Storia dei paesi dell`Est

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Storia dei paesi dell’Est
Europa dell’Est o Europe dell’Est?
Nei primissimi anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, l’Europa dell’Est era una realtà
facilmente definibile. L’espressione indicava l’insieme di Stati occupati direttamente o meno
dall’Armata Rossa negli ultimi mesi di guerra, che erano diventati democrazie popolari, cioè Stati “in
cui il potere appartiene al popolo, l‘industria pesante, i trasporti, le banche allo Stato, e la forza
dirigente è costituita dalle classi lavoratrici con in testa quella operaia”. Questi otto Stati, insieme
all’URSS formano quello che era definito ‘blocco sovietico’. L’Europa dell’Est non coincide con la
definizione geografica del termine: si pensi alla Polonia, definita tale a causa del suo sistema politicoeconomico, ma che si trova nel cuore dell’Europa, o alla Grecia, realmente posta ad est ma non
considerata facente parte del gruppo. Confine tra mondo occidentale ed Europa dell’Est era la “cortina
di ferro“, termine in seguito bandito perché poco diplomatico. Ciò non toglie che questa ‘cortina’ sia
stata una realtà tangibile,frontiera minata e sorvegliata che divideva due mondi differenti e che i
berlinesi hanno avuto il triste privilegio di possedere al centro della città. L’Europa dell’Est è anche
l’Europa del Patto di Varsavia -tranne la Jugoslavia che non volle mai farne parte, e l’Albania, che si
ritirò- cioè un’Europa caratterizzata dalla presenza dell’Armata Rossa. Questa unità apparente apparve
nel tempo sempre più illusoria. Dopo quarant’anni di regime socialista, le diversità nazionali e le
tradizioni culturali e religiose sono comunque rimaste intatte.
(Parte prima)
IL PESO DEL PASSATO
L’insediamento dei popoli.
La protostoria.
Il popolamento dei territori oggi definiti Europa orientale risale ad epoca remotissima,ma le nostre
conoscenze a riguardo sono poche,poiché queste regioni sono vissute senza quasi nessun contatto con
le grandi civiltà mediterranee. Ad eccezione dei Protofinnici,che arrivarono in piccoli gruppi nel I
millennio a.C. , le prime popolazioni conosciute dell’Europa orientale sono tutte Indoeuropee. Durante
il III millennio, gli indoeuropei vivevano nelle steppe che si estendono dai Carpazi fino al sud
dell’Ural. Alla fine del III millennio la maggior parte di essi iniziò a disperdersi e a differenziarsi.
Durante il II millennio alcuni entrarono anche a contatto con le civiltà mediterranee, che assimilarono e
che furono la base della civiltà greca e romana. Tuttavia la stragrande maggioranza degli Indoeuropei si
stabilì in zone lontane dal mondo mediterraneo.
Ellenizzazione e romanizzazione dei Balcani e dei paesi danubiani.
Fin dal I millenio a.C. i Greci cercarono di assicurarsi il controllo delle regioni montuose poste a nord
del loro paese, riuscendoci nel V e IV secolo a.C. Attraverso queste colonie la civiltà greca penetrò
lentamente nei Balcani. Quando Roma subentrò ai Greci in questa regione, a partire dal II secolo a.C. il
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destino della parte meridionale dell’Est europeo venne strettamente legato a quello di Roma per molti
secoli. All’inizio del II secolo a.C. il contrasto tra l’Europa orientale rimasta libera e quella sottomessa
a Roma si presentava strettamente marcato. Da un lato, vi erano tribù nomadi disorganizzate, divise.
Dall’altro, invece, vi erano territori ben amministrati, con città in pieno sviluppo e la cui creazione era
stata voluta da Roma sia per scopo militare che per difendere la cultura latina. Nelle campagne, la
romanizzazione rimase più o meno superficiale, a seconda delle regioni. L’effetto più duraturo
dell’occupazione romana fu l’introduzione del Cristianesimo a partire dall’inizio del III secolo, ma che
si diffuse durante il IV e V secolo principalmente nelle regioni vicine alla Grecia e al litorale dalmata.
La prima ondata delle grandi invasioni ( II - V secolo ).
A partire dal III secolo, l’Impero romano dovette periodicamente subire le razzie dei barbari. Qui
hanno inizio le “grandi invasioni”, che oggi sarebbe meglio definire come “migrazioni di popoli”. I
primi attacchi cominciarono nel 180 con la morte di Marco Aurelio. Nel momento in cui l’Impero si
indebolì a causa di tensioni interne, la situazione diventò più critica, avvenendo anche una
trasformazione del mondo barbaro: le tribù germaniche, per molto tempo isolate tra loro, cominciarono
ad unirsi costituendo vere federazioni di popoli. Tra il 235 e il 270, approfittando delle difficoltà che
tormentavano il mondo romano, i Germani moltiplicarono i loro attacchi. Con Costantino, l’Impero
romano sembrò ritrovare una certa calma e concluse alcuni trattati con i capi barbari, rendendo i loro
popoli dei federati: in cambio di terre e viveri essi si impegnavano a difendere le terre danubiane e
renane e a fornire soldati. Tuttavia a partire dal 370, l’entrata in scena degli Unni, provenienti
dall’Asia, mise fine a quasi un secolo di pace. Dopo aver provocato la migrazione di Ostrogoti e
Visigoti verso ovest, gli Unni diventarono padroni incontrastati di tutte le steppe e le pianure comprese
tra il Turkestan e i Carpazi. A poco a poco, il territorio dell’attuale Ungheria divenne centro
dell’impero degli Unni. Quando Attila diventò il capo dell’impero, per circa 30 anni gli Unni
compirono razzie inizialmente verso l’Impero d’Oriente, poi verso i regni barbari d’Occidente. Qui,
nonostante l’unione esistente tra Romani e barbari, non fu loro impedito di arrivare sino alle mura di
Roma. Con la morte di Attila, che comportò in pochissimo tempo la disgregazione dell’Impero, si
chiude il primo periodo di migrazioni di popoli.
La seconda ondata delle grandi invasioni ( VI - VII secolo ).
Alla fine del V secolo fecero la loro comparsa nell’Europa dell’Est nuovi invasori, venuti dalle steppe
dell’Asia centrale, gli Avari. Sotto molti aspetti somigliavano agli Unni, essendo anch’essi cavalieri
nomadi che parlavano una lingua prototurca. Il loro impero si estese senza però riuscire a superare il
Danubio. Anche Bisanzio riuscì, non senza difficoltà, a contenere la loro pressione. Questa
momentanea sparizione degli Avari permise agli Slavi di guadagnarsi il loro posto nella storia. La fine
del VI secolo segnò l’inizio dell’espansione slava verso sud. All’inizio del VII secolo gran parte dei
Balcani era dominata dagli Slavi e le popolazioni locali furono parzialmente slavizzate. L’VIII secolo è
stato anche testimone dell’arrivo in Europa dei Bulgari, di origine turca, i quali si slavizzarono poco a
poco venendo in contatto con le popolazioni dei Balcani, costituendo uno Stato slavo-bulgaro.
La fine dell’epoca delle invasioni.
Nel IX secolo si assistette inizialmente a una stabilizzazione dei popoli migratori e alla formazione dei
primi principati slavi, in cui il livello di organizzazione variava, però, da un popolo all’altro. I meno
organizzati erano i Protopolacchi, che non si erano praticamente allontanati dall’habitat slavo primitivo.
All’epoca delle loro migrazioni, gli Slavi erano ancora pagani, per cui Bisanzio e Roma fecero a gara
per cristianizzarli. Roma integrò nella sua zona di influenza gli Sloveni e i Croati, mentre Bisanzio
ottenne maggiore successo nei Balcani. Negli ultimissimi anni dei IX secolo, un nuovo popolo, quello
ungaro, si stabilì nell’Europa centro-orientale. Originari della regione dell’Ural, gli Ungari si trovarono
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insediati nelle steppe dell’Ucraina meridionale. L’occupazione del paese che sarebbe poi diventato
l’Ungheria si realizzò senza troppe difficoltà, anche per il loro numero. In tal modo all’inizio del X
secolo, i popoli i cui discendenti costituiscono le popolazioni attuali dell’Europa centrale e orientale si
trovavano già sul posto, tranne i Romeni che erano ancora nomadi con le loro greggi lungo i confini
albano-macedoni.
La nascita degli Stati nazionali ( X - XIII secolo ).
L’insediamento degli Ungari in Europa centrale pose fine alla lunga serie di migrazione di popoli. A
partire da quel momento i popoli dell’Europa centro-orientale cercheranno di organizzarsi in Stati
nazionali ben strutturati: la maggior parte di essi vi riuscirà tra il X e il XIII secolo.
La formazione dei primi stati nel X secolo.
- La zona di influenza germanica. Il governo reale germanico, ancora forte nel IX secolo, si
era a poco a poco indebolito e, accanto ai signori feudali, l’unica forza era la Chiesa. Nel VIII e nel IX
secolo vescovadi furono creati nelle frontiere, partendo dai quali i missionari si spostavano verso est
per convertire i popoli ancora pagani che vi abitavano, riuscendoci in genere tramite la conversione dei
loro capi, che comportava quella dell’intero popolo, come avvenne per Cechi, Polacchi e Ungari. Nel X
secolo, il ducato di Boemia si costituì definitivamente, governato dalla famiglia principesca dei
Przemyslidi. Alcuni missionari riuscirono a convertite il duca Venceslao, ma il paganesimo aveva
ancora radici profonde,come provò l’assassinio del duca da parte del fratello Boleslao - la vittima verrà
canonizzata. Boleslao I “il Crudele” finì per accettare il cristianesimo e accettò di dichiararsi vassallo
del re di Germania Ottone I, divenuto nel 926 imperatore. Divenuto quindi feudo dell’impero, il ducato
di Boemia si ritrovò sullo stesso piano degli altri feudi imperiali, e tranne alcuni obblighi feudali, era
quasi indipendente. Durante il regno di Boleslao II “il Pio”, la religione cristiana trionfò
definitivamente con la creazione del vescovado di Praga nel 937. Ciò rese la Boemia a tutti gli effetti
parte dell’Occidente cristiano.
Allo stesso tempo il principe Mieszko, della famiglia dei Piast, capo di una delle numerose tribù slave
risiedenti nelle pianure della Vistola, fece di Poznan il centro di una Confederazione di tribù, il cui
territorio da allora fu chiamato “Polska” - pianura-. Mieszko I (960-992) influenzato dai missionari
tedeschi e dalla moglie,sorella del duca di Boemia Boleslao, fu battezzato nel 966. Da questo momento
egli favorì la diffusione del cristianesimo in Polonia e formò un vescovado a Poznan.Suo figlio,
Boleslao “il Valoroso” continuerà l’unificazione delle tribù polacche.
La conversione degli Ungari fu più difficile. Le loro incursioni che durarono tutta la prima metà del X
secolo, furono fermate a Lech nel 955.In questa battaglia il re di Germania Ottone I inflisse agli Ungari
una bruciante sconfitta. A partite da allora l’influenza delle popolazioni slave favorì la
sedentarizzazione degli Ungari, che grazie alle azioni dei vescovi si integrarono sempre più nella
comunità cristiana d’Occidente. Il capo si convertì insieme al figlio che prese il nome cristiano di
Stefano e sposò la figlia del duca di Baviera. Con Stefano I il paese diventò uno stato cristiano. Nel
natale dell’anno 1000 Papa Silvestro II inviò a Stefano la corona reale. Forte di tale indipendenza
Stefano organizzò la Chiesa d’Ungheria, e per completare l’opera d’evangelizzazione si rivolse ai
monaci benedettini che fondarono numerose abbazie.
-La zona di influenza bizantina. Nel X secolo, la dinastia macedone che regnava a
Costantinopoli si ritrovò a fronteggiare difficoltà sempre maggiori in Asia, a causa dell’espansione
araba. Perciò i popoli dei Balcani, in teoria sottoposti a Bisanzio, ne approfittarono per diventare
indipendenti. I Croati avevano creato un regno indipendente sia da Bisanzio che dai Franchi, con il
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riconoscimento ufficiale del loro principe da parte dell’imperatore Basilio II come re di Croazia e
Dalmazia, un sovrano cristiano la cui Chiesa rimase legata a Roma. Furono i Bulgari che riuscirono
meglio degli altri nel tentativo di costituire uno Stato indipendente nei confronti di Bisanzio. Gli altri
popoli balcanici non fecero storia durante il X secolo: sempre vassalli più o meno docili del popolo
confinante di volta in volta più potente,ovvero Bulgari e Bisanzio. Il X secolo ha costituito un periodo
fondamentale per la formazione e l’avvenire delle nazioni dell’Europa centrale e orientale. Dove la
Chiesa romana riuscì a insediarsi presso popoli “barbari”, essa facilitò la formazione di Stati duraturi e
indipendenti dall’Impero germanico.Invece dove dominò la influenza della Chiesa d’Oriente insieme
all’Impero Bizantino, fu ancora a lungo ostacolata la formazione di Stati slavi indipendenti.
Diversità dei destini dall’XI al XIII secolo.
Il contrasto tra gli Stati occidentalizzati e i popoli dei Balcani soggetti all’influenza di Bisanzio
permarrà e si accentuerà in questo periodo.
Consolidamento degli Stati occidentalizzati.
-La Boemia dei Przemyslidi. Feudo dell’Impero, il ducato di Boemia si organizzò
progressivamente. Gli stretti legami che univano la Boemia all’Impero facilitarono la penetrazione
delle influenze germaniche. Sin dall’XI secolo, sacerdoti,monaci e mercanti tedeschi si stabilirono nel
paese, coesistendo con i cittadini cechi. Alla fine del XII secolo si assistette a un arrivo massiccio di
artigiani e mercanti tedeschi nelle città boeme. Tuttavia i centri urbani avevano conservato una
maggioranza di popolazione ceca, ma l’élite culturale e finanziaria era molto spesso tedesca. Tale
dualismo perdurò senza difficoltà fino a quando però l’imperatore assegnò la reggenza a Ottone di
Brandeburgo, che fu sentito come un’imposizione dai cechi. La dinastia nazionale dei Przemyslidi
terminò all’inizio del 1300 con l’assassinio di Venceslao III.
-La Polonia dei Piast. Unitamente ai grandi signori feudali, le città costituivano una forza
sempre più importante. Anche se Cracovia si affermerà come capitale del paese solo dopo l’XI secolo,
le altre città si svilupperanno molto presto anche con funzione commerciale. Nell’XI secolo, come era
accaduto in Boemia, l’arrivo dei coloni tedeschi modificò la composizione etnica delle città e diede un
grande impulso alle attività artigianali e commerciali. La parte più colta della popolazione tedesca fornì
alle città le classi dominanti e anche parte del clero, svolgendo anche un ruolo importante nello
sfruttamento delle risorse del sottosuolo. Nel XIII secolo Danzica, sulla foce del Vistola, era il porto da
cui partivano verso l’Occidente i cereali, legno, minerali e nel quale arrivavano prodotti tessili. Le
pianure del nord della Polonia furono costantemente minacciate sia dalle popolazioni prussiane rimaste
pagane, sia dai Cavalieri Teutonici. Alla fine del XIII secolo lo Stato polacco riuscì ad affermare la sua
indipendenza ma le sue strutture non erano solide come quelle boeme. Nel 1300 la borghesia tedesca di
Cracovia offrì la corona al re di Boemiaa Venceslao II, senza che ciò provocasse grandi reazioni nel
paese.
-L’Ungheria sotto i primi successori di santo Stefano. Dopo la morte di santo Stefano,
l’Ungheria conobbe, per circa mezzo secolo, successivi sconvolgimenti, di cui cercò di approfittare
l’imperatore Enrico III. Dopo che la situazione si era stabilizzata, e col governo di Ladislao, fu
completata la cristianizzazione del paese. Per contrastare i signori feudali che avevano approfittato del
momento di debolezza, Ladislao si alleò alle città accordando lo statuto di “libere città reali”. Al di là
delle frontiere , san Ladislao alla morte del cognato re di Croazia,occupò tale territorio - che rimase
all’Ungheria fino al 1918. Nel XII secolo l’influenza bizantina in Ungheria andò estendendosi , ma alla
fine del secolo essa ritrovò forza e potenza col re Bela III che, nonostante fosse educato alla corte di
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Costantinopoli, confermò l’orientamento Occidentale del paese. Come accadde in Polonia e Boemia ,
egli incoraggiò la venuta dei coloni tedeschi, che fece insediare soprattutto in Transilvania. Dopo la
morte di Bela III, il potere reale conobbe un periodo di indebolimento a favore dei grandi signori
feudali.
I Balcani di fronte a Bisanzio.
Nell’XI secolo e durante la maggior parte del XII, serbi, bulgari, albanesi e valacchi saranno sudditi più
o meno docili di Bisanzio, sia dal punto religioso che politico, ma approfittando nel 1180 del vuoto per
la successione reale di Bisanzio le popolazioni soggette diventeranno indipendenti.
-La nascita dello Stato serbo. Per molto tempo i serbi vissero divisi in due principati
patriarcali di Rascia e di Zeta. Nel 1170 il primo principato estese il suo dominio sull’altro.
Dall’imperatore di Bisanzio la Serbia ottenne il riconoscimento dell’indipendenza.
-Il secondo impero bulgaro. Dopo le vittorie di Basilio II, i bulgari furono rigidamente
soggetti al dominio di Bisanzio e integrati nell’Impero, potendo solo conservare l’autonomia dal punto
di vista religioso. L’elemento bulgaro fu a mano a mano indebolito dall’insediamento, nelle città, di
ebrei e armeni.
L’invasione dei tartari e le sue conseguenze.
Nei primi anni del XII secolo, unificati da Gengis Khan, i tartari - popolo turco mongolo originario
dell’Asia centrale, costruirono un vasto impero che andava dalla Cina alle steppe dell’Ucraina. A
partire dal 1240 i tartari compirono una serie di razzie verso ovest. Non riuscirono ad entrare a
Cracovia ma sconfissero l’esercito ungherese, devastando il territorio e uccidendo, arrivarono poi fino
alla Croazia e tornarono in Ucraina non prima, però, di avere devastato sulla via del ritorno, città e
campagne della Transilvania. L’invasione tartara portò dei cambiamenti nella composizione etnica
della popolazione del regno ( più del 15% degli ungheresi era di origine straniera). Altra conseguenza
della loro invasione fu il vuoto lasciato nelle pianure della riva settentrionale del basso Danubio.
Numerosi Valacchi ne approfittarono per insediarvisi e qui nacque il primo embrione dello Stato
valacco - romeno, con la formazione del principato di Valacchia. All’inizio del XIV secolo, nonostante
le difficoltà incontrate, le monarchie occidentalizzate di Boemia, Polonia e Ungheria erano ormai ben
organizzate politicamente ed il loro modello feudale prendeva esempio da quello occidentale. Tuttavia
all’inizio del XIV secolo, le dinastie nazionali che erano state l’origine della formazione di questi Stati
si esaurirono. Ciò spiega gli interventi stranieri, in particolare quella del Sacro Romano Impero
germanico, pur senza mettere in discussione l’esistenza di tali Stati. Nei Balcani, anche se erano stati
raggiunti certi livelli d’indipendenza,dovuti anche all’indebolimento di Bisanzio, la situazione era
ancora fragile, anche per l’arrivo di un nuovo pericolo dall’Asia Minore, i turchi ottomani.
Il tempo del disgregamento (XIV-XVI secolo).
A partire dal 1300, i contrasti già esistenti tra le monarchie occidentalizzate e i principati balcanici,
soggetti più o meno strettamente all’egemonia politica di Bisanzio e alla Chiesa ortodossa, si
accentuarono e radicalizzarono, mentre nei Balcani la minaccia ottomana si profilava all’orizzonte ed
incideva su pesantemente su tutta l’Europa cristiana.
Umanesimo, Rinascimento e crisi nelle monarchie occidentalizzate (XIV-XV secolo).
-La prosperità della Boemia e dell’Ungheria nel XIV secolo. L’arrivo sul trono sia della
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Boemia che dell’Ungheria, di due dinastie d’origine francese dopo l’estinzione di quelle nazionali,
portò un notevole dinamismo, che si tradusse in cultura ed economia. Mentre gli Stati dell’Europa
occidentale erano coinvolti all’inizio della Guerra dei Cent’anni e travagliati da difficoltà economiche e
sociali per la grande peste, la Boemia e l’Ungheria conobbero invece una vera età dell’oro. Dopo la
morte dell’ultimo dei Przemislidi, la Boemia ritrovò nel 1310 stabilità con l’elezione di Giovanni il
Cieco, figlio del conte Enrico di Lussemburgo, che introdusse la cultura francese e italiana in un paese
dove aveva sempre dominato l’influenza tedesca. Giovanni morì in una battaglia durante la Guerra dei
Cent’anni. Il suo successore e figlio Carlo IV fece della Boemia uno Stato potente, la cui influenza
politica e culturale si estese su tutta l’Europa centrale. Colto, amante delle arti e delle lettere, fu il
prototipo di umanista e fece venire alla sua corte molti eruditi italiani. Carlo IV fondò l’Università di
Praga, la prima non germanica dell’Europa centrale. Praga, la capitale, si sviluppò notevolmente, e,
sede di un arcivescovado, renderà la Chiesa boema del tutto indipendente dalla tutela dell’alto clero
tedesco. L’organizzazione dello Stato era una monarchia appoggiata dall’aristocrazia e dall’alto clero.
Ma i poteri della nobiltà furono nettamente limitati dalla “Maiestas Carolina”, vero e proprio codice
che stabiliva gli attributi della Corona e dei nobili. Carlo IV estese i suoi territori e, eletto imperatore
nel 1355, fece della Boemia il cuore del Sacro Romano Impero Germanico, senza sofferenza dei cechi
dato che il loro idioma rimase lingua ufficiale del regno. La Bolla d’Oro del 1356 precisò i diritti dei
differenti corpi dell’Impero: ognuno dei sette principi dell’Impero, tra cui il re di Boemia, diventava
padrone di se stesso, il che confermava la sovranità di fatto del Regno di Boemia, mentre l’imperatore
conservava il potere giudiziario supremo. La prosperità del regno era al suo culmine. Oltre a Praga,
anche le altre città erano importanti centri commerciali. Lo sfruttamento delle miniere- soprattutto
piombo e argento- si sviluppò, e la moneta di Praga era molto quotata. Questa età dell’oro si concluse
con la morte di Carlo IV, da cui scaturì una grande crisi politica, economica e religiosa, che doveva
pesare gravemente nel futuro del paese.
-Il primo Rinascimento in Ungheria sotto la dinastia angioina ( 1307- 1382). Dopo sei anni
di crisi interna, nel 1307 la Dieta offrì la corona d’Ungheria al candidato sostenuto dal papa, Carlo
Roberto d’Angiò, che regnava già a Napoli e in Croazia. Il suo regno fu un periodo in cui venne
riassestato un paese in cui i signori feudali avevano acquistato un eccessivo potere. Carlo Roberto li
sottomise e riorganizzò anche l’esercito, che mescolava nobili e soldati di carriera pagati dal re. Suo
figlio Luigi il Grande si sforzò di consolidare il potere reale. Affiancò alla Dieta, rappresentante della
nobiltà, il Consiglio del re, allargato con l’ingresso dei rappresentanti del clero e delle città. Durante la
dinastia angioina, l’Ungheria divenne la più grande potenza del mondo danubiano. La sua moneta, il
fiorino, ne fu la prova inequivocabile. Nel XIV secolo, un quarto dell’oro prodotto nel mondo
conosciuto proveniva dall’Ungheria. Con più di tre milioni d’abitanti, questo era tra gli Stati più
popolati dell’Europa centrale,soprattutto dopo che, alla morte dell’ultimo Piast, la Polonia scelse come
suo re Luigi il Grande. Il regno dei sovrani angioini corrispose in Ungheria all’apparizione di un primo
rinascimento. Gli italiani presenti in tutte le città vi introdussero la loro cultura e le loro tecniche.
Anche in Ungheria, il re Luigi creò due università nazionali.
-Ombre e luci nella Polonia del XIV secolo. Paradossalmente la Polonia, che conservò la
dinastia nazionale dei Piast fino al 1382, conobbe nel XIV secolo una situazione meno brillante di
quella dei vicini meridionali. Le difficoltà iniziarono nel 1300, quando la rivolta dei borghesi di
Cracovia eliminò momentaneamente la dinastia nazionale a vantaggio del re boemo Venceslao II.
Tuttavia un Piast, Ladislao I il Breve, condusse e vinse una battaglia contro il rivale ceco,facendosi
incoronare re nel 1305 e riunendo il paese. Di tali conflitti dinastici approfittarono i paesi vicini,
appropriandosi di vari territori. Durante il regno di Casimiro III la Polonia si rimise in sesto. Egli,
cognato di Carlo Roberto, migliorò l’organizzazione interna del suo regno e, come i suoi predecessori,
favorì l’immigrazione straniera, tedesca e agli ebrei occidentali che trovarono qui asilo sicuro. Essendo
morto senza figli, la sua corona andò all’erede più prossimo, il nipote Luigi il Grande d’Ungheria, che
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regnò fino al 1382.
-La Boemia in crisi. A partire dall’ultimo quarto del XIV secolo, il regno di Boemia entrò in
un lungo periodo di difficoltà che durerà circa un secolo. Già con Carlo IV la Boemia aveva conosciuto
eresie di ogni tipo, promulgate dal popolino tedesco e ceco, che reclamava un ritorno alla Bibbia. Le
critiche contro la Chiesa si radicalizzarono, in rapporto col movimenti olandesi. Dopo la morte di Carlo
IV, il successore Venceslao IV appoggiò l’alto clero, i grandi signori, la piccola nobiltà rovinata dalla
crisi e il popolo minuto che prestarono sempre più orecchio alle parole dei predicatori riformisti.
Apparve in tale contesto la figura di Jan Hus. Studente all’università di Praga,divenuto sacerdote e
docente della facoltà di teologia, nel 1402 cominciò le sue predicazioni rivolgendosi in ceco e
prendendo violentemente posizione contro la ricchezza della Chiesa e la simonia. Tuttavia quando
l’arcivescovo lanciò un anatema, Hus ed i seguaci ruppero ogni rapporto con la Chiesa ufficiale, col re
e una parte di nobili che fino ad allora gli era stata accanto. Per contro il suo ascendente aumentò tra il
popolo. Jan Hus pubblicò una serie di testi in latino e in ceco, fin quando produsse la prima traduzione
della Bibbia in ceco.Ciò gli costò anche una convocazione dal Concilio di Costanza, in cui egli difese
con veemenza le sue posizioni. La morte di Jan Hus sul rogo nel 1415 e quella del suo discepolo l’anno
dopo provocarono in Boemia violenti tumulti,insurrezioni di contadini e rivolte nelle città. Gli amici di
Hus organizzarono una vera “Chiesa parallela”. La morte improvvisa di Venceslao IV nel 1419
provocò la rottura tra gli ussiti e la Corona: la Dieta di Boemia rifiutò di riconoscere re l’imperatore
Sigismondo. Gli ussiti ed i loro sostenitori cercarono di organizzare una “repubblica” mentre l’alta
nobiltà e maggior parte dei tedeschi si schierò con Sigismondo. La crisi religiosa si mutò in conflitto
sociale, sfociando in uno scontro tra tedeschi e cechi. Le guerre ussite devastarono la Boemia e la
Moravia fino a che finalmente i negoziati tra il re Sigismondo e la Dieta di Boemia produssero, nel
1436, il compromesso dei Compacta: il culto cattolico era ristabilito in Boemia ma gli utraquisti coloro che facevano la comunione sotto le due specie di pane e vino - erano riconosciuti come “i veri e
fedeli figli della Chiesa”. Nonostante la ristabilita pace religiosa, il paese era ormai in rovina. Le idee
ussite ottennero successo al di fuori dei confini, soprattutto in Ungheria. Anche se fallì, il movimento
ussita riuscì a indebolire la posizione della Chiesa cattolica in Boemia; mise fine alla pacifica
coesistenza di tedeschi e cechi e fu l’inizio di un patriottismo ceco che si espresse tramite il culto di
Hus, elevato ad eroe nazionale. Opponendosi ai cattolici, i nostalgici di Jan Hus si unirono nel
movimento dell’Unità dei fratelli,che dal 1460 si organizzò come una vera a propria chiesa in cui si
fondevano fede e umanesimo. Così com’era avvenuto all’epoca di Sigismondo, la Boemia e l’Ungheria
ebbero lo stesso sovrano, ma rispetto alla Boemia indebolita dai conflitti religiosi, l’Ungheria fedele
alla Chiesa Romana risaltava come un’oasi di pace nel cuore dell’Europa.
- L’apogeo dell’Ungheria indipendente ( 1458 - 1490 ). Dopo la morte di Luigi il Grande, la
corona ungherese era passata alla figlia maggiore del defunto re, Maria , sposa dell’imperatore
Sigismondo. Nel regno di quest’ultimo e dei suoi successori il destino dell’Ungheria fu legato a quello
dell’Impero e della Boemia. Alla morte di Ladislao ( re di Boemia col nome di Ladislao I ) la Dieta
ungherese nel gennaio del 1458 rifiutò il candidato degli Asburgo, l’imperatore Federico III, a
vantaggio di un re nazionale, Mattia Hunyadi. Il re Mattia, più frequentemente indicato col nome di
Mattia Corvino dal momento che nello stemma della famiglia appare un corvo in ricordo del villaggio
d’origine della sua famiglia, fu uno dei più grandi sovrani dell’Europa del XV secolo. Durante il suo
regno la fedeltà a Roma gli valse, da parte del papa, l’incarico di guidare una nuova crociata contro gli
ussiti di Boemia. Disponendo di forze ben armate e agguerrite, grazie all’Armata nera costituita da
mercenari ben pagati e sostenuti dai nobili cechi cattolici, il re d’Ungheria condusse dal 1468 numerose
campagne militari in Boemia. Durante la Dieta di Brno Mattia fu eletto re di Boemia e si fece
incoronare nel 1470. Ma la morte di re Giorgio di Podebrady nel 1471 rimise tutto in discussione e la
corona di Boemia passò al principe polacco Vladislao Jagellone. Ciò non toglie che egli continuò la sua
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politica espansionistica: Mattia infatti nel 1485 strappò Vienna a Federico III. L’Ungheria di Mattia
Corvino era all’epoca uno degli Stati più grandi d’Europa. Similmente ai principi italiani del suo
tempo, Mattia aveva accolto alla sua corte degli umanisti. L’influenza italiana divenne forte quando nel
1476, il re Mattia sposò Beatrice d’Aragona, figlia del re di Napoli. L’insegnamento si sviluppò
notevolmente, ma ciò non toglie che gli studenti ungheresi andassero a studiare nelle università
straniere di Vienna, Cracovia, Padova, Parigi. Mattia fondò a Buda una biblioteca reale, la Corvina, che
raccoglieva circa un migliaio di volumi, principalmente manoscritti greci e latini.
Gli Ottomani nell’Europa dell’Est (XIV-XVI secolo).
L’entrata in scena dei turchi ottomani all’inizio del XIV secolo doveva non solo accentuare i contrasti
esistenti tra i Balcani e le monarchie occidentalizzate, ma anche portare alla costituzione di un pericolo
permanente per tutta l’Europa centro - danubiana.
-Gli inizi della potenza ottomana. La decadenza dell’Impero bizantino, iniziata nel 1204
all’epoca della conquista di Costantinopoli da parte della Quarta Crociata, continuava con un pericolo
proveniente dall’Asia. Sino alla fine del XIII secolo, l’Asia Minore fu governata da turchi selgiuchidi,
che però verso il 1300 furono soppiantati da altri turchi venuti dall’Asia centrale, gli ottomani, il cui
nome deriva dal loro capo Othoman, che insieme al figlio Orkhan costituì in Asia un potente Stato
musulmano. Gli ottomani tolsero ai greci le ultime postazioni in Asia, con la conquista di Nicea e
Nicomedia. Davanti al pericolo ottomano, gli imperatori non si misero alla testa della resistenza, anzi
cercarono accordi con i nuovi arrivati. Gli Stati slavi dei Balcani non erano, di regola, abbastanza
potenti per resistere davvero agli ottomani, e solo i serbi disponevano di una certa forza.
-L’apogeo della potenza serba. La dinastia dei Nemanjidi, che fondò lo stato serbo all’inizio
del XIII secolo, riusciva a mantenere l’indipendenza del principato, allontanando la Serbia dalla crisi
che aveva tormentato i Balcani. La Serbia, che aveva esteso la sua influenza in Macedonia e in
Bulgaria, con Stefano IX Du###an conobbe il suo vero apogeo. Fu allora che la Serbia si rese
indipendente dalla tutela religiosa del patriarca di Costantinopoli, e nel 1346 l’arcivescovo di Pec fu
elevato al rango di “patriarca di tutti i serbi” e sarà eletto da soli vescovi serbi. Durante il regno di Du
###an l’amministrazione del paese migliorò, e il codice univa in sé il diritto bizantino e usanze serbe,
dando una solida struttura alla giustizia. L’organizzazione sociale su base feudale si incrinò.
Nonostante la sua potenza, lo Stato serbo non era però in grado di opporsi agli ottomani.
-I Balcani nelle mani dei turchi. Murad I evitando di attaccare frontalmente Bisanzio, sferrò i
suoi colpi contro gli Stati slavi dei Balcani. La Serbia dal 1370 entra in un periodo difficile,
caratterizzato dal disgregamento del paese. La Bulgaria era all’epoca molto debole. Murad I attaccò
prima i Serbi: nel 1371 la Serbia meridionale cadde senza resistere, mentre quella settentrionale
resistette a lungo finchè Murad I , che morì in battaglia , nella pianura di Kosovo sbaragliò nel 1389
l’esercito del principe serbo Lazzaro, fatto prigioniero e decapitato. Capitolata in seguito la Bulgaria, i
turchi si diressero verso il Danubio. L’Occidente impiegò molto per reagire. Solo l’imperatore
Sigismondo re d’Ungheria lanciò una crociata alla quale parteciparono contingenti tedeschi, ungheresi,
valacchi e 10000 uomini mandati dal Re di Francia. La crociata terminò con la sanguinosa sconfitta di
Nicopolis, il 28 settembre 1396. Il nuovo sultano, Bajazet, era quindi padrone dei Balcani ma la sua
minaccia venne momentaneamente allontanata dal conflitto che scoppiò tra esso e il khan mongolo. Il
giogo turco incontrò forti resistenze da parte degli albanesi, pastori isolati nelle montagne, e che
avevano subito le dominazioni di Bisanzio,dei Bugari,dei Serbi e dal XV secolo, degli ottomani.
Guidati da un nobile diventato funzionario turco, Giorgio Castriota (Skander-Beg) , le tribù albanesi si
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ribellarono e il loro capo si proclamò nel 1443 principe d’Albania. Intanto Giovanni Hunyadi ,
inizialmente sconfitto in Serbia, organizzò sui confini ungaro-serbi un sistema di fortezze dominato
dalla piazzaforte di Belgrado, di cui i serbi gli avevano affidato la difesa. Dopo la conquista di
Costantinopoli di Maometto II il 29 maggio 1453, i turchi scatenarono una grande offensiva contro
l’Occidente. Su richiesta del papa Callisto III, Hunyadi organizzò la difesa di Belgrado riuscendo a
respingere gli attacchi turchi. L’Ungheria era diventata, con la battaglia di Belgrado, il baluardo della
Cristianità.
-L’assalto finale dei turchi. Dopo la morte di Mattia Corvino, le regioni che aveva appena
riconquistato (Serbia, Valacchia, Bosnia e Moldavia) furono riprese dai turchi. La Valacchia divenne
uno stato vassallo del sultano, seguita poi dalla Moldavia. I turchi si spinsero ancora verso occidente,
impadronendosi infine della fortezza di Belgrado nel 1521. In Ungheria il successore di Mattia Corvino
e Wladislaw II Jagiellone, Luigi II, si appellò invano ai sovrani d’Occidente: il re di Francia era alleato
ai turchi e l’imperatore Carlo V era in guerra contro di lui e si trovava nel mezzo delle crisi religiose
che tormentavano allora la Germania. Quando i turchi invasero l’Ungheria, Luigi II disponeva di
pochissime truppe da opporre. Durante la battaglia di Mohacs, il 29 agosto del 1526, l’esercito
d’Ungheria fu completamente sbaragliato e Luigi II morì, insieme alla libertà dell’Ungheria. Solo la
monarchia degli Asburgo, ben riorganizzata da Carlo V, poteva fermare i turchi.
Gli Asburgo di fronte ai turchi e alla Riforma.
Mohacs fu la fine delle monarchie nazionali indipendenti dell’Europa centrale. Due erano le potenziali
potenze in grado di arginare il pericolo turco, di cui la Francia di Francesco I era alleata ai turchi.
Toccava perciò al Sacro Romano impero assicurare la difesa del mondo cristiano, non riconquistando
le terre perdute, ma cercando ormai di salvare il salvabile.
-Le conseguenze di Mohacs. La sconfitta dell’esercito ungherese e la morte del re Luigi II a
Mohacs provocarono da un lato che l’Ungheria fosse alla mercè degli eserciti turchi,che dopo aver
ottenuto il pagamento di onerosi tributi tornarono alle basi di partenza nei Balcani, e dall’altro che i
troni di Boemia e d’Ungheria si trovassero vacanti in seguito alla morte di Luigi II. In Boemia la Dieta
si era pronunciata a favore del cognato del defunto re , l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, fratello
dell’Imperatore Carlo V. In Ungheria invece una Dieta dominata dalla piccola nobiltà designò come re
il voivoda di Transilvania, Giovanni Szapolyai. Un’altra Dieta invece tenuta dall’alta nobiltà scelse,
contro il candidato nazionale, quello tedesco, ovvero Ferdinando, già eletto re di Boemia. Egli,oltre i
suoi legami di parentela col re defunto - il chè gli dava una certa legittimità - dava una garanzia
maggiore di sicurezza, avendo alle spalle tutte le forze di Carlo V. L’Ungheria quindi aveva due re
sostenuti da due parti del paese e che cercarono entrambi di neutralizzare il nemico turco. Lo
sfaldamento dell’Ungheria dopo Mohacs aveva anche messo in evidenza il problema transilvano : la
Transilvania, fino al XVI secolo parte integrante del regno d’Ungheria, aveva un voivoda,
rappresentante del re,che ne spiegava la lontananza geografica rispetto al centro dello stato. Con
Giovanni Szapolyai la Transilvania si organizzò come un principato indipendente, con la sua Dieta e da
questo momento, per due secoli, essa cercherà di affermarsi come Stato Ungherese indipendente dagli
Asburgo.
-Riforma e Controriforma nell’Europa centrale. La progressiva avanzata dei turchi nella
zona danubiana coincise cronologicamente con la frattura dell’unità cristiana nell’Europa centrale,
provocata dalla Riforma protestante. Già dal XV secolo l’unità morale e religiosa era stata messa in
discussione con la diffusione delle eresie di Wycliff e Jan Hus. All’inizio del XVI secolo la fragile pace
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religiosa in Boemia fu spezzata dalla predicazione e dagli scritti di Lutero e discepoli. Le sue idee,
espresse pubblicamente nelle 95 tesi, rimettevano in discussione la dottrina della Chiesa sulla salvezza
dell’anima e l’autorità del papa e della gerarchia. Tali idee, condannate da Roma, ebbero una grande
eco immediatamente, scatenando aspre polemiche. In Boemia e in Ungheria la dottrina luterana fu ben
accolta alla corte di Luigi II e ciò facilitò un certo riavvicinamento tra tedeschi e cechi, un tempo divisi
dalle idee ussite. All’inizio in Ungheria, Lutero, in quanto tedesco, fu accolto con minore favore,
eccetto che dalle comunità di tedeschi delle città. Quando cominciò a diffodersi nella sua variante
calvinista, ottenne maggiore successo. Nell’Ungheria rimasta sotto il governo asburgico e soprattutto
nelle regioni dominate dai turchi, le idee di Calvino si diffusero in fretta: i turchi ne facilitavano infatti
l’espansione in quanto indebolivano gli Asburgo. Il papato non era ovviamente rimasto inattivo di
fronte alle divisioni della Cristianità in occidente, in un momento in cui l’Islam si insediava
solidamente nei paesi danubiani. Gli Asburgo, tradizionale difensori del cattolicesimo, non avevano
rinunciato ad estirpare il protestantesimo dai loro possedimenti ereditari, se necessario con la forza. Il
papato invece riteneva utile agire con la persuasione e alla Riforma protestante cercò di opporre la
Riforma cattolica, cioè la Controriforma. Elaborata dal Concilio di Trento dal 1545 e diffusa dai
Gesuiti, essa riguadagnerà un certo numero di posizioni perdute da Roma, principalmente nella
Germania meridionale , Austria, Boemia, Ungheria e Polonia. Alla fine del XVI secolo il cattolicesimo,
benché sempre minoritario, si trovava, nonostante ciò, in una posizione migliore rispetto a quella del
secolo passato. La riconquista sarà comunque lunga e la Riforma cattolica darà frutti solo nel XVIII
secolo. In Ungheria, la tolleranza regnò a lungo e la Controriforma fu più tardiva e molto più tollerante
anche nel XVII secolo, quando si impose nettamente.
-La lotta contro i turchi. All’inizio del 1529 i turchi ricomparvero in Ungheria, beneficiando
del grande aiuto del re nazionale Szapolyai. Nell’agosto di quell’anno a Mohacs, dove Luigi II era
morto in battaglia, il re Giovanni Szapolyai rese omaggio al sultano Solimano II, consegnando
l’Ungheria ai turchi. Solo l’Ungheria occidentale rimase sotto il dominio degli Asburgo.
L’atteggiamento di Giovanni Szapolyai fu sconvolgente e Ferdinando sfruttò la situazione a proprio
vantaggio, ma disponeva di forze militari limitate e non poteva contare sull’appoggio di Carlo V, in
lotta con Francesco I. Perciò Ferdinando I dovette venire a patti. Proprio come il suo rivale transilvano,
si dichiarò vassallo del sultano. I due re compresero che la loro rivalità era vantaggiosa solo per i turchi
e nel 1538 conclusero la pace di Nagyvarad: alla morte di Giovanni Szapolyai la corona sarebbe tornata
agli Asburgo. Alla morte di Ferdinando I, il successore Massimiliano fu il solo a portare la corona di re
d’Ungheria , mentre il figlio di Giovanni Szapolyai , Giovanni Sigismondo, rimase principe di
Transilvania e vassallo sia del re che dei turchi. In Transilvania, dopo la morte di Giovanni Sigismondo
tutti i principi eletti dalla Dieta riconobbero agli Asburgo il diritto prioritario sul principato. Gli
Asburgo, volendo mettere in pratica sin da subito tale proprietà, col successore di Massimiliano,
Rodolfo, intervennero in Transilvania dove, con la scusa di combattere i turchi, il principe di Valacchia
Michele il Coraggioso si era impadronito del territorio e lo uccisero. Alla fine del XVI secolo la
posizione degli Asburgo, difensori del cattolicesimo e campioni della lotta contro l’Islam in Ungheria,
si era ormai consolidata, tanto da poter seriamente valutare la possibilità di scacciare definitivamente i
turchi dal bacino danubiano.
Un porto di pace: la Polonia del XV e del XVI secolo.
-La Polonia dei primi Jagelloni (1382 - 1572). Alla morte di Luigi d’Angiò, la Polonia si
trovò di nuovo con un problema di successione. Il re lasciava una figlia, Hedwige, che venne promessa
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in sposa al granduca lituano Jagellone. Proclamata a dieci anni regina nel 1384, Hedwige unì il suo
trono a quello del marito che fu battezzato e ricevette il nome cristiano di Ladislao. Durante il loro
regno si realizzò l’unione tra il regno di Polonia e il granducato di Lituania, in cui venne fondato il
vescovado di Vilnius, che permise ai lituani di sfuggire al controllo dei Cavalieri Teutonici, sconfitti il
15 luglio 1410 nella battaglia di Grünwald, e di recuperare così uno sbocco sul Mar Baltico.
Ciononostante i Cavalieri Teutonici costituivano una minaccia costante per la Polonia, controllandone
ancora intere campagne e città. Dopo la morte di Ladislao II, l’unione polacco-lituana venne
mantenuta. Il figlio Ladislao III partecipò alla lotta contro i turchi e morì in battaglia. Il fratello,
Casimiro IV Jagellone, iniziò la lotta contro i Cavalieri Teutonici. Al momento della pace di Torun,
Casimiro IV recuperò la Pomerania, permettendo alla Polonia di ritrovare l’importante sbocco del porto
di Danzica. Durante il regno di Casimiro IV, i polacchi -lituani scacciarono i Tartari dall’Ucraina
occidentale e occuparono Kiev. Durante il governo dei primi Jagelloni la Polonia era diventata dunque
un ampio stato. Le città, un tempo popolate da stranieri, diventarono a poco a poco polacche, come
Cracovia, capitale anche culturale del paese, con la sua università fondata nel 1364 e dove nel XV
secolo si distinguevano valenti teologi, matematici e astronomi,tra i quali Kopernik. Col regno di
Casimiro Jagellone, l’organizzazione statale si perfezionò. Egli fissò le regole per il funzionamento
della Dieta, costituita da due assemblee, il Senato e la Camera dei Nunzi, ed eletta dalla nobiltà:nasceva
così il principio per il quale per ogni cambiamento in materia di diritto pubblico o privato, era
necessario comune consenso delle due camere.
