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Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi
Una ricognizione dell’Italia dalla ricostruzione a oggi che segue l’intreccio fra trasformazioni
economiche e mentalità e costumi collettivi, individuando le radici di difetti che viziano la vita
politica e sociale del paese.
L’autore
Paul Ginsborg (1945) è uno storico inglese che da un quindicennio ha concentrato le sue ricerche
sull’Italia repubblicana, nel tentativo assai riuscito di intrecciare la storia dei fenomeni politici ed
economici con quella della società e della mentalità collettiva. Il risultato è un’opera di grande
rilievo culturale scritta e pubblicata in due riprese: la Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi ha visto
la luce nel 1989; L’Italia del tempo presente nel 1998.
Le trasformazioni economiche e sociali
Il centro dello studio di Ginsborg è la “grande trasformazione” che ha attraversato la società italiana
nella seconda metà del XX secolo e che ha fatto del nostro paese una moderna società industriale,
rispetto al paese sostanzialmente agricolo che era stato fino agli anni cinquanta. Inevitabilmente a
essa fecero seguito cambiamenti nei comportamenti collettivi: i valori propri di una società
tradizionale – la frugalità, il risparmio, l’attaccamento alla terra, il rispetto delle gerarchie familiari
e sociali, la devozione – lasciarono il passo a quelli propri della società moderna. Questi tratti si
sono ulteriormente accentuati nel successivo ventennio, caratterizzato da un’altrettanto grande
trasformazione; la progressiva deindustrializzazione di tante aree del paese e l’affermazione di un
sistema economico basato sul terziario.
All’interno di questo quadro Ginsborg colloca l’analisi sia delle contraddizioni sociali che
caratterizzarono il boom economico, sia del sistema politico italiano. Per quel che riguarda il primo
aspetto lo storico inglese appunta la sua attenzione soprattutto sul fatto che questo grande sviluppo
economico non si sia tradotto in un analogo sviluppo civile del paese, non solo nel senso della
permanenza di forti diseguaglianze sociali e territoriali, ma soprattutto della notevole distanza tra i
cittadini e lo stato. L’assenza di adeguate politiche pubbliche a sostegno dei bisogni collettivi ha
dato spazio a un attaccamento abnorme alla famiglia, vissuta da larghi strati della popolazione come
presidio degli interessi individuali. Il “familismo” ha impedito che i cittadini fossero capaci di agire
per il bene comune e in molti casi percepissero quest’ultimo come alternativo e antagonistico al
bene individuale. I rapporto tra famiglia e società si sono dunque dispiegati in maniera distorta.
Questa distorsione ha generato la diffusione di pratiche clientelari che a loro volta l’hanno favorita e
alimentata. Tra i fattori che hanno determinato la diffusione del clientelismo, Ginsborg annovera
l’azione dei partiti di governo e segnatamente della DC, che soprattutto negli anni cinquanta e
sessanta hanno concepito l’azione di sostegno dello stato verso gli strati sociali meno abbienti come
dispensazione paternalistica di sussidi e di prebende: il diritto si è presentato sotto forma di favore
da scambiarsi con un altro favore, il voto. Clientelismo e familismo hanno determinato una
fisionomia specifica del carattere nazionale degli italiani, che pesa come una tara profonda: possono
essere ascritti come loro esiti estremi anche la diffusa corruzione e fenomeni di criminalità come la
mafia e la camorra.
Il sistema politico dei partiti
Il secondo aspetto riguarda il sistema politico, che Ginsborg vede caratterizzato dalla prevalenza dei
grandi partiti di massa che hanno trovato la loro legittimazione nella Resistenza al nazifascimo.
Questi partiti hanno svolto il ruolo indubbiamente positivo di canali di partecipazione politica di
vasstissimi strati della popolazione da sempre estranei alla vita civile: sono stati cioè uno strumento
di democratizzazione del paese, su cui aveva gravato il peso di un ventennio di dittatura. Questi
meriti, però, per Ginsborg non possono nascondere gli elementi negativi. Lo sguardo dello storico si
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posa soprattutto sulla Dc e sul Pci, che costituivano le maggiori forze politiche italiane. Alla prima
Ginsborg imputa non solo la diffusione del clientelismo, ma soprattutto la mancanza di una strategia
di lungo respiro in grado di accompagnare e di orientare la “grande trasformazione” in corso. I
valori delle cultura politica democristiana fondati sul trinomio “cattolicesimo, americanismo e
fordismo” riuscirono a fare presa sulla maggioranza dell’opinione pubblica e si radicarono nella
società, anche se soprattutto in quella del sud, che dette a questo partito la maggior parte del suo
personale politico, ma da essi non scaturì un indirizzo politico capace di guidare il cambiamento:
esso quindi si dispiegò liberamente senza che la politica fosse in grado di orientare verso fini di
interesse collettivo le straordinarie dinamiche del mercato. Il risultato fu la formazione di una
nazione ricca, ma piena di contraddizioni e con un debole spirito pubblico.
A questo risultato un contributo non piccolo venne dato anche dal Pci, che non riuscì mai a portare
a termine la sua trasformazione da partito rivoluzionario legato al blocco sovietico a partito
socialdemocratico pienamente occidentale. La sua azione fu dunque inficiata dall’assenza di cultura
riformista, alimentando un antagonismo sociale radicale, ma fine a se stesso, che gli impedì di porsi
come alternativa percorribile al moderatismo democristiano.
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