3.Sviluppo e Promozione umana “luogo” dell`azione della Chiesa

Attualità della Populorum Progressio: Lo sviluppo umano nel nostro tempo …
interpella la Chiesa e non solo.
Premessa
L’orizzonte di riferimento: “La Caritas in veritate”
Indubbiamente l’idea di sviluppo presente nella populorum progresso di Paolo VI
rimane il punto di partenza del pensiero della Caritas in veritate, ma la condizione
storica che stiamo vivendo induce ad andare oltre. A differenza degli anni Settanta in
cui lo sviluppo era identificato preferibilmente come «L'obiettivo per far uscire i
popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e
dall'analfabetismo» (n. 21), il termine assume oggi nelle pagine di Benedetto XVI
una connotazione più ampia. Esso si pone come l'obiettivo per verificare la totalità
della persona nel suo armonioso sviluppo della conoscenza di sé, delle relazioni
interpersonali, sociali e del mondo che lo circonda e all'interno del quale è inserito; in
una parola, «l'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo». (n. 28)
Da qui quanto afferma il Papa al n. 78 che lo sviluppo genuino e coerente che la
nostra società è chiamata a perseguire è quello di un umanesimo integrale. E,
richiamando il n. 6 del documento: “solo nella misura in cui la persona conosce se
stessa e si mantiene in quella sfera di tensione costante verso la verità, allora può
garantire che nella società e nelle diverse forme in cui essa si articola si possa
concretamente realizzare uno sviluppo coerente, non traumatico per la mancanza di
regole e soprattutto fondato su principi etici che garantiscono il rispetto verso tutti e
l'applicazione della giustizia come «prima via della carità».”
Nel solco della DSC
Come sappiamo, la Dottrina sociale della Chiesa ha una dimensione che permane ed
una che muta con i tempi. Essa è l’incontro del Vangelo con i problemi sempre nuovi
che l’umanità deve affrontare. Questi ultimi cambiano, ed oggi lo fanno ad una
velocità sorprendente. La Chiesa non ha soluzioni tecniche da proporre, come anche
la Caritas in veritate ci ricorda, ma ha il dovere di illuminare la storia umana con la
luce della verità e il calore dell’amore di Gesù Cristo, ben sapendo che "se il Signore
non costruisce la casa invano si affannano i costruttori".
Inizialmente la Caritas in veritate era stata pensata dal Santo Padre come una
commemorazione dei 40 anni della Populorum progressio (PP) di Paolo VI e mette
bene in luce come Paolo VI abbia strettamente collegato la Dottrina sociale della
Chiesa con la evangelizzazione (Evangelii nuntiandi) ed abbia previsto l’importanza
1
centrale che avrebbero assunto nelle problematiche sociali i temi legati alla
procreazione (Humanae vitae).
Nella cornice della Populorum progressio
Ma balza agli occhi che il concetto centrale resta la caritas intesa come amore divino
manifestato in Cristo. Avremo modo di vedere come si coniuga questo concetto con
la realtà dello sviluppo. Essa è la fonte ispiratrice del pensare e dell’agire del cristiano
nel mondo. Alla sua luce, la verità diventa "dono…, non è prodotta da noi, ma
sempre trovata o, meglio, ricevuta" (n. 34).
La Chiesa ispira, ma non fa politica. Riprendendo la Populorum Progressio,
l’enciclica di oggi afferma chiaramente: "La Chiesa non ha soluzioni tecniche da
offrire e non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati" (n. 9).
La nuova enciclica tratta più esplicitamente e più decisamente tutto ciò, ponendosi sul
terreno della carità. Insegna che la "carità è la via maestra della dottrina sociale della
Chiesa" (n. 2). La carità che qui si intende è quella "ricevuta e donata" da Dio (n. 5).
Da l’ approccio antropocentrico "Il primo capitale da salvaguardare e da valorizzare è
l’uomo, la persona, nella sua integrità (n. 25); "La questione sociale è diventata
radicalmente questione antropologica" (n. 75).
E’ richiesta una conversione da una visione che parte dagli uomini stessi ritenendoli
unici e originari costruttori della società e della grammatica che regola le relazioni tra
i cittadini, ad una visione che invece si pone in ascolto di un senso che ci viene
incontro, espressione di un progetto sull’umanità che non disponiamo noi.
Ogni azione si riduce a produzione. Bisogna invece convertirsi a vedere l’economia e
il lavoro, la famiglia e la comunità, la legge naturale posta in noi ed il creato posto
davanti a noi e per noi, come una chiamata – la parola "vocazione" ricorre spesso
nell’enciclica – ad un assunzione solidale di responsabilità per il bene comune.