-Il secolo d’oro della Polonia. I successi militari dei primi Jagelloni resero la Polonia una
grande potenza indipendente dal Sacro Romani Impero e dai Cavalieri Teutonici, e permisero al paese
di conoscere,durante il XVI secolo, un’era di pace favorevole alla fioritura e allo sviluppo di una
brillante civiltà. La stabilità delle istituzioni si rafforzò anche grazie all’assenza di problemi di
successione. Il terzo successore di Casimiro Jagellone, Sigismondo I, regnò abbastanza a lungo da
preparare la strada all’eredità della corona. Fece riconoscere il suo solo figlio come re di Polonia e
granduca di Lituania e con l’Unione di Lublino del 1569 fece della Polonia e della Lituania una
repubblica unita e indivisibile, in cui ogni parte aveva proprie leggi e proprio esercito. Questa Polonia
era uno stato multinazionale,con maggioranza di polacchi ma anche di tedeschi,soprattutto nelle città,
lituani e cechi. In Polonia la Riforma luterana si affermò all’inizio soprattutto in settentrione,dove
maggiore era la concentrazione di tedeschi. In un primo momento re Sigismondo I cercò di reagire, ma
poco dopo si istaurò un regime di tolleranza. Come in Ungheria, i tedeschi seguirono i principi luterani,
mentre i polacchi le idee di Calvino. Dal momento che ormai la tolleranza era la regola ufficiale, la
Chiesa cercò di riconquistare le posizioni perdute in modo pacifico. Il vescovo Hosius fu il principale
artefice della Riforma cattolica. Partecipò al Concilio di Trento e fece stabilire in Polonia i gesuiti.
Importante fu anche l’opera del predicatore Skarga. Il clima di tolleranza fu favorevole allo sviluppo
dell’umanesimo e del progresso scientifico. Il re Sigismondo,che aveva sposato la principessa italiana
Bona Sforza, fu un mecenate colto, protettore delle arti e delle lettere. L’università di Cracovia conobbe
in questo periodo il momento di massimo splendore. Innegabile era la ricchezza economica della
Polonia, che nel XVI secolo era il granaio d’Europa attraverso la prospera Danzica esportava i suoi
cereali nell’Europa intera.
-I successi della Controriforma. La morte di Sigismondo Augusto, ultimo Jagellone, spezzò in
Polonia il tentativo di una monarchia ereditaria. La piccola nobiltà, la Szlachta, impose la
partecipazione diretta di tutti i nobili all’elezione reale. La Dieta affidò la corona al fratello del re di
Francia, Enrico di Valois, che però rimase per poco tempo al trono, tornando a regnare in Francia dopo
la morte del fratello. Allora Stefano Bathory, principe di Transilvania sostenuto dalla Szlachta, si
impose sull’avversario, candidato voluto dai magnati, l’asburgico Massimiliano. Pur tollernate, egli
appoggiò la Controriforma e moltiplicò i fondi per i Gesuiti, che arrivarono a gestire l’università di
Vilnius.Nonostante il successo della Riforma Cattolica, non vi furono persecuzioni. I protestanti
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conservarono le proprie chiese e scuole, celebri grazie all’operato dell’umanista italiano Socini, di cui i
seguaci, i Sociniani, fondarono una vera e propria comunità protestante, in seguito sciolta dalla
Controriforma. La Polonia era tornato un paese cattolico. Alla fine del XVI secolo l’Europa orientale
era del tutto smembrata. I Balcani e parte dell’Ungheria erano in mano ai turchi. La restante parte
dell’Ungheria e il regno di Boemia erano diventato asburgici. Solo la Polonia aveva saputo conservare
la propria indipendenza.
L’Europa dell’Est tra gli Asburgo, i turchi e la Russia.
Dall’insediamento dei turchi in Europa centrale e orientale, i popoli di queste regioni, non più padroni
dei propri destini, divennero sudditi dei turchi, o si poserò sotto la protezione asburgica. I polacchi per
due secoli riusciranno a conservare la propria indipendenza, che terminerà quando le mire di conquista
dei vicini si realizzeranno nell’epoca delle spartizioni.
I balcani durante la dominazione ottomana.
A partire dalla fine del XIV secolo, i popoli balcanici caddero sotto il dominio ottomano,
essenzialmente politico, che non venne esercitato ovunque ugualmente. Alcuni popoli beneficiarono di
una relativa autonomia, mentre altri erano sottomessi severamente. Caratteristiche comuni del dominio
turco erano ,invece , ad esempio, le guarnigioni insediate in città e punti strategici, o i tributi da pagare
in segno di dipendenza. I turchi erano ovunque numeramente inferiori alle popolazioni autoctone e non
cercarono quasi mai di convertire i sudditi alla religione mussulmana, anche se ci furono casi di
conversione, per lo più spontanei o dettati da opportunismo.
-I popoli privilegiati. Tra i popoli soggetti ai turchi, albanesi e abitanti di Moldavia e Valacchia
godettero di una situazione particolarmente favorevole. Gli albanesi, ad eccezione di un momento di
ribellione con Skander-Beg, diventarono leali sudditi dei turchi. A partire dal XVI secolo l’Albania
divenne una terra mussulmana, che forniva ai turchi funzionari, ufficiali e soldati. Invece, per quanto
riguarda Valacchia e Moldavia, nonostante i tentativi di resistenza dei rispettivi principi, dal XV secolo
furono entrambe vassalle della Turchia. Il governo turco non era oppressivo: si traduceva
principalmente nel versamento di un tributo annuo , il peshkesh, in cambio del quale i turchi davano
protezione alle frontiere contro i nemici esterni. La nobiltà locale conservò il diritto di eleggere il
principe, ma i turchi avevano quello di opporre il veto. La Chiesa romena, approfittando della
tolleranza dei turchi, conobbe un periodo di espansione.Riuscì a liberarsi dall’influenza del Patriarcato
di Costantinopoli e anche i testi liturgici furono tradotti in romeno. Durante il XVIII secolo i turchi,
duramente provati dalla riconquista dell’Ungheria da parte degli Asburgo e preoccupati dai progressi
dello stato russo, rafforzarono il loro controllo sui principati danubiani, provvedimento che fece
appellare i romeni allo zar Pietro il Grande . Con la pace di Kuciuk-Kainardji i turchi si impegnarono a
rispettare i privilegi dei principati danubiani e riconobbero allo zar il diritto di protezione sui cristiani
ortodossi dell’impero ottomano. Quindi alla dominazione ottomana si aggiungeva ormai la
“protezione” russa.
-I popoli oppressi. La Bulgaria ebbe una sorte meno favorevole.I Bulgari avevano dimostrato
una capacità di resistenza di gran lunga maggiore rispetto ai romeni e per questo furono trattati più
durezza e il loro territorio,confinante col centro dell’impero,fu sottoposto a un rigidissimo controllo.
Con la conquista la nobiltà bulgara fu eliminata e le sue terre espropriate e consegnate ai funzionari
turchi. I contadini bulgari cambiarono padroni ma continuarono a pagare ai nuovi signori ed eseguire
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per loro conto i lavori nelle corvée. I giovani bulgari erano periodicamente consegnati ai dominatori,
perché entrassero a far parte dei Giannizzeri. La religione ortodossa fu tollerata ma allo scopo di
controllarla, i turchi affidarono a vescovi greci il compito di dirigere il clero bulgaro. Nelle regioni di
frontiera i turchi attuarono conversioni forzate. Nelle regioni di montagna fu mantenuta una sporadica
resistenza da parte di gruppi di fuorilegge. La sorte dei serbi della Serbia propriamente detta furono
dure: soggetti ad un rigido regime di occupazione militare, le loro terre divennero proprietà del sultano,
che le trasformò in feudi militari ereditari o attribuiti a vita a funzionari turchi. Come in Bulgaria, i
contadini divennero fittavoli dei turchi e le famiglie dovettero fornire periodicamente l’esercito di
reclute per il corpo dei Giannizzeri. La Chiesa serba fu l’anima della resistenza. Dopo il fallimento
delle rivolte del 1688-1690, migliaia di serbi guidati dal patriarca di Pec fuggirono in Ungheria (di qui
l‘origine della popolazione serba nel meridione dell‘Ungheria) e i turchi consegnarono il clero serbo
alla Chiesa greca, rivelatasi ancora una volta efficiente agente del potere turco. I serbi residenti invece
nelle regioni montuose di Crna Gora, il Montenegro, riuscirono a conservare la propria
indipendenza.Non esitarono nei secoli ad attaccare i turchi, da soli o con l’aiuto di Austria e Venezia. I
serbi della Bosnia si convertirono in gran numero all’Islam, il che procurò loro una relativa tranquillità.
Il consolidamento della monarchia asburgica nella zona danubiana.
All’inizio del XVII secolo gli Asburgo d’Austria oltre al titolo imperiale, avevano aggiunto
possedimenti ereditari le corone di Boemia e d’Ungheria. Perciò il loro impero rappresentava un solido
bastione costruito intorno ad una dinastia cattolica, dalla quale si realizzerà la lenta riconquista delle
regioni occupate dai turchi.
-Il trionfo della Controriforma in Boemia. La Controriforma fu attiva soprattutto grazie
al’opera missionaria ed educativa dei Gesuiti. Ferdinando di Stiria, in seguito divenuto Ferdinando II,
ex allievo di un collegio gesuita, volle stabilire l’unità religiosa dei suoi Stati e sin dalla sua ascesa al
trono, cercò di limitare i privilegi dei protestanti. In Boemia e poi nel Sacro Romano Impero, ciò
scatenò una guerra di religione, detta dei Trent’anni (1618 - 1648), che riaccese antichi dissapori tra la
casa d’Austria e la Francia, che per indebolire gli Asburgo, sosteneva i protestanti tedeschi e
consolidava l’alleanza turca. La guerra prese origine da un conflitto tra l’arcivescovo di Praga, che
aveva fatto chiudere un tempio e proibito l’esercizio del culto, e i protestanti cechi, di cui i
rappresentanti , i “difensori della Fede”, convocarono un’assemblea, proibita però dai governatori. Una
delegazione protestante guidata da un nobile di origine tedesca, il conte di Thurn, si recò al Palazzo
Reale, dove, dopo un incontro tempestoso, i due governatori , nobili cechi cattolici, ed il loro segretari,
furono gettati dalla finestra. La Defenestrazione di Praga segnò l’inizio di quel conflitto che per
trent’anni devastò l’Europa centrale. Durante la guerra, la Dieta escluse dalla successione al trono la
famiglia Asburgo,decise l’espulsione immediata dei Gesuiti e la confisca dei loro beni, scegliendo
come re un principe tedesco calvinista, Federico I, che ricevette il sostegno della maggioranza dei
principi protestanti dell’impero. Allora Ferdinando II si appoggiò alla Lega cattolica e a Praga
l’esercito protestante di Federico I subì una grave sconfitta. Tale battaglia, di “Montagna Bianca”,
rappresentò la vittoria della Controriforma. I vinti furono puniti e un tribunale straordinario condannò a
morte 27 capi della ribellione, tra cui il rettore dell’università di Praga. Il cattolicesimo ridiventò
religione di Stato e il protestantesimo venne bandito e i pastori espulsi. Chi non abiurò fu mandato in
esilio. La pacificazione della Boemia, che ebbe una nuova costituzione, non pose fine alla guerra. Gli
eserciti di Ferdinando II, guidati dal ceco e cattolico generale Wallenstein, fecero guerra ai principi
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protestanti tedeschi. Col successore Ferdinando III il regime divenne più liberale. La Pace di Westfalia
pose fine, nel 1648, alla Guerra dei Trent’anni: il potere imperiale ne uscì indebolito ed il principio di
“cujus regio eius religio” fece del sovrano il capo della religione dei suoi sudditi. Dopo il 1650 la
Boemia si riprese a poco a poco dal disastro e fu integrata alla monarchia degli Asburgo. L’economia,
basata sull’agricoltura, ritrovò prosperità. A fine secolo, tramite l’azione dei Gesuiti, Moravia e Boemia
erano ridiventati paesi cattolici.Essi possedevano collegi che formavano le future classi dominanti. La
Riforma Cattolica, per colpire l’immaginazione dei fedeli usò ogni mezzo, anche l’arte: il barocco, con
la sua sontuosità ed il suo fasto fu un prezioso elemento ausiliario nella conquista delle anime.
-Gli Asburgo, l’Ungheria e i turchi. Nonostante la partecipazione ungherese a tutte le guerre
condotte dall’Impero, nel XVIII secolo i paese conobbe un periodo di incontestabile prosperità. Maria
Teresa si interessò ai problemi d’insegnamento,fondando a Vienna, per formare i giovani nobili
dell’Impero, il Theresianum, vivaio di diplomatici e amministratori. Il francese divenne lingua di
cultura. Per ripopolare il paese dopo le guerre del secolo precedente, si era fatto appello a coloni
stranieri,soprattutto tedeschi, e furono accolti profughi serbi e romeni,fuggiti dai turchi. La politica di
Maria Teresa mirava a realizzare un unico impero, pur mantenendo i privilegi propri dell’Ungheria.
Suo figlio, Giuseppe II, despota illuminato e di idee razionaliste, abolì il servaggio, pose fine al regime
dei monopoli commerciali, ma provocò forti proteste della Dieta ungherese quando volle fare del
tedesco la lingua ufficiale dei suoi Stati. Alla sua morte terminarono questi tentativi, e nonostante la
lealtà della Dieta verso la dinastia, il sentimento del particolarismo nazionale stava già rinascendo.La
dinastia asburgica costituiva una solida struttura, centralizzata ed efficiente e abbastanza elastica da non
risultare oppressiva. Riuscì anche a scacciare i turchi dalla zona del medio Danubio. Il motto della
dinastia, AEIOU - Austriae Est Imperare Orbi Universo - poco si conciliava con il sentimento
nazionale che qua e là andava manifestandosi.
Declino e morte della Polonia.
La Polonia di Sigismondo III Vasa dava l’impressione di essere uno Stato potente, ma alla morte del re,
la debolezza istituzionale dello Stato polacco e le diversità etniche e religiose dovute alle conquiste
precedenti si manifestarono davanti ai pericoli esterni. Infatti, vicino alla Polonia, la Prussia, la Svezia
e la Russia erano diventate forze da non sottovalutare. Al momento dell’ascesa al trono, Giovanni
Casimiro dovette fronteggiare la rivolta dei cosacchi d’Ucraina, che dopo aver sconfitto l’esercito reale
si posero sotto protezione dello zar di Russia Alessio. La guerra russo-polacca che ne derivò portò alla
spartizione dell’Ucraina tra i belligeranti. Nello stesso periodo la Polonia era coinvolta nella Prima
Guerra del Nord e il territorio fu invaso dagli svedesi il cui sovrano Carlo X cercò di divenire re di
Polonia. Con la pace di Oliva nel 1660 la Polonia dovette rinunciare alla sua sovranità sulla Boemia.
Con Jan Sobieski per un breve periodo sembrò che la Polonia si potesse risollevare. La vittoria del re
contro i turchi a Vienna nel 1683 diede una certa fiducia al paese, ma le dispute nella Dieta
impossibilitarono una riorganizzazione dello stato. Gli scontri violenti per la successione al trono dopo
la morte di Sobieski fecero intervenire i paesi confinanti e la Francia. L’elettore di Sassonia, Augusto
II, sostenuto da Austria e Russia, fu eletto re, ma l’alleanza conclusa in tale occasione con Pietro il
Grande, portò la Polonia al fianco della Russia nella Seconda Guerra del Nord contro gli svedesi alleati
dei turchi. Carlo XII di Svezia invase la Polonia e fece eleggere un nuovo re, Stanislaw Leczynski. La
sconfitta di Carlo XII a Poltava, permise ad Augusto II di recuperare il trono ma solo grazie alla
benevolenza di Pietro il Grande, il cui esercito aveva liberato Varsavia. La Polonia uscì da questa
guerra in rovina e la Russia si rivelò un vicino pericoloso, data la volontà di Pietro il Grande di avere
un contatto diretto con l’Occidente. Anche la formazione dello Stato prussiano costituiva un nuovo
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pericolo, poiché le terre polacche lungo il baltico ne ostacolavano una continuità geografica. La
minaccia dell’indipendenza polacca fu chiara quando alla morte di Augusto II la Dieta elesse re il
candidato nazionale Leczynski,suocero del re di Francia Luigi XV, mentre Austria e Russia
sostenevano il figlio del re defunto. L’esercito russo entrò a Varsavia e fece eleggere Augusto III da
una minoranza di nobili. La successione al trono sfociò in una guerra europea che culminò con
l’elezione di Augusto III. Durante il suo regno la Polonia conobbe una relativa pace. Abbandonò la
politica di tolleranza religiosa che le fu tipica nei secoli precedenti e dissidenti religiosi furono esclusi
dalle cariche pubbliche. Ciò fornì un pretesto ai paesi confinanti per intervenire, la Prussia a difendere i
protestanti, la Russia gli ortodossi. Alla morte di Augusto III, Caterina II di Russia e Federico II di
Prussia videro un’ottima occasione per intervenire. Influenzata dalla famiglia Czartoryski, la Dieta
elesse re Stanislaw Poniatowski e l’esercito russo sopraggiunse per sostenere il nuovo sovrano. I
Czartoryski speravano nella creazione di un esercito permanente,nell’abolizione del liberum veto nella
realizzazione di riforme salvifiche per il paese e tali tentativi di riforma peoccuparono moltissimo
Caterina II, che si avvicinò alla Prussia. Russia e Prussia pretesero fosse ristabilito il liberum veto con
un ultimatum. Circa un centinaio di nobili reagirono e realizzarono, nel 1768, vicino alla frontiera
austriaca, la Confederazione di Bar, per la fede e la libertà. La Russia reagì provocando una rivolta dei
contadini ortodossi ucraini, con cui vennero massacrati migliaia di polacchi. I confederati si
appellarono alla Francia, che spinse i turchi a dichiarare guerra alla Russia. Le sconfitte turche
portarono l’Austria ad avvicinarsi alla Prussia e alla Russia, non volendo che i russi si introducessero in
Turchia così come avevano fatto in Polonia. Il risultato fu l’accordo di San Pietroburgo del 25 luglio
1772, che portò alla Prima Spartizione della Polonia “per timore che lo stato polacco si disgregasse
totalmente. La Dieta polacca resistette un anno prima di ratificare il trattato e cedette solo dopo
l’occupazione del paese a opera degli eserciti delle potenze interessate alla spartizione. La Polonia
sussisteva in quanto Stato, ma era strettamente sorvegliata dai suoi vicini e priva di qualunque libertà
d’azione. Il re Stanislaw Augusto diventò un sovrano protetto.
CONCLUSIONI …
Grande fu l’importanza del fattore religioso e il peso che ha avuto nei destini dei popoli che
attualmente costituiscono l’Europa orientale, molto più importante della stessa lingua. Lo scisma del
1054, che separò Costantinopoli da Roma e terminò con la divisione della Cristianità tra cattolici e
ortodossi, stabilì una prima fattura a cui si aggiunse, nel XVI secolo, un’altra divisione provocata dalla
diffusione della riforma protestante. I popoli slavi dei Balcani non poterono dar vita a stati indipendenti
e organizzare una vera difesa contro i turchi perché la Chiesa ortodossa era troppo legata all’Impero
bizantino. Fra tutte queste popolazioni, sia che fossero soggette ai turchi, sia che fossero riuscite a
conquistare o difendere la loro indipendenza, fu la religione il principale sostegno dell’identità
nazionale.
Già in questo periodo il mondo dell’Est europeo appariva diviso in tre settori:
- i Popoli Balcanici, che conservarono una struttura patriarcale e riuscirono solo eccezionalmente a
costituirsi in Stati, per cui per lunghi anni il loro destino era quello di essere solo popoli vassalli o
dipendendti dai loro vicini più potenti.
- i Popoli del Medio Danubio, sudditi delle corone di Boemia e Ungheria, mescolanze di varie
nazionalità che presto si organizzarono in Stati Nazionali, grazie all’appoggio e alle influenze
dell’Occidente e la Chiesa romana e, nella storia, associati ai possedimenti degli Asburgo.
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- la Polonia, che nonostante i suoi enormi potenziali, cadde nell’anarchia e fu cancellata dalla carta
geografica, causa istituzioni deboli, guerre intestine e assenza di frontiere naturali difendibili, tutte
circostanze che i paesi confinanti seppero ben sfruttare.
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(Parte seconda)
IL RISVEGLIO DEI POPOLI
I segni precursori.
A partire dagli ultimi anni del XVIII secolo, la storia dell’Europa centro-orientale è stata dominata dal
conflitto tra le nazioni, che cominciavano a risvegliarsi e a prendere coscienza del loro particolarismo,
e gli Stati tradizionali, nati dalle strutture politiche dell’Antico Regime. A un’Europa degli Stati, che si
era progressivamente costituita a partire dal XVI secolo e che si era solennemente affermata al
Congresso di Vienna, nel 1815, va sostituendosi un’Europa delle Nazioni, nate però spesso contro la
loro stessa volontà, create dalla rivalità tra le grandi potenze.
La genesi dell’idea di nazione.
Alla fine del XVIII secolo i popoli dell’Europa dell’Est avevano delle strutture politiche di origine per
lo più straniera, risultato di un’adesione a cui giunsero sotto la pressione di circostanze storiche o
risultato di una conquista. All’epoca, quattro Stati si spartivano il governo dei popoli dell’Europa
centro-orientali: a nord-ovest il Regno di Prussia, ad est l’impero russo, nei Balcani l’impero ottomani
e nella zona danubiana la Casa d’Austria. Per quanto riguarda la Prussia, la Russia e l’Impero
ottomano, i popoli conquistati avevano nei confronti di questi stati un rapporto tra vincitori e vinti,
mentre i legami tra la monarchia austriaca e i sudditi si fondavano sulla fedeltà alla dinastia Asburgo e
su una incontestabile comunanza di interessi. A partire dalla fine del XVIII secolo vi fu una presa di
coscienza del sentimento nazionale, realizzata dalle élites, dal clero, dagli ambienti intellettuali. Il
fenomeno si era manifestato all’inizio nell’Europa occidentale e più in particolare in Francia, grazie
all’influenza delle idee filosofiche. Durante tutto il XVIII secolo i filosofi francesi avevano elaborato
varie teorie sul rapporto tra Stato e popolo,innanzi tutto rifiutando qualunque idea di monarchia di
diritto divino. La Rivoluzione francese e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
contribuirono allo sviluppo dell’idea di nazione e del diritto dei popoli all’autodeterminazione. L’idea
che i popoli dovessero avere il diritto di scegliere il loro destino era stata largamente diffusa dai
rivoluzionari. Tale idea, vista dall’Est europeo, sembrava promettere un’indipendenza per i popoli
sottomessi. Le idee francesi pervennero in un momento in cui nell’Europa centro-orientale,
riscoprivano pian piano il passato nazionale ed imparavano le lingue nazionali, che l’uso delle lingue
colte aveva relegato al livello di dialetti riservati ai contadini. La rinascita culturale, unita all’influenza
dell’Illuminismo francese, svolse un ruolo fondamentale nel risveglio dei popoli dell’Europa centroorientale. Le prime manifestazioni di questo risveglio si produssero in Polonia nel 1794 con la rivolta
di Kosciuszko. Malgrado il suo fallimento e la scomparsa dello stato polacco, i patrioti polacchi
prestarono attenzione a tutto ciò che proveniva dalla Francia.Ecco perché le prime vittorie di
Napoleone I su Russia e Prussia furono viste con grande entusiasmo. In Ungheria, l’influenza della
Rivoluzione francese e delle sue idee sul diritto dei popoli a disporre di se stessi fu accolta con minore
entusiasmo che in Polonia. Solo gli elementi più radicali degli ambienti intellettuali cominciarono ad
agitarsi. Tra gli slavi del Sud della monarchia degli Asburgo l’influenza francese penetrò attraverso la
conquista militare.Il loro risveglio culturale diede vita a movimenti tra gli slavi dell’impero ottomano,
che si sviluppò più lentamente. All’inizio del XIX secolo dappertutto le nazioni cominciavano a
prendere coscienza della propria originalità le une nei confronti delle altre, riscoprendo la propria
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lingua, cultura e tradizione. La discussione era ormai aperta tra color che rimanevano sostenitori delle
strutture politiche tradizionali e quelli che sostenevano il principio delle nazionalità, secondo cui i
popoli con stessa cultura hanno diritto all’indipendenza se lo desiderino, purché occupino un territorio
nettamente delimitato.
Il Congresso di Vienna e le sue conseguenze immediate.
Il 22 settembre 1814 si aprì a Vienna un congresso a cui parteciparono tutti i rappresentanti degli Stati
europei.Esso, che aveva luogo dopo vent’anni di guerra tra la Francia e il resto dell’Europa, mirava
anche a ricostruire politicamente e territorialmente l’Europa. Riunito dall’imperatore d’Austria
Francesco II, e presieduto dal suo cancelliere Metternich, si concluse quasi un anno dopo con la firma
dell’Atto finale. Si fronteggiarono due gruppi di Stati: Prussia e Russia che cercavano di ottenere
maggiori vantaggi territoriali; Austria e Regno Unito, che tendevano soprattutto a mantenere un certo
equilibrio tra le potenze. Dinanzi al movimento delle nazionalità gli atteggiamenti erano diversi: la
Russia era ostile per la Polonia, ma non nell’impero ottomano. Metternich non era contrario a priori,
ma riteneva che si sarebbero dovuti creare non Stati-Nazione ma Confederazioni di Stati. La sorte della
Polonia fu soggetta a lunghe discussioni, poiché si trovava strettamente legata a quella della Sassonia,
in cui il sovrano si era alleato con Napoleone ed era stato, a quell’epoca, designato come sovrano del
granducato di Varsavia. Il trattato segreto, nel Gennaio del 1815, tra Austria, Francia e Inghilterra,
portò alla riconferma del re di Sassonia nei suoi stati, in nome del principio di legittimità. La Polonia
rimase con l’assetto delle spartizioni precedenti. Lo zar Alessandro di Russia divenne re di Polonia,
ormai provata delle sue province occidentali e della Lituania. L’aristocrazia polacca, proprietaria della
maggioranza delle terre, amministrava il paese sotto la sorveglianza della Russia. Il Congresso non
mutò nulla per quanto riguarda i Balcani. L’impero ottomano conservò teoricamente la sua integrità
territoriale ma,di fatto, la sua autorità era stata fortemente compromessa nell’epoca napoleonica ,
durante le guerre tra russi e turchi. I possedimenti ereditari della monarchia degli Asburgo che si
trovavano nella media valle del Danubio vennero confermati nelle loro frontiere precedenti al 1792. La
Boemia venne a far parte della Confederazione Germanica, che sostituiva il Sacro Romani Impero,
mentre l’Ungheria no, a causa dell’esistenza di una sua propria costituzione. Il congresso segnò il
trionfo delle grandi potenze che imposero le loro idee sui piccoli stati, e del principio di legittimità su
quello di nazionalità. Poco dopo la fine del congresso, gli imperatori di Austria ,Prussia e Russia
conclusero un trattato che formò la Santa Alleanza, col quale i tre monarchi si promettevano eterna
fraternità,assistenza e soccorso. Il trattato era aperto a tutti, ma tra i maggiori Stati europei solo il
Regno Unito non vi aderì. L’opera del Congresso di Vienna fu molto duratura, e nonostante le sue
imerfezioni, garantì all’Europa circa mezzo secolo di pace.
Il risveglio dei popoli balcanici.
L’esempio dato dai serbi e l’autonomia di fatto che erano riusciti ad ottenere con la loro lotta ebbero
un’immensa eco in tutti i Balcani, che tolleravano sempre meno il dominio di un impero ottomano che
presentava gravi segni di debolezza. Inoltre i popoli cristiani dei Balcani sapevano di essere più o meno
sostenuti dall’esercito. In effetti la Russia aveva manifestato l’interesse che nutriva per le comunità
ortodosse dei Balcani. L’Austria non era indifferente e con la Russia prese in considerazione un
progetto di spartizione dei Balcani, che però non ebbe seguito. Per entrambi i paesi, i Balcani
rappresentavano una zona di grande interesse, che aumentò notevolmente quando nel 1821 si ebbe la
ribellione della Grecia contro il giogo ottomano. La rivolta venne preparata dalle numerose società
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patriottiche che si erano formate in Grecia nei primi anni del XIX secolo. La proclamazione
dell’indipendenza nel gennaio 1822 e i massacri di Chio nei quali molte migliaia di greci furono
massacrate dai turchi, provocarono una tale emozione che le potenze si decisero ad intervenire tutte
insieme. L’impero ottomano dovette cedere e riconoscere l’indipendenza della Grecia. Tale ribellione
risultò molto utile per gli altri popoli dei Balcani.
Il tragico destino della Polonia.
Il Congresso di Vienna aveva ratificato la scomparsa dello Stato polacco a causa delle ambizioni dei
suoi vicini. Ognuna delle tre parti in cui era stata divisa la Polonia conduceva un’esistenza distinta: la
situazione nei territori polacchi annessi alla Prussica si presentava sotto un aspetto particolare, data
l’eterogeneità della popolazione: le campagne della Possanza erano per lo più popolate da polacchi,
mentre le città come Manica e Bydgoszcz avevano popolazioni e culture tedesche. La situazione era più
o meno lo stessa nella Polonia austriaca, ma lì la diversità etnica si basava sulla coesistenza di due
popolazioni slave, di cui una polacca e cattolica e una rutena e ortodossa o uniate. Questa opposizione
etnica era parallela a un’altra, di tipo sociale: l’aristocrazia, la popolazione urbana e il clero erano
polacchi, mentre la maggioranza dei contadini era rutena. L’aristocrazia e il clero polacco si adattarono
molto bene alla tutela dell’Austria, che lasciò alle sue province un’ampia autonomia. In Russia lo zar
Alessandro I sembrava mostrare una certa benevolenza nei confronti della Polonia;il paese venne
amministrato da polacchi, ma il ruolo della Dieta perse progressivamente di importanza. Con il conte
Lubecki, che diresse il paese fino al 1821, il paese ebbe una certa prosperità, che si tradusse in un
aumento della produzione agricola e nella creazione delle prime industrie di manufatti. L’università di
Varsavia fu scossa più volte dall’agitazione patriottica degli studenti, che comportò alla sua perioda
chiusura. L’esercito polacco, sorvegliato molto da vicino dalle autorità russe, era anch’esso uno dei
focolai più attivi del patriottismo. All’inizio degli anni venti i rapporti tra lo zar ed i suoi sudditi
polacchi cominciarono a guastarsi. Quando la Dieta denunciò più volte gli abusi dell’amministrazione,
lo zar la richiamo severamente all’ordine e poi le proibì di pubblicare le sue deliberazioni. Nacquero
varie associazioni segrete dove si facevano progetti per l’avvenire. Abdicato Alessandro I, e rinunciato
il figlio maggiore al trono, lo occupò il minore Nicola I. Nicola I applicò in Polonia la stessa politica
assolutistica che conduceva in Russia. La Dieta polacca non venne più convocata. Quando, nel 1830,
Nicola I si decise a riconvocarla, le elezioni risultarono favorevoli a una maggioranza di opposizione.
La classe politica polacca, eletta dalla nobiltà e dalla borghesia, era divisa in due tendenze: i Bianchi,
attendisti, speravano che lo zar attuasse delle riforme e cercavano di evitare qualunque azione che
potesse sfociare in un’insurrezione; i rossi, invece, ammiratori della Rivoluzione francese, tributavano
un culto particolare a Kosciuszko, l’eroe della rivolta del 1794. Quando si seppe che lo zar voleva
inviare truppe polacche contro il Belgio in rivolta, due giovani ufficiali prepararono, alla scuola dei
cadetti di Varsavia, un complotto che mirava ad assassinare il vicerè Costantino e far scoppiare una
sollevazione generale, ma il complotto venne scoperto ed il vicerè potè lasciare in tempo la città. Il
partito Bianco, per evitare lo scontro, formò un Consiglio e affidò il comando delle truppe polacche al
generale Chlopicki, che pregò il vicerè di rientrare a Varsavia. Al suo rifiuto, il Consiglio si trasformò
in Governo Provvisorio. Il generale Chlopicki assunse il ruolo di dittatore e chiese allo zar il ritito delle
truppe russe dalla Polonia, la convocazione della Dieta e la restituzione dei territori antichi al paese. La
risposta dello zar fu negativa, e Nicola I pretese una sottomissione totale. I Bianchi, preoccupati,
lasciarono il governo provvisorio, mentre i Rossi prendevano la direzione del governo. Quest ultimo
cercò di coinvolgere la Francia e a Parigi fu fondato un comitato generale polacco, ma il governo di
Luigi Filippo, ancora non del tutto sicuro della propria autorità, rifiutò di impegnarsi. Tuttavia
numerosi ufficiali francesi partirono per la Polonia, pur a titolo privato. La Prussia, preoccupata, chiuse
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le frontiere e diede aiuto allo zar. L’esercito polacco, ovvio, ottenne qualche successo, ma non poteva
resistere di fronte al maresciallo Paskévich. Già alla fine del luglio 1831, Varsavia i trovò quasi del
tutto accerchiata. Gli elementi più radicali dell’insurrezione cercarono di continuare la lotta, ma dopo
un lungo bombardamento d’artiglieria, Varsavia dovette capitolare. Una dura repressione si abbattè sul
paese. Il maresciallo Paskévich fu nominato governatore di Polonia. A Varsavia fu costruita una
cittadella per sorvegliare la capitale. I capi dell’insurrezione che caddero in mano ai russi vennero
impiccati, e migliaia di polacchi furono deportati in Siberia. La Costituzione fu abolita e sostituita dallo
Statuto organico. L’università di Varsavia fu chiusa e proibito ai polacchi di studiare a Cracovia. La
Chiesa cattolica venne strettamente controllata e quella uniate, considerata filopolacca, fu riunita a
quella ortodossa. Col passar del tempo, invece di attenuarsi la repressione aumentò. La Polonia venne
divisa in dieci dipartimenti, ognuno dei quali governato da un generale russo. Le province polacche
della Prussia e dell’Austria continuarono ad apparire regioni privilegiate agli occhi dei polacchi di
Russia.
Il risveglio delle nazionalità nella monarchia austriaca.
Nella monarchia degli Asburgo, durante il regno di Francesco II e Ferdinando,la conduzione degli
affari di governo fu affidata al cancelliere Metternich, che garantì bene o male una pax tra le diverse
nazioni dell’impero. Questo sistema si basava sui legami di fedeltà che univano i vari popoli alla
dinastia regnante, su una burocrazia ben funzionante e sulla forza della Chiesa cattolica. A partire dal
1815 il risveglio del sentimento nazionale si diffuse e molto rapidamente la rinascita culturale sfociò
nel confronto politico.Gli effetti della prima rivoluzione industriale portarono a un sensibile sviluppo
delle classi urbane, più aperte alle idee e maggiormente pronte a mettere in discussione le istituzioni
dell’epoca. Nonostante ciò, furono gli intellettuale e gli elementi liberali delle classi dirigenti a
capeggiare i diversi movimenti nazionali.
- Il movimento nazionale tra gli slavi dell’impero. All’interno della monarchia austriaca, gli
slavi rappresentavano il 40% della popolazione dell’impero. Tra quelli del Nord, furono gli intellettuali
cechi di Boemia a svolgere il ruolo più importante nel risveglio del sentimento nazionale, che si
manifestò anche attraverso la riscoperta del passato ceco. Da sottolineare, la creazione del Museo
nazionale di Praga. Si assistette anche allo sviluppo delle scienze storiche, il cui studio ebbe particolare
impulso grazie a Frantisek Palacky, che nella sua Storia della nazione ceca in dieci volumi, volle
insegnare ai suoi compatrioti il loro passato, spesso esagerando sulle opposizioni tra cehi e tedeschi.
Tuttavia, in questo periodo, il movimento nazionale ceco non mirava alla distruzione della monarchia
asburgica, ma ad una modifica delle strutture in un contesto federale. Nello stesso periodo si assistette
ad una lenta presa di coscienza tra gli intellettuali slovacchi, che , poco numerosi ed isolati tra i
Carpazi, non avevano mai fatto parlare di sé. Gli slovacchi vennero a stabilirsi in numero sempre
maggiore nelle città, ed i più colti si associarono alle principali correnti di pensiero. Alcuni tra essi,
consci del particolarismo rispetto ai vicini cechi e ungheresi, cercarono di dotarsi di una lingua
letteraria. Tra gli Slavi del Sud, il rinnovamento nazionale cercò di attenuare soprattutto le divisioni che
separavano i serbi ortodossi dai croati e dagli sloveni cattolici. Tre scrittori in particolare diedero vita
ad un rinnovamento culturale e furono i creatori di una lingua letteraria , il serbo-croato, che col
tempo, insieme ai dialetti locali, si sostituì al tedesco e all’italiano, che sino ad allora erano state le
lingue di cultura.
-Il rinnovamento nazionale in Ungheria. All’inizio del XIX secolo, il rinnovamento nazionale
era già a buon punto in Ungheria e si diffuse ulteriormente tra il 1815 e il 1848, grazie ad una
straordinaria produzione letteraria. Tale rinnovamento ebbe conseguenze politiche, e Metternich
cominciava a mal sopportare lo statuto particolare dell’Ungheria. Fece apparizione una vera stampa
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politica, divisa in due tendenze, una moderata, con il giornale Popolo dell’Est del conte Szechenyi, e
l’altra, più radicale, con la Gazzetta di Pest, di Lajos Kossuth. Tali tendenze si trovavano nei piani
proposti dalla Dieta: i moderati volevano trasformare l’Ungheria in una monarchia parlamentare di tipo
britannico senza però rompere i legami con l’impero. Il conte di Szechenyi era consapevole della
consistenza degli interessi economici che univano i diversi popoli dell’area danubiana e pose
soprattutto l’accento sulla necessità di modernizzare l’Ungheria. Nel campo opposto, i riformisti più
radicali erano guidati dall’avvocato Kossuth, fondatore della Gazzetta di Pest, in cui reclamava la
separazione del paese dal resto dell’impero. Kossuth divenne anche, in Dieta, il più accanito sostenitore
del nazionalismo ungherese, facendosi difensore della legge che faceva dell’ungherese la lingua
ufficiale dello Stato. Per l’Impero austriaco, tali risvegli nazionali sarebbero potuti sfociare in disordini,
tanto più che diverse erano le popolazioni che al suo interno stavano prendendo coscienza della
diversità rispetto alle altre. L’impero, negli anni quaranta, venne a trovarsi in una svolta cruciale:
lasciare proseguire senza intervenire e rischiare uno scontro tra diverse nazionalità, oppure, come
riteneva Metternich, mantenere intatta la monarchia ad ogni costo.
1848 - La primavera dei popoli: successo e fallimento delle rivoluzioni.
La rivoluzione parigina del 1848, conclusasi con la proclamazione della repubblica, si tradusse
ovunque tranne che in Gran Bretagna e in Russia, in disordini rivoluzionari più o meno grandi.
L’Europa attraversava un periodo di difficoltà economiche e tensioni sociali a causa di cattivi raccolti,
diminuzione di surplus agricolo e indebolimento della nascente industria. Nelle campagne vi era
miseria, nelle città aumentava la disoccupazione. Tutto ciò sfociò in un inasprimento delle lotte
politiche. I nazionalismi si esasperarono, ma non ovunque né con uguale intensità.
L’apparente calma della Polonia.
Le varie parti in cui fu divisa la Polonia non furono ugualmente interessate al clima di agitazione. I
polacchi di Prussia parteciparono alle manifestazioni a favore della libertà. All’inizio i liberali
ottennero soddisfazione: il re di Prussia promise una Costituzione. I deputati polacchi eletti
all’Assemblea Costituente cercarono di far sì che le promesse fatte fossero mantenute, ma invano,
poiché il fallimento del movimento rivoluzionario di Berlino e la riconquista del paese da parte
dell’esercito nel dicembre 1848 , posero fine alle speranze liberali. I polacchi d’Austria, da parte loro,
non presero parte ai dosordini, ma fu comunque organizzato un Consiglio nazionale polacco, al quale le
autorità austriache favorirono la creazione di un Consiglio nazionale ruteno. Nel complesso, nei
territori austriaci regnò la calma. Il settore polacco posto sotto il controllo russo rimase in apparenza
del tutto calmo nel 1848, a causa della rigida sorveglianza a cui era sottoposto. Nonostante ciò, nei loro
cuori, i polacchi si sentivano vicini a tutti quelli che lottavano per la libertà.
L’agitazione nell’Impero ottomano.
Nell’impero ottomano, nel 1848 né Bulgari né serbi parteciparono ai disordini che si verificarono negli
altri paesi europei. Solo i romeni di Moldavia e Valacchia manifestarono a favore della libertà,
soprattutto gli intellettuali, gli studenti e parte della nobiltà. In Moldavia fu creato un Comitato
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rivoluzionario ma i russi, che tenevano acquartierate alcune truppe, schiacciarono il movimento
d’accordo con le autorità turche. I membri vennero tutti arrestati. In Valacchia, invece, il movimento
rivoluzionario fu più importante: oltre ad un certo numero di riforme, i rivoluzionari chiesero l’unione
dei due principati. L’hospodar di Valacchia, Bibescu, sembrava esserne favorevole, se non fosse che si
opponesse fermamente a tutto ciò che potesse limitare la sua autorità. Dopo che Bucarest, l’11 Giugno,
si sollevò, Bibescu, dopo aver concesso ciò che i liberali chiedevano, abdicò e venne formato un
governo provvisorio. Tuttavia ben presto apparvero delle divisioni tra radicali e moderati, i quali
volevano formare una repubblica che riunisse tutti i romeni, compresi quelli della Transilvania.
Temendo la situazione, i russi e i turchi si misero d’accordo per fronteggiarla. I numerosi proscritti si
rifugiarono all’estero, soprattutto a Parigi, dove si sforzarono di di inreressare il governo francese alla
causa romena. Napoleone III non rimase sordo a lungo al loro appello.
Le rivoluzioni nell’impero degli Asburgo.
Il carattere autoritario di Metternich e la diffusione del sentimento nazionale nell’impero,insieme alle
notizie provenienti da Parigi, creavano le condizioni per un’eventuale esplosione.
-La prima ondata rivoluzionaria. La prima eco del successo della rivoluzione parigina fu a
Praga: l’11 marzo 1848 i liberali di Boemia,tedeschi e cechi insieme, organizzarono una pubblica
riunione, dopo la quale fu formato il Comitato di San Venceslao, che elaborò un programma di
rivendicazioni da presentare al governo di Vienna. La petizione giunse nel pieno dei disordini, di fronte
all’aumentare dei quali, l’imperatore invitò l’anziano cancelliere Metternich a dimettersi: il 14 marzo
Metternich presentò le sue dimissioni e partiva per l’esilio. Il 15 marzo l’imperatore acconsentì a tutte
le rivendicazioni, abolì la censura, formò una guardia civica e convocò un’Assemblea costituente. Il
movimento si estese a macchia d’olio. Da Praga a Vienna i disordini si estesero all’Ungheria. Qui,
mentre la Dieta era riunita a Pozsony, il 5 marzo la folla invase la sala della riunione e obbligò i
deputati a votare un documento indirizzato all’imperatore, in cui però egli veniva chiamato re , non già
imperatore. L’imperatore-re promise di soddisfare gli ungheresi ma nell’attesa i deputati precedettero
in tutta autonomia ad una serie di riforme, conosciute col nome di Leggi organiche del 1848: furono
aboliti i privilegi del regime feudale, fu proclamata l’uguaglianza e la libertà di stampa. Gli studenti il
15 marzo manifestarono e resero pubblica una dichiarazione in dodici punti, in cui venivano esposte le
loro rivendicazioni, poi andarono a liberare i detenuti politici. Temendo che i disordini si estendessero,
il re Ferdinando cedette a tutte le rivendicazioni degli ungheresi. Nominò suo fratello Stefano vicerè (
palatino ) e quest’ultimo ricevette il giuramento dal primo governo ungherese autonomo, presieduto dal
magnate liberale Batthyanyi. Da quel momento in poi la Dieta si sarebbe riunita non a Pozsony, ma a
Pest, che divenne centro politico del paese. Ma la situazione non era chiara e i liberali si erano divisi tra
moderati, favorevoli a un rapporto leale con la corona, e radicali, desiderosi di cambiare totalmente le
strutture politiche e sociali dell’impero. Inoltre, le rivendicazioni delle molteplici nazionalità che
formavano l’impero, risultarono ben presto contraddittorie e sfociarono in violente lotte interne. I
radicali ungheresi, volendo fare dell’Ungheria uno Stato nazionale indipendente, si scontravano con le
aspirazioni dei popoli non ungheresi che vivevano all’interno delle frontiere. I croati furono i primi a
mostrarsi preoccupati del carattere nazionale della rivoluzione ungherese. I deputati croati
proclamarono l’indipendenza della Croazia e, poiché il governo ungherese rifiutò di riconoscerla,
dichiararono guerra all’Ungheria il 16 agosto. Anche gli slovacchi, tra cui scrittori, sacerdoti,
insegnanti, votarono una mozione in cui si chiedeva l’autonomia per le regioni dell’Ungheria dove
vivevano degli slovacchi, e i serbi avanzarono rivendicazioni analoghe. Il governo ungherese, per il
quale il comportamento delle suddette nazionalità era ancor più scandaloso in quanto queste -tranne gli
slovacchi- erano venute autonomamente in Ungheria per trovare rifugio.
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-Nazionalismo tedesco e ceco in Boemia - Moravia. L’atteggiamento del governo imperiale di
fronte all’agitazione delle nazionalità fu esitante, principalmente poiché c’erano urgenti motivi da
risolvere: in Italia, con i sostenitori dell’unità, poi in Boemia, nello scontro tra nazionalisti tedeschi e
patrioti cechi. Le vittorie dell’esercito imperiale in Italia e in Boemia restituirono fiducia al governo. La
Corte ne approfittò per dare appoggio ai croati, che avevano appena dichiarato guerra all’Ungheria.
