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“TI CONDURRÒ LUNGO VIE DI ETERNITÀ”
Celebrare nello Spirito la vita fraterna
Andrea Arvalli ofm conv
Dopo il silenzio e la lettura (o ascolto) della Parola, trattati nei primi due articoli,
veniamo ora ad un altro importante aspetto programmatico d’una vita spirituale
rinnovata secondo il Vangelo: la vita fraterna. Vorrei presentarla attraverso la metafora
della musica perché la vita fraterna, per essere o divenire divinamente bella (buona e
vera) ha bisogno, come la musica, d’essere divinamente ispirata (la parola musica
lascia presagire il dono delle Muse, sue divine ispiratrici). Inoltre la vita fraterna è come
una colonna sonora che accompagna tutta la nostra vita: in essa siamo immersi in ogni
momento.
Edificare evangelicamente la dimora della vita comunitaria significa impegnarsi nell’arte
di suonare la musica divina dell’amore reciproco. Vale la pena specificare il nostro
linguaggio: la casa è l’edificio materiale, di pietra, mentre la dimora è il focolare, il
clima di famiglia; così mentre la casa è l’edificio materiale, di pietra, allo stesso modo
v’è differenza fra la comunità (che indica l’aspetto istituzionale) e la vita fraterna.
Quest’ultima indica il clima relazionale che l’anima ed ispira. Non è romanticismo:
senz’anima le istituzioni ingrigiscono e divengono asfittiche. Regole ed istituzioni sono il
pentagramma, ma sono le note scritte sopra a determinare la bellezza ed il fascino
della melodia. Quali melodie suoniamo e cantiamo quotidianamente nelle nostre
relazioni (senza … suonarcele, e … cantarcele)?
In quale casa abitava Gesù e quale musica suonava? Pellegrino senza stabile dimora
non aveva luogo dove posare il capo, ospitato finiva con l’essere Lui colui che ospitava i
suoi ospiti nell’albergo accogliente della sua sontuosa amicizia... È misterioso, ma
intenso, il rapporto fra povertà e maturità relazionale. Più elevata e matura è la
capacità d’intimità, più grande è la libertà dal bisogno di possedere (cose, case e
persone). Maturità affettiva e povertà sono tanto connesse da essere indistinguibili:
quasi la stessa cosa, se non fosse per i loro contenuti diversi. Il problema dell’essere
poveri è un problema di capacità di amore gratuito e senza ricompensa. Gesù tesse
un’articolata rete d’amicizia discepolare, germe d’origine della sua vera casa: la chiesa.
La casa del vangelo che non crolla quando soffiano i venti, è fondata non sulla roccia di
belle pietre ma d’autentica amicizia e prossimità.
È la vita fraterna in comunità, la palestra, ed il test della chiamata evangelica a farsi
prossimo. La vita fraterna delle nostre comunità è il test, il quizzone della nostra
maturità evangelica ed apostolica. Francesco di Assisi lo proclamerà dicendo che la sua
casa era là dove il Signore gli donava dei fratelli. La libertà francescana da luoghi e
strutture era fondata sulla convinta esperienza che vera domus è l’evangelica fraternitas.
Così è scritto nella regola francescana: “I frati non si approprino di nulla, né casa, né
luogo, né alcuna altra cosa. E come stranieri e pellegrini in questo mondo, servendo il
Signore in povertà e umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia” (Regola Bollata VI;
FF.90). La vita fraterna è segnata dalla xeniteia (l’esser stranieri e pellegrini), capaci
cioè di distacco da luoghi e possessi. Vera casa è una vita fraterna spaziosa, profumata
di rispetto, addolcita dal perdono. Questa vita fraterna rende viva e leggibile, nella
compagine ecclesiale, la presenza, quasi sacramentale, di un Dio che sa perdonare. Il
perdono reciproco è musica che anche i sordi odono, germoglio che anche i ciechi
vedono, concretezza che le nostre mani toccano. Il perdono reciproco è lampada posta
sul lucerniere perché risplenda non la perfezione d’improbabili virtù, ma l’inerme povertà
di un perdono settanta volte sette donato in un’instancabile ripetizione. Nella sua Regola
S. Francesco ammonisce: “E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di
qualcuno, poiché l’ira e il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri”(Regola
Bollata VII; FF. 95). Nel perdono accordato al fratello il volto del Padre si rivolge a noi,
come assicura la benedizione tanto amata dal poverello di Assisi: il Signore benedica te
e te custodisca, mostri a te il suo volto e abbia di te misericordia, rivolga verso di te il
suo sguardo e ti dia pace (FF.262).