La CV [Caritas in veritate] ci dice, inoltre, che si può fare impresa anche se si
perseguono fini di utilità sociale e si è mossi all’azione da motivazioni di tipo prosociale. E’ questo un modo concreto, anche se non l’unico, di colmare il pericoloso
divario tra l’economico e il sociale
La Dottrina Sociale della Chiesa va oltre (ma non contro) l’economia di tradizione
smithiana che vede il mercato come l’unica istituzione davvero necessaria per la
democrazia e per la libertà. La Dottrina Sociale della Chiesa ci ricorda invece che una
buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze,
riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate
alla sola sfera privata o alla filantropia.
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E’, poi, necessario riconoscere al principio di gratuità un posto di primo piano nella
vita economica che ha a che vedere con la diffusione della cultura e della prassi della
reciprocità.
Nella CV lo sviluppo è come una relazione intima con la struttura stessa dell’uomo e
dell’intera creazione.
In questo senso il tema dello sviluppo sta in una relazione intima con la struttura
stessa dell’uomo e dell’intera creazione. Esso però, senza perdere quella relazione, va
adottato nel significato assunto nella Dottrina sociale della Chiesa, da cui emerge la
distanza da un concetto di sviluppo a preminente caratterizzazione economica,
diffuso fino a non molto tempo fa, o anche da un modello come quello utilizzato da
organismi internazionali che, per esempio, individuano l’Indice di Sviluppo Umano
secondo le tre dimensioni basilari della longevità, della conoscenza e dello standard
decente di vita (21).
Secondo Paolo VI, per il quale esso è «il cuore del messaggio sociale cristiano», «lo
sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico
sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e
di tutto l’uomo». «Il vero sviluppo è il passaggio per ciascuno e per tutti, da
condizioni meno umane a condizioni più umane»; «fare, conoscere, avere di più, per
essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi». «Lo sviluppo integrale
dell’uomo non può avere luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità». E Giovanni
Paolo II riprenderà il tema sottolineando come gli uomini sono i soggetti e lo scopo
del vero sviluppo, che «non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé
illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito
verso una specie di perfezione indefinita».
Lo sviluppo umano esige un’apertura che sola lo rende integrale. «Non v’è dunque
umanesimo vero – scriveva Paolo VI – se non aperto verso l’Assoluto, nel
riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi
dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che
trascendendosi». Qui l’essere di più acquista le proporzioni che solo il Vangelo,
«elemento fondamentale dello sviluppo» nelle parole di Benedetto XVI, riesce a dare.
La Chiesa se ne fa carico con tutto il suo essere e il suo agire, perciò propone lo
sviluppo come vocazione e come libertà responsabile, consapevole che esso è
integrale se abbraccia tutte le dimensioni dell’umano, materiale, spirituale e morale,
avendo «la carità cristiana come principale forza a servizio».
1.La necessità di un confronto … per essere presenti
Alcuni fatti impressionanti, se letti in un quadro più ampio, animato dalla volontà e
dalla speranza del cambiamento, costituiscono insieme un richiamo e uno stimolo a
maggior impegno; gli stessi fatti possono invece costituire motivo o alibi per
giustificare mancati impegni e la volontà di conservare un ordine di cose che a una
minoranza può anche andar bene.
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Tra tanti altri:
*
l’accelerato incremento demografico, frutto anche di una «vittoria sulla
morte» attuata con la scienza, pone gravi problemi di sopravvivenza a tutta l’umanità,
legati al rapporto popolazione-risorse (spazio, materie prime, energie, generi
alimentari, ecc...);
*
il nostro attuale processo di sviluppo comporta una distruzione massiccia
di risorse naturali, con il rischio di compromettere lo sviluppo delle generazioni
future, a distanza molto ravvicinata;
*
l’industrializzazione è fonte di un processo di inquinamento in molta
parte irreversibile: sostanze inquinanti non degradabili e non distruggibili per la loro
composizione chimica particolarmente stabile, sono oggi presenti nell’atmosfera, nel
terreno, nelle acque;
*
sul piano della convivenza umana, a uno stadio sempre crescente di
socializzazione che rende sempre più profonda l’interdipendenza degli uomini e dei
popoli, corrisponde una situazione di conflittualità che non solo divide tra loro
popolazioni di diversa provenienza etnica, ma «taglia» questi popoli al loro interno,
in un conflitto tra strati sociali, fondato sia su opposizioni create da diverse
condizioni di vita, sia su diverse prospettive e diversi progetti per lo sviluppo
dell’uomo.