Rispondendo all’appello di Kossuth, ma maggior parte dei soldati ungheresi andò a mettersi al servizio
del governo nazionale. Le prime vittorie croate e l’appoggio semi-ufficiale dato dal governo imperiale
provocarono una crisi in Ungheria. Il palatino Stefano si dimise. L’avanzata minacciosa dei croati
alimentò il patriottismo dei deputati ungheresi che il 22 settembre nominarono Kossuth Presidente del
Comitato di Difesa. I croati si trovavano a sessanta km dalla capitale,quando la Guardia Nazionale li
fermò. La patria era salva, ma gli elementi moderati del Parlamento, preoccupati per le violenze
commesse dagli estremisti, iniziarono a prendere le distanze: la rottura era ormai definitiva.
-Kossuth e la guerra d’indipendenza ( 1848 - 1849 ). A partire dall’ottobre 1848, Kossuth era
diventato il vero padrone del paese. Il suo esercito respinse inizialmente i croati verso ovest. Il ministro
della guerra imperiale volle far marciare contro gli ungheresi alcuni reggimenti di origine italiana, che
però si rifiutarono. Dopo le barricate al centro di Vienna, parte di studenti e operai favorevoli agli
ungheresi, la Corte abbandonò Vienna e si rifugiò in Boemia. Il vecchio imperatore Ferdinando
rinunciava al trono gli succedeva il nipote appena 18enne Francesco Giuseppe, che lasciò chiaramente
intendere che voleva ristabilire l’ordine dei suoi Stati, pur conscio dei problemi esistenti. Kossuth fece
subito sapere che l’Ungheria non avrebbe riconosciuto il nuovo sovrano fiche egli non avesse prestato
giuramento alla Costituzione. Il governo imperiale rispose con un’offensiva militare generalizzata
contro l’Ungheria. Il governo di Kossuth e ciò che restava del parlamento ungherese, si rifugiarono a
Debrecen. Approfittando della situazione, i romeni di Transilvania e i serbi si sollevarono e si
abbandonarono a massacri nei confronti della popolazione ungherese. Il 14 aprile 1849 a Debrecen, su
iniziativa del deputato radicale madarosi, il parlamento proclamò l’indipendenza dell’Ungheria e
dichiarò decaduta la Casa degli Asburgo. A questo punto, l’imperatore Francesco Giuseppe accettò gli
aiuti dello zar di Russia. In luglio l’esercito russo comandato da Paskévich invase l’Ungheria. Kossuth
cercò di ottenere l’appoggio delle popolazioni allogene, ma troppo tardi: queste, per pronunciarsi,
aspettavano l’esito della guerra. Nella battaglia di Segesvàr, la Guardia Nazionale fu sconfitta e
Kossuth si rifugiò in Turchia, lasciando il potere al generale Gorgey. A questo punto l’Ungheria venne
sottoposta ad un regime di occupazione militare. Coloro che avevano partecipato all’insurrezione
furono puniti da tribunali militari: il principe Batthyanyi, capo del primo governo ungherese, fu
fucilato, tredici generale, i martiri di Arad, vennero giustiziati. In totale vi furono un centinaio di
esecuzioni e migliaia di condanne a pene detentive più o meno lunghe. La rivoluzione ungherese,
iniziata gioiosamente nel marzo 1848, si concluse nel sangue nell’agosto 1849 e fu la più lunga di tutte
quelle che scossero l’Europa alla metà del XIX secolo. I suoi capi, animati da un patriottismo
romantico, avevano provocato una violenta reazione nelle popolazioni allogene d’Ungheria. A breve le
rivoluzioni del 1848 erano ovunque fallite e l’operato del Congresso di Vienna sembrava intatto, ma il
problema dei rapporti tra le differenti nazioni era ormai posto.
Alla ricerca di nuove strutture.
Malgrado il loro fallimento, le rivoluzioni del 1848 - 1849 avevano lasciato un segno profondo nei
popoli dell’Europa orientale e dovunque i governi avevano preso coscienza dell’importanza del
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movimento delle nazionalità, che diventò un elemento importante della politica estera delle grandi
potenze.
Le potenze e la questione d’Oriente.
A partire dal 1859, la presenza di un impero ottomano indebolito diventò uno degli interessi principali
delle cancellerie europee. Bisognava smembrare l’impero ottomano o adoprarsi affinchè rimanesse
integro? Le grandi potenze erano in disaccordo sul da farsi. Certamente erano consapevoli
dell’esistenza di nazioni cristiane oppresse che aspiravano a liberarsi della tutela turca, ma spesso i
governi avevano come obiettivo principale la difesa dei propri interessi. Lo zar si sentiva solidale con i
cristiani ortodossi dei Balcani, nella maggior parte slavi, poiché il suo obiettivo era l’accesso diretto al
Mediterraneo.Napoleone III, in nome del principio delle nazionalità, era favorevole all’emancipazione
dei popoli balcanici, ma solo se in totale accordo con gli inglesi. All’epoca il governo britannico
auspicava il mantenimento dell’integrità del territorio ottomano, poiché voleva evitare l’arrivo dei
Russi nel Mediterraneo orientale. L’impero austriaco, sembrava optare per il mantenimento dello status
quo. La prima seria crisi internazionale scoppiò nel 1853 e sfociò nella Guerra di Crimea. L’origine di
deve a Gerusalemme per il problema della sorveglianza dei Luoghi Santi. Nel 1853 lo zar Nicola I
inviò a Costantinopoli una missione guidata dal principe Menshikòv, per ottenere dal sultano il diritto
di garantire la protezione dei cristiani ortodossi dell’impero ottomano, minacciati dall’espansione di
religiosi di rito latino. Il sultano, sull’appoggio degli inglesi, rifiutò di acconsentire a questa richiesta. I
russi reagirono inviando truppe in Moldavia e in Valacchia. Il sultano dichiarò guerra alla Russia; la
Francia e il Regno Unito si allearono con lui nel marzo 1854. L’Austria, rimase neutrale. La Guerra di
Crimea durò circa due anni e si concluse con la sconfitta della Russia. Il Trattato di Parigi del 1856
cercò di conciliare il principio del mantenimento di integrità territoriale dell’impero ottomano con gli
interessi delle popolazioni balcaniche: la Serbia vedeva riaffermata la propria autonomia, e questo
statuto era esteso alla Moldavia e alla Valacchia, per le quali Napoleone propose l’unione in uno Stato
romeno unitario,ma alla quale proposta non acconsentirono le altre potenze. Il compromesso fu che
Moldavia e Valacchia avrebbero formato i Principati Uniti, con una stessa legislazione, pur rimanendo
Stati distinti.
Napoleone III e la questione d’Oriente dopo il Congresso di Parigi.
Napoleone III continuò in segreto la sua politica a favore dell’unità romena. I consoli francesi
consigliarono alle assemblee di Moldavia e di Valacchia di eleggere lo stesso hospodar, e così fu
quando nel gennaio del 1859 fu eletto Alexandru Ion Cuza, che assunse subito il titolo di principe di
Romania. L’Europa e il sultano riconobbero la situazione: era nato lo Stato romeno. Le tensioni
all’interno del paese non mancarono nella nuova Romania: Cuza fu obbligato a ritirarsi, poiché gli si
rimproverava di esercitare una dittatura (mentre invero la ragione del complotto era la conduzione del
principe, di una politica sociale avanzata a favore dei ceti popolari, che le classi conservatrici non
accettavano,perché avrebbe rischiato di indebolire la potenza politica ed economica dei grandi
proprietari). Napoleone III favorì l’ascesa al trono di Carlo, cugino per via paterna del re di Prussia
Guglielmo I, e attraverso la madre, dello stesso Napoleone III. Quando Carlo fece il suo ingresso a
Bucarest, fu riconosciuto dal sultano come principe ereditario di Romania - i suoi discendenti
regneranno sul paese fino al 1947.
Le illusioni polacche.
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La Polonia russa era rimasta tranquilla al momento delle rivoluzioni del 1848, perché il paese era
soggetto a un regime di occupazione militare che rendeva inutile qualunque tentativo di azione. La
morte nel 1855 dello zar Nicola I fu accolta con sollievo dai polacchi: il nuovo zar, suo figlio
Alessandro II, era considerato relativamente aperto alle idee liberali, ma aveva comunque ricordato ai
polacchi che intendeva continuare la politica del padre e allo stesso tempo aveva nominato vicerè di
Polonia il principe Gorciakov, molto meno autoritario del suo predecessore. Il clima di relativa libertà
che cominciò a instaurarsi in Polonia favorì la rinascita di una certa forma di vita politica. La Società
Agronomica, che riuniva parecchie migliaia di proprietari terrieri, diventò rapidamente il punto di
aggregazione dell’opposizione liberale nazionale, che aspirava a creare una Polonia indipendente, unita
alla Russia solo nella persona di un sovrano comune. Tuttavia, a fronte di questi liberali che formavano
il Partito bianco, gli oppositori più radicali, quelli del Partito rosso, provenienti dalla piccola nobiltà,
dal mondo studentesco, e dal popolino, reclamarono l’indipendenza totale del paese nell’ambito delle
sue frontiere storiche. I patrioti polacchi erano persuasi che Napoleone III avrebbe agito nella lotta per
la loro indipendenza, sapendo che egli fosse un grande sostenitore del principio delle nazionalità. Le
prime manifestazioni in Polonia iniziarono il 29 novembre 1860, anniversario della sollevazione di
Varsavia nel 1860. Questa volta l’esercito russo reagì sparando alla folla: ci furono alcuni morti.
Alessandro II sembrò esitare circa la politica da seguire in Polonia, e cambiò più volte vicerè. Il capo
liberale Wielopolski si sforzò di cercare un accordo con lo zar e fu subito accusati dai rossi di
tradimento. La situazionè precipitò il 22 gennaio 1863, quando il Comitato centrale Rivoluzionario
lanciò un appello per l’insurrezione generale. Alla fine del mese di aprile tutta la Polonia era in stato di
insurrezione e il Comitato Centrale diventato Governo Provvisorio, fece appello alle potenze straniere:
Napoleone III scrisse personalmente allo zar per chiedergli di ristabilire la Costituzione del 1815. La
risposta dello zar fu negativa. Gran Bretagna e Austria intervennero allo stesso modo, mentre la Prussia
diede il suo totale appoggio allo zar, chiudendo le frontiere ai polacchi. Truppe polacche, reclutate in
fretta nella febbrile atmosfera dell’insurrezione, si sforzarono nel paralizzare i movimenti dell’esercito
russo, ma la lotta era ineguale. In Polonia, l’esercito del generale Berg accerchiò Varsavia, che
capitolò. I membri del governo provvisorio furono arrestati, condannati a morte e impiccati nel 1864. Il
russo divenne la lingua obbligatoria dell’amministrazione e dell’università. La Chiesa cattolica, da
sempre custode delle tradizioni nazionali, conobbe anch’essa una dura repressione: i vescovi furono
tutti deportati in Siberia, la maggiorparte dei conventi fu chiusa. La Polonia aveva pagato duramente il
suo desiderio di emancipazione.
Dall’Austria all’Austria-Ungheria ( 1850 - 1867 ).
L’imperatore Francesco Giuseppe, come aveva lasciato intendere nel proclama risalente alla sua ascesa
al trono, cercò di trovare una soluzione ragionevole ai problemi delle aspirazioni liberali e dei
movimenti nazionali, senza però indebolire le prerogative della Corona né nuocere agli interessi
superiori dell’impero. Dopo Schwarzenberg, il potere fu affidato ad Alessandro Bach per dieci anni,
che furono caratterizzati dal ritorno di un regime autoritario, nella tradizione di Metternich. Il governo
ripristinò l’antica alleanza con la Chiesa cattolica, ed il Concordato con Pio IX conferì ad essa una
posizione privilegiata, soprattutto in quanto era attribuito alla Chiesa l’insegnamento alla gioventù. Il
governo Bach riprese la politica di germanizzazione dei popoli dell’impero: le diversi province furono
massicciamente dotate di funzionari germanofoni che imposero il tedesco come lingua nell’istruzione e
nell’amministrazione, ma per accattivarsi allo stesso tempo il mondo contadino, mantenne le conquiste
sociali della rivoluzione. La resistenza passiva praticata dai non tedeschi dell’impero portò Francesco
Giuseppe ad impugnare di persona le redini degli affari pubblici. Nel marzo 1860 egli riunì il Gran
Consiglio dell’Impero, in cui si distinguevano due correnti politiche di pari importanza: quella unitaria,
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favorevole alla trasformazione dell’impero in uno stato liberale, e quella federalista, che chiedeva la
restaurazione degli antichi Stati storici. Francesco Giuseppe, desideroso di conciliare l’unità
dell’impero con la diversità delle popolazioni, pubblicò un Diploma di stampo federalista: in ogni
paese dell’impero, una Dieta eletta avrebbe detenuto parte del potere legislativo, tutte le nazionalità
erano poste su un piede di parità e ogni cittadino aveva accesso a qualsiasi impiego, la lingua locale
sarebbe divenuta quella ufficiale. Alcuni mesi dopo Francesco Giuseppe completò il Diploma con una
Patente di stampo di centralizzatore, il chè causò gravi scontenti tra gli ungheresi. Alla seduta della
Dieta del maggio 1861, Ferenc Deàk, capo dell’opposizione dopo l’esilio di Kossuth, reclamò il ritorno
alla stretta applicazione della Costituzione. La situazione rimase bloccata per quattro anni , ma nel
1865 Francesco Giuseppe riprese i contatti con l’opposizione ungherese, annunciando che bisognasse
stabilire l’antica Costituzione, pur salvaguardando gli interessi dell’impero. Deàk si richiarò pronto a
negoziare e fu firmato l’accordo, noto col nome di Compromesso austro - ungarico, formato due
documenti: lo Statuto costituzionale, concernente l’Austria e le sue dipendenze, il Patto costituzionale,
stipulato tra Francesco Giuseppe e l’Ungheria. I possedimenti degli Asburgo formeranno da adesso una
Doppia monarchia, ma le due parti di essa saranno unite dallo scettro di un monarca comune,
imperatore a Vienna e re a Budapest. In Ungheria la Dieta comprendeva due Assemblee, la Camera
Alta e quella Bassa, e a differenza di Vienna, in Ungheria il governo era responsabile davanti alle
Assemblee. L’imperialregio esercito era comune, con il tedesco come lingua di comando, ma sia
l’Austria che l’Ungheria disposero di un esercito territoriale, reclutato localmente e con l’idioma
nazionale come lingua di comando. Il problema che adesso si sarebbe posto, era l’accettazione o meno
delle altre nazionalità presenti all‘interno dell‘impero, della gestione dell’impero affidata ai due gruppi
più numerosi, ungheresi e tedeschi, fatto , questo, che li allontanava dal potere nel caso avessero
rifiutato il quadro giuridico del 1867.
L’esperienza austro - ungarica ( 1867 - 1918 ).
All’interno dell’impero alcuni credevano che il compromesso del 1867 fosse solo la prima tappa di un
processo che avrebbe portato alla creazione di un vero e proprio sistema federale, altri invece,
principalmente in Ungheria fra i nostalgici di Kossuth, ritenevano che il compromesso fosse solo un
ripiego. All’esterno gli atteggiamenti erano molto differenti: i nazionalisti tedeschi si mostrarono sin
dall’inizio ostili a qualunque evoluzione di un sistema federale, che avrebbe indebolito la loro
posizione all’interno dell’impero. I dirigenti russi, consapevoli dell’importanza numerica delle
popolazioni slave all’interno della monarchia austro - ungarica, erano molto sensibili al vantaggio che
la Russia avrebbe tratto dallo staccare gli slavi dall’Austria - Ungheria, attirandoli verso i giovani Stati
slavi dei Balcani, satelliti della Russia. In Francia, anche se ufficialmente ci si mostrava neutrali nei
confronti dell’Austria - Ungheria, alcuni, tra docenti universitari, uomini politici di sinistra e ambienti
anticlericali, vedevano nella monarchia asburgica uno Stato conservatore e clericale, ed in nome
dell’amicizia franco - russa, ci si dimenticò o si fece finta, che nell’Europa dell’inizio del 1900, le
nazionalità più oppresse nell’Est europeo si trovavano proprio in Russia, dove polacchi, popolazioni
baltiche, ucraini e i popoli del Caucaso erano sottoposti a una massiccia politica di russificazione.
La realtà etnica dell’Austria - Ungheria.
Era la parte austriaca dell’impero, la Cisleitania, a offrire all’osservatore la maggior varietà sul piano
delle popolazioni. Alcune province erano esclusivamente popolate da tedeschi (come la provincia di
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Salisburgo ). Altre erano di stragrande maggioranza tedesca. La Carinzia e la Stiria, benchè con una
popolazione tedesca maggioritaria, avevano anche un’importante minoranza slovena. La capitale,
Vienna, era una città a grande maggioranza tedesca, ma vi erano rappresentanti di tutte le nazionalità.
A sud delle popolazioni germanofone, cominciava il dominio degli italiani e degli slavi del Sud : solo
italiani nel Trentino, italiani e sloveni nella provincia di Gorizia, croati, italiani e sloveni in Istria. In
linea generale, nelle province meridionali della Cisleitania, gli italiani dominavano nelle città e gli slavi
nelle campagne, ma l’esodo da quest’ultime favoriva la statizzazione progressiva dei centri urbani. Nei
paesi della Corona di San Venceslao, le popolazioni tedesche erano riunite in gruppi compatti in tutte le
zone montuose della periferia, dove si presentavano maggiormente sia nelle campagne che nelle città.
Per contro, il loro numero era molto inferiore nelle città della Boemia e della Moravia, dove i cechi
erano in maggioranza. In Slesia, le popolazioni erano molto mescolate tra polacchi, cechi e tedeschi. La
Galizia aveva una popolazione a maggioranza polacca, e gli ebrei erano presenti in particolare nelle
zone urbane, soprattutto a Lwow. Sul piano religioso, la Cisleitania era più omogenea: più di 4/5 degli
abitanti erano cattolici romani, il che era un fattore di coesione importante. Dopo di loro vi erano i
cattolici uniati, gli ortodossi e i protestanti. Gli ebrei rappresentavano quasi il 5% della popolazione
totale, e molto numerosi a Vienna.
In Transleitania, cioè nei paesi della Corona di Santo Stefano, la ripartizione delle nazionalità era più
armoniosa: gli ungheresi, il 54% della popolazione, escludendo la Croazia - Slavonia, che godeva di
uno statuto particolare, erano presenti ovunque, e la loro maggioranza non si trovava in alcune città
come Pozsony, dove i tedeschi erano poco superiori agli ungheresi. I tedeschi, circa due milioni, erano
in ogni grande città del paese. I romeni, circa tre milioni, erano poco più della metà della popolazione
della Transilvania e del Banato: vivevano principalmente nelle campagne e nei villaggi, insediandosi
col tempo nelle città. Gli Slovacchi, circa due milioni, vivevano principalmente tra le montagne del
nord -ovest dell’Ungheria, ma a partire dal XIX secolo, a causa della pressione demografica, si
stabilirono nelle valli verso il Danubio. Nella Croazia - Slavonia la popolazione si presentava più
omogenea che nell’Ungheria propriamente detta. I croati erano ovunque maggioritari, tranne nella parte
orientale in cui si erano rifugiati i serbi nel XVIII secolo. Fiume costituiva un corpus separato
dell’Ungheria: la popolazione, all’origine croata, aveva nel XIX secolo ricevuto numerosi apporti
italiani provenienti dall’Istria e da Trieste. Sul piano religioso, l’insieme dei paesi della Corona di
Santo Stefano, inclusa la Croazia Slavonia, presentava una diversità piuttosto notevole: i cattolici
romani, più del 52% della popolazione, erano in maggioranza, seguiti da protestanti, luteranesi e
calvinisti, ortodossi e uniati. Gli ebrei rappresentavano il 5% della popolazione ed erano soprattutto
presenti a Budapest. Nel 1908 l’annessione della Bosnia - Erzegovina aggiunse alla popolazione un
‘ulteriore numero di slavi, con una maggioranza di ortodossi, una minoranza mussulmana e cattolica.
Il funzionamento del sistema.
Malgrado le diversità linguistiche e religiose, la Doppia monarchia formava un insieme che,
imperfezioni a parte, per circa 50 anni funzionò piuttosto bene. La coesione di questo sistema si basava
sulla persona del sovrano. Francesco Giuseppe suscitò verso la dinastia un sentimento di lealtà che
rimase tale sino alla sua morte. Il suo regno, le sue sventure familiari, gli provocarono il rispetto e
anche l’affetto dei suoi sudditi. Altro fattore di coesione era la religione cattolica, che riuniva attorno
all’imperatore popoli diversi. Al di fuori della Chiesa cattolica le altre religioni cristiane potevano
anche svolgere un ruolo di inquadramento spirituale. L’imperialregio esercito costituiva anch’esso un
elemento supplementare per suddetta unione di popoli. Il tedesco, l’unica lingua militare ammessa,
rafforzava la coesione. Inoltre le cariche di comando più elevate non erano riservate agli ufficiali
appartenenti alle nazionalità “dominanti” e solo la competenza garantiva promozioni.
L’amministrazione, efficiente e non corrotta, e la burocrazia, erano altri elementi collanti. Chiunque
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aveva competenze necessarie poteva fare una brillante carriera e i membri di differente nazionalità
erano posti su un piede di parità, e lo Stato non chiedeva di rinunciare alla propria lingua madre, ma
semplicemente di avere anche una conoscenza di tedesco o ungherese (che ci si trovasse in Cisleitania
oppure in Transleitania). Unica era anche la comunanza di interessi dei diversi popoli, nella vita
politica come in quella economica. La mobilità della popolazione da una regione all’altra, o da
campagna a città, favoriva la mescolanza, ed i matrimoni misti erano molto frequenti. La monarchia
austro - ungarica costituiva un insieme economico coerente, formato da regioni con risorse
complementari sia nel settore agricolo che in quello industriale. Una fitta rete di vie di comunicazione
assicurava facili contratti sia per terra che per mare. L’Austria - Ungheria non fu mai uno Stato
razzista. Accanto a tedeschi e ungheresi, che costituivano il pilastro dell’impero, le altre nazionalità
hanno goduto di libertà molto più grandi di quelle dei loro fratelli di razza che vivevano oltre le
frontiere.
Le prospettive future per la monarchia austro - ungarica alla vigilia della
Prima Guerra Mondiale.
Nel 1914 nessuno in Austria - Ungheria pensava seriamente a distruggere l’impero dall’interno. I
“contestatori” si rendevano conto dei vantaggi che offriva quell’insieme coerente e valido ai suoi
abitanti. Ciò a cui aspiravano i capi politici delle nazionalità più consapevoli era il federalismo, ma si
scontravano con quelli che godevano dei vantaggi delle situazioni acquisite. Venne elaborata tutta una
serie di progetti allo scopo di riformare l’impero negli ultimi anni che precedettero la guerra. Nel 1906
un romeno di Transilvania, Popovici, pubblicò un’opera in cui immaginava la suddivisione dell’impero
in tante province autonome quante erano le nazionalità. L’arciduca Francesco Ferdinando non
nascondeva il suo desiderio di trasformare l’impero nel momento in cui sarebbe succeduto allo zio. Il
principe cercava di rendere più stretti i legami ideologici e spirituali che potevano unire i diversi popoli
e il cristianesimo sociale poteva essere un fattore di riavvicinamento tra le popolazioni. Ostile a chi
mostrava un eccesso di nazionalismo, il suo ideale era quello di garantire a tutti i popoli dell’impero
un’espansione culturale in una società più giusta e organizzata. Per realizzare tali obiettivi, Francesco
Ferdinadno optava per una politica di pace,sapendo che, senza un lungo periodo di pace, non si sarebbe
potuto trasformare e salvare l’impero sul quale pesavano le mire congiunte della Germania e della
Russia. Ecco perché nel 1914 egli era diventato l’uomo da abbattere.
Il risveglio della nazione polacca (1870 - 1914).
Dopo le due sconfitte del 1830-1831 e del 1863, la Polonia venne sottoposta ad un regime straordinario
e una politica di massiccia russificazione. La maggior parte dei capi dell’insurrezione del 1863 era stata
giustiziata e i partecipanti esiliati in Siberia. La stessa Chiesa cattolica era stata privata dei suoi capi e
la maggior parte dei monasteri era stata chiusa. Malgrado la chiusura dei collegi e delle scuole di lingua
polacca e nonostante le proibizioni, la lingua nazionale rimase viva e il suo insegnamento clandestino
permise alle nuove generazioni di mantenere la loro identità. La Polonia russa si era industrializzata a
partire dal 1870 e la popolazione urbana era aumentata. L’aristocrazia era ancora molto potente nelle
campagne, ma nelle città le nuove classi assumevano un ruolo sempre maggiore nel movimento
nazionale. Le idee di Karl Marx si diffusero velocemente ed esistevano due gruppi socialisti
clandestini: il Partito socialdemocratico di Polonia e di Lituania, e il Bund ( Lega generale dei
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lavoratori ): orientati verso la lotta rivoluzionaria contro il regime zarista e il sistema economico e
sociale, alcuni militanti tennero a Parigi nel 1892 un congresso da cui nacque un nuovo movimento
socialista, il Partito socialista polacco di Limanowski. Questo partito disponeva di un giornale
clandestino redatto da un giovane militante, Pilsudski, il quale in seguito si stabilì in Galizia e da lì
inondò la Polonia russa di pubblicazioni socialiste clandestine. Anche la borghesia polacca dispose di
un’organizzazione politica: il Partito nazionaldemocratico, di opposizione moderata. Gli avvenimenti
del 1904-1905 in Russia, ebbero una grande eco in Polonia e i socialisti di diverse tendenze
organizzarono scioperi e attentati contro i funzionari russi. I nazionaldemocratici cercarono di ottenere
almeno una certa autonomia per la Polonia. L’annuncio di Nicola II della concessione di una
costituzione venne salutato con gioia. Le elezioni per la prima Duma nel 1906, nonostante l’invito dei
socialisti ad astenersi portarono alle votazioni i polacchi, che espressero la loro preferenza per i
moderati, che ottennero tutti i seggi, ma il quale atteggiamento di pacatezza e buona volontà non si
dimostrò produttivo. Anzi, venne loro rifiutata l’autonomia e la nuova legge elettorale tolse ai polacchi
metà dei seggi. Tuttavia dopo la rivoluzione del 1905 i polacchi recuperarono una parte delle libertà
perdute dopo il 1830, non ancora sufficienti però, per placare il popolo. Nelle province amministrate
dalla Prussia la sorte delle popolazioni polacche ebbe alti e bassi: i cattolici polacchi dovettero subire le
vessazioni delle autorità e a partire dal 1886 Bismarck inaugurò una politica di germanizzazione delle
province un tempo polacche, creando una Commissione di colonizzazione per permettere ai tedeschi
che avessero voluto insidiarsi di acquistare terre con l’aiuto dello Stato. Al Reichstag di Berlino i 15
deputati che ne facevano parte denunciavano tale politica di colonizzazione ma invano. Nel 1914
quindi, i polacchi di Prussia, anche se più liberi dei loro compatrioti di Russia, erano ugualmente
consapevoli della necessità di realizzare l’unione dei polacchi in uno Stato unico e indipendente. La
Galizia austriaca rimase il centro più attivo della lotta per l’indipendenza. Jozef Pilsudksi organizzò
gruppi d’azione clandestini che nel 1910 ufficializzò con la copertura di “Società di tiro al fucile”. Si
costruì in tal modo una vera forza armata polacca e una Commissione provvisoria di governo si teneva
pronta in caso fosse scoppiata una guerra contro la Russia.
I Balcani, posta in gioco delle rivalità tra le grandi potenze.
Gli inizi della rivalità austro - russa nei Balcani (1870 - 1878).
Verso il 1870 l’area balcanica era per la maggior parte dominata dall’impero ottomano. Dall’inizio dei
XIX secolo alcuni popoli erano riusciti a liberarsi, come i serbi, i montenegrini e i romeni, ma per
quanto riguarda bulgari, albanesi, serbi di Macedonia e della Bosnia - Erzegovina, questi erano ancora
sotto il dominio turco. I ripetuti interventi delle potenze nei Balcani avevano acresciuto le speranze di
questi popoli, ma il Regno Unito si opponeva, soprattutto se ciò fosse risultato vantaggioso per i Russi.
La Russia, e un po’ meno l’Austria - Ungheria, erano interessate a ciò che accadeva nei Balcani,
ufficialmente per liberare le popolazioni cristiane, in realtà perché per la Russia i Balcani erano la
strada che conduceva alla libera navigazione, per la monarchia austro-ungarica perché costituvano il
prolungamento geografico dell’impero. Tale divergenza di interessi si era trasformata in accesa rivalità
a partire dagli anni 70. Allora, i patrioti bulgari iniziarono a mostrarsi più attivi. Parte di essi viveva in
esilio in Romania e da lì si preparava alla rivolta: in contatto con i membri di un Comitato centrale
della rivoluzione bulgara,costituito clandestinamente in territorio bulgaro, il loro tipo di azione si
limitava alla diffusione di scritti sovversivi e all’organizzazione di attentati terroristici. Il governo russo
sosteneva le aspirazioni del popolo bulgaro. Nel 1870 era stato raggiunto un primo risultato concreto: la
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Chiesa bulgara ottenne la sua indipendenza nei confronti del patriarcato di Costantinopoli. Le autorità
austro - ungariche non si interessavano per nulla alla Bulgaria, ma al contrario a tutto ciò che accadeva
in Bosnia -Erzegovina, il cui territorio confinava sia con la Dalmazia austriaca che con la Serbia e il
Montenegro autonomi. Nella primavera del 1875 l’imperatore Francesco Giuseppe effettuò un viaggio
d’ispezione in Dalmazia e Croazia e le popolazioni della Bosnia - Erzegovina interpretarono il viaggio
come un’incitazione a sollevarsi contro i turchi, il quale impero attraversava una grave crisi politica e
finanziaria. Nel luglio 1875 le esazioni dei funzionari turchi provocarono un’insurrezione in un
villaggio serbo dell’Erzegovina. In poche settimane i disordini si estesero a tutta la provincia. I turchi
reagirono duramente massacrando parte della popolazione civile, ma l’insurrezione si estese a macchia
d’olio. Le grandi potenze intervennero presso il sultano e si scatenò una reazione nazionalista in cui
vennero uccisi il console di Francia e Germania e molestati alcuni residenti europei. Nel luglio 1876 la
Serbia e il Montenegro si unirono alla lotta, aspirando a dividersi la Bosnia - Erzegovina. I serbi furono
rapidamente sconfitti dai turchi, i montenegrini riportarono qualche vittoria. Dinanzi all’estensione dei
disordini l’Austria - Ungheria e la Russia si accordarono in previsione di un eventuale intervento:
l’ovest sarebbe spettato all’Austria - Ungheria, l’est alla Russia. A Costantinopoli i britannici
preoccupati di non irritare turchi, si accontentavano di vaghe promesse di riforme. La politica equivoca
dei turchi fece sì che la Russia le dichiarasse guerra nell’aprile 1877, e nel 1878 i turchi chiesero un
armistizio, firmando in seguito il Trattato di Santo Stefano. Gli Stati già autonomi diventavano
pienamente indipendenti, veniva creata una Grande Bulgaria autonoma sotto l’influenza russa e come
previsto, l’Austria - Ungheria si vedeva affidare l’amministrazione della Bosnia - Erzegovina. Il Regno
unito, e in misura minore l’Austria - Ungheria, reagirono all’appropriazione russa dei Balcani. Il
ministro inglese Disraeli minacciò di intervenire e garantì ai turchi il suo appoggio. Al Congresso di
Berlino, suggerito da Bismarck, la Russia tornò sui propri passi: Romania, Serbia e Montenegro
rimasero indipendenti, pur dovendo rinunciare ad alcune ultime acquisizioni. La Grande Bulgaria
venne frantumata: il sud rimase ai turchi, il nord-ovest divenne principato autonomo. Per le popolazioni
interessate, il Congresso di Berlino fu causa di costernazione. Le relazioni tra Vienna e San Pietroburgo
ne risentirono. Né bulgari né serbi erano soddisfatti: i serbi a causa della presenza dell’Austria Ungheria nella Bosnia - Erzegovina ,che significava perdere la speranza di accedere al litorale adriatico
; i bulgari, le cui perdite di vita erano state notevoli, perché le loro aspirazioni non erano state
soddisfatte. Ancora una volta le grandi potenze avevano deciso la sorte dei popoli balcanici.
L’evoluzione interna degli Stati Balcanici fino alla crisi del 1908.
-La Romania. L’ascesa al trono del principe Carlo di Hohenzollern segnò l’inizio
dell’indipendenza in Romania. Un’Assemblea Costituente votò una Costituzione che fece della
Romania una monarchia costituzionale, con un parlamento bicamerale. All’epoca della guerra russoturca il Parlamento romeno approfittò delle circostanze favorevoli per proclamare, nel maggio 1877,
l’indipendenza totale del paese. L’esercito rumeno partecipò, a fianco dei russi, alla guerra di
liberazione della Bulgaria. Poco dopo il principe Carlo divenne re con il nome di Carol I. Il suo lungo
regno corrisponde con l’entrata della Romania nella scena internazionale. La maggior parte della classe
politica e l’insieme della popolazione manifestò, in questo periodo, un intransigente nazionalismo, che
si palesò nell’irredentismo. Erano considerate irredente la Bessarabia e la Transilvania. I legami tra gli
ambienti intellettuali della Romania e quelli della Transilvania erano assicurati dalla Lega culturale.
Altra forma di nazionalismo romeno fu l’antisemitismo, facilitato da una legislazione che del resto
contravveniva con le disposizioni del Congresso di Berlino, che aveva riconosciuto l’uguaglianza di
diritti per tutti gli abitanti dei paesi diventati indipendenti. Durante questo periodo ebbero luogo
centinaia di pogrom nel paese, con la complicità delle autorità, proprio in un paese che era considerato
il bastione della civiltà occidentale in Oriente. Quanto al regime sociale della Romania, era molto
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arcaico: la maggior parte della popolazione era formata da contadini poveri, gli appezzamenti
disponibili erano insufficienti davanti al rapido aumento della popolazione, le tasse sulle terre
aumentavano e si verificarono due grandi rivolte di cui l’ultima, quella del 1907, fu repressa con
estrema brutalità. Negli ultimi anni del XIX secolo, la nascita di un’industria basata sulle attività
estrattive e sulla trasformazione dei prodotti agricoli, portò alla creazione del Partito socialdemocratico
dei lavoratori di Romania, che lottò in difesa degli operai e delle loro durissime condizioni di lavoro.
La Rivoluzione russa del 1905 rafforzò il movimento socialista che si riorganizzò col nome di Partito
socialdemocratico, di ispirazione marxista.
-La Serbia e il Montenegro. All’indomani del Congresso di Berlino la Serbia era un piccolo
paese con strutture arcaiche. Senza accesso al mare, priva di ferrovie, la Serbia era costituita da
un’immensa società contadina di piccoli e medi proprietari terrieri. Le poche industrie erano
specializzate nella trasformazione di prodotti agricoli. Una lunga tradizione di lotte incessanti contro
l’occupante turco aveva inasprito il carattere dei contadini serbi, dei quali la lotta per la liberazione non
era ancora completata. Alcuni erano ancora sudditi dei turchi, altri dell’Austria - Ungheria, e la Serbia
si interessava ad essi. Dal XIX secolo la Serbia era stata governata dai principi della famiglia
Obrenovic. Michele, che durante i suoi viaggi in Europa occidentale, aveva preso coscienza del ritardo
nello sviluppo del paese, ebbe a cuore la sua modernizzazione, ma i cambiamenti avvennero
nell’ambito di un regime totalitario. Dopo il suo assassinio per mano di un sostenitore della dinastia
avversaria, il potere ritornò al suo erede più prossimo, il nipote Milan, con cui la Serbia si dotò di
istituzioni liberali. La Costituzione del 1869 trasformò il Paese in uno Stato Costituzionale dove erano
garantite le libertà fondamentali. La vita politica era animata da due partiti, quello liberale, di fatto
conservatore, favorevole all’alleanza con l’Austria, e quello radicale, difensore dei contadini poveri e
propenso al riavvicinamento con la Russia. Il divorzio del re creò un nuovo motivo di conflitto con i
sudditi, dato che la regina Natalia, di origine russa, godeva di molta popolarità. Davanti allo scontento
sempre più grande, il re fece adottare una nuova costituzione più liberale. Poi abdicò a favore del figlio
Alessandro I di dodici anni , per il quale venne organizzata una reggenza. Le lotte politiche ripresero
con estrema violenza e la crisi fu momentaneamente risolta con l’annuncio di Alessandro I, di assumere
personalmente la conduzione della politica nazionale. Le aspettative dei radicale nel giovane re furono
preso deluse, perché questi abolì l’ultima Costituzione, tornando a quella precedente e meno liberale. Il
rafforzarsi dei legami con l’Austria - Ungheria suscitò uno scontento crescente. Nella notte dal 10
all’11 giugno 1903 una congiura militare, capeggiata dal fratello dell’ex marito della regina, si concluse
col massacro del re, della consorte e di tutti i familiari Obrenovic. Il parlamento eleggeva re Pietro
Karagjeorgjevic della famiglia rivale, col nome di Pietro I. Egli aveva trascorso maggior parte della sua
vita all’estero e la sua ascesa al trono segnò una svolta decisiva per la Serbia: si affermò l’orientamento
politico pro-russo e alle elezioni i radicali ottennero una schiacciante maggioranza. Poiché l’Austria Ungheria aveva reagito con la chiusura delle frontiere ai prodotti agricoli serbi, essi furono acquistati
dalla Francia. Con il colpo di Stato di Belgrado, la Russia aveva cancellato la sua sconfitta di Berlino.
Nel Montenegro, minuscolo Stato, l’evoluzione fu pacifica. Il principe Nicola cercò di modernizzare il
paese, ponendo fine al sistema patriarcale e tribale che aveva caratterizzato la nazione. I progressi
economici portarono alla formazione di un partito socialista, mentre i ceti colti daranno vita ad un
partito liberale favorevole all’unione con la Serbia. Nicola I, proclamatosi re, concesse ai sudditi una
Costituzione, ma in realtà conservò i pieni poteri.Infatti i montenegrini erano nella maggior parte dei
casi più favorevoli a Belgrado che al proprio re.
-Gli inizi della Bulgaria indipendente. Il Congresso di Berlino aveva creato un principiato
bulgaro autonomo, tributario dell’impero ottomano. Conformemente alle disposizioni stabilite a
Berlino, i russi furono incaricati di gettare le basi dell’amministrazione del principato bulgaro.
All’Assemblea costituente, nonostante l’opposizione dei conservatori, la maggioranza liberale votò una
Costituzione che attribuiva i poteri fondamentali a un’Assemblea nazionale, eletta a suffragio
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universale. La carica di capo di Stato venne affidata al principe Alessandro di Battemberg, nipote
acquisito dello zar. Alessandro godendo dell’appoggio dei russi, si sforzò di stabilire in Bulgaria un
potere personale. La Costituzione venne sospesa. I russi credettero di poter fare della giovane Bulgaria
un principato vassallo, ma Alessandro, geloso della sua nuova autorità, ebbe ogni interesse a difendere
l’indipendenza del suo paese: i rapporti con lo zar si interruppero e i consiglieri russi furono espulsi.
Dopo 5 secoli di dominazione turca, il popolo bulgaro ritrovava la sua unità nell’ambito di uno Stato
indipendente. Tuttavia la Bulgaria unificata rimaneva fragile: la Turchia non aveva riconosciuto questo
atto di forza e la Serbia prese l’iniziativa attaccandolo. L’esercito serbo fu sconfitto senza difficoltà.
Una Conferenza internazionale, tenutasi a Costantinopoli, riconobbe l’unione dei due principati bulgari.
Questa vittoria non fu apprezzata dallo zar, il quale reggimento si impadronì del palazzo principesco e
obbligò Alessandro ad abdicare. Il popolo bulgaro reagì e il presidente dell’Assemblea nazionale,
Stambulov, richiamò il sovrano che rientrò nella capitale, ma il governo russo pretese l’abdicazione.
Stambulov, padrone del potere e forte dell’appoggio popolare, divenne portavoce del nazionalismo
bulgaro. Egli doveva trovare un principe che potesse regnare sulla Bulgaria. Dopo lunghi negoziati con
le potenze straniere, la scelta cadde sul principe Ferdinando di Sassonia, la cui elezione al trono fu
considerata da tutti gli osservatori, un successo dell’Austria - Ungheria. Il governo russo rifiutò per
molto tempo di riconoscere il nuovo principe. La Russia , che aveva contribuito all’emancipazione
della Bulgaria nella speranza di farne uno stato subordinato, aveva per due volte ricevuto no smacco.
Durante i primi anni del regno di Ferdinando, fu Stamburo a esercitare il potere, fino alle dimissioni,
dopo le quali fu assassinato. Accanto ai partiti tra tradizionali si poterono notare, alla fine del secolo,
nuove formazioni politiche: il Partito socialdemocratico e l’Unione Agraria, che nel mondo contadino
era molto conosciuta. La Bulgaria, non bisogna dimenticare, si trovava ancora sotto la tutela teorica
dell’impero ottomano. L’ambiguità tra autonomia e indipendenza si risolse nel settembre 1908 , quando
sfruttando le difficoltà interne dell’impero ottomano, il principe Ferdinando proclamò l’indipendenza
del regno di Bulgaria. All’inizio del XX secolo tre Stati balcanici erano diventati padroni del proprio
destino. La politica estera separava e opponeva questi Stati: alcuni erano protetti dall’ Austria Ungheria ( Bulgaria) , altri si trovavano sotto la tutela russa ( Romania, Montenegro e Serbia ). Questa
era la riproduzione su scala ridotta, nell’Europa balcanica, delle divisioni delle potenze europeee tra
Intesa e Triplice, che era non priva di pericoli e dalla quale, la minima tensione poteva generare in un
conflitto.
La polveriera balcanica (1908 - 1914).
-Il problema macedone. Il Congresso di Berlino aveva lasciato la Macedonia ai turchi. Bulgari
e serbi sostenevano entrambi di avere eccellenti ragioni per rivendicarne il territorio. La Macedonia
prima della conquista turca, apparteneva all’impero bizantino. All’inizio del XX i macedoni erano
divisi in tre nazionalità principali: greci, serbi e bulgari. Accanto alle tre nazionalità dominanti, che
costituivano circa 4/5 della popolazione, si notava anche la presenza di una moltitudine di popoli
diversi: albanesi e valacchi nelle regioni montuose, turchi, armeni ed ebrei nelle città. L’emancipazione
della Bulgaria aveva suscitato in Macedonia grandi speranze. L’influenza bulgara si rafforzò quando
venne costituito l’Orim (Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone), che organizzò qua e là dei
gruppi di resistenza clandestina. All’inizio del secolo, tutta la zona interna era in uno stato di
insurrezione. Le grandi potenze erano divise a proposito della questione macedone: il Regno Unito
auspicava grandi riforme in Macedonia, l’Austria - Ungheria e la Russia si accordarono per non
intervenire e per limitarsi a chiedere al sultano delle riforme. La neutralità del governo bulgaro in tale
questione provocò dissensi all’interno dell’Orim, che si frazionò su basi etniche. Alcuno rivoluzionari
macedoni si rivolsero a Belgrado e fondarono un gruppo socialista macedone favorevole a una
federazione balcanica, in cui ci sarebbe dovuta essere una repubblica macedone indipendente. Gli altri
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rimasero fedeli alla Bulgaria. La questione macedone divenne un motivo supplementare di scontro tra
la Serbia e la Bulgaria.
- La crisi della Bosnia del 1908. Dal 1878 l’Austria - Ungheria amministrava la Bosnia Erzegovina. Per meglio garantire la propria autorità, l’amministrazione austro-ungarica si appoggiò a
elementi cattolici e mussulmani, mentre la popolazione ortodossa manifestava la sua simpatia verso i
serbi. All’inizio del 1908 l’Austria - Ungheria aveva concluso col sultano un accordo per la
concessione della costruzione di una ferrovia che unisse la Bosnia alla Macedonia.Tale progetto suscitò
grande diffidenza e i russi, alleati con i serbi, progettarono insieme alla Francia un intervento a favore
dei macedoni. Tali avvenimenti provocarono nell’impero ottomano una reazione nazionalista: i Giovani
turchi ribellandosi imposero al sultano una costituzione liberale. Tale disordine portò in Macedonia,
Serbia, Bulgaria e Grecia un’ondata di speranza, dal momento che indeboliva l’impero ottomano. Per
evitare la Serbia approfittasse della situazione, il governo austro-ungherese decise l’annessione della
Bosnia - Erzegovina, alla quale la Serbia voleva protestare, ma non avendo l’appoggio della Russia,
dovete riconoscere la nuova situazione. Il rancore della Serbia contro l’Austria - Ungheria era
immenso e non avrebbe tardato a manifestarsi.