Farsi fratelli gli uni gli altri nel perdono, nella mitezza e nella misericordia non è cosa
facile ed immediata. Richiede una lotta serrata contro il narcisismo a partire da un
radicale de-centramento dell’io ed un’umile sottomissione reciproca. La concretezza
comunitaria fa venire alla luce l’ipertrofia del nostro io sovradimensionato, vari sintomi
lo tradiscono: il bisogno d’apparire e di ricevere conferme, il senso di superiorità, le
rivalità, la persistenza di risentimenti e rancori che si perpetuano inestinguibili. Che
triste vedere un cristiano approssimarsi alle rive della morte, propria od altrui, senza
essere ancora capace d’un gesto d’umiltà, di mitezza, di riconciliazione. Che triste
questo indurimento nell’amara incapacità d’accantonare torti ricevuti, rivalità patite,
offese subite, ingiustizie. Ci può essere prova più drammatica e triste d’un naufragio
spirituale consumato?
Solo un “io” ri-dimensionato e relativizzato sa aprirsi alla responsabilità, che è fare
spazio all’altro, ed agli altri, nella propria vita. Potremmo parafrasare così: là dove c’era
l’io ora trova spazio anche il “tu”, e dopo il tu, anche il lui, il noi. Imparare a dire noi è
il frutto d’una vita fraterna in comunità vissuta a partire da un’interiorità cristianamente
formata. Esigiamo troppo? Si chiama senso d’appartenenza e matura nell’esperienza
esistenzialmente ed emozionalmente vissuta d’appartenere a qualcun “altro” (da me),
essa richiede reciprocità, perché se tu appartieni al fratello anche il fratello
t’appartiene: egli s’è donato e consegnato a te, e tu ora sei responsabile dei suoi doni.
La comunità diventa spazio di riconoscimento e valorizzazione di doni armonizzati per il
bene comune. Non è fatta per incoronare alcuni di gloria (per farli primeggiare) ma
perché i più fragili siano custoditi e promossi. Non è fatta per procurare occasioni di
mettersi in mostra, ma per lavare i piedi degli altri in un servizio nascosto (ma
trasparente). Osserviamo le nostre riunioni comunitarie, i nostri capitoli provinciali,
generali: che cosa vediamo, che cosa scorgiamo, o comprendiamo? Sono le felici
occasioni per vedere realizzate le raccomandazione paoline di rivaleggiare nello stimarsi
a vicenda e nel considerare gli altri superiori a se stessi?
La comunità è fatta per ricercarci a vicenda; grande è lo smarrimento in cui versiamo,
ed una domanda rabbrividisce nel segreto del cuore: esisterà mai, da qualche parte, un
fratello che mi venga a cercare, che mi chiami per nome e mi ri-chiami quando sono
smarrito? Sono forse solo? Presagio d’altra voce e d’altro richiamo, eco d’una speranza
da rinnovare, l’esperienza d’essere riconosciuti e chiamati per nome apre il cuore alla
consolazione. In queste fibre della vita fraterna, nell’esperienza d’essere cercati e
ritrovati pur nel nostro smarrimento, nasce il rispetto reciproco e di sé stessi,
sperimentiamo di non esser soli e d’essere accolti nella nostra verità e fragilità più
autentiche. Esperienze umane alte che ci fanno superare la vergogna della nudità, la
paura d’essere puniti, l’angoscia della perdita, trasformano il cuore, dilatandolo e
rendendolo capace d’amore generativo. Discrimine d’autentica interiorità evangelica
sarà pertanto una vita comunitaria vissuta accontentandosi d’osservare il “galateo”
delle “regole della vita comune”, oppure una vita fraterna in comunità vissuta come
musica dello Spirito ispirata dall’alto.
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