« L'ampiezza del fenomeno chiama in causa le strutture ed i meccanismi
finanziari, monetari, produttivi e commerciali, che, poggiando su diverse pressioni
politiche, reggono l'economia mondiale: essi si rivelano quasi incapaci sia di
riassorbire le ingiuste situazioni sociali, ereditate dal passato, sia di far fronte alle
urgenti sfide ed alle esigenze etiche del presente. Sottoponendo l'uomo alle tensioni
da lui stesso create, dilapidando ad un ritmo accelerato le risorse materiali ed
energetiche, compromettendo l'ambiente geofisico, queste strutture fanno estendere
incessantemente le zone di miseria e, con questa, l'angoscia, la frustrazione e
l'amarezza ». « Su questa difficile strada — sulla strada dell'indispensabile
trasformazione delle strutture della vita economica — non sarà facile avanzare se
non interverrà una vera conversione della mente, della volontà e del cuore. Il
compito richiede l'impegno risoluto di uomini e di popoli liberi e solidali »
(Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Redemptor hominis, 1979, n. 16).
Non si può rimanere indifferenti al pensiero che l’80% della popolazione mondiale
può contare soltanto sul 20% della produzione alimentare mentre il 20% più ricco del
mondo dilapida l’80% della ricchezza del pianeta. (mangia il 45% di tutta la carne e il
pesce a disposizione, consuma il 68% di elettricità, l'84% di tutta la carta e possiede
l'87% di tutte le automobili.).
2.Lo sviluppo interpella la Chiesa
La questione dello sviluppo interpella continuamente la Chiesa. E la Chiesa,
chiesa dei poveri e dei senza voce, si fa carico di tutte le problematiche inerenti lo
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sviluppo e indica le vie per affrontarle. Da qui l'importanza accordata alla DSC, in
particolare in questi ultimi decenni: si è sempre più consapevoli che non è più solo la
Chiesa luogo teologico, ma anche e forse soprattutto il mondo e la storia. Cosi il
mondo non è più una realtà profana; ma, oltre a portare i segni della creazione e della
redenzione, è il luogo dove incessantemente opera lo Spirito del Signore e "dove
cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa
prefigurazione, che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba
accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo,
tuttavia, tale progresso, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana
società, è di grande importanza per il Regno di Dio" (GS 39).
Paolo VI raccoglie i primi frutti del Concilio Ecumenico Vaticano II, pubblica, il 26
marzo 1967, la Populorum Progressio. Rifacendosi alla GS, Paolo VI manifesta
infatti il suo "desiderio di rispondere al voto del Concilio” (PP. N.5) In questa
enciclica, il Papa parte da un'analisi congiunta della situazione sociale del mondo
sviluppato e quello sottosviluppato, stabilendo tra di essi una relazione di
interdipendenza, nel bene come nel male.
Benedetto XVI riprende nella CiV il pensiero di Paolo VI che sottolinea
l'aspirazione comune di tutti gli uomini ad "essere affrancati dalla miseria, trovare
con più sicurezza la loro sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una
partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori di ogni oppressione, al riparo
da situazioni che offendono la loro dignità di uomini … ecco l'aspirazione degli
uomini di oggi” (PP. 6)
Non è difficile scorgere la cruda attualità di quanto ancora scriveva il Papa.
Sembra di leggere quanto si scrive oggi e che la dice lunga sulla effettiva volontà di
risolvere la questione allora sollevata, e, purtroppo di stringente attualità (basta
leggere la cronaca relativa al Summit FAO dei giorni scorsi: "i popoli ricchi godono
di una crescita rapida, mentre lento è il ritmo di sviluppo di quelli poveri. Aumenta
lo squilibrio: certuni producono in eccedenza beni alimentari di cui altri soffrono
crudelmente la mancanza"( PP 8). Questa disparità non si limita ai soli beni
alimentari ma si estende a quasi tutti gli ambiti della vita: esercizio del potere, il
lavoro, l'educazione, la cultura, l'organizzazione sociale.
Giovanni Paolo II, vent'anni dopo, riconosceva - che la crisi dello sviluppo che si
palesa nelle disuguaglianze tra ricchi e poveri non è dovuta alla "responsabilità delle
popolazioni disagiate", né ad "una serie di fattori dipendenti dalle condizioni naturali
o dall'insieme delle circostanze" (SRS 9). E continua: “La terra è di Dio! E',
dunque, secondo la sua legge che deve essere trattata. Se, rispetto alle risorse
naturali, si è affermata, specie sotto la spinta dell’industrializzazione,
un’irresponsabile cultura del ‘dominio’ con conseguenze ecologiche devastanti,
questo non risponde certo al disegno di Dio. ‘Riempite la terra, soggiogatela e
dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo’ (Gn, 1,28). Queste note parole
della Genesi consegnano la terra all’uso, non all’abuso dell’uomo. Esse fanno
dell’uomo non l’arbitro assoluto del governo della terra, ma il ‘collaboratore’ del
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Creatore: missione stupenda, ma anche segnata da precisi confini, che non possono
essere impunemente valicati.” (Giovanni Paolo II, intervento alla festa del Giubileo
del mondo agricolo, Roma, Aula Nervi, 11/11/2000).