-Le guerre balcaniche nel 1912-1913. La rivoluzione turca del 1908 aveva indebolito l’impero
ottomano. I Giovani turchi, padroni dello Stato, vollero ristabilire l’ordine dovunque, e lo fecero in
modo molto brutale, in nome dell’unità dell’impero.Armeni,greci, macedoni e bulgari della Tracia ne
furono le vittime principali. Gli albanesi, che erano stati leali sudditi del sultano, avevano sostenuto il
movimento dei Giovani turchi, ma alla fine del XIX secolo iniziava a farsi sentire un certo
nazionalismo. Nel 1908 gli albanesi avevano sperato di ottenere uno statuto autonomo e avevano
formato un’organizzazione politica con a capo Ismail Beg.Negli anni seguenti scoppiarono sommosse
anti-turche in Albania. L’impero ottomano era indebolito da un conflitto armato con l’Italia, a tal punto
che gli Stati balcanici decisero di intervenire per liberare la Macedonia. Si formò una Lega Balcanica
dei popoli cristiani destinata a scacciare i turchi dall’Europa orientale. Ognuno dei membri (Bulgaria,
Serbia, Grecia) doveva fornire un contingente militare per la lotta comune. I turchi si resero conto di
ciò che si andava tramando e rafforzavano il loro dispositivo militare. Fu il Montenegro a dichiarare
per primo guerra alla Turchia. La Prima Guerra Balcanica aveva inizio. Nei giorni che seguirono la
Turchia reagì duramente,ma la coalizione balcanica riportarono sin da subito vittoria. Durante la loro
avanzata, i greci e i serbi erano penetrati in territorio albanese e Ismail Beg, che temeva le ambizioni
dei paesi della Lega Balcanica, decise di portare la questione albanese dinnanzi all’opinione
internazionale. Si recò infatti a Londra, dove era in corso una Conferenza degli ambasciatori delle
grandi potenze e qui dopo lunghi negoziati, si stabilì che la Turchia avrebbe conservato in Europa solo
Costantinopoli e i suoi immediati dintorni. Veniva creata un’Albania indipendente e quanto alla
Macedonia, bulgari, greci e serbi dovevano accordarsi per spartirsela. Tra gli alleati della Lega, tale
spartizione provocò contestazioni. I bulgari infatti scatenarono un’offensiva contro gli antichi
alleati,che si accordavano per non consegnare loro la maggior parte del bottino, che si rivelò un
fallimento per la Bulgaria. Questa Seconda Guerra Balcanica si concluse con la pace di Bucarest, La
Turchia recuperò quella parte definita oggi “Turchia europea”. Le Guerre Balcaniche lasciarono tracce
profonde negli antichi alleati del 1912. Sul piano demografico le perdite di vita furono numerose, in
questa guerra fratricida. La spartizione dei territori strappati ai turchi provocò rancori soprattutto tra i
bulgari, che si credevano mal ricompensati. Sul piano internazionale, i progressi della Serbia
preoccupavano l’Austria - Ungheria , e la condotta serba era sempre più aggressiva. Si erano esacerbati
nazionalismi e rivalità fra popoli vicini, fratelli di razza, se non di religione. I popoli balcanici non si
rendevano conto che padroni del loro destino non erano più loro ma chi si riuniva a San Pietroburgo,
Vienna, Parigi o Londra.
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La Prima Guerra Mondiale.
A est, l’imperialismo russo nei confronti dei Balcani e di Costantinopoli si scontrava, dal 1908, con gli
interessi dell’Austria - Ungheria, preoccupata dalle conseguenza che avrebbe potuto avere la
propaganda anti-austriaca condotta dopo Belgrado tra i suoi sudditi slavi. L’annessione della Bosnia Erzegovina da parte dell’Austria - Ungheria nel 1908 e le Guerre Balcaniche avevano esacerbato le
rivalità e gli antagonismi tra i popoli dei Balcani. I protagonisti delle guerre balcaniche erano integrati
in due sistemi di alleanza che raggruppavano le grandi potenze: la Serbia e il Montenegro erano
sostenuti dalla Russia,alleata alla Francia, che aveva normalizzato le sue relazioni con il Regno Unito.
Dall’altro lato la Bulgaria cercava l’appoggio dell’Austria - Ungheria, che era strettamente legata con
l’impero tedesco e, in misura minore, con l’Italia. (alleanza chiamata Triplice). In Romania, il popolo
romeno era francofilo e irredentista, ma in re Carol era un sostenitore dell’orientamento tedesco.
Durante l’anno che trascorse tra la pace di Bucarest e lo scoppio della prima Guerra Mondiale, le
relazioni austro-serbe peggiorarono. Le società serbe nazionaliste raddoppiarono l’attività nella loro
propaganda anti-austriaca . Il gruppo clandestino più importante fu quello della Mano nera, che
intratteneva stretti legami con gruppi di giovani terroristi pro-serbi, e che organizzò un attentato in
Bosnia - Erzegovina. I terroristi, forniti di armi serbe, approfittarono della visita dell’arciduca
Francesco Ferdinando e di sua moglie Sofia per agire. Il 28 Giugno 1914 i coniugi caddero sotto i colpi
dello studente Gavrilo Princip e dei suoi complici. Uccidendo Francesco Ferdinando, gli assassini
miravano non solo al principe ereditario d’Austria - Ungheria, ma soprattutto a un uomo che non
nascondeva la sua intenzione di condurre una politica a favore degli slavi dell’impero, allo scopo di
ricongiungerli. Ciò avrebbe però posto fine a tutte le speranze della Russia di creare nei Balcani una
zona in cui esercitare la sua egemonia. L’attentato di Sarajevo scatenò una crisi gravissima
internazionale, che sfociò in una guerra: a Vienna, dopo lunghi dibattiti tra chi sosteneva la necessità di
un attacco militare immediato e chi invece temeva una violenta reazione da parte della Russia,l’Austria
- Ungheria inviò a Belgrado un ultimatum che avrebbe dovuto essere accettato totalmente nello spazio
di quarantotto ore. Il governo serbo lo rifiutò e l’Austria - Ungheria ruppe subito ogni relazione
diplomatica, dichiarando il 28 luglio 1914 guerra alla Serbia. Il governo russo si mobilitò a sua volta e
da quel momento ogni Stato agì come se volesse verificare l’efficacia delle sue alleanze. Il governo
tedesco chiese con un ultimatum alla Russia di porre fine ai suoi preparativi di guerra e alla Francia di
proclamare la propria neutralità. La risposta negativa di San Pietroburgo portò a una guerra quasi
generale. Il gioco di alleanze aveva trasformato il conflitto austro-serbo in una guerra europea. I popoli
dell’Europa dell’Est erano diventati la posta in gioco delle grandi potenze. Le popolazioni di questa
parte dell’Europa si trovavano divise in due campi opposti, ma le linee di demarcazione non erano
sempre molto definite. In un campo come nell’altro i popoli rimasero fedeli alla bandiera sotto la quale
combattevano. Per guadagnare i polacchi alla causa russa, la Russia rivolse loro un appello
promettendo la ricostruzione della Polonia in uno Stato autonomo e contemporaneamente l’Austria Ungheria organizzava, con i contingenti polacchi del suo esercito, una Legione destinata a liberare la
Polonia dal giogo russo. Nel campo dell’Intesa, fu soprattutto la Serbia a sostenere la maggior parte del
peso della guerra. Apparentemente fino all’inizio del 1918 le sorti della guerra sembrarono evolversi a
favore degli imperi centrali. La Romania fu sconfitta dopo sei settimane di combattimenti e il suo
territorio fu totalmente occupato dagli eserciti tedesco, austro-ungarico e bulgaro. L’esercito serbo,
rifugiatosi a Corfù, era ridotto all’impotenza, il Montenegro aveva rinunciato a combattere. La volontà
di pace ad ogni costo manifestata da Lenin e dai bolscevichi dopo la Rivoluzione d’ottobre portò alla
pace separata, firmata dalla Russia sovietica a Brest-Litovsk. I russi rinunciarono a tutti i possedimenti
occidentali (Finlandia,le repubbliche baltiche, la Polonia, l‘Ucraina e parte della Bielorussia ) . A prima
vista, gli imperi centrali sembravano trovarsi in una posizione di forza all’inizio del 1918. Molti tra
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coloro che, in Austria - Ungheria, avevano auspicato l’unione di tutti gli slavi del Sud all’interno di un
impero rinnovato, concentrarono le loro speranze nel giovane imperatore Carlo, succeduto a Francesco
Giuseppe. Molti si aspettavano dal nuovo imperatore profondi mutamenti. Un vento di speranza
sembrò allora soffiare nell’impero. In realtà, la fine della guerra era ben lungi dall’essere certa. Le
potenze dell’Intesa disponevano ancora di molte possibilità. L’entrata in guerra degli Stati Uniti, la
partecipazione della Grecia a fianco dell’Intesa, dell’Italia, della Romania, mostravano che nulla era
ancora definitivamente deciso. Croati e serbi, che avevano lasciato l’impero all’inizio della guerra,
formarono a Londra un Comitato jugoslavo, che ebbe rapporti con il governo serbo quando
quest’ultimo si stabilì a Corfù. Questi contatti portarono alla Dichiarazione di Corfù, sottoscritta dal
capo del governo serbo Pasic. Il documento prevedeva che, in caso di vittoria da parte dell’Intesa, gli
sloveni si unissero ai serbi per formare uno Stato jugoslavo sotto la dinastia Karagjeorgjevic, ma ciò
era un atto isolato. La maggior parte degli slavi del Sud dell’impero non vedeva altra via d’uscita se
non la permanenza nell’ambito della monarchia asburgica rinnovata. Ancora più importante fu l’azione
degli emigrati cechi: uno dei capi dell’opposizione, il professore Masaryk, aveva lasciato Praga e poi,
attraverso l’Italia, raggiunto la Francia e l’Inghilterra. Per sua iniziativa venne costituito in Francia un
Consiglio nazionale. L’idea di uno Stato cecoslovacco cominciò a farsi strada. Fu un gran parte grazie
all’azione degli emigrati cechi di Parigi e di Londra che le offerte di pace separata avanzate
dall’imperatore Carlo al governo francese furono respinte dai paesi dell’intesa. Gli emigrati cechi
riuscirono a convincere gli alleati al punto che lo smembramento dell’Austria - Ungheria fu inserito tra
gli scopi bellici dell’Intesa. I capi politici polacchi in patria collaboravano con gli imperi centrali, per
ottenere, nel caso questi avessero vinto la guerra, la creazione di uno Stato polacco, ma all’estero i
polacchi emigrati giocavano la carta degli alleati, allo scopo di ottenere da loro gli stessi vantaggi se la
vittoria non fosse stata dell’Intesa. I capi delle nazionalità non ancora del tutto indipendenti attuarono
anch’essi, per tutta la durata della guerra, una politica di doppio gioco. Il 1918 rappresentò per i popoli
dell’Europa centrale e orientale una svolta decisiva nella storia. I paesi dell’Intesa divennero
rapidamente accesi difensori della ricostituzione di una Polonia indipendente, ancora più facilmente
visto che non dovevano tenere a bada l’alleato russo, ormai uscito dalla guerra. Per iniziativa della
Francia e dell’Italia si tenne a Roma il Congresso delle nazionalità oppresse, che si concluse con il voto
di una mozione favorevole allo smembramento dell’Austria - Ungheria e all’emancipazione delle
nazionalità slave, romene e italiane. Se gli imperi centrali avessero vinto, l’Austria - Ungheria avrebbe
dominato l’Europa danubiana e balcanica. Quanto alla Polonia, avrebbe riconquistato la sua
indipendenza o almeno una larghissima autonomia. Se invece avessero vinto la guerra le potenze
dell’Intesa, l’Austria - Ungheria sarebbe stata smembrata in tanti paesi quante erano le nazionalità che
lo componevano. La Polonia avrebbe costituito uno Stato indipendente con funzioni cuscinetto tra la
Germania e la Russia sovietica. Il successo degli alleati sul fronte occidentale rovesciò rapidamente la
situazione. In poche settimane la speranza cambiò campo. Nell’autunno del 1918 la vittoria delle
potenze dell’Intesa sembrava essere quella delle popolazioni sui monarchi. La vittoria dell’Intesa
poteva essere considerata anche quella del principio delle nazionalità su quello di legittimità. Tre
grandi imperi, quello degli Asburgo, degli Hohenzollern e dei Romanov, erano crollati. I popoli che
avevano vissuto al loro interno e che ora stavano per diventare i padroni del proprio destino sarebbero
stati capaci di accollarsi pienamente questa pesante eredità e di stabilire tra loro relazioni di buon
vicinato? Oppure gli antagonismi e le rivalità nazionali avrebbero preso il sopravvento?
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(Parte terza)
IL TEMPO DEGLI SCONTRI
I cambiamenti politici nell’Europa centrale e orientale all’indomani della
Prima Guerra Mondiale.
La sconfitta degli imperi centrali e dei loro alleati provocò la caduta dei governi e dei regimi che
avevano retto questi Stati durante la guerra, mentre i capi delle nazionalità emancipatesi cercavano di
creare Stati indipendenti. Tra i popoli vinti, l’agitazione sfociò in rivoluzione.
La prima ondata rivoluzionaria nei paesi vinti.
-La rivoluzione bulgara. Il primo paese coinvolto nella sconfitta fu la Bulgaria. Fin dal 18
settembre 1918, per evitare l’accerchiamento delle truppe dell’esercito d’Oriente, l’esercito bulgaro
ripiegò verso il territorio nazionale. La notizia di questo arretramento provocò agitazione, un certo
numero di reggimenti si ammutinò. Gli ammutinati si impadronirono della città di Radomir, il governo
di Sofia inviò subito una delegazione al comando dell’esercito d’Oriente per ottenere la conclusione di
un armistizio, mentre agli ammutinati di Radomir inviò i due capi agrari Stambolijski e Daskalov: il
primo si sforzò di riportare alla calma gli ammutinati, mentre il secondo, insieme al suo interesse per le
nuove idee bolsceviche, approfittò delle circostanze per unirsi agli insorti, capeggiare una Repubblica
di Radomir e tentare di marciare sulla capitale. La folla da lui raccolta resistette pochi giorni e fu
fermata alle porte di Sofia. L’armistizio firmato prevedeva il ritiro di tutte le forze bulgare all’interno
delle frontiere del 1913, l’occupazione di una parte del paese e il diritto di passaggio per le forze
armate dell’Intesa. Lo zar Ferdinando abdicò a favore del figlio Boris III. La sconfitta, le difficoltà
economiche di ogni tipo, l’aumento dei prezzi, crearono tra la popolazione un clima favorevole
all’agitazione rivoluzionaria. Gli elementi più radicali, come il Partito socialista bulgaro, adottarono le
tesi bolsceviche. Prudentemente il re Boris lasciò governare gli agrari per evitare il peggio e
Stambolijski divenne capo del governo.
- La rivoluzione in Austria - Ungheria. La notizia della capitolazione della Bulgaria ebbe una
vasta eco in Austria - Ungheria. L’imperatore Carlo in un Manifesto annunciò ai suoi sudditi che
l’impero sarebbe divenuto uno Stato federale in cui ogni gruppo etnico avrebbe fondato la sua
comunità politica. In esso lanciava anche un appello a tutti i popoli perché dessero il loro contributo
alla realizzazione di questa impresa. Le misure annunciate nel Manifesto imperiale garantivano ai
cechi, slovacchi, sloveni ed altri slavi del Sud la realizzazione di una gran parte delle loro aspirazioni.
Purtroppo il Manifesto dell’imperatore arrivava troppo tardi: i capi dei vari gruppi nazionali, che
vedevano arrivare la sconfitta e le conseguenze che ne sarebbero inevitabilmente derivate, rifiutarono
di aderire e optarono per l’indipendenza. In Boemia, i deputai cechi organizzati in un Consiglio
nazionale concordarono sull’idea della Cecoslovacchia indipendente richiesta da Masaryk e Benes e
dichiararono, in risposta al Manifesto imperiale, che l’unica soluzione era l’indipendenza totale. A
Praga la folla scese per le strade e la repubblica venne proclamata nell’entusiasmo, senza restrizioni da
parte delle autorità ufficiali, che comunque avrebbero potuto ristabilire l’ordine perché possedevano
mezzi potenti, ma anzi l’amministrazione imperiale trasmise i suoi poteri in modo quasi ufficiale alle
autorità provvisorie. L’esempio dato da Praga fu contagioso in Zagabria e Slovenia. La situazione era
diversa in Transleitania: in Ungheria, un deputato del Partito dell’indipendenza, si era pubblicamente
proclamato “amico dell‘Intesa” e aveva chiesto la pace immediata. I membri del partito e alcuni
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socialisti formarono un Consiglio nazionale allo scopo di preparare l’indipendenza dell’Ungheria.Il
popolo ungherese però, ad eccezione della popolazione operaia di Budapest, sensibile a socialismo e
pacifismo, rimaneva fedele al potere. Fu per questo che la coppia imperiale soggiornò nel paese per
qualche giorno, ed ebbe l’impressione che nulla fosse ancora perduto. Ma presto Budapest fu scossa da
gravi disordini: il rifiuto dei soldati ungheresi di combattere nelle Dolomiti contro gli italiani, per
essere invece portati in Ungheria, minacciata a est dall’esercito d’Oriente, portò a manifestazioni nella
capitale ungherese e la polizia urbana sparò alla folla che di dirigeva verso la sede del governo.
Seguirono, in seguito, scioperi nelle fabbriche e nelle officine. La sera del 30 ottobre la folla si
impadronì degli edifici governativi: allora il comandante della piazza si rassegnò a consegnare il potere
al consiglio nazionale. Il giorno dopo, Mihàly Karolyi venne insignito dall’Impero al compito di
presidente del Consiglio ungherese, mentre la folla gli conferì i pieni poteri. Gli Ungheresi che
speravano in Karolyi si erano creati molte illusioni: una grande Ungheria non era possibile, perché
ovunque le popolazioni allogene si pronunciavano per la propria indipendenza. L’impero degli
Asburgo scricchiolava dappertutto e ognuna delle sue comunità etniche avevano scelto la strada
dell’indipendenza. Due erano ancora i punti fissi: l’esercito e l’imperatore. Il primo si ritirò dalla scena
il 4 novembre, il secondo, invece, l’11 novembre, quando l’imperatore Carlo annunciò la sua
intenzione di rinunciare a qualsiasi partecipazione negli affari di Stato. L’indomani veniva proclamata a
Vienna la Repubblica d’Austria.
La situazione tra i vincitori.
La sconfitta degli imperi centrali e la frammentazioni dell’impero austro-ungarico ebbero conseguenze
apparentemente benefiche per i popoli e gli Stati che se ne erano separati o che se ne erano allontanati.
-Il trionfo delle piccole nazioni: la Serbia e la Romania. La Serbia, che aveva sostenuto il
peso della guerra dalla fine del luglio 1914 e aveva subito perdite umane e materiali notevoli, usciva
ingrandita da questa dura prova. A Belgrado, la politica panserba di Pasic aveva trionfato. La piccola
Serbia del 1914 aveva riunito sotto l’autorità del proprio sovrano gli slavi del Sud. Anche il
Montenegro, che aveva combattuto accanto alla Serbia, decise di unirsi ad essa al seguito del voto
favorevole della sua Assemblea Nazionale. Il vecchio re di Serbia Pietro I affidò al figlio Alessandro la
direzione di uno Stato che ormai portava il nome di Regno dei serbo-croati e sloveni, prima di
diventare Jugoslavia. I rappresentanti croati e sloveni che avevano accettato l’idea di unirsi ai serbi
avevano pensato di attuare questa unione su di una base egualitaria, nell’ambito di una federazione. Il
nuovo Stato riuniva al suo interno nazionalità diverse: accanto ai sei milioni di serbi ortodossi vivevano
ormai più di quattro milioni di croati e un milione e mezzo di sloveni, tutti cattolici e di tradizioni
occidentali. La coesistenza di popoli così vicini nella lingua ma diversi nella religione, nelle tradizioni
e a livello di sviluppo culturale ed economico, si sarebbe però rivelata presto molto difficile. La
Romania, che aveva ripreso la lotta accanto ai paesi dell’Intesa al momento dell’offensiva dell’esercito
d’Oriente, risultò così tra i paesi vittoriosi. I Consigli Nazionali romeni manifestarono chiaramente il
loro desiderio di riunirsi alla Romania. Tuttavia bisognò aspettare la risoluzione finale della conferenza
di pace perché le frontiere fossero definitivamente stabilite.
- La nascita dello Stato cecoslovacco. A Praga, il Consiglio Nazionale aveva immediatamente
proclamato la repubblica. Il vecchio capo dell’opposizione formò un governo provvisorio. Il 14
novembre, un’Assemblea Nazionale provvisoria si riunì a Praga: composta da 201 deputati cechi e 69
slovacchi, solo quelli cechi erano in effetti rappresentativi, poiché designati in funzione delle rispettive
forze dei diversi partiti, mentre quelli slovacchi erano designati in modo arbitrario. L’Assemblea
Nazionale provvisoria, in cui non sedeva nessun rappresentante delle minoranze nazionali, dichiarò
decaduti gli Asburgo e designò presidente della repubblica il professor Tomas Masaryk. Poi dedicò la
sua attenzione alla discussione di un progetto di Costituzione, adottata nel 1920.
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-La difficile rinascita della Polonia. La dichiarazione di Wilson prevedeva la creazione di una
nazione polacca indipendente con accesso al mare. Fin dall’inizio della guerra, i polacchi dell’Austria Ungheria avevano costituito unità militari, che combattevano sotto la bandiera polacca, le Legioni, che
erano al comando di Pilsudksi. I capi delle Legioni avevano anche rivolto ai polacchi di Russia un
appello all’insurrezione. Dopo le vittorie della grande offensiva austro-tedesca le cose cambiavano,
poiché tutto il territorio della Polonia russa si trovò liberato. I polacchi credettero che gli imperi centrali
avrebbero loro reso l’indipendenza, ma questi esitavano a pronunciarsi. Fu solo nel 1916 che i governi
tedesco e austro-ungarico annunciarono, in un manifesto, la loro intenzione di formare con i territori
polacchi di Russia un regno di Polonia indipendente. Le Legioni polacche furono messe a disposizione
di un Consiglio di Stato provvisorio di cui era membro Pilsudski. Ora la Russia, in piena rivoluzione,
non costituiva più una minaccia per i polacchi, ma la Germania rischiava a breve di rappresentare un
nuovo pericolo. A parire da quel momento le autorità polacche provvisorie rappresentarono una certa
resistenza rispetto alle esigenze degli occupanti tedeschi. Quando il governatore tedesco di Varsavia
volle porre a capo delle Legioni polacche ufficiali tedeschi, la maggior parte degli ufficiali polacchi
presentò le dimissioni e fu subito arrestata. In Russia, i polacchi della Duma rimasti sul posto, avevano
preferito prendere contatto con gli Alleati. Un Consiglio Nazionale in Esilio venne anche costituito a
Parigi. Dinnanzi al pericolo che avrebbe costituito l’adesione dei polacchi alla causa degli Alleati, gli
imperi centrali mostrarono maggiore comprensione nei loro confronti, anche se la competenza
dell’amministrazione polacca era delle più limitate. Quando la sconfitta degli imperi centrali apparve
certa, i polacchi decisero di agire. Il Consiglio di Reggenza dichiarò l’indipendenza del paese e formò
un governo di unione nazionale, costituito da socialisti e nazionaldemocratici . Il crollo degli imperi
centrali accelerò il processo di Costituzione di uno Stato polacco indipendente. A Varsavia, il Consiglio
di Reggenza affidò il comando di tutte le forze armate polacche a Pilsudski, che era stato appena
liberato, e che fu così nominato generale per la circostanza e allo stesso tempo Capo di Stato. Il suo
compito non era facile: la Polonia esisteva solo sulla carta, non aveva frontiere definite né moneta
unica né leggi comuni, minacciata sia a ovest che a est. Pilsudski prima di tutto gettò le basi di
un’amministrazione e di un esercito nazionale. Desideroso però di dedicarsi solo ai suoi compiti
militari, affidò ad altri gli incarichi ricevuti. Qualche giorno dopo, l’Assemblea si riunì e votò una
Costituzione provvisoria, riconfermando Pilsudski nelle sue funzioni. Lo Stato polacco, dopo essere
stato cancellato per 130 anni, rinasceva dopo una lunga guerra della quale era stata spesso il campo di
battaglia.
-L’ardua lotta degli albanesi per la libertà. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale,
l’Albania aveva appena ottenuto l’indipendenza. Il giovane stato, neutrale, diventò presto soggetto
delle mire dei greci, italiani, e serbi. Dopo le sconfitte serbe, il sud si trovò occupato dagli italiani e dai
francesi, mentre a nord dalle truppe austro-ungariche. Gli albanesi persero 70000 uomini durante le
occupazioni, e il paese fu devastato. Alla fine del conflitto fu convocato a Durazzo un Consiglio da cui
nacque un governo provvisorio presieduto da Thuran Pascià , che immediatamente si recò a Parigi per
sostenere la causa dell’Albania. In Albania, l’atteggiamento degli italiani che ne volevano fare un
protettorato, provocò una viva reazione patriottica: si dichiarò decaduto il governo di Durazzo,
considerato sottomesso all’Italia, e riaffermata la volontà di indipendenza del popolo albanese,
riconosciuta soltanto col suo ingresso nel 1920 alla Società delle Nazioni.
I tentativi di bolscevizzazione dell’Europa centro-orientale.
Dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, la Russia era retta da un Consiglio dei Commissari del Popolo,
presieduto da Lenin. I nuovi dirigenti della Russia sovietica volevano estendere la loro esperienza in
altri paesi, in particolare Trotski. Alcuni dei prigionieri di guerra provenienti dagli imperi centrali o
dalle nazioni alleate, impressionati da ciò che avevano visto in Russia nel 1917, divennero
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propagandisti delle idee bolsceviche. I partiti socialisti europei si chiedevano se rimanere fedeli alla
tradizione parlamentare oppure fare la rivoluzione e instaurare la dittatura del proletariato. I sostenitori
del modello bolscevico si riunirono a Mosca, con la presidenza di Lenin, gettando le basi per la III
Internazionale.
-La repubblica ungherese dei consigli e il suo fallimento (marzo-agosto 1919). L’Ungheria
fu il primo Stato dell’Europa centro-orientale in cui si ebbe un esperimento bolscevico di una certa
durata. Presto il governo Karolyi si trovò a fronteggiare molte difficoltà. La situazione economica era
disastrosa, le tensioni sociali favorirono le azioni degli estremisti, riunisti intorno al giornalista
socialista Bela Kun. Egli seppe far aderire alla sua causa molti dei socialisti delusi dall’impotenza del
governo Karolyi e organizzò con loro il Partito comunista ungherese. Un tentativo fallito di
sollevamento lo fece arrestare ma l’episodio fu presto dimenticato, soprattutto a causa della delusione
delle aspirazioni in Karolyi, la cui immagine era sempre più offuscata. A Karolyi fu infatti consegnato
un ultimatum secondo il quale gli ungheresi dovevano evacuare nuovi territori, nonostante la
convenzione dell’armistizio. Deluso, Karolyi si ritirò decidendo di consegnare il potere “nelle mani del
proletariato ungherese”. Bela Kun e i suoi amici erano così i padroni del paese. La repubblica
ungherese dei consigli era perciò nata. Fu costituito, sotto la presidenza di Bela Kun, un consiglio del
commissari del popolo, formato da comunisti e socialisti. Iniziò la nazionalizzazione delle banche e
delle industrie, la separazione tra Chiesa e Stato. Gli avversari del regime furono braccati dalla Ceka
ungherese, i Ragazzi di Lenin, e furono sommariamente condannati. Preoccupato di difendere la
nazione e la rivoluzione da nemici esterni, Bela Kun cosituì un’Armata Rossa . Ma i romeni diedero un
colpo di grazia all’esperienza comunista in Ungheria, invadendola e saccheggiandola. La marcia dei
romeni verso Budapest provocò la partenza di Bela Kun e dei suoi sostenitori. La situazione ungherese
era catastrofica: l’economia era rovinata, vi fu un blocco economico provocato dai paesi vicini. Inoltre
il territorio era diviso sotto il controllo dei romeni ad est e al centro, mentre sotto l’esercito nazionale a
sud e a ovest. Dopo le ferme proteste dell’Intesa, i romeni evacuarono da Budapest e dal resto del
paese, lasciando all’esercito dell’ammiraglio Horthy il territorio. La controrivoluzione aveva vinto, ma
il paese era dissanguato e rovinato.
-Il fallimento del bolscevismo bulgaro. La maggior parte dei socialisti bulgari scelse di aderire
alla III Internazionale a partire dal 1919, trasportando il partito in un Partito comunista bulgaro. Il
movimento comunista godette del totale appoggio dei sindacati e al momento delle prime elezioni
dopo la guerra ottenne numerosi seggi. La III Internazionale si sforzò di sostenere con tutte le forze il
Partito comunista bulgaro, per fare della Bulgaria il punto di contatto con Mosca nei Balcani. Dopo
un’ondata di scioperi nei trasporti pubblici e nell’industria, Stambolijski, il capo agrario sostenuto da
Boris III, forte dell’appoggio del re, incaricò i contadini di garantire l’ordine e di ostacolare un
eventuale sciopero generale. Per il momento l’agitazione comunista cessò. Come in Ungheria, il
tentativo di bolscevizzazione era fallito.
-La guerra russo polacca. La Polonia aveva una frontiera in comune con la Russia sovietica e
il tracciato di questo confine era ancora molto impreciso nel 1919. Dall’aprile all’agosto 1919, il
generale Pilsudski contrattaccò violentemente e riprese ai sovietici Brest-Litovsk e la maggior parte
della Bielorussia. Gli Alleati erano divisi sul problema dei confini polacchi. Gli inglesi optavano per la
Linea Curzon, proposta da un diplomatico britannico, che corrispondeva approssimativamente
all’antico confine orientale del Regno del Congresso. La Francia invece, temendo l’espansione del
bolscevismo nell’Europa orientale, si mostrava più aperta nei confronti della posizione polacca. Trotski
non nascondeva la sua ostilità nei confronti del nuovo regime polacco. Il generale Pilsudski, per
contrastare i suoi progetti, decise di dare appoggio al capo ucraino che si era rifugiato in Polonia dopo
la vittoria dell’Armata Rossa in Ucraina. L’esercitò polacco attaccò in Ucraina ma la reazione
dell’Armata Rossa fu fulminea e furono rioccupate le terre conquistate da Pilsudski. I russi rifiutarono
la proposta di una mediazione britannica, mentre a Varsavia un governo di unione nazionale chiese ai
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russi un armistizio. Solo l’Ungheria si mostrò disposta ad aiutare la Polonia. Nonostante la resistenza
accanita dei polacchi, i sovietici proseguivano nell’avanzata finché Pilsudski, deciso a resistere, lanciò
una controffensiva che capovolse le sorti della guerra: il “miracolo della Vistola” significò una
rovinosa ritirata per l’Armata Rossa. Il governo polacco accettò di trattare e i negoziati si conclusero
con il Trattato di Riga. La Polonia storica era quasi ricostituita, ma la Lituania non ne faceva parte.
Il nuovo statuto dell’Europa orientale.
All’inizio della guerra, i dirigenti dell’Intesa non avevano previsto niente di preciso sulle modificazioni
territoriali da realizzare nell’Europa danubiana e orientale. Nessuno pensava di distruggere l’impero
austro - ungarico, considerato elemento di stabilità. Al massimo, si pensava a qualche modifica nelle
frontiere. Nessuno aveva un’idea precisa nemmeno per quanto riguarda la Polonia. Per quanto riguarda
l’impero ottomano, la Russia non nascondeva la sua intenzione di occupare Costantinopoli. Ma quando
iniziò la conferenza della pace, alle grandi potenze rimaneva da ratificare la creazione degli Stati
nazionali formatisi negli ultimi giorni di guerra e mantenere le promesse fatte nei trattati di alleanza o
alle diverse minoranze. I problemi particolari di ogni Stato e i dettagli su nuove frontiere vennero
analizzati da commissioni speciali. Una volta approntati i trattati, i paesi vinti furono invitati a firmarli.
Fu così che vennero firmati successivamente quello di Versailles con la Germania nel giugno 1919,
quello di Saint-Germain con l’Austria nel settembre del 1919, quello di Neuilly con la Bulgaria nel
novembre dello stesso anno e quello di Trainon con la Bulgaria nel giugno 1920.
I trattati.
I trattati conclusi tra le “potenze alleate associate” e i paesi vinti furono imposti, non negoziati. E essi
vennero subiti dagli Stati, ma mai accettati, gravando così sull’evoluzione dei rapporti tra gli ex
vincitori e gli ex vinti.
La sorte degli Stati vinti.
-Le frontiere orientali della Germania. Fu dal lato orientale che le perdite tedesche
risultarono molto sensibili. Il Trattato di Versailles doveva stabilire il tracciato della frontiera tra la
Germania e la nuova Polonia. La Germania dovette lasciare alla Polonia la provincia di Poznania, a
maggioranza di popolazione polacca, e parte della Prussia occidentale, che però sfociava su una costa
che non disponeva di alcun porto attrezzato, per cui la conferenza di pace decise di fare di Danzica e
dintorni una città libera, sotto il controllo della Società delle Nazioni. Così i tedeschi, maggioritari a
Danzica, si trovarono staccati dal Reich senza nemmeno essere uniti alla Polonia, e ciò era un’evidente
causa di potenziali incidenti e conflitti. Territorio che provocò contestazioni fu l’Alta Slesia, ricca di
minerali, rivendicata da entrambe le potenze. Un plebiscito assegnò il territorio alla Germania, ma i
polacchi si sollevarono, guidati da un ex deputato al Reichstag, per cui la Società delle Nazioni diede i
due terzi del territorio alla Germania mentre il resto andava alla Polonia. La Germania aveva perso in
totale circa 4 milioni di abitanti.
-L’Austria e l’Ungheria. La nuova Austria aveva dovuto rinunciare alle antiche acquisizioni
della Casa d’Asburgo. Queste, popolate da slavi, romeni o italiani, contenevano però anche circa 4
milioni di germanofoni. L’Austria lasciò all’Italia la parte meridionale del Tirolo, a noi promessa per
ragioni strategiche e in spregio al reale desiderio della popolazione. Nella regione di Klagenfurt invece,
la popolazione si pronunciò al plebiscito esprimendosi a favore dell’Austria, ma il risultato di queste
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elezioni e tutt’oggi fortemente contestato da sloveni, croati e serbi. Il Trattato di Saint-Germain attribuì
il territorio confinante ad Ovest con l’Ungheria all’Austria,ma durante il plebiscito eletto a Sopron e
dintorni, gli elettori si pronunciarono a favore dell’Ungheria, che rimase così ungherese. L’Ungheria fu
estremamente penalizzata dal Trattato di Trianon, che le sottrasse 2/3 del suo millenario territorio.
L’Ungheria diventava uno Stato dalla popolazione omogenea, in cui erano presenti solo due minoranze
rilevanti, quella tedesca e quella slovacca, ma più di tre milioni di ungheresi si trovarono inseriti negli
Stati vicini, definiti Stati successori. Si sostituiva così il problema delle nazionalità con quello delle
minoranze nazionali.
- La Bulgaria. La Bulgaria perse, col Trattato di Neuilly, i modesti vantaggi territoriali ottenuti
a seguito delle Guerre Balcaniche. A conclusione del conflitto, tutta la popolazione dello Stato era
bulgara. La perdita più dolorosa fu quella del litorale egeo, assegnato alla Grecia, e che negava alla
Bulgaria il suo unico accesso al mare. In tutti i territori ceduti la popolazione era a maggioranza
bulgara. Anche in questo caso, la pace imposta ai vinti era lontana dal basarsi sul principio del diritto
dei popoli a decidere della propria sorte.
I beneficiari dei trattati.
-La Polonia resuscitata. La Polonia resuscitata copriva un territori meno esteso di quello
dell’antica Polonia degli Jagelloni, ma più ampio della Polonia odierna, risultando il paese più popolato
dell’Europa centro-orientale. In questo nuovo Stato, i polacchi rappresentavano circa il 65% della
popolazione totale, con accanto ruteni, ebrei, tedeschi e bielorussi. Per contro ancora numerosi polacchi
risiedevano all’interno delle nuove frontiere della Germania e della Cecoslovacchia.
-La Cecoslovacchia. A differenza della Polonia, la Cecoslovacchia era una creazione del tutto
artificiale, e il territorio fu formato della giustapposizione di tre regioni distinte. Il regno di Boemia e il
principato di Moravia, sui quali a lungo regnarono gli Asburgo, con una popolazione formata per 2/3 da
cechi e per il resto da tedeschi, ne costituivano la parte occidentale. Secondo elemento che componeva
tale Stato era la Slovacchia, il cui territorio aveva fatto parte del regno d’Ungheria dal X secolo. Infine
la Cecoslovacchia si fece assegnare la Rutenia Carpatica, già ungherese e la cui popolazione, a
maggioranza rutena, si era stabilita in quella zona dal XIII secolo. Il Trattato di Trianon aveva
chiaramente previsto che venisse concesso uno statuto autonomo a questa regione, ma nulla si fece sino
al 1938. La Cecoslovacchia divenne così uno Stato multinazionale con una popolazione di cui il 40%
non era né ceco né slovacco.
-La grande Romania. I Trattati di Saint-Germain e di Trianon risultarono molto vantaggiosi
anche per la Romania. Le furono incorporate la Bessarabia, tolta alla Russia, la Bucovina, nata
dall’Antica Cisleitania , e la Transilvania, tolta all’Ungheria. La definizione della nuova frontiera
ungaro-romena provocò violente discussioni: una striscia di territorio larga circa 20km fu attribuita alla
Romania, nonostante la popolazione fosse ad ampia maggioranza ungherese, di modo che lo Stato
romeno potesse disporre di una strada ferrata. All’antico Stato con una popolazione romena omogenea,
veniva a sostituirsi una Grande Romania, in cui le popolazioni allogene costituivano più di un terzo
degli abitanti.
- Il regno dei serbi, croati e sloveni. Anche il regno di Serbia ebbe grandi vantaggi dai trattati
di pace. Col nome di regno dei serbi, croati e sloveni, poi con quello di Jugoslavia, formò un vasto
Stato con una popolazione costituita per la maggior parte da slavi del Sud, ma con minoranze nazionali
pari al 15% della popolazione totale. All’antico territorio serbo si aggiunsero la Slovenia e la Dalmazia,
la Croazia - Slavonia e la Bosnia-Erzegovina.
Tre constatazioni possono farsi riguardo all’opera di ricostruzione degli Stati dell’Europa centroorientale alla fine della prima Guerra Mondiale:
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- non furono i popoli a decidere del proprio destino, ma la loro sorte fu stabilita dalle grandi potenze in
funzione di interessi politici ed economici. I vinti vennero trattati molto duramente e paradossalmente,
fu la Germania che patì meno di tutti.
- il principio del diritto dei popoli di decidere del proprio destino, che era servito a legittimare la guerra
condotta dall’Intesa, venne applicato in modo estremamente arbitrario. Le nuove frontiere politiche
coincidevano solo eccezionalmente con quelle etniche: salvo alcuni casi estremamente limitati, le
popolazioni non furono mai consultate.
- infine non era stato previsto nulla per realizzare un minimo di intesa e di cooperazione economica fra
Stati che per lungo tempo avevano formato un insieme economico coerente.
Lotte politiche e conflitti interni (1919 - 1939).
Gli Stati dell’Europa centro-orientale nati o rinnovatisi dopo la Prima Guerra Mondiale presentavano
sensibili differenze per quanto riguarda le strutture politiche all’interno delle quali si erano evoluti. Tali
diversità non devono però dar dimenticare l’esistenza di alcune costanti riscontrabili nella maggior
parte di questi paesi.
Le costanti della vita politica.
L’evoluzione degli Stati dell’Europa orientale fu condizionata dall’Unione Sovietica. La Rivoluzione
d’Ottobre del 1917 esercitò una grande influenza: il bolscevismo fu una minaccia per tutte le nazioni,
una prima volta quando l’Ungheria divenne una repubblica sovietica, e una seconda volta quando
l’Armata Rossa penetrò nel cuore della Polonia. Dovunque, tranne che in Cecoslovacchia, i partiti
comunisti vennero messi al bando e passarono alla clandestinità. Molti dei loro dirigenti fuggirono in
URSS e lì attesero con pazienza che la situazione volgesse a loro vantaggio. Altri, meno fortunati,
come Bela Kun, vi trovarono la morte durante le purghe staliniste. Ovunque, tranne che in
Cecoslovacchia, l’attività sindacale fu controllata dallo Stato se non totalmente proibita. Il potere era
esercitato in modo autoritario e i capi di Stato non esitarono mai a ricorrere alla forza per far applicare
la loro concezione del potere. La centralizzazione fu norma in Polonia, Romania e soprattutto
Cecoslovacchia e gli abusi di questo orientamento provocarono contestazioni che favorirono tendenze
centrifughe e separatiste. La crisi economica che colpì duramente questi paesi e l’influenza delle
ideologie fasciste comportarono ovunque la comparsa di movimenti estremisti, ispirati ai modelli
italiano e tedesco, godendo anche dell’aiuto finanziario proveniente da Roma o da Berlino.
Le diversità nazionali.
-Un sostituto di democrazia “all‘occidentale”: la Cecoslovacchia. La Cecoslovacchia
era un caso unico e raro in questa parte dell’Europa. Almeno in apparenza, era il solo paese governato
secondo le norme delle democrazie occidentali, provenienti anche da una Costituzione per la quale il
potere legislativo era affidato ad un’Assemblea Nazionale bicamerale ed eletta a suffragio universale. I
membri del parlamento eleggevano il presidente della repubblica, che era il capo del potere esecutivo,
era eletto per sette anni, disponendo di poteri estesi, come quello di designare il presidente del
Consiglio e i ministri, ma era anche capo dell’esercito. La vita politica fu caratterizzata, in primo luogo,
dalla molteplicità dei partiti nazionali cecoslovacchi, che erano più di una ventina e di dividevano i voti
degli elettori. Accanto ai partiti nazionali vi erano i rappresentanti degli autonomisti slovacchi,i diversi
partiti tedeschi, ungheresi, che potevano dare un contributo per fare o disfare un governo. Il problema
che compromise la vita politica della prima repubblica cecoslovacca fu quello dei rapporti fra le due
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nazionalità dominanti dello Stato. L’unione di cechi e slovacchi avrebbe dovuto portare alla formazione
di uno Stato federale nel quale cechi e slovacchi avrebbero goduto degli stessi diritti e avrebbero avuto
gli stessi doveri. Ma fin dal termine del conflitto, la parte slovacca del paese fu trattata come zona di
conquista e i “liberatori” si comportarono più come conquistatori che come fratelli. L’anticlericalismo
del nuovo regime ferì gravemente gli slovacchi, molto legati alla propria fede cattolica. La parte
slovacca del paese fu posta sin da subito sotto l’autorità di funzionari cechi. Il clero locale cominciò a
combattere: l’abate Hlinka si recò a Parigi per cercare di difendere i diritti dei suoi compatrioti dinnanzi
alla conferenza di pace, ma l’influenza dei dirigenti di Praga era così forte, che a Parigi l’abate Hlinka
fu espulso. Di ritorno nel suo paese, egli organizzò un movimento autonomista in un Partito populista
slovacco, che ebbe l’appoggio della Chiesa cattolica slovacca. Il partito inizio ben presto ad ottenere
ampi consensi, fino alla vittoria schiacciante del 1938. I sostenitori di una Slovacchia autonoma erano
ampiamente maggioritari. Il desiderio di autonomia non era, come cercava di dimostrare il governo di
Praga, un’esigenza di pochi clericali oscurantisti, bensì l’aspirazione di tutto un popolo. Masaryk
riconosceva che gli slovacchi preferivano la precedente “oppressione ungherese” ai “liberatori” cechi e
sin dall’inizio il governo scelse di mantenere gli slovacchi nello Stato con l’uso della forza. Gli
slovacchi vennero sistematicamente allontanati da ogni carica importante, e per controllare i “fratelli
inferiori” furono stabiliti in Slovacchia migliaia di coloni cechi. Ma Praga si era costruita una tale fama
di democraticità presso influenti giornalisti della stampa francese e anglosassone, da risultare quasi
immacolata, mentre invece la Slovacchia rimaneva sotto ogni profilo una colonia dello Stato
cecoslovacco, sfruttata a esclusivo vantaggio ceco.
-La Polonia: dalla democrazia parlamentare alla dittatura militare. Dopo le elezioni
all’Assemblea Costituente, la Polonia si dotò di una Costituzione provvisoria che affidò il potere a un
presidente della repubblica. Fin dall’inizio il capo dello Stato, che esercitava contemporaneamente le
funzioni di comandante in capo delle forze armate, si trovò a disporre di poteri considerevoli. Dopo
discussioni fra la destra guidata dal populista Witos, favorevole a un regime parlamentare perché
temeva il potere incarnato da Pilsudski, e la sinistra che auspicava un regime presidenziale,
l’Assemblea votò una Costituzione definitiva dello Stato polacco, che instaurava un regime
parlamentare bicamerale eletto a suffragio universale. Alla testa del potere esecutivo, il presidente della
repubblica veniva nominato per sette anni dai membri delle due camere. Il maresciallo Pilsudski,
ritenendo i poteri presidenziali troppo limitati, rifiutò di candidarsi. Venne eletto in seguito il socialista
Narutowicz, al quale la destra rimproverò gli antenati ebrei e che infatti fu assassinato da un
nazionalista. L’Assemblea Nazionale nominò presidente Wojciechowski, che godeva dell’appoggio di
Pilsudksi. I primi governi che gestirono la vita politica del paese ebbero varie difficoltà: svalutazione
della moneta, agitazione sociale, difficili relazioni con l’esercito. Pilsudski si ritirò dalla scena e vi
riapparve quando il suo antico avversario Witos ritornò al potere. Nel marzo 1926 truppe a lui fedeli
marciarono su Varsavia. Il presidente Wojciechowski e il governo presentarono le dimissioni per porre
fine a questa lotta fratricida. Pilsudski venne eletto presidente della repubblica, rifiutò il ruolo a favore
di un suo amico socialista, e di fatto continuò a gestire il potere. Costruì pian piano una vera dittatura,
allorchè l’opposizione, formata da democristiani, socialisti e populisti decise di riunirsi in un congresso
che si tenne a Cracovia, in cui furono pretese le dimissioni di Pilsudski. La reazione del presidente fu
brutale e i principali capi dell’opposizione vennero arrestati. Dopo la morte di Pilsudski la Polonia fu
soggetta a un potere autoritario. La dittatura del maresciallo fu sostituita da quella dei colonnelli: i
partiti di opposizione furono ridotti al silenzio e i loro capi imprigionati. Molti capi comunisti
fuggirono in URSS ma alcuni furono eliminati nelle purghe staliniste e addirittura nel 1938 Mosca
decise lo scioglimento del partito comunista polacco per deviazionismo. Vari furono i disordini in
questo periodo, soprattutto nelle campagne: non tutto il paese era d’accordo con il regime dei
colonnelli.
