finalmente trionfare. Se le identità sessuali sono solo costruzioni culturali, è possibile decostruirle, ed è quello che si propongono di fare movimenti femministi ed omosessuali. Chi ha dato una base scientifica a questa ideologia è stato un medico di Baltimora, che era stato collaboratore di Kinsey, John Money. In uno studio pubblicato nel 1972, e fondato sul caso di due gemelli, Money sembra portare la prova scientifica definitiva della sua teoria che non esiste una identità sessuale biologicamente fondata. Secondo lui, si trattava solo di un inganno della cultura patriarcale per tenere le donne lontane dal potere: bisognava dunque rifondare tutta la cultura, tutte le discipline, per conquistare libertà ed emancipazione. Come scrivono nell’introduzione Peter R.Beckman e Francine D’Amico (1994 Introduzione al volume Women., Gender and World Politics):“etichettare gli individui come donne (o uomini) è l’esercizio del potere, dal momento che l’etichetta crea nell’essere umano una serie di aspettative e dà l’indirizzo su cosa sono e cosa non sono” (p.24) Questa presunta prova scientifica dell’”eguaglianza” perfetta fra gli esseri umani viene a dare un unico sbocco al dibattito che si è svolto all’interno del femminismo dell’Otto e Novecento, in cui si sono alternate due posizioni, quella dell’uguaglianza e quella della differenza, creando le condizioni per cui i diritti per le donne potessero venire richiesti per motivi opposti, o perché le donne sono eguali agli uomini, o perché la loro differenza ha un valore. Con la “prova” scientifica di Money finisce per prevalere la prima, cioè quella che nega la differenza femminile a favore di una concezione neutra dell’essere umano. La tesi di Money è stata accolta con entusiasmo dal femminismo radicale americano, anche se è stata smentita pochi anni più tardi dal drammatico suicidio del “caso clinico” sul quale Money aveva realizzato la sperimentazione decisiva. Nella teoria del gender, infatti, le femministe hanno trovato una soluzione facile a una loro necessità: quella di spiegare l’origine della posizione subordinata della donna nella società, e dunque di individuare i modi per correggerla. L’idea che i confini fra uomini e donne non siano naturali, ma costruiti da una cultura “patriarcale”, ha suggerito infatti lo sviluppo di una fitta attività di decostruzione delle categorie culturali, considerata essenziale per poter pensare il mondo dal punto di vista delle donne. Di qui il successo di Money, nonostante le smentite alle sue tesi e il fatto che la ricerca scientifica abbia confermato come la differenza maschio/femmina sia presente già nel DNA di ogni essere umano. A questa realtà – questa sì veramente “scientifica” - si è opposta con successo la filosofa americana Judith Butler, l’interprete più famosa del pensiero del “gender” e del “queer”, cioè colei che con più autorevolezza ha teorizzato che bisogna cancellare l’identità eterossessuale come normale e normativa per aprirsi a tutte le altre possibilità. Quando la Butler afferma che il desiderio è “queer” – cioè indeterminato e indeterminabile, ma essenzialmente mobile, instabile, nomade – è ben consapevole di fare un’affermazione politica che vuole mettere radicalmente in questione gli assunti normalizzatori in vigore nella società. Significa, con le sue parole, “chiamare esplicitamente in causa la forza del desiderio a testimone politico dell’inconsistenza di ogni pretesa di normalità” (La disfatta del genere, Meltemi). “L’esigenza di essere riconosciuti – scrive a proposito delle unioni omosessuali – rappresenta una richiesta politica molto potente, può condurre a nuove forme di gerarchia sociale”, in quanto può arrivare a mettere in discussione il principio su cui si basa ogni sistema legislativo, cioè il carattere universale delle leggi: “Ciò che davvero conta è cessare di legiferare per tutti imponendo qualcosa che è vivibile solo per alcuni e, similmente, smettere di vietare a tutti ciò