Giovanni Paolo II sia nella SRS che negli ultimi interventi, fa una diagnosi
della nuova situazione, la interpreta alla luce di criteri ispirati all'etica naturale e alla
morale cristiana e propone delle direttive di azioni.
Il Papa sottolineava come molte delle speranze sono rimaste deluse: una
moltitudine di persone vive in una situazione di estrema povertà, sicché si può
parlare di fallimento. E questo fallimento è dovuto ad un insieme di fattori: una
interpretazione restrittiva e confinata al solo aspetto economico del concetto
sviluppo; una ingenua euforia suscitata da alcuni segni di progresso economico e la
non percezione che il vero problema dello sviluppo è una questione soprattutto
d'ordine morale. “Se l’uomo perde il senso della vita e la sicurezza degli
orientamenti morali smarrendosi nelle nebbie dell’indifferentismo, nessuna
politica potrà essere efficace nel salvaguardare congiuntamente le ragioni della
natura e quelle della società. E' l’uomo, infatti, che può costruire e distruggere,
può rispettare e disprezzare, può condividere o rifiutare. Anche i grandi problemi
posti dai vari settori economico-sociali, vanno affrontati non solo come problemi
‘tecnici’ o ‘politici’, ma, in radice, come ‘problemi morali’.” ((Giovanni Paolo II,
intervento alla festa del Giubileo del mondo agricolo, Roma, Aula Nervi,
11/11/2000)Perdendo di vista l’orizzonte etico siamo costretti a registrare che non
solo la questione dello sviluppo non è risolta, ma che l’abisso già esistente tra poveri
e ricchi, tra il sottosviluppo e lo sviluppo - abisso già osservato da Paolo VI - si è
profondamente allargato.
Gia con la SRS il Papa aveva offerto, inoltre, una innovativa chiave di lettura
del problema quando ricordava i nostri limiti di creatura e di peccatori; ricordava che
non esiste solidarietà senza il Padre, che Gesù ha preso l'iniziativa di amarci.
Risplendeva cosi anche in una enciclica sociale la figura di Cristo come unico
Salvatore "per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col
1,14) e che la Chiesa è mandata a portare all'uomo e al mondo.
Accanto all’idea del necessario riferimento a Cristo il papa richiama la vocazione
dell'uomo quando ricorda che l'uomo, "ha senza dubbio bisogno dei beni creati e dei
prodotti dell'industria, arricchita di continuo dal progresso scientifico e tecnologico. E
la disponibilità sempre nuova dei beni materiali, mentre viene incontro alle necessità,
apre nuovi orizzonti. Il pericolo dell'abuso consumistico e l'apparizione delle
necessità artificiali non debbono affatto impedire la stima e l'utilizzazione dei nuovi
beni e risorse posti a nostra disposizione; in ciò dobbiamo, anzi, vedere un dono di
Dio e la risposta alla vocazione dell'uomo, che si realizza pienamente in Cristo" (SRS
29). “E' un principio da ricordare nella stessa produzione agricola, quando si
tratta di promuoverla con l’applicazione di biotecnologie, che non possono essere
valutate solo sulla base di immediati interessi economici. E' necessario sottoporle
previamente ad un rigoroso controllo scientifico ed etico, per evitare che si
risolvano in disastri per la salute dell’uomo e l’avvenire della terra.” (Giovanni
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Paolo II, intervento alla festa del Giubileo del mondo agricolo, Roma, Aula Nervi,
11/11/2000).
Ecco perché quando vengono a mancare quei beni indispensabili non si può parlare di
vera realizzazione della vocazione dell'uomo in Cristo. Infatti, osserva il Papa, la
carenza di essi pregiudica la realizzazione della vocazione umana. Purtroppo, ancora
oggi "ci sono quelli - i molti che possiedono poco o nulla i quali non riescono a
realizzare lo loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni
indispensabili” (SRS 28).