- Un regno senza re: l’Ungheria di Horthy. Poiché i paesi dell’Intesa avevano dichiarato che
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si opponevano a qualsiasi restaurazione degli Asburgo in qualsiasi paese danubiano, l’Assemblea
Nazionale nominò reggente d’Ungheria l’ammiraglio Horthy. La sua elezione fu da molti considerata
come una soluzione provvisoria in attesa di una restaurazione del legittimo re, non appena la situazione
lo avesse permesso. Ma quando il re Carlo cercò di ritornare in Ungheria, l’atteggiamento ostile del
reggente e le minacce di un intervento armato fecero fallire la restaurazione. Il parlamento ungherese
votò la detronizzazione, che escludeva dal trono la famiglia degli Asburgo e restituiva alla nazione il
diritto di eleggere il proprio sovrano. Il potere legislativo spettava ad un parlamento formato da due
Assemblee. A differenza della Polonia, l’Ungheria non era uno Stato totalitario, piuttosto uno Stato
conservatore con tendenze autoritarie, ma nel quale l’opposizione era ammessa e tollerata. La vita
politica era dominata dalla ricostruzione morale ed economica del paese. La stabilizzazione della
moneta permise una ripresa economica che però fu interrotta dalla crisi mondiale del 1030-1931.
Davanti alla crisi i partiti estremisti si rafforzarono: a sinistra il Partito comunista clandestino organizzò
manifestazioni operaie; all’estrema destra i nazionalisti si svilupparono in vari movimenti dalle
tendenze fasciste, che si riunirono sotto il Partito delle croci frecciate. Le elezioni del maggio 1939, le
sole veramente libere di tutta l’epoca di Horthy, in cui venne eletto il conte Pal Teleki, sottolineavano
la posizione originale dell’Ungheria con il suo regime costituzionale e parlamentare in questa parte
d’Europa dove a dominare erano le dittature.
Le dittature balcaniche.
Durante l’epoca tra le due guerre, gli Stati balcanici furono caratterizzati dalla presenza di regimi
dittatoriali, molto più vicini alla tradizione ottomana che a quella delle democrazie occidentali. Ognuno
di questi Stati costituiva in sé un caso particolare.
- Dal tribalismo alla dittatura reale: l’Albania. La situazione politica movimentata
dell’Albania era causata sia da una ardiva presa di coscienza del sentimento nazionale, sia dall’azione
costrittiva delle strutture tribali tradizionali, sia dai diversi interventi stranieri, italiani, greci, jugoslavi.
Il personaggio più in vista era il giovane capo di una tribù guerriera dell’Albania centrale, Ahmed
Zogu, che disponeva dei mezzi militari per imporre la propria autorità. Impadronitosi del potere e
proclamatosi capo del governo, Zogu fu rieletto l’anno seguente, senza che però i suoi avversari, con a
capo Fan Norli, deponessero le armi. Ferito in un attentato, Zogu si rigugiò in Jugoslavia, aspettando il
momento per rientrare in paese. Sei mesi dopo la sua caduta, Zogu riapparve in Albania e scacciò da
Tirana il governo di Fan Norli, che si era nel frattempo insediato. Proclamato presidente della
repubblica albanese, Zogu esercitò un potere dittatoriale con il sostegno dell’Italia mussoliniana.
Proclamato da un’Assemblea nazionale re ereditario d’Albania, Zog I fu un despota che però cercò di
modernizzare il paese. Mussolini, preoccupato di un eventuale riavvicinamento dell’Albania alla
confinante Jugoslavia e alle democrazie occidentali, mise brutalmente fine al regno di Zog, invase il
suo paese e proclamò re d’Albania Vittorio Emanuele III. L’indipendenza dell’Albania fu di breve
durata.
- Dalla dittatura verde a quella reale: la Bulgaria. Aleksander Stambolijski cercò di stabilire,
nell’ambito della monarchia, una “dittatura verde”. Il re Boris III lo lasciò governare del tutto. Egli
cercò di soddisfare i contadini, che rappresentavano ¾ della popolazione del paese. Abolì i loro debiti
ma pretese da loro una manodopera quasi gratuita per la realizzazione di opere di interesse comune. Fu
anche abbozzato un avvicinamento politico all’URSS ma il timore di una bolscevizzazione spinse i
partiti borghesi a fare blocco comune contro gli agrari. Gli ambienti nazionalisti passarono all’azione
contro il regime di Stambolijski e denunciarono l’accordo stipulato con la Jugoslavia per lottare contro
i gruppi che combattevano per la liberazione della Macedonia come un tradimento alla patria bulgara.
Stambolijski reagì creando corpi di contadini a lui devoti, le guardie arancioni, ma gli oppositori, in un
colpo di Stato, si impadronirono nella notte dei punti chiave della città di Sofia, arrestando i ministri. Il
re Boris III incaricò il capo dell’opposizione Tsankov di formare un nuovo governo. Stambolijski fu
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condannato a morte brutalmente e i comunisti, che a volte lo avevano sostenuto, non si mossero al
momento del colpo di Stato. Il loro comitato progettò in seguito un’insurrezione armata a cui aderirono
gli agrari. Il governo reagì con migliaia di arresti preventivi. La repressione fu durissima e si parlò di
parecchie migliaia di vittime del Terrore bianco: il Partito cominista fu messo fuori legge ma i suoi
membri fecero in tempo a fuggire all’estero. Il governo Tsankov, di ispirazione conservatrice e
nazionalista, organizzò e vinse le elezioni successive. L’opposizione, anche se presente, era però
sempre sotto sorveglianza della polizia. La sua azione terroristica più spettacolare fu l’esplosione di un
ordigno nella cattedrale di Sofia poco prima dell’arrivo del re, che causò centinaia di morti e feriti e che
causò un inasprimento del governo. Il re Boris però, preoccupato per gli eccessi del Terrore bianco che
ne seguirono, affidò il governo al macedone Liapcev, ma una crisi economica risultò fatale al suo
governo: alle elezioni successive vinsero l’opposizione agraria e i moderati del Partito democratico, che
stabilirono un regime più liberale. L’affermazione crescente del nazismo in Germania, ravvivò presto
l’agitazione nazionalista in Bulgaria e il gruppo Zveno, vicino alla Germania, si impadronì del potere
con la forza. I militari che avevano preso potere, pur presentandosi come ultra-nazionalisti, con stupore
iniziarono una politica di intesa con Jugoslavia e URSS. Ma Boris non li lasciò a lungo padroni dello
Stato e scelse di governare in un regime autoritario, la cui politica si avvicinò sempre di più a quella
tedesca.
- Dalla corruzione alle rivoluzioni di palazzo: la Romania. La Romania del periodo tra le due
guerre mondiali fu caratterizzata sia dalle lotte violente tra le varie lotte politiche, sia dalle dispute
all’interno della famiglia reale. L’istituzione del suffragio universale e l’annessione al regno delle
nuove province sconvolsero la vita politica del paese. La spartizione del partito conservatore,
condannato per il suo germanofilismo, lasciò spazio al Partito liberale di Ionel Bratianu, difensore degli
interessi della borghesia, e alla Lega del popolo del generale Avarescu, favorevole a un regime
autoritario. A sinistra il Partito liberale conobbe una ripresa grazie allo scontento popolare dovuto alle
difficoltà economiche. Gran parte dei suoi militanti aderì alla III Internazionale e formò il Partito
comunista romeno. Le elezioni nel novembre 1919, le prime quasi libere, diedero la maggioranza al
Partito contadino di Mihalache e al Partito transilvano di Maniu. Formatosi un governo di coalizione, il
potere fu affidato all’energico generale Avarescu, che nonostante il ricordo che aveva lasciato della sua
politica di repressione contadina, cercò di risolvere il problema contadino con una riforma agraria che
calmò l’agitazione contadina, ma il carattere dittatoriale del suo governo fece aumentare lo scontento. Il
re chiamò allora al governo i liberali con Ionel Bratianu e venne adottata una nuova Costituzione. Il
potere esecutivo era detenuto dal re e dal governo, che il sovrano revocava e designava a suo piacere. Il
potere legislativo era esercitato da un parlamento formato da due Assemblee. Le elezioni successive,
che garantirono ai liberali una clamorosa vittoria, non furono però molto significative: la pressione
delle autorità, i pestaggi contro l’opposizione e le violenze di ogni tipo avevano superato ogni livello.
La vita politica si complicò ulteriormente dopo la morte del re Ferdinando. La corona, a causa della
vita dissoluta che conduceva, non toccò al figlio del re defunto, il principe Carol, ma al figlio Michele,
che Carol aveva avuto dalla moglie illegittima, una semi-prostituta ebrea. Michele, di sei anni, regnò
sotto un consiglio di reggenza. I nazional-contadini vollero approfittarne per ottenere l’allontanamento
dei liberali. Le strade erano divenute principale terreno di scontro tra le diverse fazioni politiche. Nelle
successive elezioni politiche primeggiò Maniu, a capo del Partito nazionale contadino, che però non
mutò i costumi politici tipici dei suoi avversari. Obiettivo principale di Maniu era di far tornare Carol
dal suo esilio parigino, farlo nominare reggente unico e governare al suo posto il paese. Arrivato in
Transilvania, fu nominato re di Romania, come Carol II, ma il suo ritorno non portò a soluzioni. Dopo
il ritiro di Maniu a causa di un disaccordo col sovrano, si succedettero vari governi incapaci di
fronteggiare le difficoltà del momento: agitazioni contadine e scontenti tra la classe operaia causati
dall’aumento della disoccupazione. Si affermarono i movimenti estremisti, in particolare quelli dei
gruppi nazionalisti e antisemiti, a svantaggio delle forse politiche tradizionali. All’inizio degli anni
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trenta dominava nell’estrema destra la personalità di Corneliu Codreanu, che assorbì tutti i movimenti
estremi nazionali nella Guardia di Ferro, movimento politico di ispirazione ultra-nazionalista e
antisemita, che disponeva dei Guardisti, forze paramilitari le cui però violenze comportarono lo
scioglimento del movimento da parte del governo Maniu. L’ondata antisemita portò all’espulsione
degli ebrei da alcune cariche e professioni. A partire dal 1938 il re Carol II esercitò una vera dittatura.
Inizialmente attaccò l’estrema destra, facendo arrestare Codreanu e i guardisti, che furono imprigionati,
e molti tra questi morirono in un preteso tentativo di fuga. Contemporaneamente furono internati
socialisti e comunisti e col tempo Carlo approfittò del suo potere per sciogliere tutti i partiti e creare un
partito unico, il Fonte della Rinascita Nazionale. Ormai era l’unico e assoluto padrone dello Stato.
- La dittatura panserba. Il proclama dell’unione di tutti gli slavi del Sud in un regno dei serbi,
croati e sloveni l’1 dicembre 1918, portò all’annessione degli altri popoli jugoslavi e di numerose
minoranze nazionali ai serbi. Nel nuovo stato l’elemento serbo svolse un ruolo dominatore: il potere
reale era nelle mani della dinastia dei Karagjeorgjevic. La politica dei governi che si succedettero fu
centralizzatrice, nazionalista, panserba e autoritaria. Il nuovo regime doveva lottare sia contro le
tendenze federaliste delle province, che contro un Partito socialista operaio che aveva aderito alla III
Internazionale, diventando il Partito comunista jugoslavo. Il partito radical-serbo di Pasic, al potere
dall’ascesa al trono del re Pietro, continuò a dominare la scena politica anche dopo la morte del suo
capo storico,con il sostegno del partito democratico e di quello agrario. La maggioranza panserba
adottò nel 1921 una Costituzione di ispirazione centralizzatrice e autoritaria: il regime così creato era
una dittatura appena dissimulata da istituzioni parlamentari di cui norma erano la corruzione e le
pressioni elettorali. Il primo a essere messo fuorilegge fu il Partito comunista in seguito a degli
scioperi, poi fu il turno del Partito contadino, che aveva osato reclamare il diritto
all’autodeterminazione per il popolo croato. Il parlamento fu luogo di scontri sempre più violenti tra i
partiti serbi e quelli delle altre regioni del regno. Punto di non ritorno furono i colpi di pistola di un
deputato montenegrino in piena seduta. Il re Alessandro abolì la precedente Costituzione, tutte le
assemblee locali elette furono sostituite da commissioni nominate dal potere centrale; ciò che era
rimasto della libertà individuale e di stampa fu eliminato. Poi il re promulgò una nuova Costituzione
ancora più centralizzata. Il paese, che si chiamava Jugoslavia, venne diviso in nove distretti , i partiti
politici erano permessi solo se non fondati su base regionale. Furono messi fuori legge i partiti che
rappresentavano le minoranze o i gruppi etnici. La conseguenza della dittatura reale fu la
radicalizzazione dei movimenti ostili al nazionalismo panserbo. Fu chiesta l’uguaglianza tra le
componenti etniche della Jugoslavia e gli argomenti non mancavano: tutti i posti direttivi erano
detenuti da serbi. La risposta del re fu negativa e anzi i richiedenti furono arrestati. Da allora l’azione
diretta apparve a molti l’unico modo efficace e al terrorismo panserbo si sostituì quello antiserbo.
L’attentato al re Alessandro di Jugoslavia paradossalmente sbloccò la situazione: a causa della giovane
età del re Pietro II, le funzioni di reggente vennero esercitate dal principe Paolo. L’allora presidente del
Consiglio conseguì un accordo col Partito contadino, che portò alla creazione di un dipartimento
autonomo di Croazia. Tale concessione sembrava essere dettata da opportunismo piuttosto che da
sincero desiderio di trovare un accordo. Come la Cecoslovacchia, così la Jugoslavia non aveva
realizzato l’unione morale delle sue popolazioni: creazione artificiale, ne avrebbe presto subito le
conseguenze.
L’impossibile equilibrio economico tra le due guerre.
Gli sconvolgimenti della configurazione territoriale dell’Europa centrale e orientale a seguito dei
trattati del 1919-1920 avevano provocato la disgregazione dei sistemi economici preesistenti. La
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nascita di nuovi Stati, gelosi della loro indipendenza, comportò la moltiplicazione delle frontiere
politiche, doganali e monetarie. Era evidente lo sviluppo economico diseguale, e mentre la
Cecoslovacchia poteva essere paragonata ai paesi industrializzati dell’Europa del nord occidentale o
alla Germania, le altre nazioni avevano un’economia ancora fortemente accentrata sull’agricoltura. Tra
gli Stati agricoli, alcuni avevano comunque un settore industriale di importanza non trascurabile.
Risorse energetiche e minerarie erano ripartite in modo diseguale. All’indomani della guerra, tutti gli
Stati dell’Europa centrale e orientale cercarono di vivere soltanto delle proprie risorse nazionali e di
salvaguardare i loro settori deboli con tasse doganali molto protezioniste. Una simile politica portò
presto alla riduzione degli scambi tra paesi vicini. Le nuove frontiere, in particolare quelle delimitanti
gli Stati sorti dallo smembramento dell’Austria - Ungheria, avevano separato regioni con economia e
risorse del tutto complementari, situazione che quasi sempre andò a vantaggio delle grandi potenze. Le
nuove frontiere perturbarono anche le tradizionali correnti migratorie di manodopera tra regioni vicine
e con attività complementari. Sia gli Stati vincitori che quelli vinti conobbero gravi difficoltà
economiche: il sistema monetario venne totalmente sconvolto e in alcuni Stati circolavano anche tre
valute differenti. Oltre ai problemi monetari, queste nazioni dovettero far fronte a crisi d’impiego, a
causa dell’afflusso di manodopera in seguito alla smobilitazione di centinaia di migliaia di uomini
prima reclutati nei vari eserciti. L’emigrazione, soprattutto verso la Francia, attenuò parzialmente
queste difficoltà. I governi dei paesi dell’Europa centrale e orientale avevano cercato tutti di risolvere il
problema del latifondo. Ogni Stato cercò di sviluppare una sua industria, ma le barriere doganali che li
separavano frenarono notevolmente gli scambi tra di loro, al punto che la ricerca di sbocchi esterni era
indispensabile. Nonostante i salari relativamente bassi, i prezzi dei manufatti erano poco
concorrenziali. Una cooperazione economica tra gli Stati dell’Europa centrale e orientale avrebbe di
certo accelerato la ricostruzione di queste nazioni, ma il nazionalismo esasperato o il rancore degli
sconfitti bloccarono a lungo i tentativi di un’unione doganale. La crisi mondiale degli anni ‘30 colpì
questa fragile ricostruzione economica e la saturazione del mercato dei prodotti agricoli provocò un
crollo generale nei prezzi del settore. Dovunque furono prese misure protezioniste, il che impedì ai
paesi dell’Europa centrale e orientale di esportare i loro prodotti tradizionali. In tutti questi paesi il
fenomeno della disoccupazione si estese, tanto più che i tradizionali Stati di accoglienza chiusero le
porte al flusso dei lavoratori stranieri. Alcuni dirigenti politici credevano giunto il momento di stabilire
un minimo di cooperazione tra gli ex Stati facenti parte della monarchia Austro - Ungarica. Il piano più
noto zq<proposto dalla monarchia francese fu quello Tardieu, che contemplava il progressivo
smantellamento delle barriere doganali dei paesi danubiani. Questo e molti altri tentativi furono
destinati al fallimento per varie ragioni: in primo luogo tra ex vinti ed ex vincitori le tensioni erano tali
da rendere difficile ogni apertura a trattative.Inoltre l’Italia e la Germania, avendo interessi in quelle
regioni, fecero di tutto per silurare simili piani. L’incapacità degli Stati dell’Europa centrale e orientale
di trovare tra loro un modus vivendi facilitò notevolmente le ambizioni egemoniche della Germania
nazionalsocialista. Appariva adesso tutto il vuoto lasciato dalla scomparsa dell’impero austro-ungarico,
che Hitler non avrebbe tardato a colmare.
L’Europa orientale nelle relazioni internazionali.
All’indomani della guerra, le potenze che avevano organizzato la suddivisione dei territori non
sarebbero rimaste indifferenti a quanto poteva accadere in quella zona. L’immediato dopoguerra fu
inizialmente caratterizzato da una penetrazione politica ed economica delle tre grandi potenze europee
vittoriose, Francia, Regno Unito e Italia, che si sforzarono di trarre profitto dall’isolamento sovietico e
dalla momentanea cancellazione della Germania. In effetti i paesi dell’Europa centro-orientale
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rappresentavano un eccellente protezione che separava il mondo tedesco da quello sovietico. Per
fronteggiare un’eventuale alleanza tra nazionalismo tedesco e bolscevismo russo, gli Alleati avevano
progettato la politica del Cordone sanitario, che consisteva nel separare la Germania dall’URSS con un
blocco di Stati alleati tra loro e integrati nel sistema di difesa occidentale. I paesi dell’Europa centroorientale costituivano, con le loro economie più o meno sconvolte dalla guerra, un interesse economico
sicuro. Il ritardo economico della maggior parte di queste nazioni offriva un importantissimo mercato,
che in misura maggiore sfruttarono gli inglesi. A Londra, l’idea di un Cordone sanitario appariva
troppo illusoria e, in nome del realismo, gli inglesi furono i primi a riprendere le relazioni commerciali
con il nuovo Stato sovietico. La Francia svolse solo un ruolo secondario sul piano economico e
finanziario: i suoi uomini d’affari mancavano di dinamismo e i suoi mezzi erano relativamente modesti.
La politica francese, per quanto riguarda i paesi danubiani, sembrò manifestare delle esitazioni già
all’indomani della guerra: bisognava sostenere i giovani Stati amici o meglio giocare la carta di una
federazione danubiana diretta dagli ungheresi? L’Italia non restò inattiva in questa zona dell’Europa e
non vide di buon occhio sia il tentativo di riavvicinamento franco-ungherese, sia gli accordi francesi
con la Piccola Intesa, che all’Italia non stava particolarmente simpatica per l’aperto contenzioso con la
Jugoslavia riguardo Fiume. Di conseguenza si sforzava di stabilire contatti con gli Stati vicini e rivali
della Jugoslavia. L’Albania non fu l’unico oggetto delle mire italiane: poiché la Francia si appoggiava
agli Stati beneficiari dei trattati, l’Italia diede il via ad una politica di riavvicinamento alle vittime degli
stessi, Ungheria e Bulgaria, entrambe duramente colpite dai trattati e isolate dai propri vicini. L’arrivo
al potere di Hitler in Germania nel ‘33 modificò profondamente l’equilibrio di forze nell’Europa
centro-orientale. L’economia tedesca era presente nella maggior parte dei paesi di questa zona. Per
Hitler questa era una parte dell’Europa che poteva essere sbocco per i manufatti tedeschi e fonte di
derrate alimentari e materie prime. Nel 1938, la Germania e l’Italia erano le potenze più influenti
nell’Europa centro-orientale. Nel 1939, l’epoca in cui la formazione di Stati nazionali nell’Europa
centrale e orientale aveva potuto creare speranze di pace e prosperità si era ormai conclusa. Le
ingiustizie e i rancori avevano procurato molte delusioni e i nazionalismi si erano esasperati. L’ora del
regolamento dei conti era vicina.
Una fonte di tensione fra Stati: il problema delle minoranze nazionali.
Milioni di uomini e donne furono separati dalla propria comunità nazionale e incorporati all’interno
degli Stati beneficiari dei trattati. Erano queste le minoranze nazionali, gruppi di individui con
caratteristiche etniche o religiose diverse da quelle della maggioranza della popolazione dello Stato
all’interno del quale sono stati incorporati e che si considerano oppressi. Le grandi potenze si resero
conto dei pericoli che comportava per la pace, l’incorporazione di numerose popolazioni strappate alla
loro patria d’origine. Le grandi potenze imposero alle nazioni che beneficiarono dei trattati di pace, la
firma di impegni per garantire la protezione dei diritti delle popolazioni allogene. La firma dei trattati
sulla protezione delle minoranze non fu sempre facile da ottenere: in Polonia ad esempio vennero
firmati solo in seguito a pressioni esercitate dalle grandi potenze. Per conferire a questi documenti tutto
il valore, furono posti sotto la garanzia della Società delle Nazioni, il cui consiglio elaborò una
dettagliata procedura perché le minoranze potessero ricorrere a petizioni. Procedure però piuttosto
lunghe rendevano inefficace qualsiasi intervento da parte della Società delle Nazioni nel caso in cui i
diritti di una minoranza nazionale fossero stati violati da uno Stato, anche perché lo Stato accusato
disponeva di mezzi procedurali in grado di trascinare la situazione per le lunghe. Furono soprattutto le
minoranze tedesche in Polonia, Cecoslovacchia e Jugoslavia, quelle ungheresi in Romania,
Cecoslovacchia e Jugoslavia ad essere principali vittime dell’oppressione esercitata nei loro confronti
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dai nuovi Stati. All’epoca il nazionalismo faceva da padrone e mai in pecedenza aveva raggiunto tale
livello di esasperazione. Furono soprattutto la Romania, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia a mostrarsi
più oppressive nei confronti delle minoranze nazionali. I dirigenti di questi paesi si resero conto che il
gran numero di popolazioni allogene era un regalo velenoso fatto dalle grandi potenze. Era necessario
assimilare, per non dire eliminare, queste minoranze nazionali. I metodi usati furono ovunque gli stessi:
mantenimento prolungato dello stato d’emergenza nei territori annessi, violenze fisiche e morali dove il
gruppo minoritario era di ridotta importanza. Quando si presentava più compatto, a volte si espelleva in
blocco tutta una popolazione, a volte lo si faceva con le élites, in modo da privare la minoranza delle
sue guide naturali. Per indebolire ulteriormente le minoranze, gli Stati si sforzarono di rovinarle
economicamente con le riforme agrarie, espropriando terre, inviandovi nuovi coloni. Tuttavia in
seguito ai consigli di moderazione e prudenza dati dalla Francia, si assistette ad una certa
normalizzazione, ma i membri delle minoranze nazionali rimasero cittadini di seconda classe. Frequenti
erano le misure discriminatorie in materia culturale e linguistica. L’ascesa di Hitler al potere e
l’appoggio dato dalla Germania alle minoranza tedesche dei paesi dell’Europa centro-orientale,
portarono alcuni Stati ad adottare una politica più liberale nei confronti delle minoranze. Nel 1938, le
concessioni che i governi si preparavano ad accordare alle loro minoranze nazionali venivano molto in
ritardo: non erano più in grado di far dimenticare alle vittime dei trattati le vessazioni e le ingiustizie
che subivano da vent’anni. Sia le minoranze nazionali che i governi della loro patria d’origine
esigevano ormai la revisione dei trattati. Paradossalmente fu Iter a presentarsi come il difensore per
eccellenza del diritto dei popoli a disporre del proprio destino e fu verso di lui che i tedeschi, ungheresi,
croati e slovacchi volsero lo sguardo.
Da Monaco a Yalta.
L’annessione dell’Austria da parte di Hitler nel marzo 1938 e la creazione della Grande Germania,
furono le manifestazioni della fragilità dell’edificio costruito dai vincitori della Prima Guerra
Mondiale. La Germania disponeva di una vasta area di punti d’appoggio, costituita dalle minoranze
tedesche, aveva il sostegno di movimenti nazional-socialisti e autonomisti.Inoltre, grazie ad accordi
commerciali e finanziari, grande era la sua pressione sui governi.
La fine della Cecoslovacchia.
Negli anni trenta la Cecoslovacchia era considerata lo Stato più potente e meglio armato del mondo
danubiano. Tuttavia, la presenza sul suo territorio di forti minoranze, costituiva un fattore di debolezza.
Il rafforzamento della potenza militare tedesca dopo l’arrivo al potere di Hitler e l’indebolimento della
Francia costituirono altre minacce. Fin dall’inizio del 1938 le varie minoranze, su iniziativa del Partito
tedesco dei Sudeti, decisero di unirsi agli autonomisti slovacchi per reclamare concessioni al governo
di Praga. A Germania era convinta di poter aver al suo fianco l’Ungheria in un’eventuale azione contro
la Cecoslovacchia, ma i dirigenti ungheresi, per nulla entusiasti della proposta, erano anche consci della
loro inferiorità militare. Il presidente Benes optò per una politica di forza. Col pretesto di una
concentrazione di truppe tedesche alle frontiere, il clima si riscaldò. Non potendo però Benes, contare
sull’aiuto dell’URSS, dovette assumere un atteggiamento più morbido, e iniziò negoziati con i
rappresentanti dei Sudeti, quando però Hitler si pronunciò brutalmente in un discorso a proposito delle
sevizie di cui erano vittime i tedeschi dei Sudeti. Dinnanzi a questa situazione, il primo ministro
britannico, Chamberlain, decise di incontrare Hitler, e Benes dovette, dopo questo incontro, rassegnarsi
a cedere quei territori che gli stessi Alleati gli avevano fornito del 1919. In un secondo incontro tra
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Chamberlain ed Hitler, lo statista inglese si vide avanzare nuove richieste: il cancelliere tedesco voleva
riforme dello stesso tipo per Polonia e Ungheria. Tali pretese provocarono una forte emozione e la
guerra sembrava in agguato. Alla conferenza di Monaco, Hitler, Mussolini, Chamberlain e Daladier si
accordarono sulla cessione alla Germania dei territori germanofoni dei Sudeti, imponendo così alla
Cecoslovacchia di dare proprio quello che due tra loro avevano in passato concesso. Subito dopo la
conclusione degli accordi le autorità tedesche presero possesso dei territori loro ceduti. La Polonia
reclamò la cessione del territorio di Teschen in cui vi era una popolazione al 70% polacca e procedette
con l’occupazione del territorio. L’opinione pubblica ceca era molto delusa per l’atteggiamento degli
occidentali e, sola, si trovò costretta, nel tentativo di salvare il suo Stato, a concedere una certa
autonomia agli slovacchi. Gli ungheresi pensavano che fosse giunto il momento per presentare le loro
richieste di revisione delle clausole territoriali del Trattato di Trianon. I contatti tra governo ungherese
e cecoslovacco si risolsero in un fallimento. Le due parti decisero di mettersi all’arbitraggio di
Germania e Italia. Alla fine del 1938 lo Stato cecoslovacco esisteva ancora, ma amputato di una parte
importante del territorio originario. Adesso la popolazione era molto più omogenea, e poche le
minoranze. A partire dal novembre 1938, si assistette in Cecoslovacchia ad un orientamento politico
nuovo: la democrazia cecoslovacca degenerò in un sistema autoritario. L’opposizione parlamentare fu
messa a tacere. La Slovacchia non nascondeva più la sua intenzione di divenire Stato indipendente e
sovrano. Ancora una volta, nel marzo 1939, le tensioni in Cecoslovacchia portarono Hitler ad
intervenire. Sfruttò bene questa situazione e persuase la Slovacchia che era giunto il momento di
intervenire e realizzare la sua indipendenza, e che avrebbe ottenuto tutto il suo appoggio. Quando
l’indomani la Dieta slovacca si riuniva a Bratislava, veniva proclamata l’indipendenza. Questa
indipendenza segnò l’inizio della rapida agonia della Cecoslovacchia. Hitler convocò a Berlino il
presidente cecoslovacco e in un incontro drammatico lo costrinse a porre sotto protezione del Reich ciò
che rimaneva della Cecoslovacchia, che diveniva così il Protettorato tedesco di Boemia e Moravia. La
Cecoslovacchia aveva cessato di esistere. Romania e Jugoslavia non intervennero, ma Londra e
Varsavia ebbero una brutale presa di coscienza delle ambizioni di Hitler. La Polonia, per la sua
posizione di porta dell’Europa dell’Est, era la prossima vittima.
La quarta spartizione della Polonia.
All’indomani di Monaco, le relazioni tra Polonia e Germania iniziarono a deteriorarsi. Esistevano
antichi motivi di tensione: il problema di Danzica e del corridoio. La città libera era ormai diretta dai
nazisti e non faceva mistero sul desiderio di tornare alla Germania. Ribbentrop propose
all’ambasciatore polacco a Berlino che Danzica ritornasse tedesca, in cambio la Polonia avrebbe
conservato una zona franca nel porto di Danzica. Il colonnello Beck fece rispondere che la restituzione
di Danzica era categoricamente esclusa. A livello governativo nulla sembrava mutato nelle relazioni tra
i due paesi, ma sul luogo, in Polonia, gli incidenti tra tedeschi e polacchi diventavano sempre più
frequenti. La fermezza di Beck venne ben accolta dal governo britannico, deluso dalle inadempienze di
Hitler alle sue promesse, e Beck si recò a Londra per firmare un trattato di alleanza. Pochi giorni dopo
la Francia assunse lo stesso atteggiamento. Anche l’Ungheria appoggiava la Polonia. Proprio quando la
Polonia riceveva l’appoggio di questi Stati, Hitler preparava un piano d’attacco, e firmava con l’Italia il
patto d’acciaio. Di fronte alla minaccia tedesca, Francia e Regno Unito si rivolsero all’URSS, ma
difficile risultò il contatto: la Polonia non voleva le truppe russe passassero per il suo territorio, e la
Russia da parte sua sembrava divertirsi nell’allungare le trattative. In realtà l’URSS nascondeva un
doppio gioco, evidente a tutti solo quando una delegazione tedesca arrivò a Mosca per firmare un patto
di non aggressione. Tale patto, valido per dieci anni e sin da subito, stabiliva l’impegno da entrambe le
parti di non partecipare ad alleanze che li ponessero l’uno contro l’altro, ma più importante era il
protocollo segreto, secondo il quale all’URSS sarebbe spettata una parte dell’influenza sulla Polonia e
sulle repubbliche baltiche fino alla Finlandia. Dopo la firma di questo patto era inutile illudersi sulle
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sorti della Polonia. L’1 settembre 1939 l’esercito tedesco entrava in Polonia e Danzica veniva annessa
al Reich. L’invasione generò la mobilitazione della Francia e il 3 settembre Francia e Regno Unito
dichiaravano guerra alla Germania. Gli Stati danubiani e balcanici, Italia e URSS si mantennero
neutrali. La Polonia aveva frontiere facilmente difendibili solo dalla parte dei suoi amici ungheresi e
romeni, ma dal lato del pericolo vi erano solo pianure aperte. Inoltre il nemico tedesco era meglio
equipaggiato, rispetto ai polacchi, poco motorizzati e costituito per la maggior parte da cavalleria. Fin
dai primi giorni l’aviazione polacca fu rasa al suolo dai bombardamenti della Luftwaffe. Ciò che minò
più di tutto il morale dei polacchi furono i bombardamenti sui civili. L’esercito polacco, disperso in
tutto il territorio nazionale, si trovò presto braccato. Già meno di due settimane dopo lo scoppio delle
ostilità, Varsavia si trovò accerchiata, senza acqua e rifornimenti. Conformemente alle disposizioni del
patto russo-tedesco, il ministro degli esteri russo Molotov avvertiva che la mobilitazione per
l’invasione della parte orientale della Polonia fosse già in atto. I sovietici per giustificare la loro
aggressione invocarono due argomenti: dato che la Polonia non esisteva più, non era valido il loro
vecchio accordo di non aggressione; i russi volevano proteggere gli ucraini e bielorussi di Polonia. La
guerra-lampo fu un successo per la Wehrmacht. Il 27 settembre, tedeschi e sovietici controllavano tutto
il paese. Varsavia capitolò dopo 17 giorni di resistenza soprattutto civile. La Polonia, che già aveva
perso numerosi abitanti, non aveva domato la sua volontà di resistenza. Il governo polacco costituito a
Parigi e diretto dal generale Sikorski organizzò una legione polacca con i superstiti dell’esercito,
raccolti in Ungheria e istradati in Francia attraverso la Jugoslavia. Tedeschi e sovietici si erano
accordati per decidere la quarta spartizione della Polonia. La Germania si riservò tutti i territori posti ad
Ovest del Bug, mentre i rimanenti, insieme alla Lituania, spettavano all’URSS. Con un patto di
“delimitazione e di amicizia” veniva nella pratica condannata a priori qualsiasi resistenza dei polacchi.
Il Governo generale delle province polacche occupate, con Cracovia capitale, fu una zona
d’occupazione, con un’amministrazione in parte polacca ma severamente controllata dai tedeschi. Gli
ebrei furono i primi a subire gli effetti del nuovo statuto della Polonia: inizialmente costretti a portare la
stella gialla, vennero man mano riuniti in ghetti. La situazione non era migliore nella parte sovietica
della Polonia. Qui i cittadini di origine polacca furono privati dei loro diritti e posti sotto la costante
sorveglianza delle autorità sovietiche. Più di un milione di polacchi fu deportato in URSS in campi di
prigionia, e centinaia di migliaia furono le vittime, soprattutto tra coloro che rappresentavano un
elemento di valore nella società polacca. I sovietici colpirono anche gli ebrei che fuggivano dall’ovest.
Il comportamento dei due paesi interessati alla spartizione della Polonia non mancava di presentare
singolari punti di contatto.
I cambiamenti nel mondo danubiano e balcanico (1939-1941).
-Neutralità e revisionismo ungherese. I dirigenti ungheresi furono indignati dalla conclusione
del patto germanico-sovietico. La loro indignazione fu particolarmente violenta quando Hitler chiese
che fossero lasciate passare attraverso il paese truppe tedesche per attaccare alle spalle l’esercito
polacco. Il presidente del consiglio ungherese, Teleki, oppose un no categorico alla richiesta, pur
disponendo di un margine di manovra molto limitato: non poteva scontrarsi frontalmente con la
Germania, vista la sproporzione tra le forze dei due paesi. Teleki, per controbilanciare l’influenza
tedesca si rivolse all’Italia, altro suo alleato che però era sempre più dipendente da Hitler.
Parallelamente Teleki accelerò il programma di riarmo, per essere in grado di cogliere qualunque
occasione per recuperare i territori perduti nel 1920. Tale opportunità si presentò quando, nel giungo
1940, l’URSS pretese dalla Romania la cessione di alcuni territori. I sovietici proposero allora
all’Ungheria di riprendersi la Transilvania, ma Teleki rifiutò l’offerta, preferendo negoziare con la
Romania. Presto, Germania e Italia imposero alle due parti la loro mediazione. Il ritorno di una parte
della Transilvania alla madrepatria provocò entusiasmo nell’opinione pubblica ungherese. Hitler aveva
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furbamente messo i due Stati nella posizione di gareggiare per dimostrarsi l’una più filotedesca
dell’altra, avendo, Ungheria e Romania, come obiettivo la Transilvania. Teleki era consapevole dei
nascosti disegni del Furer e della propria libertà d’azione molto limitata. Il governo ungherese non potè
infatti tirarsi indietro quando Hitler la invitò a partecipare al Patto tripartito,accordo difensivo concluso
su iniziativa di Italia, Germania e Giappone.
-La fascistizzazione della Romania. La costituzione della dittatura reale in Romania non aveva
risolto nessuno dei problemi che gravavano sul paese. L’inverno del 1939-1940 fu particolarmente
difficile, a causa delle ripercussioni economiche della guerra, che colpirono la Romania e si tradussero
essenzialmente in un rapido aumento dei prezzi. La crisi scoppiò durante l’estate del 1940: in primo
luogo vi fu un ultimatum sovietico che reclamava la cessione della Bessarabia e del nord della
Bucovina. La Romania dovette accettarle, poiché la Germania, interpellata, si rifiutò di difendere gli
interessi romeni. Era la fine del sogno panromeno, ma anche la nascita di una nuova Romania, meno
estesa ma più omogenea dal punto di vista della popolazione e più conforme delle nazionalità. Questo
nuovo Stato non aveva più bulgari, russi né ucraini. Tuttavia l’opinione pubblica accettò malvolentieri
queste modifiche del territorio. Lo scontento popolare crebbe e si rivoltò contro il re Carol II, accusato
di tradimento. Egli, spinto dall’opinione pubblica, conferì il potere al generale Antonescu, che assunse
il titolo di guida suprema. Carol II abdicò immediatamente a favore del figlio Michele. Il generale
Antonescu costituì subito un regime di dittatura militare: rafforzò i legami con la Germania nazista e
autorizzò le truppe tedesche a stabilire le basi in territorio romeno. La Romania divenne uno Stato
fascista col nome di Stato nazionale legionario. Il nuovo regime adottò immediatamente una politica
violentemente antisemita. Il generale, geloso dei suoi poteri, si rese subito conto del pericolo che il
paese correva a causa delle azioni scellerate dei Legionari. Dopo aver incontrato Hitler e averlo
rassicurato sulla sua totale fedeltà, si sbarazzò degli elementi più violenti del Movimento Legionario. Il
paese accolse bene questa epurazione ma Antonescu mantenne la stessa politica di governo personale.
La Romania rimase uno Stato fascista totalitario, totalmente allineato alla politica del Reich.
- Le ambiguità della Bulgaria. Come l’Ungheria, la Bulgaria era riuscita a tenere le distanze
dalla crisi internazionale del 1939. Il re Boris III si sforzò di tenere il paese il più a lungo possibile
fuori dal conflitto. La nomina a capo del governo di un germanofilo non modificò la politica seguita
dagli anni 30. Nell’inverno tra il 1940-1941, quando la Germania preparava il suo attacco contro
l’URSS, Hitler si sforzò di integrare la Bulgaria nel suo sistema di alleanze. Fece chiedere al governo
bulgaro l’adesione al Patto tripartito. Contemporaneamente l’URSS cercò un’apertura diplomatica
verso la Bulgaria, fino a proporle un patto d’amicizia e assistenza reciproca. Il governo bulgaro esitava
a impegnarsi. Le offerte sovietiche furono respinte, senza però arrivare alla rottura. Boris III attese a
lungo di sottoscrivere le richieste tedesche. Una volta fatto, le truppe tedesche si insediarono sul
territorio bulgaro, in previsione di una controffensiva Grecia. Tuttavia i bulgari non volevano essere
coinvolti in operazioni militari.
- La fine dello Stato jugoslavo. La Jugoslavia, dopo l’assassinio del re Alessandro, si era
staccata dalle sue tradizionali alleanze per riavvicinarsi alla Germania. I dirigenti jugoslavi erano
consapevoli del pericolo che rappresentavano le mire espansionistiche di Hitler per l’indipendenza del
proprio paese. Hitler, volendo attaccare l’URSS, pretese l’adesione al Patto tripartito della Jugoslavia,
che dopo varie esitazioni cedette. Questa notizia suscitò un vivo scontento nell’opinione pubblica
serba, francofila e antitedesca. Ufficiali serbi segretamente sostenuti dai britannici e contrari alla
politica del reggente, si impadronirono del potere, destituirono il principe reggente Paolo e
dichiararono maggiorenne il figlio del defunto Alessandro, Pietro. Pietro II formò un governo di unità
nazionale, prese contatto con gli inglesi e si apprestò anche a firmare un trattato d’amicizia con
l’URSS. La reazione fu immediata e l’aviazione tedesca bombardo Belgrado, mentre da ogni parte le
truppe tedesche penetravano nel territorio. Hitler aveva chiesto a Budapest la sua collaborazione
militare, ma il conte Teleki, che si sentiva ancora molto legato dal trattato d’amicizia precedentemente
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firmato con la Jugoslavia, si mostrò molto restio, decidendo di suicidarsi allorquando seppe che la
Wehrmacht aveva già iniziato a muoversi in territorio ungherese, piuttosto di mancare alla parola data.
Il re Pietro II e il suo governo si rifugiarono a Londra, da dove chiamarono il paese alla resistenza
popolare. Iniziarono così le rivendicazioni separatiste e i disordini nel paese, che venne diviso tra i
suoi vicini. Sotto molti aspetti la nuova situazione corrispondeva alle aspirazioni dei popoli molto più
dell’antico regno unitario di Jugoslavia, ma non c’era da farsi illusioni: la Germania e l’Italia cercavano
di stabilire in quelle regioni la loro egemonia politica ed economica. Alla vigilia dell’attacco contro
l’URSS, le posizioni del Reich e dei suoi alleati si erano considerevolmente rafforzate nell’Europa
danubiana e balcanica.
I paesi dell’Est all’epoca della guerra germano-sovietica (1941-1945).
Il 22 giugno del 1941, le truppe tedesche diedero il via all’operazione Barbarossa, penetrando in
parecchi punti del territorio russo. Lo stesso giorno la Romania, la Slovacchia e la Croazia dichiararono
guerra all’Unione sovietica. Pur tardando, anche l’Ungheria si aggregò a loro. Unica fra gli alleati del
Reich, la Bulgaria rimase neutrale. Tuttavia tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale erano ormai
coinvolti nella guerra e integrati nello sforzo bellico tedesco.
- Gli Stati alleati della Germania. Fu senza dubbi la Romania di Antonescu a manifestare il
maggior zelo per la partecipazione alla guerra contro l’URSS. La politica interna di Antonescu era già
allineata a quella tedesca, soprattutto per quanto riguarda gli ebrei, internati in campi di
concentramento o peggio uccisi nei pogrom. Partecipare a questa guerra per la Romania era soprattutto
un mezzo per recuperare le terre irredente perse nel 1940. Dopo i primi successi, il paese si vide
attribuire i territori sovietici tra il Dnestr e il Dnepr, che formarono la provincia di Transistria. I
nazionalisti romeni ritenevano che quelle terre facessero parte del loro spazio nazionale. La Romania
non si risparmiò nello sforzo bellico, e inoltre inviava alla Germania abbondanti quantità di derrate
alimentari e quasi tutta la produzione di petrolio. Più modesta fu invece la partecipazione ungherese.
Questa guerra non era ben vista nemmeno negli ambienti dell’opposizione, che organizzarono a
Budapest varie manifestazioni a favore della pace, cercando un modo per ritirarsi da una guerra onerosa
e impopolare. La partecipazione militare di Croazia e Slovacchia fu molto ridotta, mentre la Bulgaria si
limitò a mettere la sua economia a servizio dei tedeschi. A differenza dell’Ungheria, che conservò il
suo regime parlamentare, Slovacchia e Croazia uniformarono le loro istituzioni al modello tedesco. In
Slovacchia fu praticata una politica ultranazionalista nei confronti dei cechi e furono prese misure
discriminatorie verso gli ebrei. Tuttavia il regime fu più moderato rispetto a quello di molti dei suoi
vicini, a causa dell’influenza dei princìpi cristiani sui suoi dirigenti. Il regime croato si distinse invece
per il suo carattere brutale e autoritario. Il regime brillò per la sua politica anti-serba e anti-ortodossa. I
corati, oppressi per più di vent’anni dalla dittatura panserba, si presero una crudele rivincita.
- I paesi sottomessi. Al contrario dei paesi alleati al Reich, quelli soggetti ad una vera
dominazione, o perché erano stati incorporati al Reich o perché sconfitti a conclusione di una guerra
sfortunata, avevano una sorte poco invidiabile. Nel marzo 1939 il Protettorato di Boemia Moravia era
stato integrato al Grande Reich Tedesco. Le università, in cui gli studenti non facevano mistero dei loro
sentimenti patriottici, furono chiuse. La Boemia Moravia partecipò intensamente con le sue attività
industriali allo sforzo bellico del Reich e fornì manodopera per le sue industrie. Fino a quel momento la
popolazione era rimasta calma, godendo in cuor suo di essere sfuggita alla sorte della Polonia, ma
l’assassino del Protettore tedesco provocò un’ondata di repressioni che modificò l’atteggiamento della
popolazione. Alcuni villaggi furono rasi al suolo e la popolazione massacrata. Migliaia furono gli
arresti e le deportazioni in Germania: il tempo della “collaborazione” era finito. La Polonia fu trattata
sin dall’inizio come un nazione nemica e sconfitta:governata dalle autorità d’occupazione, i polacchi
persero tutti i loro diritti. I più duramente colpiti furono gli ebrei, ammassati in ghetti poi
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sovrappopolati, poi inviati nei campi di sterminio. In totale furono uccisi 3 milioni di ebrei polacchi. Le
autorità tedesche intrapresero anche la liquidazione delle elites polacche: intellettuali, sacerdoti,
professori, liberi professionisti, artisti, furono internati o peggio giustiziati. La guerra germanicosovietica non produsse cambiamenti e i polacchi poterono notare come la sorte dei loro connazionali
caduti nelle mani dei sovietici non fosse per nulla migliore. Prova fu la scoperta da parte dei tedeschi a
Smolensk, nella foresta di Katyn, di fosse comuni sovietiche in cui nel 1940 furono uccisi migliaia di
ufficiali polacchi. La Polonia partecipò suo malgrado allo sforzo bellico tedesco. Nei Balcani, gli Stati
occupati dai tedeschi e dai loro alleati furono anch’essi preda di uno sfruttamento sistematico delle
risorse. La Serbia si limitò a fornire manodopera e materie prime, ma i suoi mezzi erano limitati dalla
crescente ostilità della popolazione.