che risulta intollerabile solamente ad alcuni. Le differenze di posizione e di desiderio stabiliscono i limiti alla possibilità di universalizzazione di quanto riflesso etico”. In sostanza, i cambiamenti in atto dovrebbero portarci a negare che “la differenza sessuale sia una differenza primaria” e quindi di aprire la nostra cultura a ipotesi rivoluzionarie: un’occasione, insomma “perché nuove forme di parentela e nuovi assetti sessuali costringano a ripensare la cultura stessa”. Coloro che sostengono come l’introduzione della legalizzazione delle unioni omosessuali sia innocua dovrebbero rileggersi i filosofi che hanno costruito l’ideologia con cui li giustificano, cioè quella del gender, e riconoscere che non si tratta di un provvedimento di poco peso e di una semplice estensione dei diritti individuali, ma un passo rivoluzionario e, per molti di noi, estremamente pericoloso. Sul quale è necessario fermarsi a riflettere con serietà. La chiave della rivoluzione del gender è il linguaggio, come ha ben capito il premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, che solo cambiando qualche termine – “genitore” invece di “madre” e “padre”, “parentalità” invece di “famiglia” – è riuscito a cancellare nei documenti la famiglia tradizionale. Con un’altra operazione artificiosa si sostituiscono “sesso” con “sessualità” e “sessuato” con “sessuale”, per confermare che non conta la realtà, ma solo l’orientamento del desiderio. Come però ricorda lo studioso Xavier Lacroix, rimane invece indispensabile “riconoscere l’apporto che il carnale dà al simbolico e al relazionale”: capire cioè che l’ancoraggio fisico della paternità in un corpo maschile e della maternità in un corpo femminile costituisce un dato di fatto irriducibile e strutturante che deve essere recepito non solo come un limite, ma come una fonte di significato. Bisogna insomma ammettere che al di là dello spermatozoo o dell’ovulo c’è qualcuno, mentre il concetto di omoparentalità elimina qualunque leggibilità carnale dell’origine. I diversi sistemi di parentela che esistono al mondo hanno variamente articolato il fisico e il culturale, ma li hanno sempre articolati, perché la sfida centrale della famiglia consiste proprio nel tenere insieme coniugalità e parentalità. Si tratta quindi di una vera e propria sfida antropologica al fondamento culturale non solo della nostra società ma di tutte le società umane, come dimostra la critica avviata dai teorici del gender (per esempio, dalla filosofa americana Judith Butler) a Lévi-Strauss e a Freud, colpevoli di avere fondato i loro sistemi di pensiero sulla differenza sessuale fra donne e uomini. E la demonizzazione di ogni tipo di differenza non solo si basa su una utopia di uguaglianza proposta come via maestra verso la felicità – un’utopia che senza dubbio ha le sue origini proprio in quella socialista che ha mostrato le sue disastrose realizzazioni nel secolo appena trascorso – ma in questo caso si arriva a un esito estremo del pensiero decostruzionista, e cioè alla negazione dell’esistenza della natura stessa. Secondo un interessante documento sul gender pubblicato nel dicembre 2006 dalla Conferenza episcopale francese – La problématique du “genre” (che “I Quaderni di Scienza & Vita” hanno tradotto in italiano nel loro secondo numero) – la realtà di natura non sarebbe del tutto ignorata, ma piuttosto considerata come non attiva, e in ogni caso da sottomettere. Se ogni tipo di differenza, sancita da una definizione sociale, è letto come un sistema di potere, sulla scorta di Foucault, si può vedere in ogni superamento di paradigma un momento evolutivo di liberazione, secondo una nuova forma di darwinismo sociale. Le forme più diffuse e più facilmente vivibili di relazioni affettive e sessuali sono così considerate come quelle evolute, che quindi devono imporsi, mentre l’“eterocentrismo” viene considerato un momento della storia dello sviluppo umano ormai non più adatto e da superare. Riappare