La realtà in effetti è che con l'ideologia moderna del progresso, il possesso o
l'accumulo di beni ha preso il sopravvento su ogni cosa, mutilando l'uomo e
compiendo nei suoi confronti e nei confronti dell'umanità un vero tradimento. E
Giovanni Paolo II, puntualmente denuncia: “l’esperienza degli anni più recenti
dimostra che, se tutta la massa delle risorse e delle potenzialità, messe a
disposizione dell'uomo, non è retta da un intendimento morale e da un
orientamento verso il vero bene del genere umano, si ritorce facilmente contro di
lui per opprimerlo" (SRS 28). Infatti, "ci sono quelli - i pochi che possiedono molto
- che non riescono veramente ad essere, perché con un capovolgimento della
gerarchia dei valori ne sono impediti dal culto dell'avere" (SRS 28). . E’ nella
stessa linea che Paolo VI parlava precedentemente del deterioramento della "vera
scala dei valori" che porta le persone, le famiglie e le Nazioni a "un materialismo
soffocante" (PP18).
“L’avere oggetti e beni non perfeziona di per sé il soggetto umano, se non
contribuisce alla maturazione e all'arricchimento del suo essere, cioè alla
realizzazione della vocazione umana in quanto tale" (SRS 28)..
Nella Centesimus Annus si precisa: "che non è male desiderare di vivere meglio, ma
è sbagliato lo stile di vita che si presume esser migliore, quando è orientato
all'avere e non all'essere e vuole avere di più non per essere di più, ma per
consumare l'esistenza in un godimento fine a sé stesso. E necessario perciò
adoperarsi per costruire stili di vita, nei quali la ricerca del vero, del bello e del
buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli
elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti”
(CA 36)
L'ONU, durante l’Assemblea Generale del 4 dicembre 1986 prende coscienza
che l'uomo non è un essere solamente in situazione economica e affermava
all'articolo 1 della Dichiarazione sui diritti umani il "diritto inalienabile di ogni
persona e di tutti i popoli a partecipare e contribuire a uno sviluppo economico,
sociale culturale e politico, in cui tutti i diritti dell'uomo e tutte le libertà
fondamentali possano venire pienamente realizzati, e beneficiare di tale Sviluppo".
Ma si capisce ancora meglio l'esigenza dell'integralità dello sviluppo alla luce della
parola di Dio. L'uomo, è creato e posto nel giardino perché lo coltivi e ne tragga il
proprio nutrimento (Cfr. Gen 1,29; 2,8) in vista della sua piena realizzazione in Cristo
(Cfr. Col 1,16).
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Perciò è indubbio che l'ordine materiale sia subordinato a quello spirituale "Uno
sviluppo non soltanto economico si misura e si orienta secondo questa realtà e
vocazione dell'uomo visto nella sua globalità, ossia secondo un suo parametro
interiore... Ma per conseguire il vero sviluppo è necessario non perdere mai di vista
detto parametro, che è nella natura specifica dell'uomo, creato da Dio a sua
immagine e somiglianza (Cfr. Gen, 1, 26)"(SRS 29). "Noi non accettiamo di
separare l'economico dall'umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che
conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere
l'umanità tutta intera"(PP 14)
A questo punto è da inserire la Caritas in veritate di Benedetto XVI che riassume e
riformula, attualizzandoli, tutti questi principi e che nel corso delle lezioni rivedremo.
Richiamati questi principi come muoverci come Chiesa?
Cominciando col ribadire quanto già, spero, sia emerso con chiarezza in seguito a
quanto detto sopra, cioè che l’opera di evangelizzazione non è fine a se stessa e non si
esaurisce in un semplice annuncio dottrinale. Punta alla salvezza dell’uomo in Cristo,
mediante l’accettazione del Suo Messaggio, ma soprattutto attraverso l’accettazione
della Sua vita. Essa quindi deve portare alla «conversione» nel senso più completo:
cambiamento di mentalità e cambiamento di comportamenti («Avete udito che vi fu
detto... ma io vi dico...»).
Nel suo dinamismo, l’uomo sostituendo a valori tradizionali, centrati in prevalenza su
atteggiamenti di accettazione e remissività (quando non addirittura di passività), una
etica fondata sulla creatività sente di «realizzarsi» dominando la natura in tutte le sue
dimensioni. Ma la storia stessa, letta nel suo passato e nelle sue prospettive future, si
incarica di ricordare all’uomo i suoi limiti, i limiti dello sviluppo che ha avviato e
vuole gestire, sia esso sviluppo nella vita economica, sia sviluppo nella vita politica e
sociale verso sistemi nuovi. Ecco allora la necessità di un cambiamento di mentalità.
Il punto di partenza deve essere l’accettazione del «giudizio di Dio» sulle realtà
dell’uomo, in sostituzione dei «giudizi dell’uomo», legati a prospettive di terrestrità
e viziati spesso dal peccato.