Il capovolgimento della situazione a partire dal 1943.
Le sconfitte militari della Germania del 1942-1943, provocate essenzialmente dallo sbarco angloamericano nell’Africa del Nord, e soprattutto la capitolazione delle truppe a Stalingrado, modificarono
completamente l’andamento della guerra.
- Il voltafaccia della Romania e le sue conseguenze. L’esempio del re di’Italia, che aveva
eliminato Mussolini e concluso un armistizio con gli anglo-americani, fece riflettere i dirigenti dei
paesi alleati con la Germania. In Romania gli avversari di Antonescu moltiplicavano gli interventi
presso il re Michele perché si sbarazzasse del dittatore e chiedesse un armistizio agli alleati. I
sostenitori della pace si erano riuniti all’interno di un Fronte democratico nazionale. L’aggravarsi della
situazione militare li portò ad affrettare la loro posizione. Il re Michele decise di agire e Antonescu fu
arrestato in pieno palazzo reale. Le truppe tedesche di stanza nel paese furono internate. Cambiando
campo all’ultimo momento la Romania aveva pensato di essere trattata come un’alleata, ma le truppe
sovietiche che entrarono in territorio la considerarono di fatto come una nazione conquistata.
Nonostante le pressanti richieste del governo romeno, sostenuto dagli anglosassoni, i sovietici
accettarono di firmare molto tempo dopo l’armistizio con la Romania. Il voltafaccia romeno ebbe
subito ripercussioni in Bulgaria. Il Partito comunista aveva rivolto un appello a tutti i partiti
democratici per formare un Fronte della Patria e lottare contro la politica filotedesca. Dalla tragica
scomparsa del re Boris III, attribuita ai tedeschi, i reggenti mantennero ancora una politica germanofila,
ma davanti allo scontento popolare e i successi degli Alleati, fu formato un governo allo scopo di
iniziare le trattative con esso. Il Partito comunista aveva ordinato ai suoi militanti di tenersi pronti per
un’insurrezione generale concertata con i sovietici, che avvenne quando questi invasero il paese.
Nell’insurrezione furono anche catturati i membri del governo, che avevano creduto che cercando di
mantenere il paese estraneo dalla mischia, avrebbero potuto tirarsi fuori senza eccessivi danni. I
sovietici non avrebbero però lasciato stare un paese dall’importante posizione strategica.
- Il fallimento del voltafaccia ungherese. I dirigenti ungheresi cercarono anch’essi di uscire
dalla guerra: speravano in uno sbarco anglo-americano nei Balcani o sull’Adriatico, che avrebbe loro
evitato un confronto diretto con i sovietici. Il governo ungherese cercò di limitare al massimo la
partecipazione ungherese allo sforzo bellico. I tedeschi erano perfettamente al corrente dei negoziati
segreti con gli anglosassoni e decisero di occupare militarmente il paese. Hitler pretese un aumento
della partecipazione e la formazione di un governo più germanofilo, procedendo all’arresto di coloro
che erano conosciuti per la loro ostilità al Reich. Nonostante la formazione di un governo più vicino
alla Germania, le relazioni tra generale tedeschi e ungheresi furono spesso difficili, perché diversa la
concezione della guerra. La presenza dell’esercito tedesco sul territorio ungherese modificò la
situazione degli ebrei, che se sino ad allora erano stati molto più fortunati dei loro compatrioti situati
nei paesi vicini, adesso conobbero anch’essi le sistematiche brutalità tedesche. Davanti al rafforzarsi
dei tedeschi in Ungheria, i partiti d’opposizione si riunirono in clandestinità. In seguito all’armistizio
sovietico-.romeno il governo Horthy mandò in massimo segreto una delegazione all’URSS per ottenere
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un analogo armistizio, che di fatto venne firmato a Mosca. Ma quando la notizia fu ufficializzata, i
tedeschi invasero il palazzo e arrestarono il reggente e i suoi ministri. L’Ungheria aveva fallito per
poco il suo tentativo di rialzarsi dalla guerra.
- La lotta dei popoli contro l’occupante tedesco. Man mano che la sconfitta a breve della
Germania si mostrava all’orizzonte, i diversi movimenti di resistenza formatisi nei paesi occupati
intensificarono le loro azioni. In Boemia-Moravia l’attività dei partigiani fu relativamente ridotta. I
loro interventi erano sabotaggi, attentati isolati contro collaborazionisti e funzionari tedeschi, scioperi.
La resistenza ceca si manifestò veramente solo nelle ultime due settimane di guerra. In Slovacchia la
resistenza si era formata nelle regioni montuose ed era costituita da disertori dell’esercito slovacco,
comunisti locali e antichi autonomisti delusi. I membri del Partito comunista slovacco avevano invece
formato un’organizzazione con lo scopo di liberare il paese e formare uno Stato cecoslovacco nel quale
cechi e slovacchi sarebbero stati trattati in modo uguale. Ma se verso il ‘44 per due mesi i partigiani
slovacchi riuscirono a tenere in scacco parecchie divisioni tedesche, vennero schiacciate dal numero
superiore del nemico. In Polonia la resistenza si organizzò spontaneamente sin dai tempi
dell’occupazione tedesca e riunì la stragrande maggioranza della popolazione. Guidata dal governo in
esilio a Londra, fu sempre molto diffidente verso le proposte avanzate dall’URSS. Nonostante quasi
tutti i prigionieri di guerra polacchi rifiutarono di combattere per l’Armata Rossa, migliaia di soldati e
ufficiali mancavano agli appelli, morti nei campi di concentramento. La resistenza polacca si organizzò
autonomamente dai russi e l’unico governo legale era quello di Londra. Principale strumento d’azione
era l’AK(Armia Krajowa). Accanto a questa resistenza “nazionale” i comunisti polacchi dell’URSS
cercarono di essere presenti sul campo a contrastare l’AK e organizzarono l’AL (Armia Ludowa), ma
non raggiunsero che 1/10 degli uomini dell’AK. L’azione più spettacolare fu quella che si scatenò a
Varsavia l’1 agosto del 1944, quando le truppe sovietiche erano ormai penetrate profondamente in
Polonia. Per più di 60 giorni l’AK, sostenuto dai civili, tenne testa alle truppe tedesche e fece di ogni
casa una vera e propria roccaforte. L’esercito sovietico, nonostante a pochi km dai combattenti, non si
mosse. Anzi venne proibito agli americani di servirsi delle loro piste per paracadutare viveri e armi per
gli insorti. Il 3 ottobre, a corto di munizioni e affamati, gli insorti della città capitolarono. I
sopravvissuti civili furono deportati in Germania e la città distrutta. Quando l’Armata Rossa se ne
impadronì, era solo un ammasso di rovine, totalmente deserta. Era evidente che i sovietici avevano
lasciato schiacciare la resistenza polacca, non di certo per caso, ma per lasciar distruggere l’AK e in
futuro poter costruire un regime favorevole agli interessi dell’URSS. E quando all’inizio del 1945 tutto
il territorio polacco fu occupato dall’Armata Rossa, la resistenza si trovò quasi del tutto annientata. La
resistenza Jugoslava presenta alcune similitudini, ma solo per l’importanza numerica dei suoi
partecipanti e il ruolo decisivo che ebbe nella liberazione del paese. I Cetnik erano la base di un
esercito nazionale che potesse dare aiuto agli Alleati. Agivano soprattutto con azioni circoscritte e di
importanza limitata, allo scopo di evitare alla popolazione rappresaglie, visto che note erano le azioni
punitive sui civili da parte dei tedeschi. I Cetnik non erano l’unico movimento di lotta partigiana in
Jugoslavia. Per iniziativa del Partito comunista jugoslavo clandestino guidato da Tito, si era costituito
un Fronte di Liberazione Nazionale. I partigiani di Tito praticavano essenzialmente una guerra di
logoramento e di disturbo contro l’avversario. All’inizio i due movimenti di resistenza cercarono di
trovare un accordo, che si risolse in un fallimento, a causa di divergenze politiche e nel modo di
condurre la lotta. Anche gli inglesi, dopo i successi di Tito, sostennero solo il Fronte di Liberazione
Nazionale. Mentre conducevano la lotta contro i tedeschi, i combattenti preparavano il futuro statuto
della Jugoslavia: una democrazia socialista nel quadro di uno Stato federale in cui i diversi popoli
avrebbero goduto di eguali diritti. Malgrado le assicurazioni fornite da Tito sull’uguaglianza dei diritti,
i croati - benchè Tito fosse uno di loro - e in misura minore gli sloveni, erano assenti nei movimenti
della resistenza. Per quanto riguarda l’Albania, essa faceva parte dell’impero italiano, di cui gli
albanesi mal sopportavano la massiccia penetrazione. Il governo italiano cercò di accattivarsi
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l’opinione pubblica con la creazione della Grande Albania, ma queste misure non placarono
l’opposizione. Si stavano infatti organizzando varie forme di resistenza, una costituita da antichi
sostenitori di re Zog, l’altra, sotto il Partito comunista, con a capo un giovane intellettuale, Enver
Hoxha. Dopo la sostituzione dell’occupante italiano con quello tedesco, i partigiani di Hoxha
intensificarono i combattimenti e l’ingresso trionfale di quest ultimo a Tirana segnò la conclusione
della lotta per l’indipendenza. La liberazione dell’Albania, come quella della Jugoslavia, era stata
condotta solo dai partigiani, organizzati spontaneamente e indipendenti da direttive esterne.
- La fine della guerra nell’Europa centrale e orientale. All’inizio dell’inverno 1944-1945, i
sovietici erano sul punto di occupare l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la Polonia occidentale ed erano
già consolidati in Bulgaria, Romania e Polonia orientale. Durante i primi tre mesi del 1945, le truppe
tedesche vennero scacciate dagli altri territori dell’Europa orientale. Dopo la presa di Varsavia, la
Polonia occidentale fu occupata dall’Armata Rossa, che penetrò profondamente in Germania. La
Slovacchia venne finalmente liberata e il parlamento slovacco prima di sciogliersi aveva espresso la
speranza che la Slovacchia potesse, in futuro, mantenere la sua indipendenza. Ma il presidente Benes
invase presto il territorio che aveva lasciato nel 1938. La Cecoslovacchia sarebbe stata quella dei cechi
e degli slovacchi, privata delle antiche minoranze nazionali.
Yalta.
Nel maggio 1945, venticinque anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, si voltava una nuova
pagina di storia. Il sogno wilsoniano di un’Europa delle nazioni, in cui tutti i popoli avrebbero dovuto
vivere in pace, era già svanito. La ricostruzione politica e territoriale dell’Europa centro-orientala su
principi diversi di quelli in nome dei quali si era combattuto, aveva condotto ad un’esasperazione degli
antagonismi tra le nazioni e alla ricerca di aiuti esterni che non furono mai disinteressati. Tutta l’area
est-europea era ormai solo una distesa di rovine. Le sorti di questa parte dell’Europa erano nelle mani
delle grandi potenze vittoriose. La Seconda Guerra Mondiale aveva avuto, come preludio, la
conferenza di Monaco, in cui le grandi potenze dell’epoca avevano deciso il futuro della
Cecoslovacchia senza consultarne il governo e le avevano imposto la loro soluzione. Questa guerra si
concludeva con l’applicazione delle decisioni prese nel febbraio del 1945 durante un’altra conferenza
internazionale, quella di Yalta, in cui Stati Uniti, Regno Unito e URSS avevano deciso, sempre
ignorando volontariamente i desideri delle popolazioni, di porre sotto l’influenza sovietica i paesi
dell’Est. Fu così che a Yalta nacque quell’Europa dell’Est quale noi oggi la intendiamo, di cui fanno
parte gli Stati danubiani e balcanici, la Polonia e quella zona, un tempo del Reich, che divenne la
Repubblica Democratica Tedesca. Ormai l’Europa orientale avrebbe vissuto all’ombra di Mosca.
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(Parte quarta)
ALL’OMBRA DI MOSCA
Il nuovo statuto dell’Europa Orientale.
Le vittorie dell’Armata Rossa avevano fatto dell’URSS lo Stato più direttamente interessato dalla
riorganizzazione territoriale dell’Europa orientale. Nel 1945 fu l’Unione Sovietica a far prevalere la sua
volontà nella definizione della pace nell’Est europeo.
La preparazione del futuro statuto dell’Europa orientale.
A partire dall’estate del 1941 l’URSS venne considerata dal Regno Unito e dagli Stati Uniti come un
alleato e un partner a pieno titolo nella lotta contro le potenze dell’Asse. Nei loro primi incontri con gli
Alleati occidentali, i dirigenti sovietici fecero capire chiaramente che non intendevano rinunciare ai
territori che erano stati loro assegnati dal patto germanico-sovietico. Alla conferenza di Teheran, che
riunì Churchill, Roosvelt e Stalin, si discusse sul problema tedesco e tutti si trovarono d’accordo sulla
necessità di smembrare la Germania. Si parlò anche dell’Europa dell’Est. Stalin si vide confermare
dagli occidentali il possesso degli Stati baltici e ripropose la questione delle frontiere polacche.
All’indomani della conferenza, i russi conseguirono una seconda vittoria, diplomatica: la firma, a
Mosca, di un trattato di amicizia con il governo cecoslovacco in esilio, in cui Benes insistette con Stalin
perché i sovietici fossero presenti nell’Est Europa. Le vittorie sovietiche a partire dall’inizio del 1944,
l’occupazione della Bulgaria, Romania e di una parte della Polonia condussero presto gli Alleati a
cedere a tutte le richieste di Mosca concernenti l’Est europeo. La conferenza di Yalta definì prima di
tutto la sorte della Germania, il cui territorio fu diviso tra le potenze vittoriose in zone d’occupazione.
Per la Polonia ci si conformò al già citato piano sovietico. Tuttavia Churchill ottenne che fosse formato
un governo polacco di unità nazionale, allo scopo di preparare le elezioni da cui sarebbe uscita
l’Assemblea che avrebbe organizzato la futura Polonia. A Yalta i “grandi” si erano divisi l’Europa. La
conferenza che si tenne a Potsdam da metà luglio a inizio agosto del 1945 completò e confermò le
disposizioni di Yalta. Ancora una volta, la sorte delle popolazioni dell’Europa orientale era stata
stabilita senza consultare né quest’ultima né i suoi rappresentanti.
Il nuovo quadro territoriale dell’Europa orientale.
- Le sanzioni contro i vinti. Malgrado il loro voltafaccia alla fine della guerra, la Bulgaria e la
Romania furono considerata, come l’Ungheria, Stati vinti. In primo luogo, i tre ex alleati della
Germania dovettero versare alle vittime delle loro aggressioni risarcimenti in merci o in oro. I
risarcimenti erano un mezzo indiretto usato dai sovietici per indebolire maggiormente i paesi che
occupavano e crearvi uno stato di indigenza. Tutti i beni tedeschi che si trovavano sul territorio degli
Stati sconfitti diventavano proprietà dell’URSS. Grazie a questi beni tedeschi confiscati, i sovietici si
trovarono quindi a controllare importanti settori dell’economia dei paesi suddetti. Era anche previsto
che tali nazioni fossero poste sotto il controllo dell’esercito. Dopo la convocazione di parecchie
conferenze, gli Stati sconfitti vennero inviati a Parigi per firmarvi i trattati di pace. La Bulgaria se la
cavò relativamente bene sul piano territoriale. L’Ungheria ritrovò le sue frontiere del Trattato di
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Trianon. La Romania riebbe la parte settentrionale della Transilvania, ma dovette rinunciare
definitivamente alla Bessarabia e alla Bucovina.
Gli Stati vincitori.
- Le nuove frontiere della Polonia. Per gli Alleati occidentali, le nuove frontiere dello Stato
polacco erano solo provvisorie e furono considerate “poste sotto amministrazione provvisoria polacca”.
Per i sovietici come per i polacchi, invece, si trattava né più né meno di frontiere definitive. Varsavia
veniva a godere di grandi vantaggi: un’ampia costa marittima dalla foce dell’Oder alla Vistola; l’intera
Slesia, con il bacino carbonifero più grande d’Europa dopo quello dell’URSS. In cambio a oriente la
Polonia rinunciava alle regioni poste ad est della linea Curzon, tranne la città di Przemysl. Spostato
verso ovest e con una capitale decentrata, lo Stato polacco disponeva di un’economia più equilibrata,
con un importante potenziale industriale costituito dalla Slesia e da un accesso al mare più esteso del
ristretto corridoio di Danzica.
- L’Albania e la Jugoslavia. Se l’Albania ritrovò le frontiere del 1939, la Jugoslavia beneficiò
di alcuni accomodamenti dal lato delle sue frontiere occidentali: l’Italia dovette cederle l’Istria, tranne
la città di Trieste, parte della Venezia Giulia e la città di Fiume, diventata Rijeka.
- L’URSS. A trarre grandi vantaggi dalla guerra fu l’Unione Sovietica, che spostò di molto le
sue frontiere verso ovest, ottenendo le repubbliche baltiche, il nord dell’ex Prussia. Questa avanzata
avvenne anche a spese dei paesi ufficialmente alleati: nonostante le promesse fatte a Benes, pretese da
Praga la cessione della Rutenia subcarpatica. Con tale regione, l’Unione Sovietica poneva fine
all’esistenza di una frontiera comune tra Romania e Cecoslovacchia. Era una posizione strategica di
fondo: sul piano etnico, la religione, a maggioranza rutena, presentava una cospicua minoranza
ungherese.
- Minoranze nazionali e migrazioni di popoli. La nuova suddivisione politica dell’area
orientale europea avrebbe potuto aumentare il numero delle minoranze nazionali. Le grandi potenze
che l’organizzarono presero coscienza di questo problema. Per evitare un simile rischio, i paesi furono
autorizzati ad espellere le antiche popolazioni. Le vittime di tali migrazioni furono principalmente i
tedeschi, polacchi e ungheresi. Le minoranze tedesche erano quasi del tutto scomparse dopo queste
migrazioni di popoli, che sarebbe più giusto definire deportazioni. Milioni di uomini, donne e bambini,
nella maggio parte dei casi a piedi e d’inverno, affamati e sprovvisti di tutto, fecero in tal modo
centinaia di chilometri.
La nascita delle democrazie popolari.
Dopo il crollo militare del Reich e dei suoi alleati, il problema più importante che sin da subito si pose,
fu quello di colmare il vuoto politico e di formare governi in grado di farsi carico della ricostruzione
politica, economica e morale di queste nazioni.
Un ambiente favorevole ai comunisti.
Uno dei dati di cui bisogna tener conto per comprendere in che modo i comunisti riuscirono a
impadronirsi del potere, è la presenza dell’Armata Rossa ovunque e della resistenza, massicciamente
infiltrata dai comunisti. Solo Albania e Jugoslavia non ospitavano truppe sovietiche, poiché i
combattenti della resistenza, in maggioranza comunisti, le avevano liberate e le gestivano. La presenza
dell’Armata Rossa influenzò la costituzione di nuovi gruppi dirigenti negli Stati d’Europa orientale.
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Nei paesi sconfitti, l’esercito sovietico era una forza d’occupazione e il capo locale poteva, con la sua
influenza, sostenere o destituire le autorità locali e manovrare la politica interna del paese. Inoltre
qualunque azione contraria agli interessi della politica russa poteva, in modo legale, essere presentata
come “azione sovversiva anti-sovietica”. Tuttavia procedimenti analoghi furono messi in pratica anche
nei paesi considerati amici: i sovietici volevano eliminare uomini politici di valore, popolari e ben noti
per la loro ostilità ai comunisti. Altro mezzo usato nei paesi occupanti fu quello di tollerare, se non
incoraggiare, le malversazioni praticate da alcune unità dell’Armata Rossa nei confronti della
popolazione civile. Tali pratiche violente promanavano da una volontà di spezzare il morale delle
popolazioni, di uccidere qualsiasi tentativo di resistenza, allo scopo di far accettare passivamente i
cambiamenti che si stavano preparando. Anche i partigiani, in Cecoslovacchia e Jugoslavia, si
lasciarono andare a violenze contro le persone. Lo scopo reale dei sovietici e dei partigiani, tollerando o
perpetrando queste vessazioni, era di creare un clima di terrore propizio a far riflettere le popolazioni di
collaborare con loro, unico modo, per mettere fine allo stesso clima di violenza. Altro elemento che
favorì il successo dei comunisti furono le condizioni rovinose in cui era l’economia dei paesi
dell’Europa dell’Est all’indomani della guerra. Le perdite umane erano state considerevoli; il
potenziale industriale e le vie di comunicazione erano in gran parte inutilizzabili e il potenziale agricolo
era gravemente compromesso nei luoghi che erano stati campo di battaglia. La scarsità di cibo è un
dato importante, poiché una abile propaganda poteva addossare le responsabilità ai grandi proprietari o
attribuire un approvvigionamento dei mercati alla generosità dei liberatori sovietici. Nei paesi vinti,
l’assenza di uomini, prigionieri di guerra, morti combattendo o trasferiti, avevano creato un tale
mutamento nei dati sociologici, che le condizioni per la costituzione di una vita politica normale ne
risultavano sensibilmente alterate. Talmente stremate, moralmente e fisicamente, da cinque terribili
anni di guerra appena vissuti, le popolazioni civili erano pronte ad accettare qualunque cambiamento
che sembrasse comportare il ritorno a normali condizioni di vita.
La costituzione di nuovi regimi.
Le trasformazioni politiche che si produssero dal 1944 al 1948 nell’Europa orientale portarono tutte
all’ascesa al potere del Partito comunista e alla formazione di democrazie popolari. Tuttavia all’inizio,
ad eccezione della Cecoslovacchia, dove già prima della guerra, il Partito comunista era molto forte, gli
altri partiti analoghi erano minoritari dovunque nell’Est europeo. Malgrado questi ostacoli, i comunisti
si ritrovarono padroni del potere dovunque. Il processo della presa di potere si attuò secondo schemi
diversi, a seconda dei paesi interessati e in un lasso di tempo più o meno lungo.
Il metodo sbrigativo.
- La Bulgaria. La Bulgaria presentava un interesse non trascurabile per l’Unione Sovietica. Si
trattava di un paese slavo tradizionalmente russofilo. Grazie al Fronte della Patria, che avevano
formato, i comunisti avevano assunto la direzione dei movimenti di resistenza. Quando le truppe
sovietiche penetrarono in Bulgaria, il Fronte della Patria fece scoppiare in tutto il paese un’insurrezione
generale e si impadronì del potere. Il governo di Georgiev, ex militante di estrema destra e adesso
schieratosi con i comunisti, firmò immediatamente un armistizio con il comandante dell’esercito
sovietico e decise di far partecipare le truppe bulgare alle operazioni militari contro la Germania. Il
nuovo governo procedette immediatamente a un’epurazione radicale e sbrigativa. Reggenti, deputati
dei partiti borghesi furono arrestati. In vista delle elezioni stabilite per la fine del 1945 avevano così
eliminato la destra conservatrice e i capi dei partiti borghesi. Per le elezioni, i partiti non comunisti si
erano divisi in due tendenze: una favorevole alla formazione di una lista unica sotto la sigla del Fronte
della Patria, l’altra che proponeva liste separate. L’orientamento unitario ebbe il sopravvento e le liste
si riunirono attorno a Nikolaj Petkov, conseguendo successo alle elezioni. Il governo si dedicò con
energia a riformare le istituzioni: la monarchia fu abolita e il comunista Kolarov diventava il primo
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presidente della repubblica. Eliminato Petkov, che godeva di una certa popolarità nelle campagne,
anche la Bulgaria, con la sua nuova Costituzione, divenne una democrazia popolare.
- L’Albania. In Albania, la costituzione della democrazia popolare fu la conseguenza diretta
della vittoria del Fronte di Liberazione Nazionale. Fu anche costituito un governo provvisorio, il
Comitato antifascista, presieduto da Enver Hoxha, che dopo l’espulsione delle ultime truppe tedesche,
controllava tutto il paese. I comunisti al potere, diedero sin da subito caccia agli oppositori nazionalisti
e a quanti sostenevano il re Zog, che vennero subito giustiziati. Avendo eliminato gli oppositori, Hoxha
indisse le elezioni: vinse la lista unica da lui guidata. La Costituzione sancì tali trasformazioni, facendo
dell’Albania una repubblica popolare.
- La Jugoslavia. La vittoria dei combattenti della resistenza pose Tito il Fronte di Liberazione
nazionale in una posizione favorevole per impugnare le redini della conduzione del paese.
Conformemente all’accordo concluso con i rappresentanti del re, secondo il quale al momento della
liberazione il paese diventasse uno Stato democratico e federale, Tito formò un governo di unità
nazionale al quale presero parte soprattutto suoi amici, comunisti come lui e provenienti dalle diverse
nazionalità jugoslave. I partigiano di Tito controllavano le amministrazioni locali, epurando in alcuni
luoghi i funzionari pubblici ed esercitando una giustizia sbrigativa e sommaria nei confronti dei loro
avversari politici. Furono inoltre proibiti i giornali non comunisti e le riunioni dei movimenti non
comunisti. Le elezioni, alle quali parteciparono tutti i cittadini dai 18 anni in su, maschi e femmine,
furono vinte dal Fronte Popolare, che aveva sostituito il Fronte di Liberazione Nazionale, condotto da
Tito. La prima decisione fu la proclamazione della repubblica popolare federativa di Jugoslavia.
All’epoca Tito era considerato nel mondo comunista, come il più fedele discepolo di Stalin. E lo era
soprattutto in materia di purghe ed eliminazione dei suoi avversari. Soprattutto i Croati furono
perseguitati, da lui che aveva origini comuni, e anche i Cetnik, che avevano combattuto i tedeschi sin
dall’inizio e che Tito accusò di collaborazionismo. La Chiesa cattolica venne anch’essa duramente
colpita e centinaia di sacerdoti trovarono la morte.
- Il gioco di prestigio polacco. Allo scopo di intorbidare le acque, i sovietici avevano insediato
a Lublino un Comitato di Liberazione nazionale, formato da comunisti e simpatizzanti, che si impose
come il solo governo legale della Polonia. L’abilità dei dirigenti comunisti polacchi e dei sovietici fin
dall’epoca di Lublino era consistita nel provocare la formazione di partiti politici apparentemente non
comunisti, ma diretti da uomini devoti ai comunisti. I nomi di queste nuove formazioni politiche
somigliavano talmente a quelle dei partiti tradizionali da trarre in inganno. Così risultava facile
confondere la popolazione. Il governo di unità nazionale avrebbe dovuto organizzare le elezioni nel più
breve lasso di tempo possibile, ma ne spostò la data. Si sforzò di formare una lista unica, sotto la
direzione del Partito operaio polacco - ovvero Comunista -. Tutto era già stabilito. Nel corso dell’anno
precedente il governo paralizzò i partiti tradizionali, sabotandone le riunioni pubbliche e diffamando i
membri del governo di Londra, che avevano, vista la situazione, rifiutato di rientrare in Polonia. La
campagna elettorale fu molto aspra. I partiti che non facevano parte del Blocco democratico dei
comunisti dovevano presentare delle firme di elettori per ciascuna circoscrizione affinché la loro
candidatura fosse valida, ma le autorità, depennando più di un milione di aventi diritto al voto in modo
arbitrario, fecero sì che le firme degli elettori fossero considerate nulle. In simili condizioni, le elezioni
del 1947 garantirono la totale vittoria al Blocco democratico, che ottenne il 90% dei voti. Gli interventi
di denuncia che seguirono, riguardo alla conduzione delle elezioni, vennero censurati.
Il metodo progressivo.
- Dalla monarchia costituzionale a quella popolare: il caso della Romania (1944-1948). La
Romania costituì un caso particolare: il passaggio dal regime di Antonescu all’arrivo al potere dei
comunisti, si svolse in forme apparentemente democratiche. Il governo formato, all’indomani
dell’eliminazione di Antonescu, doveva fronteggiare varie difficoltà: massiccia presenza dell’Armata
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Rossa, difficoltà economiche, penuria alimentare, agitazioni contadine e operaie. Inoltre aumentarono i
membri e l’influenza del Partito comunista, dopo il rientro da Mosca degli antichi dirigenti lì in esilio, e
la liberazione da parte dei russi prigionieri di guerra romeni accuratamente scelti e indottrinati.
Nonostante le loro reticenze, i partiti tradizionali si videro associare ai comunisti e alle loro
organizzazioni di massa. Come in Polonia, essi diedero vita, all’interno dei partiti non comunisti, a
movimenti dissidenti, allo scopo di indebolirli e di confondere la popolazione. Padroni dell’apparato
giudiziario, i comunisti controllavano molto da vicino l’epurazione, colpendo soprattutto i
“collaborazionisti” che non volevano schierarsi al nuovo regime. Dopo la successione di tre governi e
l’eliminazione, da parte dei comunisti, di ogni tipo di opposizione attraverso arresti, tramite brogli
elettorali, entrava in funzione il governo Groza, dominato dai comunisti. La conclusione della lunga
marcia verso il potere durò fino al 1947. Il re Michele, sempre più isolato, era partito per Londra e i
romeni lo informarono che il suo ritorno non era gradito. Dopo che infatti il re tornò nel suo paese,
dovette lasciarlo insieme alla famiglia. Nuove elezioni attribuirono al fronte patriottico la maggioranza
dei mandati e la nuova Costituzione sancì la nascita della repubblica di Romania.
- L’illusione democratica in Ungheria. In Ungheria i comunisti erano piuttosto deboli e i
sovietici avevano permesso che si sviluppasse un esperimento democratico di breve durata, che dopo
essersi dimostrato sfavorevole per gli interessi dei russi, venne brutalmente interrotto. Le prime
elezioni del dopoguerra diedero la vittoria al partito più moderato del Fronte nazionale, quello dei
Piccoli proprietari. Il successo di questo partito era dovuto a fatto che si trattava dell’organizzazione
politica autorizzata meno di sinistra. Ma ciò che gli elettori ignoravano era che nel partito si erano già
infiltrati elementi filocomunsti. Venne intrapresa una enorme epurazione: ad essere colpiti, oltre che i
ministri, furono anche l’amministrazione, la polizia, l’esercito. I Piccoli proprietari non fecero nulla
per opporsi alla situazione: erano convinti che un trattato di pace avrebbe sistemato le cose. Benchè
avessero contemporaneamente la presidenza della repubblica, quella del Consiglio e la maggioranza dei
seggi in Assemblea, i Piccoli proprietari vedevano rubarsi mano a mano il potere. Approfittando dello
scontento generale causato da difficoltà economiche, il Blocco di Sinistra moltiplicò le manifestazioni
contro il partito di maggioranza. I Piccoli proprietari, così come avevano progettato i comunisti,
preoccupati di mantenere la coalizione al governo, epurarono i membri considerati anti-comunisti. Il
disegno del Blocco di Sinistra si stava realizzando. I giornali ostili ai comunisti si videro negare la carta
e vennero sospesi. Fu l’inizio dell’”operazione salame”, così definita in quanto i comunisti arrivarono
al potere affettando l’opposizione un pezzetto alla volta. Una polizia politica, l’AVO, scoprì un
“complotto” in cui erano implicati i maggiori esponenti dei Piccoli proprietari, molti dei quali vennero
arrestati, dimessi, e l’effettivo del partito maggioritario scese, facendo loro perdere la maggioranza
assoluta. Alle nuove elezioni, il clima era molto confuso. Tra complotti presunti o reali, la negazione
del diritto al voto per migliaia di elettori, leggi elettorali che sfavorivano i partiti non compresi nel
Fronte Nazionale, i Piccoli proprietari risultarono i grandi sconfitti di queste elezioni. Tuttavia il Fronte
Nazionale rimaneva ancora la forza dominante, ma al suo interno era il Partito comunista a delinearsi
come il gruppo più numeroso. Benchè lontani dall’ottenere la maggioranza, le loro carte da giocare
erano la presenza dell’Armata Rossa e la divisione dei loro avversari. Comunisti e socialisti si fusero
nel Partito dei lavoratori ungheresi. L’unico ostacolo della costituzione della democrazia popolare era il
presidente della repubblica, Tildy, dimesso con un pretesto dal Partito dei lavoratori ungheresi, che lo
sostituirono con il loro presidente Szakasits. La pseudoesperienza democratica era durata poco.
- Benes e i comunisti. Come la Polonia, la Cecoslovacchia aveva conservato per tutta la durata
della guerra un governo in esilio a Londra, diretto dal presidente della repubblica Benes, ma aveva
scelto una politica di intesa con i sovietici, concretizzata a Mosca con un trattato di amicizia e alleanza
fra i due paesi. Rientrato in Cecoslovacchia, Benes nominò capo del governo il socialdemocratico
Fierlinger. Il governo Fierlinger pubblicò il Programma di Kosice, documento che prevedeva il
mantenimento dell’alleanza con l’Unione sovietica, la punizione per i traditori e i collaborazionisti, la
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concessione di uno statuto particolare alla Slovacchia e la nazionalizzazione delle banche, misure,
queste, applicate appena il governo si insediò. Vittime delle epurazioni furono i dirigenti delle
minoranze tedesche e ungheresi, i membri dell’amministrazione slovacca, la magistratura e la polizia, il
che permise ai comunisti di mettere dappertutto uomini di loro fiducia. Alle elezioni che ebbero luogo
nel 1946, i comunisti ottennero il maggiore successo. Il Partito comunista era diventato la prima forza
politica del paese, in particolare nelle regioni ceche, dove controllavano più della metà dei consigli
locali, mentre in Slovacchia la loro influenza era più limitata. Fu Klement Gottwald a formare il nuovo
governo. I comunisti disponevano di elementi fedeli in tutti i partiti in cui si erano a poco a poco
infiltrati. Ciò comportò una presa di coscienza del pericolo nei dirigenti dei partiti borghesi. Le prime
tensioni all’interno della coalizione governativa si presentarono quando si trattò di decidere se la
Cecoslovacchia avrebbe partecipato o meno alla conferenza preparatoria per l’applicazione del piano
Marshall. Gottwald suggerì di porre questa decisione all’approvazione di Mosca, che aveva rifiutato il
progetto. I dirigenti sovietici fecero chiaramente sapere che l’accettazione del piano Marshall sarebbe
stata considerata dall’URSS come un atto ostile nei suoi confronti. Il governo di Praga e Benes si
allinearono sulle posizioni sovietiche e rifiutarono l’offerta americana. L’atteggiamento del Partito
comunista si inasprì ulteriormente allorquando il Partito socialdemocratico si rifiutò di fondersi ad esso.
L’evoluzione della situazione provocò una crescente inquietudine negli ambienti non comunisti, tanto
più che erano previste di lì a un mese delle elezioni generali. I partiti borghesi decisero di
contrattaccare e dimettersi in blocco, sperando che Benes rifiutasse questa loro iniziativa e che il
governo Gottwald si sarebbe dimesso. Ma così non accadde. La tensione raggiunse il suo culmine
quando a Praga migliaia di militanti comunisti pretesero che Gottwald rimanesse capo del governo.
Benes cedette: il Colpo di Praga era riuscito, con la complicità di Benes. La folla delle strade, armata
dal Partito comunista, aveva imposto la propria legge. Il presidente Benes si dimise, malato da molto
tempo, e l’Assemblea elesse all’unanimità Gottwald presidente della seconda repubblica cecoslovacca,
che era diventata anch’essa una democrazia popolare.
- La nascita della RDT. L’assenza di prigionieri di guerra, che saranno liberati solo a partire
dal 1947, la massiccia presenza dell’esercito sovietico, lo sconforto della popolazione civile in un paese
devastato dai bombardamenti, il peso della disfatta, tutto ciò aveva creato condizioni che gli occupanti
seppero abilmente sfruttare. Il regime nazionalsocialista aveva eliminato ogni partito politico e i
sovietici ebbero completa libertà d’azione. Inoltre i comunisti tedeschi rifugiatisi a Mosca arrivarono a
Berlino e si dedicarono attivamente alla ricostruzione del partito. I sovietici permisero la creazione di
un certo numero di partiti politici: oltre a quello comunista, quello socialdemocratico, quello
democristiano e quello liberale. Tutti decisero di formare un fronte unito dei partiti antifascisti e
democratici, allo scopo di lottare contro le vestigia del nazismo, per la ricostruzione del paese su basi
democratiche. Furono costituite nuove circoscrizioni amministrative, i Laender, e nacque la SED, il
Partito socialista unificato di Germania, fusione di comunisti e socialdemocratici. La guerra fredda, il
deteriorarsi dei rapporti tra l’URSS e le potenze occidentali, la decisione dei sovietici di sbarrare le vie
terrestri d’accesso a Berlino, tutto ciò accelerò il processo di costituzione di uno Stato tedesco orientale
integrato nell’Europa dell’Est. Una riunione del Congresso del popolo elesse, il 7 ottobre 1949, il capo
provvisorio della DDR, la Repubblica democratica Tedesca. Con l’elezione di Grotewhol, la divisione
della Germania era ufficializzata.
L’epoca stalinista (1948-1953).
Mosca e i paesi dell’Est europeo.
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- Il rinsaldarsi dei legami con le democrazie popolari. La costituzione dei regimi di
democrazia popolare nei paesi dell’Europa dell’Est coincise con l’epoca della guerra fredda. L’accordo
tra gli Alleati della IIGM, a partire dalla fine del 1946 lasciò spazio a un deterioramento e
raffreddamento delle relazioni tra il Blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti, e il Blocco sovietico,
guidato dall’URSS, le cui differenze fondamentali stavano nelle concezioni politiche ed economiche
che separavano il sistema liberale da quello socialista. Il successore del presidente Roosvelt, Truman,
non sembrava disposto come il suo predecessore ad accordare concessioni supplementari ai sovietici.
Ben presto le potenze occidentali ebbero l’impressione che a Yalta, Stalin si fosse fatto gioco di loro.
Ritenendo l’Europa dell’Est indispensabile alla sua sicurezza, l’URSS la isolò dal mondo esterno: i
dirigenti sovietici proibirono ai paesi orientali qualunque accordo politico ed economico diretto con gli
Stati occidentali. Mentre fino ad allora questi ultimi Stati avevano realizzato la maggior parte degli
scambi commerciali con l’Europa dell’Est, adesso era l’URSS loro principale cliente e primo fornitore.
Agli accordi economici si unirono trattati di alleanza, amicizia e reciproca assistenza, che rafforzarono i
legami politici tra l’URSS e ognuno dei paesi dell’Est, ma anche tra ogni Stato del Blocco sovietico. Lo
scopo perseguito era quello di costruire un insieme di paesi solidali tra di loro e alleati in modo
indefettibile con l’Unione Sovietica. A quest’epoca, solo la Jugoslavia di Tito era agli occhi di tutti lo
Stato più ideologicamente e politicamente vicino all’URSS. Ma presto il Kominform avrebbe
condannato la politica di Tito e avrebbe ingiunto al Partito comunista jugoslavo di cambiare
orientamento.
- Lo scisma jugoslavo. La rottura dei rapporti, nell’estate del 1948, tra la Jugoslavia e il blocco
sovietico costituì la prima seria crisi che colpì il mondo socialista. I dirigenti di Mosca trovarono in
alcuni comportamenti di Tito motivi di inquietudine. Egli, per il fatto che i suoi eserciti avevano
liberato da soli la maggior parte del territorio nazionale, si sentiva meno dipendente nei confronti dei
sovietici rispetto agli altri paesi dell’Est. La situazione si complicò quando Tito progetto di creare una
Federazione balcanica che riunisse attorno alla Jugoslavia l’Albania e la Bulgaria. Per quanto
inizialmente intercorressero buoni rapporti tra la Jugoslavia e l’Albania, presto i dirigenti di Tirana
ebbero l’impressione che Tito volesse fare dell’Albania la settima repubblica della federazione
Jugoslava. Enver Hoxha decise di avvertire Mosca delle pretese di Tito. L’URSS era maggiormente
preoccupata dal momento in cui Belgrado aveva mire espansionistiche anche nei confronti della
Bulgaria. Per Mosca era ormai troppo, e soprattutto, era una minaccia alla sua egemonia. La frattura si
stava pian piano mostrando, tanto più che Tito era fermo nelle sue decisioni e in una lettera inviata ai
dirigenti del partito politico affermava che l’amore per la sua patria non pregiudicava in nessun modo
quello per l’URSS. La prima manifestazione pubblica della crisi si manifestò quando, il giorno del
compleanno di Tito, né l’URSS né l’Albania gli inviarono i tradizionali auguri. Al momento della sua
riunione, i membri del Kominform denunciarono la politica nazionalista di Tito e invitarono i “veri
comunisti” di Jugoslavia a imporre una nuova linea politica. La Jugoslavia veniva esclusa dal
Kominform e da parte sua Tito respingeva ogni accusa di cui era stato oggetto il suo partito. Il colpo
militare contro Tito, ultima carta per l’URSS, non fu realizzato. La Jugoslavia fu subito isolata e i paesi
fratelli le imposero un blocco economico. Parallelamente Mosca rafforzò il suo controllo nei paesi
dell’Est rimasti fedeli, poiché non intendeva lasciar sviluppare una nuova esperienza jugoslava.
L’evoluzione interna delle democrazie popolari nell’epoca stalinista (1948 - 1953).
- L’organizzazione dello Stato. A partire dal 1948, la democrazia popolare era stata realizzata
in tutta l’Europa orientale. Le nuove Costituzioni erano ispirate a quella sovietica del 1936. Fu quella
jugoslava ad avvicinarsi di più a quella russa, poiché di carattere federalista: il territorio era diviso in
sei repubbliche federate e due province autonome, proprio come in URSS; inoltre l’Assemblea
popolare era bicamerale: da un lato il Consiglio Federale, dall’altro il Consiglio dei Popoli, che
rappresentava le diverse nazionalità. Nelle altre democrazie popolari unitarie e non federate, il potere
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competeva ad un’Assemblea unica, e anche al governo e al Presidium da lei eletti (così come in Unione
Sovietica). Tutte queste Costituzioni affermavano che la democrazia popolare fosse lo Stato degli
operai e dei contadini lavoratori e la maggior parte di esse menzionava chiaramente il ruolo dirigente
del Partito comunista, costantemente in contatto con il Partito comunista sovietico. Vero detentore del
potere era il segretario generale del Partito comunista, che a volte univa questa funzione a quella di
capo del governo o capo di Stato. Il potere assoluto esercitato dallo Stato comunista si appoggiava
sull’esistenza di una polizia politica onnipotente, un vero Stato nello Stato, incaricata di braccare ogni
avversario, sia interno che esterno al partito. L’onnipotenza della polizia politica fomentò il clima di
diffidenza e delazione a tutti i livelli della società.
- La lotta contro la Chiesa. L’atteggiamento del potere politico nei confronti della religione e
della Chiesa fu diverso a seconda dei paesi: in Bulgaria e Romania, di maggioranza ortodossa, il nuovo
potere si servì del tradizionale odio per Roma e della necessità di seguire il patriarca di mosca, fedele al
governo sovietico. La Chiesa uniate fu soppressa e subì persecuzioni, continuando la sua attività
clandestinamente. La Chiesa cattolica, grazie ai suoi legami con Roma, costituiva una forza
considerevole. Essa non era attaccata ufficialmente in quanto tale, benchè col pretesto di
“collaborazionismo” ne venissero eliminate le personalità di primo piano. Le prime misure che
colpirono direttamente la Chiesa cattolica nei paesi in cui essa era maggioritaria furono la
nazionalizzazione degli istituti scolastici gestiti dalla Chiesa, lo scioglimento delle associazioni
cattoliche e dei movimenti, sia di giovani che di adulti. Tutte queste misure provocarono proteste alle
quali il potere reagì scatenando violenti attacchi sulla stampa contro il Vaticano. Le proteste pubbliche
della Chiesa cattolica contro gli attacchi alla libertà religiosa, gli abusi del regime, scatenarono
persecuzioni fisiche contro un certo numero di prelati. Le alte gerarchie ecclesiastiche non furono le
sole vittime di queste persecuzioni fisiche: il basso clero fu ovunque sottoposto a ogni tipo di
vessazione, sacerdoti furono arrestati e seminari chiusi. Lo Stato si assicurò il controllo della Chiesa
tramite gli Uffici per gli affari ecclesiastici, creati per controllare tutte le assegnazioni e le nomine di
sacerdoti decise dai vescovi ancora in attività. Le Chiese protestanti conobbero minori difficoltà, tranne
che della RDT, in cui la maggioranza protestante poteva rappresentare una forza d’opposizione. Dove
invece i protestanti non erano numerosi, lo Stato li pose addirittura a capo degli Uffici per gli affari
ecclesiastici nei paesi a maggioranza cattolica.