così un’idea di rivoluzione sessuale di natura evoluzionista che già si era affermato all’inizio del Novecento, come aveva con chiarezza affermato una delle più famose “profetesse” di una rivoluzione sessuale di stampo femminista, la svedese Ellen Key, che ha conosciuto una grande fortuna anche in Italia con il suo bestseller L’Amore e il matrimonio (1909). In questo libro la Key espone la sua idea evoluzionista di morale sessuale, che prevede la fine del matrimonio: “La vita è una evoluzione continua, e in conseguenza di ogni evoluzione muoiono certe verità che una volta erano ritenute vitali e se ne formano delle nuove”. Bisogna quindi “trionfare del pregiudizio nutrito dal cristianesimo” con una nuova morale, cioè “quella che si basa sulla bontà fondamentale della natura umana e sull’uguaglianza di tutti gli uomini”, perché sicuramente l’umanità sta per innalzarsi “alla superumanità” . Questa nuova morale è fondata sull’idea che “la felicità dell’individuo sia la condizione essenziale per la felicità dell’umanità”. Liberarsi dal “dogma dell’eterocentrismo” per aprirsi ad ogni tipo di identità, e quindi di unione, sarebbe perciò – lo sentiamo ripetere di continuo – un progresso. Si procede così irresponsabilmente per questa strada, dimenticando che non si tratta di un semplice allargamento dei diritti individuali, ma di una trasformazione antropologica così profonda da toccare le fondamenta dei processi cognitivi umani: i bambini, fin dai primi mesi, colgono la distinzione sessuale – anche senza informazioni sui genitali, e non certo per la differenza del loro statuto sociale – e questa struttura binaria diventa un fattore potente di organizzazione del loro apprendimento e del funzionamento sociale. I processi cognitivi di categorizzazione sono potenti: cosa può succedere agli esseri umani se poi vengono smentiti dall’ideologia? E cosa può succedere di una società in cui le persone non incontrano più la differenza sessuale, cioè non vivono più quell’esperienza che – scrive la Agacinski – “mette ciascuno di fronte a una finitezza che gli impedisce di prendersi, lui solo, per l’incarnazione dell’‘uomo’ e che lo obbliga a coesistere con l’altro”? L’ideologia del gender è stata recepita con entusiasmo soprattutto dalle organizzazioni internazionali, perché corrisponde alla politica di allargamento dei diritti individuali che è considerata il fondamento della libertà democratica: il volume di Dale O’Leary Maschi o femmine? La guerra del genere (Rubettino) – uscito quasi dieci anni fa negli Stati Uniti dove ha suscitato grande interesse – racconta come il problema del genere sia stato al centro della battaglia politica nelle conferenze ONU del Cairo e di Pechino, a cui la O’Leary ha partecipato personalmente. Il testo ha il merito di raccontare una storia poco conosciuta, cioè come – per esprimersi con le parole, citate dall’autrice, dell’Istituto di ricerca per l’avanzamento delle donne (INSTRAW) – “adottare una prospettiva di genere significa (…) distinguere tra quello che è naturale e biologico da quello che è costruito socialmente e culturalmente, e nel processo rinegoziare tra il naturale – e la sua relativa inflessibilità – e il sociale – e la sua relativa modificabilità”. In sostanza, significa negare che le diversità fra donne e uomini siano naturali, e sostenere invece che sono costruite culturalmente, e quindi possono essere modificate a seconda del desiderio individuale. L’adozione di una “prospettiva di genere” è stata la linea ideologica adottata con forza da alcune delle principali agenzie dell’ONU e dalle ONG che si occupano di controllo demografico, con il sostegno della maggior parte delle femministe dei paesi occidentali, ma con l’opposizione dei molti gruppi nati a difesa della maternità e della famiglia. Da qui il termine gender (che è più elegante e neutro di “sesso”) non solo è entrato nel nostro linguaggio, ma è usato addirittura nella denominazione di un filone di ricerca