Non si tratta, come abbiamo avuto modo di vedere sopra, di una sconfessione
dell’uomo, delle sue ricerche, del suo operato, ma del richiamo al valore più autentico
e profondo di tutto ciò che è veramente umano. Un valore che viene dal fatto che
l’uomo e le sue realtà vengono da Dio per la Creazione e sono state restituite alla loro
condizione dalla Redenzione di Cristo.
Tutto questo deve spingere ad una conversione reale per il superamento del limite
creaturale e ciò avviene soltanto nel riferimento a Dio e nell’accettazione della Fede
come ultimo riferimento per comprendere sia il valore dell’uomo, sia il significato e
il senso della sua vita individuale e collettiva, delle sue ricerche scientifiche sulla
materia e su se stesso e per valutare la validità non soltanto «operativa», ma «etica» e
«religiosa» (nel senso di fedeltà piena all’uomo e al suo riferimento costante a Dio)
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delle mete che ci si propongono e dei mezzi che si elaborano per il loro
raggiungimento.
In base a questo riferimento di fede si verificano le «scale di valori» che le diverse
culture propongono, per regolare i diversi aspetti della vita politica ed economica.
Si tende molto più apertamente:
*
alla primaria produzione dei beni di prima utilità per tutti:
*
a ricercare forme di distribuzione equa che tendano ad eliminare lo
squilibrio attuale tra chi possiede troppo e chi possiede troppo poco;
*
ad attuare la necessaria accumulazione di capitali in prospettiva di un uso
direttamente orientato al bene pubblico, nella convinzione che i capitali, frutto del
lavoro comune, hanno, come prima destinazione, la funzione di servire a costruire
condizioni comuni di benessere:
*
ad adottare tecniche di lavoro che non mortifichino, ma mettano in
rilievo la creatività personale e collettiva.
In ultima analisi, la scelta di conversione a Dio e a Cristo non può non comportare
necessariamente il cambiamento di criteri che bloccano l’uomo in se stesso, nella sua
storia, nella staticità di sistemi che tendono più alla propria autoconservazione che
alla reale promozione della persona. In questo senso la Chiesa è chiamata oggi a
dimostrare la propria validità non tanto in rapporto a una «Rivelazione» avvenuta,
quanto piuttosto alla sua capacità di «rivelare» continuamente la presenza del Dio
Creatore e del Cristo Redentore nello stesso sforzo dell’uomo che vuole superare
continuamente le situazioni che egli stesso ha creato.
L’uomo, capace di «dominare la natura» deve attuare dei comportamenti che siano
in grado di vincere e trasformare anche quelle «leggi naturali» in cui si è
cristallizzato il frutto di comportamenti collettivi accettati e diffusi, ma toccati dal
«peccato» (egoismo individuale e di gruppo, incapacità di solidarietà universale,
ecc...). Deve essere capace di riportare ogni «legge naturale» in campo sociale,
economico, politico, alla sua origine (il comportamento umano), al suo dinamismo
(superando ogni concezione fissista) e al suo fine (il servizio all’uomo).
“Ciò significa promuovere effettivamente e senza eccezioni l’eguale dignità di tutti
come esseri umani, dotati di certi fondamentali e inalienabili diritti. Ciò tocca tutti
gli aspetti della nostra vita individuale, come pure della nostra vita nella famiglia,
nella comunità in cui viviamo e nel mondo. Una volta che noi comprendiamo
veramente di essere fratelli e sorelle in una comune umanità, allora possiamo
modellare i nostri atteggiamenti nei confronti della vita alla luce della solidarietà
che ci rende una cosa sola” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la giornata mondiale
della Pace, 1987, n. 2)
La prospettiva di salvezza si ritrova soltanto nella solidarietà, riscoperta e accettata
non solo come tensione etica, come scelta «morale», ma come elemento costitutivo
della realtà umana. “L’unità della famiglia umana ha ripercussioni realissime nella
nostra vita e nel nostro impegno in favore della pace… Questo significa che noi ci
impegnamo per una nuova solidarietà: la solidarietà della famiglia umana… una
9
nuova forma di relazione: la solidarietà sociale di tutti”
Messaggio per la giornata mondiale della Pace, 1986, n. 1)
(Giovanni Paolo II,
Tale riposizionamento centrale, magistralmente espresso nella verità della carità,
viene ottenuto mediante il riallineamento del rapporto tra giustizia e carità,
analogamente a quanto detto circa il rapporto tra ragione e fede(12). Il Papa
Benedetto XVI, infatti precisa, «da un lato, che la logica del dono non esclude la
giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno e,
dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere
autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di
fraternità»(13). Qui troviamo un punto nevralgico dell’insegnamento dell’enciclica
che contrasta frontalmente una dissociazione tipica, e quasi scontata, nella
concezione della giustizia separata dalla coscienza; «la giustizia può regolare i
rapporti civili e si prefigge il consenso sociale, mentre la carità farebbe leva solo sulle
convinzioni personali e non può essere che richiamata alla coscienza di
ciascuno»(14).