- Le dispute intestine. A seguito dello scisma jugoslavo i dirigenti invitarono i vari paesi
comunisti a raddoppiare la vigilanza contro coloro il cui comportamento poteva essere interpretato
come favorevole a Tito. Un clima di diffidenza si stabilì a tutti i livelli del partito. Migliaia di militanti
vennero espulsi, ufficialmente perché sostenitori di Tito, ma quasi sempre per suscitare riflessione a
quanti potessero essere tentati da idee indipendentiste. La Jugoslavia non fu risparmiata da tali pratiche,
lì si cercavano i filosovietici! Ciò che attirò maggiormente le masse furono i grandi processi, trasmessi
anche per radio, durante i quali i dirigenti comunisti di alto livello venivani accusati di vari crimini e
pallidi, confessavano i crimini di cui erano accusati e altri ancora. Esempio di processo-spettacolo per
impressionare più profondamente la popolazione fu quello dell’ungherese Rajk. L’accusa era quella di
essere complice di quel Tito che ha fatto della Jugoslavia un satellite degli imperialisti. Tali accuse
erano ancora più incredibili in quanto proprio Rajk aveva negli anni precedenti svolto un ruolo decisivo
nell’arrivo al potere dei comunisti. Rajk fu condannato a morte e giustiziato insieme ai suoi compagni.
Ovunque, le vittime di tutte le purghe avevano in comune il fatto di essere più nazionali, meno fedeli a
Mosca di coloro che li eliminarono. Alcuni erano ebrei ed avevano combattuto nella resistenza interna
o all’estero. Proprio per i contatti che avevano potuto avere all’estero, erano per il Cremlino, meno
sicuri. E, paradossalmente, saranno più tardi circondati da un’aureola di martirio, come se non fossero
che le vittime più famose di un sistema repressivo che avevano contribuito a creare.
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Le trasformazioni economiche e sociali. Fin dal termine della guerra, i governi nell’Europa centrale
procedettero alle prime riforme strutturali, che dovevano portare alla costruzione di un’economia
socialista pianificata. Le prime misure adottate avevano come scopo l’eliminazione definitiva del
latifondo privato. In un primo tempo, le leggi di riforma agraria fissarono un limite massimo alla
dimensione e all’estensione delle proprietà terriere, che variava da un paese all’altro. Quando i regimi
di democrazia popolare si furono definitivamente insediati, i dirigenti incoraggiarono i contadini a
riunirsi in fattorie collettive, secondo il modello dei Kolkhoz sovietici. La comunione della terra, basata
in teoria sulla libera adesione degli agricoltori, fu realizzata, come in URSS negli anni trenta, con
metodi fortemente coercitivi. Negli altri settori dell’economia, le trasformazioni furono molto più
radicali. Si era già proceduto alla nazionalizzazione delle banche e delle attività con un certo numero di
dipendenti, delle miniere, dei trasporti e delle industrie di base. Queste trasformazioni portarono uno
sconvolgimento delle strutture sociali. Le libere professioni vennero statalizzate. Inoltre, per meglio
cancellare il passato e aprire alle classi sociali emergenti alcune professioni considerate nobili, gli
istituti di istruzione superiori vennero riservati quasi esclusivamente agli studenti provenienti dalle
classi operaie e contadine. Dopo i primi piani a breve termine, che miravano alla ricostruzione delle
economie rovinate dalla guerra, quelli quinquennali furono applicati ovunque a partire dal 1950. La
priorità fu data all’industria pesante, a spese dei beni di consumo. Quasi ovunque gli operai
diventarono più numerosi dei contadini. La volontà di sviluppare ad ogni costo l’industria pesante rese
necessari investimenti massicci, realizzati a prezzo di pesanti sacrifici da parte delle popolazioni. La
produzione di beni di consumo, volontariamente sacrificata, si tradusse nell’insufficienza di
approvvigionamento del mercato per certi prodotti di uso corrente. Lo scontento era sempre più diffuso
e aspettava solo la giusta occasione per manifestarsi.
L’Europa orientale di fronte alla destalinizzazione (1953-1968).
La morte di Stalin, il 5 marzo 1953, fu la prima grande prova con la quale dovettero misurarsi i
dirigenti di questi paesi. Dopo la sua morte, ci si impegnò a seguire con la stessa docilità le istruzioni
provenienti dai nuovi capi del Cremlino. I nuovi dirigenti, guidati da Malenkov, inaugurarono una
nuova politica: si ebbe l’impressione di voler rompere con alcuni metodi del passato. Malenkov e il suo
gruppo sembravano voler evitare un’eccessiva personalizzazione del potere, costituendo una direzione
collettiva dello Stato e del partito. Fu raccomandato ai partiti fratelli di costruire ovunque una direzione
collettiva e accordare alla popolazione alcune concessioni.
La tempesta prima della crisi: i segni premonitori.
- La prima esplosione: Berlino 1953. La crisi che, al momento della morte di Stalin, stava
attraversando la RDT, si traduceva nel fenomeno del Plebiscito dei piedi: piccoli proprietari, operai,
liberi professionisti, servendosi della possibilità di libera circolazione tra i diversi settori di Berlino si
recavano in Occidente. Queste partenze peggioravano una situazione economica già precaria. Quando
Ulbricht decise di aumentare i livelli di produzione per combattere la crisi, provocò un fenomeno di
rifiuto: i sovietici lo sconfessarono, inoltre il quotidiano del partito annunciò alcune misure a favore del
miglioramento del livello di vita della popolazione, tra cui la fine della discriminazione scolastica di cui
erano soggetti i giovani borghesi e delle classi medie, senza che però il decreto cambiasse. Il popolo
reagì di massa:a Berlino, i manifestanti sbaragliarono il servizio d’ordine, attaccarono gli edifici
ufficiali e le sedi del partito. La manifestazione operaia degenerò in rivolta anti-sovietica. A metà
giornata intervenne l’Armata Rossa con i blindati. La repressione fu durissima, centinaia le vittime. Chi
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trasse davvero vantaggio da quegli avvenimenti fu Ulbricht, che seppe persuadere Mosca di essere
l’unico in grado di far regnare l’ordine della RDT. Egli avrebbe infatti continuato a governare la
Germania orientale fino alla sua morte, nel 1973.
- La prima destalinizzazione ungherese e i suoi limiti. Prima conseguenza della morte di
Stalin, fu in Ungheria l’allontanamento del suo più fedele discepolo, a vantaggio di Imre Nagy, che
divenne presidente del Consiglio. Nagy presentò al parlamento il suo programma: in campo economico
annunciava il rallentamento della collettivizzazione della terra. Ciò che colpì maggiormente l’opinione
pubblica fu l’annuncio di voler rafforzare la legalità affinché ogni cittadino potesse godere dei diritti
della Costituzione. Nagy doveva però far conto con gli Stalinisti, numerosi all’interno del partito. Il
conflitto tra “liberali” e stalinisti si presentò più volte, finchè questi ultimi denunciarono “la deviazione
a destra del compagno Nagy”, che fu destituito dalle sue funzioni. Ma in tutto il paese aveva
cominciato a soffiare un vento di libertà. La gente aveva ripreso l’abitudine di parlare, discutere,
criticare. I vecchi capi politici del dopoguerra erano stati liberati.
- La riconciliazione tra Mosca e Belgrado. La morte di Stalin aveva rimosso il principale
ostacolo che pesava sulle relazioni tra l’URSS e la Jugoslavia. Molotov propose di sostituire le missioni
diplomatiche con ambasciate, cosa che Tito accettò subito. La stampa sovietica smise poco a poco di
attaccare i dirigenti jugoslavi. L’avvenimento realmente importante, con l’arrivo di Kruscev, fu il
viaggio il Jugoslavia. Kruscev, primo segretario del partito, accompagnato da Bulganin, presidente del
Consiglio, arrivò a Belgrado e riconobbe che il Partito comunista jugoslavo era un autentico partito
marxista-leninista. Il comunicato sottolineò la possibilità che esistessero diverse forme di socialismo.
La Jugoslavia ridiventava membro a tutti gli effetti della “famiglia socialista”, ma i suoi dirigenti non
avevano ceduto di un passo circa la loro volontà di indipendenza.
- La destalinizzazione nelle altre democrazie popolari. Negli altri paesi dell’Est si procedette
molto meno sulla strada della destalinizzazione e i mutamenti effettuati si riducevano in pratica ad
alcune concessioni, riabilitazioni o amnistie. La Polonia fu lo Stato che inizialmente rimase
impermeabile ai mutamenti che iniziavano a delinearsi nei paesi vicini. A Varsavia, come a Budapest,
ci si muoveva lentamente per correggere gli errori del passato. La liberalizzazione, anche se
insufficiente, aveva provocato un movimento di rinnovamento negli ambienti intellettuali. La
destalinizzazione mise in moto un processo di non trascurabile portata. Ma per fare comprendere agli
occidentali i limiti di questa apertura, i russi organizzarono a Varsavia un incontro con tutti i dirigenti
dei paesi dell’Est Europa, durante il quale fu firmato il trattato d’amicizia conosciuto come il Patto di
Varsavia. Tutte le nazioni dell’Est europeo fecero parte di questa alleanza, ad eccezione della
Jugoslavia, anche dopo la sua riconciliazione con Mosca.
Le crisi del 1956.
Fu il XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica ad accelerare lo scoppio della crisi.
Nikita Kruscev, durante una seduta tenutasi a porte chiuse, lesse un rapporto segreto, che denunciava il
culto maniacale della personalità praticato all’epoca di Stalin, elencava gli abusi e i crimini di ogni tipo
commessi da quest’ultimo e tutti i metodi usati per istituire nel paese un vero e proprio terrore. I
dirigenti polacchi furono i primi a rivelarne il contenuto, a causa delle richieste del loro partito,
provocando una profonda emozione. A seguito di fughe di notizie e facile immaginare quale
turbamento fu provocato. Gli jugoslavi erano felicissimi di tale giustificazione a posteriori del loro
comportamento. I popoli interpretarono in modo diverso il contenuto del Rapporto Kruscev. Fu
soprattutto in Polonia e Ungheria, cioè paesi di tradizione occidentale cattolica e in cui la coscienza
nazionale era più sviluppata, che si ebbero le reazioni più violente contro i regimi in carica.
- La falsa liberazione in Polonia. In Polonia la prima conseguenza del XX congresso fu
l’arrivo, a capo del partito, di un “centrista”, Ochab, che aumentò la portata delle misure di liberalismo
adottate in precedenza. Migliaia di prigionieri politici di ogni sorta furono amnistiati e gli antichi
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dirigenti comunisti vennero messi in libertà. Tale fu il caso di Wladislaw Gomulka. Tuttavia, salari
bassi e il recente innalzamento dei livelli di produzione avevano provocato un forte scontento nel
mondo operaio. La situazione divenne molto tesa a Poznan, in occasione della fiera internazionale,
durante la quale un corteo di operai sfilò con slogan non solo di carattere economico e sociale, ma
anche contro l’URSS e contro la detenzione del cardinale Wyszynski. Le autorità polacche ricorsero
all’esercito e calmarono le acque: decine di morti, centinaia di feriti e arresti. La destalinizzazione
rimaneva sempre molto limitata e contenuta.La situazione si inaspriva. I cattolici esigevano la
liberazione del cardinale e lo fecero in occasione del pellegrinaggio a Czestochowa: sul podio
lasciarono una poltrona vuota, quale simbolo visibile dell’assenza di Wyszynski. Alta fu la tensione in
occasione del processo ai manifestanti di Poznan. Quando fu l’arrivo del verdetto si constatò che il
clima era cambiato: le sentenze pronunciate furono clementi, poiché il potere cercava di evitare nuovi
disordini. Il regime doveva agire in fretta e decise di rivolgersi a Gomulka. Gli stalinisti della direzione
del partito furono poco soddisfatti dalla piega assunta dagli avvenimenti e cercarono di realizzare un
colpo di mano appoggiandosi all’esercito, ma il tentativo fallì in partenza. Solo un intervento sovietico
poteva impedire il processo di rinnovamento il corso. Kruscev e Molotov arrivarono a Varsavia e iniziò
tra russi e polacchi una accanita discussione che durò tutta la notte. Al ritorno dei sovietici a Mosca,
l’atmosfera sembrava più distesa. I russi si erano rassegnati ad accettare Gomulka nella sua nuova
posizione di segretario del partito, ma solo perché egli li aveva assicurati sul mantenimento del regime
socialista e delle alleanze con l’URSS e i paesi dell’Est. Per calmare l’opinione pubblica, Gomulka
annunciò che i contadini avrebbero potuto uscire dalle cooperative, che la libertà religiosa sarebbe stata
rispettata. Infatti il cardinale Wyszynski veniva messo in libertà. Agli operai, promise un loro aumento
di salario. Tutti si fidavano di Gomulka, che del resto aveva evitato ai polacchi l’intervento militare
dell’URSS, tanto più che essi vedevano quello stesso esercito schiacciare l’insurrezione ungherese.
Nessuno si chiedeva se fossero, queste, concessioni dettate da opportunismo oppure l’inizio di una
nuova via al socialismo.
- La rivolta ungherese del 1956. La breve permanenza al governo di Imre Nagy aveva dato
adito a molte speranze, sia all’interno del Partito comunista che in tutta la popolazione. Spinto
soprattutto dalla pressione popolare, Matyas Rakosy scelse di abbandonare la scena politica, “a causa
delle colpe che aveva commesso con il culto della personalità e contro la legalità socialista”. Di fatto un
uomo molto vicino a lui, Ernst Gero, lo sostituì come capo del partito. Negli ambienti intellettuali si
chiedeva il ritorno di Imre Nagy e il ritorno al potere di Gomulka in Polonia aveva suscitato
grandissimo entusiasmo in Ungheria. Gli studenti di Budapest redassero un manifesto n cui
richiedevano fermamente il ritorno di Imre Nagy a capo del governo, ma anche la partenza di truppe
sovietiche, elezioni libere e segrete con pluralità di liste e la libertà totale per la stampa e la creazione
artistica. Per iniziativa degli studenti fu organizzata una manifestazione a sostegno dei polacchi.
Quando la polizia politica (AVO) sparò sulla folla, la manifestazione degenerò in sommossa. Soldati
dell’esercito ungherese, invece di ristabilire l’ordine, distribuirono armi alla folla.Era una rivolta contro
il regime: la notte la folla attaccò le sedi del Partito comunista e tutto ciò che era simbolo della
sottomissione a Mosca. Imre Nagy rivolse un appello ai manifestanti perché deponessero le armi, ma
fece sapere che avrebbe favorito lo sviluppo di un socialismo a carattere nazionale. Prima di dimettersi
dalla sua carica a capo del partito, Gero aveva chiesto aiuto ai sovietici. I carri armati russi
cominciarono a percorrere le strade di Budapest, ma il loro intervento fu inizialmente molto limitato.
L’agitazione era ben lungi dal placarsi e Imre Nagy sembrò ormai schierarsi a favore di essa,
giustificandola agli occhi dei crimini commessi dal governo in passato in una dichiarazione
radiofonica, aggiungendo la conclusione di un accordo con i russi riguardo alla loro evacuazione da
Budapest. Il suo discorso venne ben accolto. Guardie Nazionali garantivano il mantenimento
dell’ordine al posto della polizia politica. Tutti concordavano su due punti: la partenza dei sovietici e la
costituzione di una vera democrazia. In quei pochi giorni il paese conobbe un clima di eccezionali
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libertà , che fu però di breve durata: i sovietici avevano introdotto in Ungheria nuove truppe. A poco a
poco la capitale si trovò stretta in una morsa. Imre Nagy condannò alla radio l’atteggiamento dei
sovietici, che non avevano mantenuto le promesse. Agli occhi dei russi, egli in questo discorso
commise un errore imperdonabile annunciando che ormai l’Ungheria intendeva uscire dal Patto di
Varsavia per diventare un paese neutrale. L’esercito sovietico aveva ormai ripreso il controllo del
paese. L’incontro con gli ungheresi fu un vero tranello, poiché i membri della delegazione ungherese
vennero arrestati. Il giorno dopo l’artiglieria pesante e l’aviazione scatenarono un immenso
bombardamento nella capitale: i dirigenti che non erano fuggiti all’estero cercarono asilo nelle
ambasciate straniere . In quella stessa giornata gli ungheresi appresero alla radio che “un governo
rivoluzionario era stato formato da Janos Kadar per riportare la pace e proteggere i risultati acquisiti dal
socialismo”. La rivoluzione ungherese del 1956 mostrava chiaramente quale fosse il livello di
tolleranza ammesso da Mosca. Per i russi non era ammissibile che un paese socialista uscisse dal
sistema, anche se la popolazione lo desiderasse. La rivoluzione era stata un fenomeno spontaneo,
provocata dall’ostilità della maggior parte di un popolo verso un regime che gli era stato imposto e che
fino ad allora aveva portato miseria e sottomissione. Il bilancio della repressione fu pesante. I
principale accusati, tra cui Nagy, furono condannati a morte alla fine di un processo segreto e
giustiziati. Nel 1956 la crisi polacca e la rivolta ungherese si conclusero con situazioni apparentemente
opposte: in Polonia la destalinizzazione sembrava aver avuto successo senza che scorresse sangue. In
Ungheria, malgrado l’apparente fallimento della rivoluzione, le vittime e le rovine accumulate durante i
combattimenti, i nuovi dirigenti compresero che nulla avrebbe potuto essere come prima. Gomulka e
Kadar svolsero ruoli decisivi nei loro rispettivi paesi. Il primo era l’uomo più popolare della Polonia e
il secondo quello più odiato in Ungheria. Dieci anni dopo, Gomulka era diventato sostenitore della
linea dura e aveva profondamente deluso il suo popolo.Kadar aveva invece nel tempo saputo far
schierare dalla sua parte molti di coloro che un tempo lo osteggiavano, grazie ad una politica di
sviluppo economico e all’attenuazione dell’ideologia più rigida.
Da una crisi all’altra: i paesi dell’Est dal 1956 al 1968.
- I nuovi orientamenti della politica dell’URSS e delle democrazie popolari. La prima
conseguenza degli avvenimento dl 1956 fu una ridefinizione dei rapporti tra l’Unione sovietica e i suoi
alleati. Per rafforzare ulteriormente la coesione del blocco socialista, venne posta all’ordine del giorno
l’idea di armonizzare i piani di produzione con la specializzazione delle attività in funzione della
possibilità o potenzialità di un paese. Ogni paese si vedeva affidare il monopolio di un determinato
prodotto, per soddisfare i propri bisogni e quelli dei suoi partner. L’obiettivo reale di queste misure era
di associare l’economia di questi stati ancora più strettamente. Contemporaneamente i dirigenti
sovietici, Kruscev e poi Breznev, si impegnarono nel lento processo di avviamento della politica detta
della “distensione” con il mondo occidentale. Queste nuove impostazioni economiche e politiche
avrebbero avuto conseguenze importanti nella vita interna dei paesi socialisti.
- Una nota stonata: l’Albania. Mentre tutte le democrazie popolari europee avevano seguito i
nuovi orientamenti definiti da Mosca, l’Albania si era mostrata la meno disposta. Il suo governo aveva
ripreso gli attacchi contro la Jugoslavia, accusata di aver sostenuto l’esperienza di liberalizzazione
condotta da Imre Nagy. In un secondo momento Enver Hoxha fece capire che la comparsa dei
movimenti de 1956 era stata provocata dagli orientamenti del XX congresso e dal rapporto Kruscev.
Tra Mosca e Tirana i rapporti si inasprirono velocemente e da una parte e dall’altra ci si incamminava
verso la rottura. Quest’ultima si produsse a Mosca nel 1960 alla conferenza dei partiti comunisti. Enver
Hoxha attaccò le posizioni revisioniste di Kruscev e fece pubblicamente l’elogio di Stalin e dei
dirigenti cinesi. La delegazione albanese lasciò Mosca ancora prima che la conferenza finisse.
Sostenuto dalla Cina, il paese non doveva temere un intervento degli Stati del Patto di Varsavia.
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- L’evoluzione della Jugoslavia. Malgrado l’arresto di un docente universitario, che aveva
violentemente criticato l’URSS in un libro pubblicato all’estero, l’atteggiamento liberale sembrò
prevalere a partire dal 1965-1966. Aspetto importante della liberalizzazione fu l’attribuzione di poteri
più estesi alle assemblee locali,che da quel momento si dimostrarono meno docili e meno unanimi nelle
loro votazioni. Lo stesso clima di distensione si stabilì anche nei rapporti con la Chiesa cattolica, che,
fino a quel momento, erano rimasti molto tesi. Un accordo ristabilì la piena libertà della pratica
religiosa e la totale comunicazione tra la Chiesa Jugoslava e Roma, anticipando la ripresa, nel 1970,
delle relazioni diplomatiche tra Jugoslavia e Vaticano.
- Il “kadarismo” in Ungheria. Il governo Kadar riuscì a conciliare l’esistenza del regime di
democrazia popolare con una politica relativamente liberale, opera dello stesso Kadar. Dal 1956 al
1958 Janos Kadar cercò soprattutto di rassicurare l’URSS e gli altri paesi socialisti, principalmente
attraverso la cooperazione economica con i suoi partner. All’interno Kadar si sforzò di giustificare
l’intervento sovietico. A partire dal 1959 il governo ungherese stava sensibilmente liberalizzando il
regime. Un’ampia amnistia permise il rilascio della maggior parte dei prigionieri politici. Apparve un
nuovo slogan: “coloro che non sono contro di noi sono con noi” e in nome di tale principio vecchi
quadri dell’amministrazione un tempo espulsi vennero reintegrati. Le frontiere del paese si aprirono
lentamente da ambo i lati e un numero sempre maggiore di turisti ungheresi poteva recarsi
nell’occidente. Venne anche concluso un accordo con la Santa Sede che permise di riempire un certo
numero di sedi episcopali vacanti. La politica economica del regime di Kadar conferì un’ampia
autonomia alle imprese commerciali e introdusse una base di economia di mercato. Il risultato di tale
politica fu il livello di vita relativamente elevato della popolazione, soprattutto se confrontato a quello
dei paesi socialisti vicini.
- I “neostalinisti”. I dirigenti bulgari e romeni approfittarono degli avvenimenti del 1956 per
porre un termine alla limitata politica di destalinizzazione che avevano precedentemente intrapreso. In
Bulgaria la concentrazione dei poteri fu mantenuta a vantaggio del nuovo segretario generale del
Partito comunista. Con Zivkov la Bulgaria allineò rigorosamente la sua politica a quella dell’URSS, di
cui costituì l’alleata più fedele dei Balcani, in opposizione alla Jugoslavia e alla Romania. Anche in
quest’ultimo paese, il periodo seguente il 1956 fu caratterizzato da un ritorno a uno stalinismo senza
limiti. Ceausescu, segretario generale e poi anche capo dello Stato, seppe abilmente fornire di sé
all’estero l’immagine di un uomo aperto, nella misura in cui si oppose a Mosca, più a fatti che a parole,
moltiplicando gli accordi di cooperazione economica con l’occidente. In Polonia, Gomulka restrinse a
poco a poco la portata delle misure di liberalizzazione. Il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa
fu significativo: a volte si facevano difficoltà ai genitori che volevano iscrivere i figli al catechismo;
oppure si rifiutava l’autorizzazione per costruire un nuovo edificio di culto. I cardinali Wyszynski e
Wojtyla risposero pubblicamente, denunciando le malversazioni di ogni tipo di cui erano vittime i
credenti della Chiesa. In campo economico, le speranze riposte in Gomulka vennero velocemente
deluse. L’accelerazione dell’inflazione accentuò il malessere nel mondo del lavoro. Le difficoltà
economiche suscitarono un clima di scontento che si tradusse in modi diversi: alcolismo, violenza,
teppismo e traffici di ogni tipo. Gomulka colpì gli intellettuali e la censura diventò più rigorosa.
L’impopolarità di Gomulka, dovuta al carattere personale del suo potere, andò aumentando. Nella RDT
la politica neostalinista di Walter Ulbricht si era mantenuta intatta. La chiusura della frontiera con il
settore occidentale di Berlino grazie alla costruzione del Muro il 13 agosto 1961 mise fine alla
possibilità di emigrazione. Tuttavia i dirigenti cercarono di contenere l’eventuale insoddisfazione
migliorando il livello di vita della popolazione, cosa che riuscì, poiché la RDT conobbe allora un tasso
di crescita elevato. In Cecoslovacchia la situazione era diversa: non c’era stata una vera
destalinizzazione e gli avvenimenti d’Ungheria avevano portato ad un inasprimento del regime.
Novotny e il suo gruppo volevano evitare ogni rischio e la nuova Costituzione consacrò la
Cecoslovacchia come repubblica socialista. Fu solo nel 1962 che Novotny si decise ad adottare alcune
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misure di amnistia e annunciare la creazione di una commissione di revisione per i processi politici
degli anni cinquanta. Fu anche in questi anni che il paese cominciò ad aprirsi ai turisti occidentali. La
censura diventava meno meticolosa e la gente iniziava a reagire. Contemporaneamente i comunisti
slovacchi chiesero che fosse resa giustizia e che la Cecoslovacchia si trasformasse in una repubblica
federale. Soprattutto gli intellettuali chiedevano che fosse fatta piena luce sui grandi processi e che non
si facessero riabilitazioni in fretta e furia tanto per mettersi in pace con la coscienza. Tutto lasciava
supporre che ci si avviasse a grandi passi verso la crisi.
Il mito della “Primavera di Praga”.
Per cpmprendere gli avvenimenti che si svolsero in cecoslovacchia nel 1967-1968 bisogna guardare al
contesto internazionale di quel tempo. Qurgli anni furono caratterizzati in Italia e nella RFT,
dall’agitazione studentesca che culminò in Francia. In Cina avveniva la massima espansione culturale.
A Mosca e nella maggior parte delle capitali europee le autorità presero misure per far fronte a
qualsiasi eventualità. In Cecoslovacchia si manifestò bruscamente la crisi latente che covava da tempo.
In occasione del VI congresso degli scrittori, che si svolse a Praga, in numerosi denunciarono la
campagna anti-israeliana condotta dalle autorità ufficiali. Numerosi partecipanti chidevano la libertà di
stampa. Il governo rispose chiudendo la loro rivista. Il 31 ottobre gli studenti universitari di Praga, che
manifestavano per avere più libertà, furono pesantemente manganellati su ordine del governo. La
riunione del comitato centrale mostrò gli scontri tra i sostenitori di Novotny e della linea dura da un
lato, e la coalizione dei liberali cechi e slovacchi dall’altro. A seguito di un accordo, Novotny conservò
la presidenza della repubblica, ma dovette rinunciare alla direzione del partito. Alexander Dubcek,
slovacco, fu nominato primo segretario del Partito comunista cecoslovacco. Dubcek annunciò la
sospensione della censura. Il dibattito politico veniva ormai condotto di fronte al popolo. La Chiesa
approfittò di questo particolare clima per reclamare la libertà religiosa garantita dalla Costituzione ma
mai applicata. Dubcek promise agli slovacchi che avrebbero goduto di uno statuto particolare e che
sarebbero stati ad un pari livello dei cechi nell’ambito di uno Stato federale. Novotny si dimise dalla
carica di capo di Stato, lasciando il posto al generale Svoboda, e come capo del governo fu scelto un
altro liberale, Josef Smrkovski. Nacque con essi quel “socialismo dal volto umano” che caratterizzò il
periodo definito Primavera di Praga.Curioso il fatto che esso fosse nato da uomini che per tutta la loro
vita avevano servito in modo incondizionato il partito e Mosca. I responsabili della Primavera di Praga
erano ben lungi da essere veri liberali. Senza dubbio agirono in tal modo per salvare un sistema al quale
erano legati e non per porre fine agli abusi che tale sistema aveva provocato. Ma, dando prova di
buona volontà agli intellettuali e all’opinione pubblica, Dubcek ed i suoi correvano il rischio di
generare inquietudini a Mosca. La Primavera di Praga iniziava a diventare un problema: all’interno del
paese movimenti di origini diverse desideravano ottenere maggiori autonomie. Gli intellettuali liberali
esposero esposero le loro rivendicazioni pubblicando il Manifesto delle duemila parole, documento che
criticava molto duramente il cattivo uso che il Partito aveva fatto del potere. All’estero Dubcek si trovò
a dover fronteggiare molto duramente le reazioni degli altri paesi socialisti. Mosca e i paesi fratelli si
preoccupavano profondamente di questo clima di spensierata anarchia. Un incontro tra Dubcek e i
dirigenti sovietici segnalò chiaramente i pericoli e le responsabilità internazionali nel portar avanti la
linea politica applicata da marzo. Durante l’incontro ci si accordò sull’organizzazione delle manovre
militari su territorio cecoslovacco a cui avrebbero partecipato, di lì a poco tempo, le truppe sovietiche,
cecoslovacche, polacche, ungheresi e tedesco-orientali. La presenza prolungata di questi eserciti
stranieri avrebbe potuto spingere i dirigenti di Praga a prendere alcune precauzioni, am questi
presentavano un beato ottimismo. Per contrastare la Cecoslovacchia, Breznev creò un fronte di alleati:
polacchi, tedeschi orientali, bulgari, e in seguito a pressioni diplomatiche, anche ungheresi. Il gruppo
dei Cinque si riunì a Varsavia, dove i dirigenti redassero una lettera, che inviarono al Partito comunista
cecoslovacco, esprimendo le loro preoccupazioni verso la situazione cecoslovacca. La lettera conteneva
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un avvertimento chiaro e tondo di intervento armato, che bisognava essere ciechi o complici per
ignorare. Il Partito comunista cecoslovacco rispose alla lettera con una lunga dichiarazione, che
rassicurava i Cinque sulla sicurezza del socialismo in Cecoslovacchia, che aveva condannato le
Duemila parole e deplorava il mancato invito del Partito alla riunione di Varsavia. Dubcek continuò
nel tempo a dimostrare la stessa ingenua noncuranza, anche in seguito agli attacchi delle varie stampe
estere. Tuttavia fu presto organizzato un incontro tra i Cinque e i dirigenti del Partito comunista
cecoslovacco a Bratislava. Il comunicato finale dell’incontro ricordava la necessità di un’azione
concertata per la sicurezza europea e la pace e il rafforzamento del Patto di Varsavia. Dubcek continuò
nella sua finta o irresponsabile incoscienza, tanto da ricevere a Tito e Ceausescu, entrambi
trionfalmente. Per i russi era troppo: sembrava loro di rivedere, nel riavvicinamento di Praga, Bucarest
e Belgrado, una nuova Piccola intesa. La risposta fu immediata e nella notte tra il 20 e 21 agosto le
forze armate dei paesi del Patto di Varsavia occuparono il paese. Dubcek, Cernik e Smrkovski vennero
subito portati in Russia. La popolazione si era limitata a qualche manifestazione e qualche molotov,
nulla in confronto con ciò che avvenne a Budapest nel 1956. Gli Accordi di Mosca che ne seguirono
“normalizzavano” la situazione: i capi comunisti di Praga avevano riconosciuto che l’intervento armato
era giustificato a causa delle minacce che pesavano sul socialismo. La Primavera di Praga terminava
con l’insediamento permanente delle truppe sovietiche in territorio cecoslovacco, a grande vantaggio
dell’URSS per quanto riguarda la posizione che geograficamente andava ad occupare, vicino al cuore
della RFT. Dubcek aveva reso loro un servizio dandogli un motivo per intervenire e in fin dei conti non
se l’era cavata troppo male. Imre Nagy aveva avuto meno fortuna. Gli slovacchi avevano finalmente
ottenuto la trasformazione della Cecoslovacchia in una Federazione degli Stati ceco e slovacco. La
crisi del 1956 e del 1968, le soluzioni adottate per porvi fine, le differenze nel livello di sviluppo
economico e di vita da un paese all’altro, avevano sensibilmente alterato l’immagine di un quadro
omogeneo del blocco sovietico. Le diversità nazionali, dissimulate o nascoste, erano riapparse. Il fatto
che le crisi si fossero verificate solo della Germania dell’Est, in Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia,
cioè paesi dove la coscienza nazionale era più sviluppata e in cui i valori culturali erano simili a quelli
dell’Occidente era la dimostrazione del permanere di antiche tradizioni.
Verso nuove forme di opposizione (1970-1981).
Il fallimento dell’esperienza di Dubcek dimostrò ancora, che fosse fuori discussione per i dirigenti dei
paesi dell’Est seguire una politica differente da quella indicata da Mosca. L’insediamento di unità
militari in Cecoslovacchia lo fece bene intendere a coloro che non lo avevano ancora capito. Fu la
prima applicazione sul campo di quella che, da quel momento, fu definita politica Breznev.
Le tendenze generali a partire dal 1970.
Dal 1970 il contesto internazionale era mutato e all’interno del mondo socialista, le varie mentalità si
erano evolute, al punto che nuovi problemi erano apparsi qua e là. Gli scambi commerciali tra paesi
dell’Est e Occidente erano considerevolmente aumentati. La crisi economica che colpì il mondo
occidentale nel 1973-1974 e l’inflazione che ne seguì, colpirono a loro volta i paesi dell’Europa
orientale. Vi fu anche una maggiore apertura delle frontiere ai visitatori provenienti dai paesi
occidentali, ad eccezione dell’Albania. Oltre alla valuta stranniera, gli occidentali portavano le loro
abitudini, le idee, il modo di vivere. Anche quasi tutti i cittadini dell’Est visitavano da qualche anno
l’Occidente. Tali spostamenti introdussero uno spirito nuovo in popolazioni che erano vissute in un
ambiente chiuso. L’apertura verso l’Occidente provocò alcuni cambiamenti nei comportamenti delle
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popolazioni dell’Europa socialista. L’ideologia uffiiciale lasciava sempre più indifferenti le nuove
generazioni che studiavano, leggevano, viaggiavano. In tutti gli Stati si assistette ad un rinnovamento
della fede religiosa, in particolare tra giovani di formazione atea. Questo fenomeno non avrebbe
mancato di preoccupare gli ambienti ufficiali. Questo cambiamento nella mentalità si tradusse anche
con un crescente bisogno di libertà. In parecchie nazioni dell’Est, gli intellettuali in nome dei Princìpi
di Helsinki, formarono comitati per la difesa dell’uomo. Apparvero anche sindacati liberi, ai margini di
quelli ufficiali, la quale azione fu tuttavia fortemente ostacolata dalle autorità.
I “bambini terribili dell‘Adriatico”.
L’Albania e la Jugoslavia presentavano alcuni punti di contatto: ambedue avevano a capo del loro
governo gli stessi dirigenti dal 1945; essi erano stati, durante la guerra, gli organizzatori della resistenza
e così erano riusciti a liberare il paese senza ricorrere all’aiuto dell’URSS; entrambi avevano rifiutato la
tutela di Mosca in nome dell’indipendenza nazionale; le due nazioni, dopo la rottura con la Russia,
cercarono appoggio all’estero; i due paesi si affermano autenticamente socialisti, pur avendo seguito
una via nazionale al socialismo; queste nazioni occupano un posto strategico grazie alla loro costa
marittima sull’Adriatico, in grado di offrire ripari a una flotta di guerra amica. Da ciò l’interesse che
questi due paesi possono rappresentare per gli Stati con cui sono in buoni rapporti. Vi sono però grandi
differenze tra questi Stati: l’Albania è una nazione piccola, povera di risorse, ma omogenea come
popolazione; la Jugoslavia è estesa e aperta da ogni parte, la popolazione è plurinazionale, dotata di
risorse numerose ma non ripartite ugualmente. L’Albania ha mantenuto le rigide strutture dell’epoca
stalinista e Stalin è ancora oggetto di culto ufficiale; il regime jugoslavo si era progressivamente
liberalizzato; mentre il sistema di autogestione mantenne in Jugoslavia disparità regionali e
ineguaglianza sociale, la pianificazione rigida dell’Albania condusse a progressi economici in una
società egualitaria. Negli anni ottanta l’Albania aveva modificato del tutto la sua politica estera,
sembrava un paese totalmente isolato e richiuso in se stesso. Questa situazione iniziò a delinearsi
l’indomani della morte del “grande amico del popolo albanese”, Mao Tse-Tung. La preoccupazione
aumentò quando Tito iniziò un lungo viaggio che lo condusse in URSS, in Cina e nella Corea del Nord.
La stampa albanese cominciò con l’attaccare la Cina post - Mao, che annunciò il ritiro immediato dei
suoi tecnici e la sospensione di tutti i prestiti accordati all’Albania. Per Tirana la Cina era “una
superpotenza revisionista e imperialista”. Tuttavia, in questo scontro, fu ancora Tito ad essere oggetto
degli attacchi più violenti. La morte di Tito, il 4 maggio 1980, attenuò leggermente gli abituali attacchi
da parte della stampa albanese contro la Jugoslavia. Ma la tensione aumentò presto a seguito di violenti
disordini all’interno della minoranza albanese di Jugoslavia. Gli albanesi di Jugoslavia vivevano nel
territorio autonomo del Kosovo, indipendente dal Febbraio 2008. Per più di un mese la regione fu
sconvolta da gravi disordini. I manifestanti reclamavano la riannessione del Kosovo all’Albania. I dati
ufficiali e le varie testimonianze differiscono molto per numero di morti, feriti e arresti, comunque
dopo l’accerchiamento della regione da parte dell’esercito, l’ordine potè essere ristabilito dopo più di
un mese. Le autorità jugoslave sembravano decise a usare le maniere forti. Il problema del Kosovo
ebbe ovviamente ripercussioni sul piano delle relazioni tra Albania e Jugoslavia. Al di fuori dei
Balcani, fu commesso contro l’ambasciata jugoslava di Bruxelles un attentato che del resto non era il
primo compiuto in Belgio contro istituzioni di Belgrado. Le ipotesi sui responsabili della provocazione
dei disordini in Kosovo sono varie: semplicemente i membri della minoranza albanese? L’Albania (in
modo azzardato) ? I sovietici ( proprio in quel momento si recuperavano i rapporti con Belgrado) ? Le
stesse autorità jugoslave (come alibi per una stretta di morsa?). Qualunque ne fosse l’origine, gli
avvenimenti del Kosovo mostrarono la fragilità della Jugoslavia, ancora più evidente dopo la
scomparsa del maresciallo Tito. Vi era, in primo luogo, una persistenza di nazionalismi all’interno del
paese. Il terrorismo croato si intensificò, sia all’esterno che all’interno del paese. L’azione più
spettacolare fu l’attentato contro l’ambasciatore croato a Stoccolma. Tuttavia se ne verificarono anche
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all’interno del paese. L’agitazione studentesca in Croazia fu molto più pacifica e venne organizzata per
protestare contro l’imperialismo serbo nella regione. All’altro capo del paese, la Macedonia
rappresentava un altro fattore di instabilità, nella misura in cui gli jugoslavi avevano cercato di creare
una nazione macedone e di far scomparire tutto ciò che poteva ricordare la tradizione bulgara. La
pubblicazione delle Memorie di un membro del Partito comunista bulgaro riaccese la disputa tra Sofia
e Belgrado, dal momento che l’autrice ricordava in quest’opera che “i macedoni sono bulgari“. Il
secondo grave problema era l’economia: il paese era stato pesantemente colpito dalla crisi del mondo
occidentale. L’autogestione, spesso disordinata, la politica degli aumenti dei salari, il deficit del
bilancio, provocato tra l’altro dalle fastose spese di regime all’epoca di Tito, tutti questi elementi
furono altrettanti fattori causa dell’inflazione. La svalutazione e la politica di austerità si tradussero
subito in un sensibile abbassamento del livello di vita della popolazione. La disoccupazione era
massiccia. La crisi economica vissuta dalla Jugoslavia accentuò ulteriormente le disparità regionali e
gli antagonismi. La Croazia e la Slovenia si mostrarono sempre meno disponibili a fare sacrifici per le
repubbliche povere.Il vuoto politico lasciato dalla morte del maresciallo Tito non semplificò i
problemi. Ufficialmente la Costituzione non prevedeva la figura del presidente della repubblica, se non
per Tito. Dopo la sua morte essa risultò formata da un collegio di otto membri, di cui ognuno
rappresentava una repubblica federata o un territorio autonomo. Il rinnovamento religioso che la
Jugoslavia aveva conosciuto da qualche anno, non sembrava essere assolutamente gradito ai successori
di Tito, sia verso i cattolici che verso i mussulmani. L’irrigidimento nella politica interna, anche a
causa dei rischi di frantumazione della federazione e di eventuali disordini legati alle tensioni sociali,
coincise con un sensibile rafforzamento dell’influenza sovietica in Jugoslavia. Le relazioni tra Belgrado
e Mosca erano stabilmente buone.
La Polonia in crisi.
Si era creduto che il ritorno al potere del comunista nazionale e sedicente liberale Gomulka avrebbe
risolto tutti i problemi: invece non si raggiunse alcun risultato. La sua esperienza si risolse con una
nuova rivolta della classe operaia. Quando, per frenare l’inflazione, il governo polacco decise
l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, si ebbe la rivolta. Queste misure,necessarie ma brusche,
provocarono una violenta reazione popolare. Migliaia furono le manifestazioni spontanee, presto
degenerate in sommossa. Gomulka si appellò all’esercito, che occupò tutta la zona costiera, isolata con
i carri armati dal resto del paese. Quando il governo, fornendo la versione dei fatti, ne attribuì la colpa a
“perdigiorno e teppisti”, tale dichiarazione non fu ben accolta e le manifestazioni ripresero. A Genia e
Szczecin l’esercito sparò sugli operai causando decine di morti. Alcuni dei loro
rappresentanti,democraticamente eletti dalla base, iniziarono negoziati con le autorità locali. Fu in tale
occasione che fece la sua comparsa per la prima volta Lech Walesa, un giovane montatore elettricista.
Le trattative portarono al ritiro progressivo dell’esercito. La conseguenza immediata di questi scioperi
fu l’allontanamento di Gomulka. Assunse allora le funzioni di primo segretario del Partito operaio
polacco Edward Gierek, un ex minatore. Anch’egli, come prima Gomulka, sembrò voler imprimere un
nuovo orientamento nella politica polacca, ma malgrado una sua buona partenza, il suo nuovo gruppo
dirigente si dimostrò incapace di trovare soluzione ai vari problemi. La situazione di crisi già esistente
si aggravò, e il divario tra il paese reale, rappresentato dalla maggioranza della popolazione, e la classe
dirigente, di poche migliaia di privilegiati, aumentò sempre più fino ad esplodere nell’estate 1980. In
opposizione di Gierek si schierarono da un lato il sindacalismo clandestino, sempre braccato dalle
autorità, dall’altro la Chiesa cattolica, che si rese conto che i nuovi dirigenti cercavano di limitare la
libertà religiosa. Dal 1974 al 1980 i rapporti tra Chiesa e Stato furono caratterizzati da un’alternanza di
periodi di tensione e di momentanea calma. La Chiesa rimase ferma sulle sue posizioni e non esitò a
difendere gli interessi morali e materiali del popolo ogni volta che necessari. Dinnanzi alle difficoltà
economiche prese sempre posizione tramite il cardinale Wyszynski. L’elezione a papa di Karol Wojtyla
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il 16 ottobre del 1978 rafforzò ulteriormente l’ascendente della Chiesa e lo Stato si vide obbligato a
scendere a patti con quest’ultima. Il viaggio trionfale del papa nel suo paese natale, le sue prese di
posizione a favore dei diritti dell’uomo e della libertà religiosa in presenza dei membri del Partito
comunista, accrebbero ulteriormente il prestigio della Chiesa. Ma un massiccio aumento dei prezzi
annunciato per l’estate del 1980 scatenò nuovamente disordini: tutti i settori dell’economia furono
interessati dagli scioperi, ma fu nei cantieri Lenin di Danzica che lo sciopero fu più duro. Era guidato
da Lech Walesa e Anna Walentynowicz. Venne subito elaborata una serie di rivendicazioni, sia di
carattere professionale, sia concernenti il diritto alla libertà religiosa. All’inizio il governo sembrò
adottare una politica di fermezza, che distese preoccupato dal ravvicinamento che andava realizzandosi
tra gli oppositori politici e gli operai. Le trattative tra il governo e il Comitato di sciopero si conclusero
il 31 agosto con un protocollo d’accordo. Nei paesi fratelli vi fu una levata di scudi generale. I duri del
settore socialista denunciarono delle forze antisocialiste che si erano manifestate in Polonia. Solo i
media ungheresi e jugoslavi diedero prova di una certa simpatia nei confronti degli scioperanti
polacchi. Se l’URSS si limitò, in un primo tempo, a disturbare le trasmissioni delle radio occidentali, in
seguito vennero concentrate truppe sovietiche lungo le frontiere orientali della Polonia. L’evoluzione
della crisi polacca aveva vari aspetti importanti: si era organizzato un sindacalismo libero alla luce del
sole. Lech Walesa e il Comitato avevano gettato le basi del sindacato Solidarnosc e negli accordi del 31
agosto, il principio dell’organizzazione di un sindacalismo indipendente era stato ufficialmente
riconosciuto. Per la prima volta in un paese dell’Est, un sindacato apolitico, formato da milioni di
iscritti che vi si erano riuniti in tutta libertà, veniva riconosciuto ufficialmente dal potere comunista. Le
sue prime azioni furono realizzate per ottenere il sabato libero promesso. Nella sua azione Lech Walesa
venne costantemente sostenuto dalla Chiesa polacca. L’esempio dato dagli operai fu seguito dai
contadini e nacque una Solidarnosc contadina, il quale statuto venne registrato. Malgrado provocazioni,
la direzione di Solidarnosc seppe dar prova sia di efficienza che di moderazione. Sul piano della
politica interna, la conseguenza degli avvenimenti del luglio-agosto 1980 fu un profondo
sconvolgimento negli organismi dirigenti dello Stato e del partito. Gierek , colpito ufficialmente da una
crisi cardiaca, venne sostituito da Stanislaw Kania, nuovo segretario del partito, e capo del governo
divenne il generale Jaruzelski. Con questo cambiamento, trionfava la linea centrista. Stretto tra Mosca e
Solidarnosc, Kania si sforzava di mantenere il controllo della situazione. L’attentato contro Giovanni
Paolo II, seguito, pochi giorni dopo, dalla morte del cardinale Wyszynski, generarono una certa
distensione tra il potere e Solidarnosc, che aumentò quando il Partito comunista sovietico rivolse un
avvertimento solenne ai dirigenti del partito operaio polacco. La lettera attaccava la “controrivoluzione
che si nascondeva all‘interno di Solidarnosc”. Il documento, che aveva molte analogie con la Lettera
dei cinque inviata a Dubcek, non mancò di influenzare la riunione del comitato centrale, in cui Kania
riconobbe le azioni controrivoluzionarie che minacciano il socialismo, pur ricordando che Solidarnosc
e la Chiesa hanno anch’esse il loro posto nel processo di evoluzione. Il Congresso del Partito operaio,
che si svolse con grande impazienza di tutti, alla presenza delle attente delegazioni dei “paesi fratelli”,
iniziò con una grande sorpresa: le cariche superiori del partito, la nomina a primo segretario e l’ufficio
politico sarebbero stati definiti da votazione segreta. La sera delle elezioni dei membri del comitato
centrale Stanislaw Kania veniva riconfermato nelle sue funzioni di primo segretario. Il liberale
Rakowski non ottenne il numero di voti necessario per essere eletto.Strano congresso, in cui i delegati
applaudivano calorosamente i liberali ma, grazie al voto segreto, li escludevano dalle cariche di
responsabilità. Il voto segreto tornò a svantaggio del liberali, grazie al gioco di pressioni che si esercitò
al momento del voto. Malgrado il rumore che ci fu attorno al congresso, nessuno de problemi
all’origine della crisi polacca era stato risolto, né quello dei rapporti tra Solidarnosc e lo Stato, né la
crisi economica, né la penuria alimentare. Anzi, fu seguito da una nuova ondata di scioperi e
manifestazioni diffuse in tutto il paese, di cui il culmine fu il blocco dei veicoli operato a Varsavia
dagli impiegati dei trasporti comunali e i tassisti, che fermò la città per più giorni. Durante la prima fase
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del congresso di Solidarnosc, che si tenne a Danzica nei primi giorni del settembre 1981, i militanti non
risparmiarono le critiche nei confronti della direzione del sindacato, considerata troppo conciliante col
potere comunista. Lech Walesa fu rieletto. Con i suoi 10 milioni di iscritti, Solidarnosc era ben
consapevole della propria rappresentatività nei confronti dello Stato e di un Partito operaio
abbandonato da molti suoi iscritti. Nella crisi in cui sfociò questa situazione, Kania fu sostituito dal
generale Jaruzelski, già capo del governo. Il nuovo primo segretario, ben accolto da Mosca, manifestò
chiaramente la volontà di allargare la base del potere associando a sé tutti coloro che si dimostravano
disposti ad aiutarlo, purché condividessero i princìpi fondamentali del socialismo. L’idea di un’Intesa
nazionale, tra Partito, Solidarnosc e Chiesa sembrava concretizzarsi, grazie anche ai gesti di
conciliazione dimostrati dal sindacato, ma la nuova speranza suscitata da un accordo tra il
vicepresidente di Solidarnosc e il ministro incaricato di rapporti con i sindacati, venne presto disillusa.