accademica – i Gender Studies – spesso però nell’inconsapevolezza del suo rivoluzionario significato ideologicoculturale. Tanto che la nuova categoria ha avuto anche applicazioni positive sul piano scientifico, come nella ricerca storica, dove in sostanza è servita a rendere consapevoli gli storici della costruzione sociale delle identità sessuali e a ricordare che esse si formano in una dimensione di relazione, aprendo così quella che era nata come storia delle donne a una attenzione anche ai ruoli maschili. Ma la sua vera ragion d’essere, come ha ben spiegato la O’Leary, è essenzialmente sul piano politico, soprattutto per la sua utilizzabilità ai fini della totale normalizzazione della sessualità omosessuale. Anche le istituzioni culturali si sono aperte a questa nuova possibilità: lo dimostrano due libri recenti, Altri femminismi (Manifestolibri), curato dalla Società Italiana delle storiche, e Omosapiens. Studi e ricerche sugli orientamenti sessuali (Carocci). Il concetto di gender rappresenta in questi studi il primo passo per sviluppare in modo più ampio lo sganciamento dell’identità sessuale dalla realtà biologica, tanto che, come si sostiene, il gender ha il suo logico sviluppo nell’approccio queer, cioè nella prospettiva dell’identità sessuale come scelta mobile e revocabile, anche più volte nel corso della vita. Secondo Dale O’Leary, i fautori della potente rete che sostiene il gender nel mondo delle agenzie internazionali sono: 1.il gruppo che si occupa del controllo della popolazione 2 quello dei libertari della sessualità 3 gli attivisti dei diritti dei gay 4 i promotori multiculturali del polically correct 5 la componente estremista degli ambientalisti 6 i neo.marxisti 7 i decostruzionisti post-modernisti Lobby potenti, che gestiscono la costruzione del pensiero polically correct nei paesi occidentali. Eppure, come gli studi scientifici hanno dimostrato e continuano a dimostrare, parlare di identità maschile e di identità femminile ha senso innanzitutto proprio dal punto di vista biologico. Oltre che infondata, la teoria del gender sottintende una visione politica estremamente pericolosa, facendo credere che la differenza sia sinonimo di discriminazione. Eppure, il principio di uguaglianza non richiede affatto di fingere che tutti siano uguali: solo nella misura in cui l’esistenza della differenza venga effettivamente riconosciuta e considerata, si potrà realmente dare a tutti, allo stesso modo e in pari grado, piena dignità e uguali diritti. Nulla di nuovo, sia chiaro: è da tempo che il diritto e la filosofia vanno ribadendo come l’autentico significato del principio di uguaglianza risieda non nel disconoscere le caratteristiche individuali, fingendo un’omogeneità che non esiste, ma, al contrario, stia proprio nel dare a tutti le stesse opportunità. Il laico Norberto Bobbio affermava che gli uomini non nascono uguali: è compito dello Stato metterli in condizione di divenirlo. Come ribadiscono, tra gli altri, la Chiesa cattolica e parte del femminismo, la vera uguaglianza si verifica non solo quando soggetti uguali vengono trattati in modo uguale, ma anche quando soggetti diversi vengono trattati in modo uguale. La parità tra i sessi non si ottiene certo facendo entrare le donne in una categoria astratta di individuo (categoria che, tra l’altro, non esiste, essendo tarata sul modello maschile), ma si raggiunge partendo dal presupposto che la società è composta da cittadini e da cittadine. Certo, è indubbio che fino ad oggi la differenza tra i sessi quasi sempre e quasi ovunque ha assunto la forma di una gerarchia tra gli uomini e le donne, in cui è sempre stato preordinato il maschio. Si tratta, però, di piani diversi: la subordinazione non sta nella natura, ma nell’illecito uso che di essa si è fatto, e si continua a fare. È su questo illecito uso ancora presente che dobbiamo concentrarci, come tentano di fare un saggio di Alain Tournaine (Il mondo è delle donne (il Saggiatore 