La sfida che l’enciclica acutamente ripropone, invece, toglie la carità dalla sua
presunta marginalità, che la relega nello spazio della coscienza privata, per
riconoscerle il rilievo pubblico e politico che le compete. Essa non si riduce alla cura
del povero e alla relazione di aiuto al bisognoso, ma piuttosto informa le dimensioni
costitutive del vivere sociale e configura l’ethos collettivo. Questo implica il
superamento dello schema individualistico della costruzione sociale, secondo cui
anzitutto si dà l’individuo, quasi a prescindere dai rapporti sociali e culturali,
considerati il frutto di una convenzione, di un contratto tra individui. Si tratta invece
di cogliere e affermare che «la stessa identità dell’individuo è mediata dalla relazione
sociale: l’individuo sorge nel rapporto coi genitori, si costruisce nel legame uomo
donna e vive attraverso la relazione di fraternità. È attraverso queste relazioni,
presenti nel costume e nella cultura (in senso antropologico), che è possibile alla
coscienza morale di volere e al rapporto sociale di offrire una grammatica alla
convivenza tra gli umani». Il valore politico della carità scaturisce dal fatto che
rapporto fraterno e rapporto sociale, tra essere prossimo ed essere socio, sono distinti
ma in stretta correlazione. «Non si dà separazione tra singolo e società, tra coscienza
e diritto». Come dice ancora il Papa: «la questione sociale è diventata radicalmente
questione antropologica»17. Ma in tal modo, anche, essa non ha perduto, anzi ha
riscoperto la sua radice teologica, poiché la carità che discende dalla Trinità non solo
informa le coscienze ma plasma pure lo spazio sociale, e la dimensione del dono e
della gratuità18 entra a pieno titolo nell’ambito della giustizia e del perseguimento
del bene comune.
L’umanità è di fatto un tutto unico, non un semplice agglomerato di persone e gruppi
giustapposti. Esiste una «situazione di solidarietà» che è inevitabile e diventa sempre
più evidente: gli uomini sono uniti di fatto, nel godimento dei benefici di scelte valide
come nel soffrire le conseguenze di comportamenti impostati su scelte errate.
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Mancare di coscienza rispetto a questa unità fondamentale significa ripetere oggi la
scelta immorale di Caino e misconoscere un aspetto fondamentale della «immagine di
Dio», quello che supera i singoli uomini, per estendersi all’Umanità in quanto tale.
L’Umanità è stata creata «immagine e somiglianza di Dio».
Comportamenti personali o collettivi, strutture e «leggi» economiche o d altro genere
che si fondino sulla divisione e sulla contrapposizione e tendano a perpetuarle, sono
realtà in cui il peccato è presente, sono realtà da «redimere».
La disuguaglianza tra «ricchi» e «poveri» non è un fatto «naturale» appartiene sì
all’attuale condizione dell’uomo, ma di un uomo peccatore ma non risponde al piano
che nella Scrittura si evidenzia rispetto all’uomo che tende e deve tendere a togliere
ogni disuguaglianza e discriminazione. Ma il senso della realtà e la volontà di
risolvere realmente i problemi devono spingere a cercare e togliere le cause dei
fenomeni di divisione e di opposizione tra uomini; deve portare a cercar di
trasmettere in tutta la società, nelle sue strutture e istituzioni, l’elemento di novità che
è presente nella ricerca di una unità che non sia solo di facciata, ma di sostanza. Se si
elimina la falsa e artificiosa contrapposizione tra «individuo» e «società» per
recuperare a fondo la realtà della persona che è essenzialmente socievole e della
società composta di persone che con il loro comportamento creano istituzioni e
«leggi», si comprende come la «conversione» debba toccare le strutture in cui la
società si articola e i comportamenti che vi sono diffusi e codificati. Al di là di ogni
«legge»: «naturale» e «positiva». Inoltre non bisognerà mai dimenticare come le
strutture e le istituzioni, per garantire la propria sopravvivenza, tendono a influenzare
fortemente l’uomo, con i modelli di comportamento che gli propongono: il
cambiamento anche radicale di certe situazioni strutturali in alcuni casi costituisce se
non proprio una condizione, almeno un elemento importantissimo per poter
comunicare la Parola di Salvezza. Ciò diventa poi ancor più necessario e doveroso
quando si ravvisasse nel comportamento di qualche cristiano (singolo e popolo) una
delle cause concrete della condizione di ingiustizia e di oppressione in cui un altro
(individuo o popolo) si trova. In questo senso, detto per inciso, si ripropone
l’esigenza di un serio «esame di coscienza» per i popoli più ricchi (quasi tutti
«cristiani») nei loro rapporti politici e commerciali verso i popoli «in via di sviluppo»
(di cui moltissimi sono in «terra di missione»).