Mentre negoziavano con Solidarnosc, il governo e il Partito operaio si preparavano segretamente a
riprendere in mano le redini del paese. I media scatenarono una grande campagna di denigrazione
contro alcuni dirigenti del sindacato libero, che furono addirittura considerati responsabili delle
difficoltà economiche del paese. Il livello di pericolo aumentò ulteriormente in occasione della riunione
del Partito operaio polacco: il generale Jaruzelski svelava finalmente il suo vero volto, diceva
chiaramente a chiunque fosse disposto a intenderlo che era arrivata l’ora di rientrare nei ranghi. La
direzione di Solidarnosc si riunì a sua volta, costatando che il potere avesse fatto svanire l’idea di
un’intesa nazionale, e adottò la soluzione dello sciopero generale. La Chiesa prese, per la prima volta in
modo inequivocabile, posizione a favore di Solidarnosc contro il partito. La radio polacca cominciò a
trasmettere brani di interventi di Lech Walesa e di altri dirigenti di Solidarnosc registrati
clandestinamente durante le riunioni. Per la direzione del partito,ciò che fu ascoltato era troppo. Nella
notte tra il 12 e il 13 dicembre il generale Jaruzelski si decise di servirsi delle forze armate. In poche
ore l’esercito assunse il controllo del paese, mentre a Varsavia i carri armati comparivano per le strade.
Il paese si ritrovò isolato dal mondo esterno, furono interrotte le comunicazioni telefoniche e le
frontiere chiuse. A partire da quel momento qualunque sciopero e qualunque disubbidienza erano
passibili delle sanzioni previste dal codice militare. Lech Walesa, che sembrava essere sfuggito
all’arresto, avrebbe iniziato delle trattative con il governo, per poi essere internato in una villa nelle
vicinanze di Varsavia. Passati lo stupore e lo sconforto della presa di potere da parte dell’esercito,gli
operai iniziarono a reagire. Nei principali centri industriali gli scioperanti si asserragliavano nel luoghi
di lavoro. La resistenza passiva degli operai e degli studenti si organizzò in tutto il paese, malgrado la
repressione, spesso sanguinosa, da parte dell’esercito.
Gli anni ottanta: il momento della perestrojka.
I problemi dei paesi dell’Est all’inizio degli anni ottanta.
La nomina dell’ex capo del KGB, Iuri Andropov, al vertice del Partito e dello Stato sovietico venne
generalmente interpretata come una vittoria dei “riformisti”. Poco dopo il suo arrivo al potere,
Andropov propose un piano che mirava a migliorare le relazioni Est-Ovest. D’altra parte sembrava
intenzionato a lasciare maggiore libertà d’azione ai “paesi fratelli”, particolarmente nel campo della
politica interna. Il suo precario stato di salute lo allontanò presto dalla politica e permise l’ascesa di
uno dei suoi pupilli, Mikhail Gorbaciov. La vera svolta ebbe luogo quando fu annunciata l’elezione di
Mikhail Gorbaciov a segretario generale del Partito. Quest’ultimo allontanò subito dai principali posti
di responsabilità gli amici di Breznev. Per il nuovo capo del Cremlino, il problema prioritario per
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eccellenza era il riordino dell’economia sovietica. Per risolverlo, bisognava procedere a una
ristrutturazione radicale (perestrojka) del sistema economico e delle istituzioni, in un clima di apertura
e trasparenza (glasnost). Fin dall’inizio, i popoli dell’Europa dell’Est accolsero con soddisfazione il
nuovo orientamento del Cremlino. Per contro, molti dirigenti dei paesi socialisti si dimostravano
scettici o attendisti. La diffidenza rimaneva sempre, dal momento che il comportamento di Gorbaciov
poteva sembrare caratterizzato da contraddizioni. Ma era comprensibile la sua reticenza a impegnarsi in
un segno o in un altro, ma per le popolazioni Gorbaciov rappresenterà una certa speranza di
allentamento della tutela sovietica.
- Persistenza della crisi economica. Le difficoltà economiche apparse nei paesi dell’Est a metà
degli anni settanta assunsero l’aspetto di una vera crisi economica nel decennio seguente. Gli Stati
socialisti erano inoltre in uno stato di dipendenza reciproca e le difficoltà di uno Stato avevano
immediate ripercussioni su tutti gli altri. L’inflazione cominciata alla fine degli anni settanta, il
continuo ricorso a crediti occidentali per sostenere le economie disastrate, tutto ciò contribuì a far
prendere coscienza a molti tra i dirigenti di questi Stati, che era ormai indispensabile una profonda
riforma del sistema di economia pianificata. Anche se in Bulgaria, in Ungheria e nella RDT i bisogni
alimentari della popolazione venivano garantiti in modo normale, dovunque alcuni prodotti, in
particolare carne e latticini, erano disponibili a periodi alterni o frazionati. L’insufficiente rete di
distribuzione, soprattutto in provincia, causava la formazione di lunghe file d’attesa davanti ai negozi di
alimentari. L’inflazione costituiva il secondo punto più debole delle economie dell’Europa dell’Est.
Uno dei rimedi adottati per non penalizzare le esportazioni è stato quello di ricorrere a frequenti
svalutazioni, il che ha aumentato la diffidenza della popolazione nei confronti della moneta nazionale,
portando a un contrabbando di moneta estera convertibile molto redditizio, tollerato dalle autorità.
Oltre all’inflazione, il debito estero rappresentava un pesante onere per i paesi dell’Est. Pochi giorni
prima della sua caduta, Ceausescu si vantava del fatto che il suo paese lo aveva interamente rimborsato.
In Albania non vi era alcun indebitamento, ma in tutti gli altri paesi dell’Est europeo vi erano debiti
verso le banche occidentali. La crisi economica dei paesi socialisti era ulteriormente aggravata dai
rapporti di dipendenza commerciale che li legavano all’URSS. Per il loro approvvigionamento di gas,
petrolio e materie prime, molti di questi paesi dipendevano dall’’URSS, che al momento, ad esempio,
del rialzo del costo del petrolio, uniformò i suoi prezzi a quelli mondiali, ma quando i costi mondiali
diminuirono, l’Unione sovietica mantenne i suoi prezzi. Inoltre, tramite il sistema bancario
centralizzato, l’URSS disponeva, a proprio vantaggio, degli eventuali profitti commerciali dei paesi
fratelli. Con l’attuazione della perestrojka si aprivano nuove prospettive per i paesi dell’Est europeo.
Bisognava riformare da cima a fondo l’economia e ridefinire le relazioni tra le democrazie popolari e
l’Unione Sovietica. L’aspetto economico del problema era quindi strettamente legato a quello politico.
- Minoranze nazionali e scontri inter-etnici. Lenin aveva combattuto ogni forma di
nazionalismo di Unione sovietica, consapevole del fatto che in uno Stato in cui vivevano un centinaio
di nazionalità, qualsiasi tipo di sentimento nazionalista avrebbe portato alla guerra civile. Solo con
l’ascesa di Gorbaciov, il divario tra la teoria e la pratica si attenuò, e il destino di migliaia di polacchi,
moldavi di lingua romena, ungheresi e nettamente migliorato. L’URSS di Gorbaciov sembrava tornata
all’orientamento predicato da Lenin, poi dimenticato dai suoi successori. Gli scontri inter-etnici hanno
assunto un aspetto molto preoccupante in Jugoslavia. Il Kosovo, era una provincia autonoma
amministrativamente unita alla repubblica di Serbia. Le tendenze nazionaliste dei primi, episodiche
durante gli anni settanta, causarono la partenza di parecchie migliaia di serbi dal Kosovo, preoccupati
per la propria incolumità. Scontri molto violenti si sono verificati in tutte le città del Kosovo, e il
nazionalismo albanese ha provocato la reazione di quello serbo.
I segni precursori del cambiamento (1982-1988).
Con l’avvento al potere di Gorbaciov e l’inizio della politica di riforme, l’Europa dell’Est ha iniziato a
reagire. In Ungheria e in Polonia la Perestrojka ha trovato maggiore eco all’interno dei governi; negli
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altri paesi si è cercato di mantenere le strutture esistenti. La Romania di Ceausescu ha risposto al
desiderio di riforme rafforzando la dittatura.
Il blocco dei “conservatori”.
- Un mondo isolato: l’Albania. Alla morte di Enver Hoxha nel 1985, che aveva esercitato un
potere assoluto per quarantun’anni, questo Stato costituiva un caso unico: era l’ultimo bastione
dell’ortodossia stalinista. Per Hoxha, il suo era l’unico paese in cui il Marxismo non era stato tradito.
Hoxha era riuscito a isolare totalmente l’Albania dal mondo socialista, senza per questo avvicinarsi al
mondo occidentale. Il successore di Enver Hoxha, Ramiz Alia, mantenne gli orientamenti generali e
nessun disgelo accompagnò il suo arrivo al potere. Per contro, alla fine degli anni ottanta, ci fu una
certa apertura verso i paesi occidentali. Un trattato d’amicizia è stato firmato con la Grecia, per porre
fine alla guerra fra questi due paesi. Malgrado la spinosa questione del Kosovo, i rapporti con la
Jugoslavia sono migliorati. Tuttavia l’Albania ha continuato a riaffermare la sua totale indipendenza
nei confronti dei due blocchi e a rifiutare qualunque aiuto finanziario proveniente da qualsiasi parte.
- Un satellite modello: la Bulgaria. La Bulgaria era un satellite incondizionato dell’URSS e
diversamente dalle altre democrazie popolari, esiste tra la popolazione bulgara un atteggiamento
favorevole nei confronti della Russia, legata al ruolo che questo paese ha avuto nel XIX per
l’indipendenza della Bulgaria. Dopo l’arrivo al potere di Gorbaciov fu realizzata una perestrojka
limitata esclusivamente al settore economico. Per contro, nessun cambiamento davvero radicale si
realizzò in campo politico, ad esclusione di una maggiore importanza data all’Assemblea nazionale.
- La RDT di Eric Honecker. Era questo il paese economicamente più sviluppato di tutta
l’Europa orientale e la sua popolazione aveva sempre goduto di un livello di vita relativamente alto
rispetto ai “paesi fratelli”. Tale situazione non aveva comunque evitato lo scontento crescente della
popolazione,soprattutto dei giovani, che mal sopportavano il controllo onnipotente dello Stato su tutta
la vita culturale e sociale e che desideravano viaggiare liberamente, soprattutto nella RFT.
L’onnipotenza di Honecker mantenne l’RDT sotto una rigorosa sorveglianza. Nonostante ciò gli anni
‘80 sono stati caratterizzati dal rafforzamento delle relazioni politiche ed economiche con i paesi
occidentali, in particolare con la RFT, in cui Honecker si recò (fu il primo capo di Stato della Germania
orientale a recarsi in Germania Ovest.) I dirigenti della RDT avevano dimostrato un certo scetticismo,
per non dire ostilità, nei confronti della perestrojka,e alcuni discorsi di Gorbaciov furono censurati,
poiché considerati pericolosi. Diffidente nei confronti delle iniziative politiche di Gorbaciov, Honecker
cercava sempre di esercitare il su potere al di fuori di qualsiasi ingerenza straniera, anche quella
dell’alleato sovietico.
- La Cecoslovacchia “normalizzata” di Husak. Gustav Husak, giunto al potere all’indomani
della repressione della “Primavera di Praga”, si era identificato con la politica di “normalizzazione”.
L’arrivo al potere di Gorbaciov non modificò in nulla la linea politica dei dirigenti di Praga dell’epoca,
e Husak bocciò ogni progetto di riforma. Nella sua visita, Gorbaciov ricevette però dalla popolazione
cecoslovacca un’accoglienza particolarmente cordiale. Qualche mese dopo, Husak abbandonava la
direzione del partito ma conservava quella dello Stato. Veniva sostituito da Milos Jakes, il cui arrivo al
potere fu considerato segno d’apertura. Ma di fatto grande fu la delusione quando una riorganizzazione
tra gli alti quadri si concluse con l’eliminazione dei liberali. Alcuni intellettuali non esitarono a pagare
di persona il loro impegno per difendere i princìpi di democrazia. La Chiesa cattolica si schierò con i
dissidenti e il suo comportamento corrispondeva a un rinnovamento religioso in un paese in cui
qualunque insegnamento dottrinale era stato bandito da quarant’anni.
- La Romania del clan Ceausescu. Negli anni ‘80 la Romania era il paese più povero
d’Europa. Per ordine del presidente Ceausescu, il centro della vecchia capitale storica fu totalmente
raso al suolo, in nome dell’edificazione della città socialista ideali nel più puro stile dell’architettura
stalinista. Il presidente Ceasusescu esercitò un potere assoluto sulla repubblica socialista della
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Romania, accentrando nella sua persona le cariche di capo di Stato, segretario generale del Partito
comunista e comandante delle forze armate. Godendo di un trattamento di favore da parte dei paesi
occidentali e dei loro mass media, egli esercitò un potere personale assoluto. La visita di Gorbaciov in
Romania esercitò un’ondata di speranza nella popolazione, ma Ceasescu non apprezzò assolutamente le
ingerenze dell’ospite negli affari interni della Romania. Era difficile per gli oppositori in questo clima,
manifestare le proprie posizioni. Tuttavia alcuni sindacati liberi avevano cercato di formarsi nelle zone
minerarie della Transilvania. Contro questi tentativi di opposizione il potere rispose con la pressione
violenta e l’internamento psichiatrico. La prima vera manifestazione si verificò dopo l’annuncio di
nuove restrizioni per il riscaldamento e l’uso dell’elettricità. Il fatto che tali disordini si fossero prodotti
nelle regioni in cui le minoranze ungheresi e tedesche erano numerose, causò un inasprimento della
politica condotta nei loro confronti.
I paesi dell’”apertura”.
- L’Ungheria, vetrina del mondo socialista europeo. In tutta l’Europa orientale, l’effetto più
sensibile della perestrojka fu senza dubbio l’allontanamento di Janos Kadar, generale del Partito
socialista operaio ungherese per trentadue anni. Da qualche anno Kadar era infatti contestato perfino
all’interno del suo stesso partito e il clima liberale che egli aveva contribuito a creare gli si rivoltò
contro. Egli aveva permesso la nascita di una vera “opposizione” e a causa delle crescenti difficoltà
economiche si erano costituiti numerosi sindacati liberi. Il primo segno precursore di cambiamento si
manifestò in occasione delle elezioni legislative del 1985: per la prima volta in un paese socialista,
candidati liberi vennero autorizzati a presentarsi, a patto che accettassero il programma del Fronte
Popolare Patriottico. Era ormai lontano il tempo in cui il Partito voleva governare tutto. Era ormai
lontano il tempo in cui il partito voleva governare tutto. Questo nuovo atteggiamento del potere si
tradusse in una relativa tolleranza e il vento di contestazione diffusosi persino all’interno del Partito fu
convocata una conferenza nazionale straordinaria, durante la quale fu decisa la sorte di Kadar. Venne
subito nominato un nuovo comitato centrale, in cui entrarono numerosi riformatori. Fu con uno
scrutinio segreto - altra innovazione- che fu nominato il successore di Kadar: Karoly Grosz.
L’allontanamento di Kadar fu accolto positivamente a Mosca, poiché facilitava l’attuazione di riforme
radicali e dava soddisfazione agli oppositori. Grosz, ormai libero di agire, per risolvere la crisi
economica cercò un’apertura all’Occidente molto decisa. Il capo del governo si rivolse alla CEE con
cui stillò un accordo, il primo tra un paese del CAER e la CEE. Al capo del Governo fu invece posto un
giovane economista di quarant’anni, ex allievo di Harvard, Miklos Nemeth. Che cercò di organizzare il
programma di riforme tanto atteso da tutti. E lo fece favorendo la collaborazione attiva della Chiesa
cattolica, che, per molto tempo in posizione di secondo piano, entrava anch’essa nel dibattito politico.
- Rinascita di Solidarnosc. La proclamazione dello stato di guerra da parte del generale
Jaruzelski e l’arresto dei principali dirigenti di Solidarnosc, erano stati accolti favorevolmente dai
regimi allora in vigore nell’Europa orientale. I paesi occidentali avevano animatamente condannato il
“colpo di Stato” di Jaruzelki, ma di fatto fu solo a Roma che il Papa condannò, con estrema decisione,
il colpo di mano del potere polacco. Malgrado manifestazioni organizzate da Solidarnosc, la
normalizzazione venne realizzata rapidamente, tramite ripetuti incontri tra monsignor Geme e il
generale Jaruzelski. Lech Walesa e parecchie centinaia di detenuti venivano liberati. La sospensione
dello stato di guerra portò la vita ad un livello di quasi normalità, in una Polonia disillusa dopo
l’immensa speranza suscitata dalla nascita e dal rapido sviluppo di un sindacato libero, indipendente
dal potere. Un fragile equilibrio si costituì a poco a poco nella nazione, tra il potere politico,
rappresentato da Jaruzelski e sostenuto dal Partito operaio polacco, e le due forze che lo contrastavano:
una, l’opposizione, rappresentata principalmente dai simpatizzanti di Solidarnosc, l’altra dalla potente
Chiesa cattolica, sostenuta da Roma da Giovanni Paolo II, il cui ruolo fu molto importante, poiché i
schierò nettamente con Solidarnosc. Ogni viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia era occasione di
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manifestazioni popolari a favore del sindacato. Fra due suoi viaggi, l’assassinio di padre Popieluszko,
parroco di una parrocchia di Varsavia. Gli accusati furono condannati a lunghe pene, ma scarcerati
dopo soli tre anni. Organizzando per l’occasione un processo pubblico, il potere salvava la faccia
davanti all’opinione pubblica internazionale. Il premio Nobel per la pace assegnato a Lech Walesa,
consacrava il suo prestigio al di là delle frontiere oltre che in Polonia, ma l’abilità con cui Jaruzelski
risolse la crisi politica del paese, gli procurò addirittura un sentito riconoscimento da parte di Mikhail
Gorbaciov. Jaruzelski e Walesa erano destinati ad accordarsi, se si voleva superare la crisi economica.
Senza l’aiuto di Solidarnosc non poteva essere intrapresa alcuna politica di risanamento, poiché
soltanto i dirigenti del sindacato libero erano in grado di fare accettare agli operai i sacrifici richiesti dal
necessario risanamento dell’economia. La Polonia era uno Stato in cui, contrariamente agli altri paesi
dell’Est, la popolazione continuava ad aumentare in modo significativo, risultato di una solida
tradizione cattolica. L’esodo dalle campagne continuava, mentre le strutture dell’agricoltura
rimanevano tradizionali e spesso arcaiche. L’introduzione del razionamento alimentare pose fine al
mercato libero, provocando l’apparizione di un vero e proprio mercato nero, il che portò a due
principale conseguenze: i prezzi degli alimentari erano in rialzo costante al mercato nero, mentre in
quello ufficiale i prezzi erano più bassi ma i prodotti erano più scarsi e di qualità inferiore. Anche
l’industria aveva grossi problemi. Oltre alle tensioni sociali che avevano rallentato la produzione,
l’industria polacca cominciava a soffrire sia dell’esaurimento di alcune risorse naturali che del ritardo
tecnologico in numerosi settori. Altro aspetto della crisi economica era l’esistenza di un forte
indebitamento con l’estero, sia con l’Occidente che con la Russia. La gravità della situazione e i rischi
conseguenti di una ripresa dell’agitazione operaia, incitarono il governo a ricercare una soluzione
politica per la crisi. La Dieta votò un emendamento alla Costituzione, che avrebbe reso possibile
l’attuazione di una riforma economica,tra le cui principali misure prese in considerazione c’era un
aumento dei prezzo dal 20% al 50% e blocco dei salari. La consultazione popolare che ebbe luogo
approvò riforma politica, ma per il governo c’era poco da essere soddisfatti, poiché meno di metà
elettori iscritti nelle liste avevano votato. Il governo presentò l’emendamento alla Dieta, che lo adottò
con alcune modifiche, che stabilirono lo scaglionamento del rialzo dei prezzi alimentari in tre anni.
Come è ovvio, le prime applicazioni di tali misure provocarono scioperi e manifestazioni. Il potere si
risolse di negoziare con Walesa e l’incontro tra quest’ultimo e il ministro dell’Interno si concluse con
un accordo: il governo polacco e Lech Walesa avrebbero organizzato una tavola rotonda allo scopo di
costituire in Polonia una vera democrazia.
Il crollo dei regimi comunisti (1989).
Un ambiente favorevole al cambiamento.
L’arrivo al potere di Mikhail Gorbaciov ha avuto un notevole peso sui destini dei paesi dell’Europa
dell’Est e sul comportamento dei loro dirigenti. Inizialmente si è avuto il risveglio delle nazionalità nel
Caucaso, seguito da quello delle repubbliche baltiche, e dalla volontà di queste etnie di accedere
all’indipendenza, senza che l’Armata Rossa intervenisse … la lenta liberalizzazione dell’informazione
nell’URSS: tutto questo aveva portato alla nascita di una grande speranza. I dirigenti sovietici, in nome
di glasnost e perestrojka, tolleravano una contestazione sempre più audace. Per Gorbaciov, la
cooperazione economica con il mondo occidentale era necessaria e anche le democrazie popolari
avevano bisogno dell’aiuto finanziario del mondo occidentale, di quello della CEE in particolare. Le
elezioni quasi “libere” che ebbero luogo nell’Unione sovietica nel 1989, implicavano il fatto che
consultazioni analoghe potevano essere indette nei “paesi fratelli“.
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La successione dei cambiamenti: la Polonia e l’Ungheria.
- La Polonia: la ripresa delle riforme politiche dopo una battuta d’arresto. In effetti è tutto
iniziato dalla Polonia: dopo aver invano cercato di soffocare il sindacato libero, il potere polacco si era
finalmente deciso a trattare con quest’ultimo. La “tavola rotonda” promessa a conclusione degli
incontri tra il ministro dell’Interno e Walesa ebbe luogo e terminò con la firma di un patto globale tra il
potere e Solidarnosc. Questo accordo segnò una svolta decisiva non solo per la Polonia, ma per tutto il
settore socialista. Questo patto prevedeva il ristabilimento del pluralismo sindacale, sanciva una totale
ristrutturazione delle istituzioni: alla guida del paese ci sarebbe stato un presidente della repubblica, il
vero capo di Stato; il potere legislativo sarebbe spettato ad un parlamento bicamerale eletto a suffragio
universale, formato da Dieta e Senato. Risultato politico dell’accordo fu l’organizzazione delle prime
elezioni libere a partire dal 1945. Tali consultazioni furono un successo per l’opposizione. I comunisti
non avevano più la maggioranza e non potevano mantenere la loro influenza. Dopo aver indugiato, il
generale Jaruzelski avanzò la sua candidatura alla carica di presidente e fu eletto con il minimo dei voti.
Rimaneva ora da formare il nuovo governo: la Polonia era il primo paese dell’Est ad essere diretto da
un governo presieduto da una personalità non comunista, Mazowieski, uno dei consiglieri di Walesa ed
elemento moderatore di Solidarnosc. Per quanto riguarda la crisi economica,tutti erano d’accordo per la
costituzione di un programma basato su una vera economia di mercato, sulla lotta contro l’inflazione, la
rigida diminuzione delle sovvenzioni alle industrie fallimentari. Rimaneva da fare accettare al paese
questo piano e tutto dipendeva dal livello di maturità politica della popolazione. Il comitato centrale
discusse anche lo scioglimento del POP, e la sostituzione con uno nuovo, non marxista e di diverso
nome, tenendo conto del disastroso bilancio dell’azione precedente del POP dall’epoca stalinista in poi.
Nel 1990 era iniziato un clima abbastanza teso: le manifestazioni contro il carovita si moltiplicavano, i
contadini temevano l’economia di mercato. Vi erano molte difficoltà per il nuovo gruppo di governo e
la sua credibilità.
- L’Ungheria, ovvero la “riforma tranquilla”. Diversamente da quanto avvenne in Polonia,
l’Ungheria proseguì nella calma e tranquillità la sua avanzata verso la democrazia. Alla riforma
condotta con costanza dal governo, si era affiancata una riforma “spontanea” condotta facilmente dal
momento che il parlamento aveva abolito tutti gli ostacoli che limitavano l’esercizio della libertà di
associazione e manifestazione. Associazione e gruppi di ogni tipo si erano moltiplicati, accanto ai
movimenti di opposizione. La stampa si era spontaneamente liberata da ogni autocensura. L’antico
stemma sormontato dalla corona di santo Stefano era riapparso sulla bandiera nazionale, anche in
occasione di cerimonie ufficiali. Alcuni partiti politici come quello democratico-cristiano e quello dei
piccoli proprietari, contemplavano seriamente la candidatura di Otto d’Asburgo, figlio dell’ultimo
imperatore - re, alla presidenza della repubblica. Da parte sua , il potere voleva integrare la riforma nel
quadro della tradizione nazionale. Allo stesso modo il governo compì un gesto estremamente
significativo, riabilitando i combattenti della contro-rivoluzione del 1956. La riabilitazione ufficiale di
Imre Nagy fu seguita da una cerimonia funebre in cui cinque bare, contenenti resti esumati di Nagy e
dei suoi collaboratori, oltre una sesta vuota, rappresentante le centinaia di vittime della repressione,
furono oggetto dell’omaggio di migliaia di ungheresi. Il governo era rappresentato dal primo ministro
Nemeth e dal ministro di Stato Pozsgay. All’interno del Partito ci si affannava febbrilmente per attuare
il rinnovamento atteso da numerosi militanti. Si ebbero “libere elezioni” nell’estate 1989 in quattro
circoscrizioni. In tre circoscrizioni i candidati dell’opposizione ottennero la maggioranza e vennero
eletti. Fu votato in seguito lo scioglimento del Partito socialista operaio ungherese e la sua sostituzione
con un Partito socialista ungherese. Il parlamento procedette ad una revisione della Costituzione del
1949. Il paese non era più una repubblica popolare, ma solo la Repubblica d’Ungheria; uno Stato di
diritto che riconosceva il multipartitismo. Altre misure prese dal governo avevano mostrato che il
passato era definitivamente morto: fu definitivamente riabilitato il cardinale Mindszenty e riconosciuto
che fosse stato sottoposto a torture fisiche e psichiche. Furono eretti monumenti commemorativi. La
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stampa e la televisione celebrarono gli “eroi del 1956” con commozione. La politica estera
dell’Ungheria non era sfuggita al vento di riforme che aveva interessato quella interna. Il nuovo
ministro degli Esteri ristabilì le relazioni diplomatiche con lo Stato di Israele. I rapporti con la vicina
Austria diventarono sempre più stretti. Il provvedimento più interessante fu la decisione del governo di
smantellare la “Cortina di ferro” che separava l’Ungheria dall’Austria. La nuova Ungheria si rivolse
decisamente verso l’Occidente, in particolare con i paesi della CEE. La breccia aperta nella “Cortina di
ferro” portò molto rapidamente a un fenomeno inaspettato: migliaia di tedeschi dell’Est, desiderosi di
stabilirsi nella RFT, si recarono come turisti in Ungheria e non vollero rientrare nel loro paese. Sebbene
era obbligo per l’Ungheria, rispedire in RDT i tedeschi che sarebbero voluti entrare in Austria, la
frontiera austro-ungherese si aprì di fronte a migliaia di rifugiati. Questo gesto fu salutato con
entusiasmo dalle autorità di Bonn. Il gesto umanitario del governo ungherese ravvicinava un poco
l’Ungheria al mondo occidentale, ma avrebbe avuto serie conseguenze per il regime della RDT.
Le masse all’assalto del potere: Berlino, Praga, Sofia.
Contrariamente a ciò che si verificò in Polonia e in Ungheria, dove oppositori e dirigenti avevano
realizzato il cambiamento di comune accordo, nella RDT, in Cecoslovacchia e in Bulgaria furono le
manifestazioni popolari pacifiche a far indietreggiare il potere e a imporre le riforme.
- La caduta di Honecker e la fine del “Muro di Berlino”. Fin Dall’inizio i dirigenti della
RDT avevano manifestato la loro ostilità nei confronti dei cambiamenti che si stavano realizzando in
Polonia e Ungheria. La linea “dura” era di rigore a Berlino Est. Nonostante ciò i giovani tedeschi della
Germania orientale tolleravano sempre meno il controllo onnipotente dello Stato e del Partito.
L’annuncio della distruzione della Cortina di Ferro spinse migliaia di tedeschi dell’Est a passare in
Occidente. Le autorità della RDT reagirono chiudendo il loro confine con la Cecoslovacchia,
indispensabile per chi volesse arrivare in Occidente. I tedeschi dell’Est bloccati in Cecoslovacchia si
rifugiavano nell’ambasciata dell’RFT a Praga, provocando seri problemi d’asilo. Il governo della
Germania orientale, dietro pressione dell’opinione pubblica, permise il passaggio nel suo territorio di
treni speciali con a bordo profughi che volevano stabilirsi nella RFT. Contemporaneamente alla visita
di Gorbaciov in RDT, a Berlino e nelle principali città della RDT, migliaia di manifestanti si riunivano
nelle strade per esprimere la loro ostilità ad Honecker. Non furono le parole di Gorbaciov riguardo la
necessità di evoluzione anche per la Germania dell’Est a fare indietreggiare Honecker, ma il
moltiplicarsi delle manifestazioni popolari. Il popolo conseguiva la sua prima vittoria: Erich Honecker
abbandonava le sue cariche di capo dello Stato, del Partito e dell’esercito. Fu immediatamente
sostituito, al vertice del partito, da un conservatore, la cui nomina fu letta come una provocazione:
ovunque la folla reclamava il suo allontanamento, lo scioglimento della STASI e l’abolizione del
monopolio politico del Partito comunista. Il nuovo vertice del partito, tornato da una visita a Mosca,
per calmare gli animi annunciò l’immediata apertura delle frontiere con la RFT. Poco dopo abbandonò
la direzione del partito. Alla fine di una “tavola rotonda” che riunì tutti i partiti politici, venne
comunicato che si sarebbero tenute libere elezioni per nominare un nuovo parlamento. Tuttavia la
situazione era molto meno chiara che in Polonia e Ungheria: ancora il Partito comunista non aveva
desposto le armi;d’altra parte il Partito controllava ancora quasi tutto l’apparato statale. Per i tedeschi
dell’Est, al di fuori della possibilità di viaggiare liberamente nella RFT non c’era stato altro importante
cambiamento. L’opposizione era molto divisa soprattutto sul problema della riunificazione della
Germania e aveva preso coscienza della sua debolezza. Il popolo, che rappresentava la maggioranza,
non era più silenziosa e passiva. I tedeschi dell’Est non volevano più sentire parlare di STASI o di
comunismo e lo dimostrarono chiaramente quando a Berlino Est decine di migliaia di maifestanti
assaltarono l’edificio della sede centrale della STASI. L’annuncio dell’apertura di un procedimento
legale contro Erich Honecker e contro il capo della STASI fu un secondo successo.
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- Il trionfo del popolo in Cecoslovacchia. Il pecipitare degli eventi storici che ha portato alla
caduta del potere comunista in Cecoslovacchia si spiega con la presenza congiunta di due fenomeni: da
un lato l’effetto contagioso dei cambiamenti dei paesi vicini, soprattutto quando la Cecoslovacchia si
trovò coinvolta, con l’ambasciata della RDT a Praga, nell’esodo dei profughi tedeschi verso
l’Occidente; dall’altro il ritorno alla democrazia parlamentare in Ungheria e in Polonia, dal momento
che questi paesi erano costantemente visitati dai turisti cecoslovacchi. Il potere comunista
cecoslovacco, rappresentato da Gustav Husak, capo dello Stato, e Milos Jakes, segretario generale,
riuscì a contenere la crescente opposizione con la repressione violenta. Gli studenti e i giovani
volevano commemorare lo studente Jan Palach che nel 1969 si era immolato dandosi fuoco per
protestare contro l’ingresso in Cecoslovacchia degli eserciti del Patto di Varsavia. In Cecoslovacchia
parecchie migliaia di personalità del mondo della cultura indirizzarono al primo ministro Adamec una
lettera per reclamare contro la repressione poliziesca. All’estero l’indignazione veniva manifestata
pubblicamente. Al manifestare , l’opposizione e la Chiesa insieme a lei proponendosi mediatrice col
governo, la necessità di dialogo, il governo reagì con degli arresti. Ciò non impedì che si riunissero
parecchie migliaia di persone in Piazza San Venceslao nel cuore di Praga: ne furono arrestati quasi 400,
tra cui decine di polacchi di Solidarnosc e ungheresi. Una nuova manifestazione, alla quale
l’opposizione aveva invitato la popolazione, scese di nuovo a protestare a piazza San Venceslao,
chiedendo la libertà e le dimissioni di Jakes. Successivamente ad una manifestazione sedata
brutalmente, il Forum civico, che riuniva tutte le componenti dell’opposizione, organizzò giornalmente
cortei sempre più imponenti. Il vecchio leader, Alexander Dubcek insieme al nuovo capo
dell’opposizione, Havel, presero la parola e dietro la pressione delle masse, l’ufficio politico del Partito
si dimise in blocco. Milos Jakes venne sostituito a capo del partito. Il rinnovo della direzione del partito
non risolse nulla. Fu il parlamento ad adottare il primo provvedimento in grado di calmare la folla; fu
abolito il ruolo dirigente del Partito comunista, il che voleva dire ammettere il multipartitismo. Nuovi
contatti furono costruiti tra Adamec e il Forum civico. Il nuovo governo annunciò subito lo
smantellamento della Cortina di Ferro con l’Austria e lo scioglimento della polizia politica. Alexander
Dubcek fu eleletto presidente del parlamento, una carica essenzialmente onorifica, ma l’indomani
Havel fu nominato presidente della repubblica. Un tempo perseguitato dai comunisti, era il primo non
comunista ad avere questo incarico. Dopo aver posto una corona di fiori davanti alla statua di San
Venceslao, Havel annunciò un’amnistia generale.
- In Bulgaria. La Bulgaria costituisce l’unico esempio di paese dell’Est in cui il potere si è fatto
da parte sotto la pressione delle manifestazioni popolari e senza spargimento di sangue. Il vento della
perestrjka non vi aveva soffiato ancora con decisione. Le trasformazioni in atto in Polonia e Ungheria
non lasciavano indifferenti gli ambienti intellettuali e i giovani. Per distogliere l’opinione pubblica dai
problemi di riforma politica, il governo puntò sul nazionalismo bulgaro e inasprì le misure in corso da
qualche anno, che miravano all’eliminazione della minoranza di origine turca. Questa diversione non
risolse comunque nulla. Tutti aspiravano a riforme analoghe a quelle adottate in altri paesi dell’Est. La
pressione popolare aumentò quando furono annunciate alcune concessioni ma la cui applicazione fu
rimandata. Finalmente Zivkov si dimise e fu sostituito con Petar Mladenov, considerato moderato. Egli
annunciò una politica sulla scia del socialismo, ma furono immediatamente preannunziate alcune forme
di liberalizzazione. Sotto pressione della folla il potere comunista aveva ceduto. Tuttavia, annunciando
la reintegrazione della minoranza turca nei suoi pieni diritti, il comitato centrale sperava di provocare
una reazione antiturca da parte dei bulgari. Ciò avrebbe dovuto mettere in imbarazzo l’opposizione. Vi
furono violenti scontri fra i cittadini di origine bulgara e bulgari di origine turca e l’opposizione si
preoccupò seriamente, non esitando a denunciare le provocazioni del potere. Migliaia di bulgari
protestarono per Sofia a favore di vere riforme. Riprendendo le loro richieste, l’Assemblea Nazionale
votò una legge che poneva fine al monopolio politico del Partito comunista. La Bulgaria si era
incamminata lungo la strada seguita dagli altri paesi riformatori.
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La tragedia romena.
Di tutti i paesi dell’Est, ad eccezione dell’Albania, la Romania era quello in cui il comunismo aveva
assunto l’aspetto più tirannico. Il culto della personalità aveva raggiunto un tale livello da poter credere
di essere tornati ai peggiori momenti dello stalinismo. All’interno del paese solo alcuni dissidenti molto
coraggiosi avevano osato parlare. E’ il caso della docente Doina Cornea, arrestata continuamente,
picchiata dalla polizia, liberata e sottoposta a una stretta sorveglianza da parte della Securitate,
continuava comunque a denunciare il regime di Ceausescu. Perfino all’interno del Partito comunista
romeno alcuni alti funzionari ne avevano preso le distanze. All’estero, l’immagine di Ceausescu andava
deteriorandosi. Dopo il viaggio di Gorbaciov a Bucarest, le relazioni con l’URSS si incrinarono
rapidamente. Il mondo occidentale prese anche coscienza di ciò che tale regime era in realtà: la
distruzione di villaggi, i maltrattamenti inflitti alle minoranze nazionali, le violazioni dei diritti
dell’uomo, la scarsità di beni come regola di vita, svegliarono piano piano il mondo occidentale dal suo
torpore. Nonostante il partito non fosse unanime e ci fossero richieste di destituire il dittatore, al
momento dell’apertuta del XIV Congresso del Partito, Ceausescu fu riconfermato segretario generale
del Partito. Un mese dopo il regime crollava dopo più di una settimana di scontri sanguinosi, risultato
di più avvenimenti: all’origine vi era l’aggravarsi della situazione delle minoranze ungheresi e tedesche
della Transilvania. Inoltre significativa fu la presa di posizione di un pastore, che denunciava gli abusi
delle autorità e la docilità dei suoi superiori. Quando la polizia volle arrestarlo, i suoi parrocchiani lo
protessero intorno alla sua casa e fronteggiarono i poliziotti. L’indomani vi erano migliaia di
manifestanti che assalivano gli edifici e la sede del Partito bruciando i ritratti di Ceausescu. La
repressione fu sanguinosa e vi furono parecchie centinaia di morti. Tuttavia le manifestazioni
continuavano e migliaia protestarono contro il divieto di seppellire i corpi delle vittime della
repressione. Il Conducator organizzò a Bucarest una manifestazione di sostegno, e il suo discorso
venne presto interrotto da urla ostili della folla, che portarono all’interruzione della trasmissione alla tv.
L’insurrezione aveva così raggiunto la capitale, e i manifestanti si lanciarono verso l’edificio della
televisione, diventata “libera”, permettendo a tutto il mondo di seguire in diretta ciò che avveniva. Si
seppe che Ceausescu e la moglie avevano abbandonato il potere ed erano fuggiti in elicottero, ma
furono presto riconosciuti e arrestati dai militari passati alla rivoluzione. Dopo le dimissioni del
governo, il solo potere legale era il Consiglio del Fronte di Salvezza Nazionale, tra i quali membri vi
erano alcuni servitori del regime. Mentre il CFSN adottava le prime misure urgenti, nelle principali
città si continuava a combattere. L’esercito cercava di porre fine alle azioni Nicolae Ceausescu e sua
moglie erano stati condannati a morte da un tribunale speciale e vennero giustiziati dopo un frettoloso
processo. Un nuovo governo fu formato dal CFSN, che annunciò un certo numero di provvedimenti,
spinto dall’opinione pubblica: abolizione della pena di morte, libertà di stampa, settimana lavorativa di
5 giorni, approvvigionamento migliore. Ma presto si formò un clima diffidente, perché per molti
romeni, le personalità principali del CFSN erano comunisti, a lungo complici di Ceausescu. Coloro che
avevano combattuto per la libertà erano molto preoccupati e lo dimostravano con le quotidiane
manifestazioni che organizzavano. All’indomani della rivoluzione, molto problemi rimanevano
immutati: si temeva di essere stati ingannati dai un semplice “colpo di Stato”.
Il difficile esercizio della democrazia.
La fine della RDT e la riunificazione della Germania. Fin dal crollo del governo sotto la pressione
delle masse e con l’assenso di ikhail Gorbaciov, la sorte della RDT era già stabilita. Alle elezioni che si
verificarono, caratterizzate da una massiccia partecipazione, fu attribuita una considerevole
maggioranza all’Alleanza per la Germania, guidata dall’Unione democristiana unita all’Unione
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socialcristiana. I grandi vincitori sono stati partiti storici favorevoli alla riunificazione del paese. I
tedeschi del’Est avevano voluto esercitare un voto utile, cioè votare per coloro che si erano chiaramente
pronunciati a favore della riunificazione. Il marco tedesco diveniva la moneta unica su tutto il territorio
e la frontiera tra i due Stati veniva abolita definitivamente. La nazione tedesca riunificata vedeva
riconoscersi il diritto di stringere alleanze e ritrovava la piena sovranità nei suoi affari interni ed esteri.
Le riserve polacche a proposito della riunificazione della Germania sono state definitivamente rimosse
con la firma di un trattato con regole di intangibilità dell’attuale frontiera germanico-polacca. Il 3
ottobre 1990 la riunificazione della Germania diveniva realtà ed il primo cancelliere della Germania
riunificata fu nominato, con grande maggioranza, Helmut Kohl.
La trasformazione democratica e i suoi limiti.
In Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia il passaggio alla democrazia è avvenuto senza intoppi. La
volontà popolare si era espressa chiaramente, in queste nazioni, con elezioni totalmente libere e i cui
risultati non furono contestati da nessuno. A differenza dei paesi dell’Europa centrale, le nazioni
dell’Europa balcanica, la Bulgaria, l’Albania e la Romania erano rimaste un po’ in dietro. Tali
democrazie, sebbene, una volta acquistate, ormai irreversibili, si trovavano a fronteggiare seri
problemi. La costituzione delle strutture democratiche aveva parzialmente celato la catastrofica
situazione economica delle vecchie democrazie popolari. Tutti i nuovi governi avevano espresso il loro
fermo proposito di rinunciare all’economia socialista pianificata e di sostituirla con una di mercato. Ma
ciò richiedeva del tempo. La ristrutturazione economica non si presentava ovunque negli stessi termini.
L’ex RDT, integrata nella potente economia della RFT dopo il trattato di un’ unione monetaria, aveva
percorso più facilmente questa strada. Negli altri paesi la situazione era diversa: in Romania e Bulgaria
la riforma economica inserita nei programmi di governo rimase a lungo una pia intenzione prima di
essere attuata. In Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia la situazione era migliore, ma con notevoli
differenze tra un paese e l’altro. Soprattutto nei Balcani e in Jugoslavia, la democrazia aveva fatto
rinascere certi antagonismi nazionali, che nei paesi di tradizione occidentale si erano in qualche modo
ridotti. Il problema essenziale in Jugoslavia non era quello della democratizzazione, piuttosto quello
dello scontro fra il nazionalismo panserbo, sostenuto dall’esercito federale, e i nazionalisti delle
repubbliche e dei territori periferici, che forti del proprio successo elettorale, aspiravano anch’essi
all’indipendenza.
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