2009) e quello di Anne Stevens docente di European Studies a Birmingham, Donne, potere, politica (il Mulino 2009). Entrambi dedicano molte osservazioni alla politica, che è forse oggi, soprattutto nei paesi occidentali, il luogo più eclatante della disparità tra i sessi. A fronte di un corpo elettorale pariteticamente composto da uomini e donne, infatti, i rappresentanti eletti sono in massima parte maschi. Il tema, a cui si è tentato di dare anche spiegazioni storiche, è complesso e spinoso. Eppure è indubbio che la democrazia richieda la contestuale presenza in politica sia degli uni che delle altre. Ovviamente esiste una grande varietà di posizioni su come risolvere, in concreto, il problema della scarsa rappresentanza femminile. Noi rimaniamo convinte che dovrebbero essere gli stessi partiti ad autodisciplinarsi affinché le liste elettorali rispondano effettivamente ad un principio democratico, assicurando una rappresentanza tendenzialmente paritetica in società composte da donne e uomini. Intervenendo così, (e non imponendo invece le quote per legge), i partiti sarebbero infatti obbligati ad investire nella formazione di una classe politica competente e preparata composta da entrambi i sessi, invece di ricorrere a candidature femminili improvvisate, a ridosso della scadenza elettorale. La politica, però, è solo uno degli aspetti della disparità ancora in atto. Anne Stevens analizza anche il mondo del lavoro (segregazione verticale e orizzontale, disparità retributiva), lo stile di vita, le aspettative sociali e l’impiego del tempo. Qui è sufficiente un solo esempio concreto: le domande rivolte alle vittime di violenza sessuale sono ancora oggi umilianti, in modo non paragonabile a quelle rivolte alle vittime in altri processi penali. Tra i nodi affrontati da Alain Touraine, invece, ne segnaliamo due. Il primo è quello, urgente e grave, della spaventosa violenza di cui le donne sono vittime (come la cronaca nera ci attesta pressoché quotidianamente), un vero allarme sociale rispetto al quale dovremmo interrogarci molto seriamente a diversi livelli. L’altro, è relativo al fatto che la maggior parte delle giovani donne di oggi rifiuta di definirsi femminista, esprimendo fastidio o addirittura inquietudine rispetto al termine. Touraine spiega questa presa di distanza con il fatto che per le donne di oggi il femminismo “è completamente integrato al mondo politico”. Questa vicinanza lo avrebbe definitivamente sminuito, trattandosi di una generazione che nutre una completa sfiducia nella capacità della politica di migliorare le cose. Una politica, inoltre, che viene percepita come intrinsecamente debole essendo fondata sulla (falsa) uguaglianza, quando le giovani donne di oggi sanno che maschi e femmine uguali non sono. Touraine, però, rifiuta di definire il movimento delle donne come rivoluzionario (definendolo, in opposizione, democratico). A nostro avviso, però, la qualifica di rivoluzionario non è tanto una questione di metodo, quanto piuttosto di risultato. Certe che il femminismo tout court non esista (si pensi, su tutte, alla contrapposizione tra femminismo dell’uguaglianza e femminismo della differenza), e consapevoli che anche il femminismo ha avuto i suoi limiti ed ha compiuto i suoi errori, non possiamo però negare che il cambiamento profondo della vita delle donne nel corso della seconda metà del Novecento, abbia rivoluzionato radicalmente, nel bene e (forse) un po’ anche nel male, la società nel suo complesso. Oltre alle stesse donne. Una critica radicale dell’ideologia del gender intesa come teoria dell’uguaglianza si è sviluppata all’interno del femminismo: da una parte, nel femminismo americano ha cominciato ha individuare una diversa etica, maschile e femminile. La prima è stata la filosofa Carol Gilligan Con voce di donna.Etica e formazione della personalità (1987): “fin dall’infanzia, a causa del rapporto figlia-madre (rapporto che permane senza conflittualità) e figlio-madre (rapporto che si spezza perché il figlio cerca l’indipendenza dalla madre), le personalità etiche del bambino e della bambina si differenziano in maniera essenziale e definitiva”. Ma da molte intellettuali femministe l’esistenza di una differenza femminile viene negata anche quando questa differenza è proposta in senso positivo, come moralità superiore fondata sull’etica della cura, in contrapposizione alla differenza maschile della giustizia e dei diritti, come ha sostenuto la filosofa. Questa tesi, infatti, è stata sottoposta a una critica serrata da un’altra filosofa, Joan Tronto, che considera la predisposizione alla cura solo come una costruzione culturale. Traspare da questa disputa l’ansia di alcune femministe che, nel tentativo di porre fine alla condizione marginale delle donne nella società, preferiscono rinnegare la differenza femminile in cambio di una “neutralità” che sembra loro più rassicurante. Dimenticando – come scrive Sylvane Agacinscki – che “ciò che fonda la parità è l’universale dualità del genere umano”, cioè proprio il porre “la differenza sessuale come differenza universale”. Questa linea critica è stata approfondita da Eva Feder Kittay (La cura dell’amore,Vita e Pensiero, 2010). L’autrice parte da una delle domande chiave del femminismo: come mai le donne, anche quando hanno ottenuto uguali diritti, non ottengono una uguaglianza di fatto nella società? Perché l’uguaglianza si è dimostrata così irraggiungibile per le donne? Kittay risponde dicendo che l’uguaglianza è possibile solo per le donne che non hanno responsabilità di cura, e forse non è il tipo di uguaglianza che le donne desiderano: p.XXI “l’indipendenza che spesso le donne cercano non è quella forma di indipendenza isolata che la filosofia liberale proclama, ma una forma che richiede il presupposto della responsabilità sociale per aiutare e supportare le relazioni di dipendenza”. Kittay infatti scrive che le sembra che si possa delineare una critica dell’ideale di uguaglianza che chiama “critica della dipendenza”. Tale critica della dipendenza è una critica femminista dell’uguaglianza e sostiene che la concezione della società vista come associazione di eguali maschera o occulta ingiuste dipendenze, legate all’infanzia, alla vecchiaia, alla malattia e alla disabilità p.XXXII E’ necessario quindi cercare di chiarire un’idea di uguaglianza tanto radicale da abbracciare la dipendenza, perché nessuna cultura estesa oltre una generazione può considerarsi al sicuro dalle esigenze della dipendenza (p.3) e perché le identità di gruppo costituiscono una sgradita intrusione di differenza nell’ideale di uguaglianza. Anche se è evidente la natura di genere del lavoro di dipendenza, sappiamo che non è obbligatorio che siano donne ad eseguirlo, anche se comunque considerato un lavoro di livello inferiore, quindi spesso affidato ai lavoratori immigrati. La Kittay afferma quindi che l’uguaglianza sarà sempre formale, o addirittura vacua, finché la prospettiva della differenza non sarà riconosciuta e incorporata nel tessuto della teoria e della pratica politica (p.5), anche se è ben consapevole della difficoltà di questo, perché l’incontro con la dipendenza è raramente ben accolto tra coloro che si nutrono di libertà ideologica, di autosufficienza e di uguaglianza (p.11). Con la creazione delle utopie di uguaglianza e di autonomia individuale, abbiamo costruito delle finzioni che ci danneggiano, perché fondate su un ideale che presuppone indipendenza, ben lontano dalla realtà. Le critiche femministe all’uguaglianza sono significative, perché denunciano che molti hanno supposto che concedere maggiori possibilità alle donne significava necessariamente pretendere tutto ciò che gli uomini si erano accaparrati (p.19). Le donne invece non vogliono più considerare il genere maschile come modello di riferimento. Ormai è un fatto acquisito che le donne prendono decisioni morali in modo diverso, e quindi vogliono trattamento specifico. Le donne sanno ormai, sostiene Kittay, che la neutralità di genere non farà che perpetuare quelle differenze che sono già in gioco. Se, d’altra parte, mettiamo in evidenza la differenza, corriamo il rischio di ridurre le donne a mere vittime (p.26) Molto interessante è la critica all’ideologia del gender avanzata dalla filosofa femminista francese Sylviane Agacinski, secondo cui “la promiscuità del genere umano non rappresenta solo un dato dell’antropologia fisica: essa rappresenta anche una dualità culturale strutturante nonché un valore, in quanto essa è generatrice di singolarità e di eterogeneità” (la politica dei sessi, p.136). Secondo la Agacinski “si nasce femmina o maschio, si diventa donna o uomo. Lungi dal dipendere soltanto da un programma aanatomico, essa riguarda scelte psichiche consce o inconsce, e chiama in causa modelli sociali. Il fatto che non ci sia conseguenza obbligata tra l’identità biologica e l’identità psicologica, tra il sesso anatomico e il genere sessuale sociale, non cancella affatto il principio della differenza. Nemmeno l’inversione deliberata dei modelli tradizionali di comportamenti maschili o femminili sovverte il principio della dualità dei modelli nelle loro forme culturali”(p.15-16) Sul piano filosofico, Agacinski osa criticare apertamente il dogma di Simone de Beauvoir: “è ora di rompere i ponti con la logica del Secondo sesso che ha concepito l’emancipazione delle donne solo a partire da una negazione dell’identità sessuale. Ho capito che la libertà esaltata dalla filosofa si pagava a prezzo di un assurdo rinnegamento della natura, della maternità e del corpo femminile come se la donna avesse sofferto di un handicap naturale legato al suo corpo e alla sua funzione biologica. Il corpo femminile è costantemente descritto come un fardello di carne che imprigiona la donna e che fa di lei un oggetto, strumento del desiderio e dell’attività maschili. La fecondità femminile naturale non può a priori e in generale essere qualificata come svantaggio in rapporto a degli individui maschili” (p.59-62) Molto chiara è anche la sua critica all’utopia dell’eguaglianza che si nasconde dietro la teoria del gender:“due cose sono o identiche o differenti, anche se un oggetto può essere identico a un altro da un certo punto di vista, e differente da un altro punto di vista, o sotto un altro aspetto. Quanto all’uguaglianza, essa si oppone alla disuguaglianza, e non alla differenza” (p.178) Tanto che si può affermare che “a partire dal suo “ancoraggio” biologico, la differenza maschiofemmina costituisce un modello che struttura universalmente le società, quantunque i valori e i contenuti attribuiti a questa differenza siano culturalmente variabili”(p.20) E’ nota la posizione della Chiesa rispetto a questo tema, ben chiarita dalla Lettera ai Vescovi sulla collaborazione fra donne e uomini dell’allora cardinale Ratzinger. E’ interessante però ritrovare elementi di questa polemica contro il gender anche in molte femministe laiche, che contribuiscono alla creazione di una opinione pubblica critica nei confronti dell’introduzione di questo termine nei testi pubblici e delle leggi che ne derivano. Ci sono inoltre delle contraddizioni interne alla società contemporanea che rendono difficile una vera applicazione della teoria del gender, contro cui si scontrano anche gli organismi internazionali. Come segnala Giulia Galeotti (Gender Genere, Viverein, 2010), infatti, i nodi irrisolti sono almeno tre: 1) oggi si assiste ad un incremento di femminilità e mascolinità nelle donne e negli uomini occidentali, anche nel vestire ecc. prevalgono di meno i soggetti indistinti. 2) la scarsa presenza femminile in parlamento. La volontà di dividere il potere fra uomini e donne può essere legittima solo se si ammette che il sesso non è un tratto sociale ma un tratto differenziato universale. 3) questione dell’aborto, in cui le legislazioni stabiliscono che solo la donna decide. Ma allora le donne esistono!