No si può dimenticare che spesso una falsata «visione cristiana» ha ridotto la
«conversione» a prevalenti dimensioni di ordine individualistico e intimistico: ciò
può diventare un comodo alibi di fronte alla durezza dell’impegno di trasformazione
della convivenza sociale o alla necessaria «scelta» tra progetti diversi di sviluppo e
promozione dell’uomo, e giungere a costituire una «copertura» per una situazione che
si trova comoda e non si vuole cambiare, per non affrontare i rischi di
compromettere le fonti del benessere proprio o del proprio gruppo sociale. Una
visione religiosa del genere sfocia in una «religione» di «fuga» verso una salvezza
futura, ricercata e garantita attraverso i meccanismi delle adesioni a celebrazioni
rituali (di «penitenza» o di «unità» intimistiche).
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Una fede in Dio Padre e in Cristo Salvatore non può restare astratta: si impegna a
realizzare un mondo in cui il termine «fratello» non si riduca ad una romantica
espressione per momenti «liturgici» e la «libertà di cui Cristo ci ha liberati» non si
riduca all’appannaggio di pochi privilegiati che dominano sugli altri. Questi stessi
privilegiati non sarebbero liberi, in una situazione del genere, perché in un mondo di
dominio e di sfruttamento chi domina e sfrutta è certamente meno «libero» dei
dominati: legato al suo potere e al suo guadagno, è lontanissimo dalla libertà di
Cristo. «I re delle genti le signoreggiano e coloro i quali dominano su di esse si fanno
chiamare benefattori; ma non così voi...» (Lc 22,25).
Ecco perché la Chiesa ha una parola da dire oggi, come quaranta anni fa, e anche in
futuro, intorno alla natura, alle condizioni, esigenze e finalità dell'autentico sviluppo e
agli ostacoli, altresì, che vi si oppongono. Basta accostarsi alla Caritas in veritate per
accorgersi di quanto tutto questo corrisponda alla verità Così facendo, la Chiesa
adempie la missione di evangelizzare, poiché dà il suo primo contributo alla
soluzione dell'urgente problema dello sviluppo, quando proclama la verità su Cristo,
su se stessa e sull'uomo, applicandola a una situazione concreta (Giovanni Paolo Il,
Discorso alla 3a Conferenza Generale dei Vescovi dell 'America Latina, 1979).
Quale strumento per raggiungere lo scopo, la Chiesa adopera la sua dottrina sociale.
Nell'odierna difficile congiuntura, per favorire sia la corretta impostazione dei
problemi che la loro migliore soluzione, potrà essere di grande aiuto una conoscenza
più esatta e una diffusione più ampia dell '«insieme dei principi di riflessione, dei
criteri di giudizio e delle direttrici di azione» proposti dal suo insegnamento
(Libertatis Nuntius, n. 72; Octogesima Adveniens, n. 4). Si avvertirà così
immediatamente che le questioni che ci stanno di fronte sono innanzitutto morali, e
che né l'analisi del problema dello sviluppo in quanto tale, né i mezzi per superare le
presentì difficoltà possono prescindere da tale essenziale dimensione.
(Sollicitudo Rei Socialis, n. 41)
Allora nella vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in
tutta la sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: «Egli è
immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15), «irradiazione della sua gloria e impronta
della sua sostanza» (Heb 1, 3). Egli è l'immagine perfetta del Padre. (Evangelium
Vitae, n. 36)
3.Sviluppo e Promozione umana “luogo” dell’azione della Chiesa
Vorrei adesso provare a declinare in maniera più concreta ed operativa quanto detto
sopra.
Negli Atti degli Apostoli troviamo: «Tutto il gruppo dei convertiti, poi, era un cuor
solo e un’anima sola e nessuno di loro diceva proprio qualunque suo bene: tutto
invece era posseduto in comune... Tra loro in realtà non c’era alcun indigente:
quanti infatti possedevano terreni o case ne vendevano ogni tanto e ne portavano il
ricavato e lo rimettevano agli apostoli ed esso veniva distribuito a ciascuno
proporzionalmente al bisogno» (At 4, 32, 34).
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L’amore autentico non sopporta divisioni; la coscienza di essere realmente «fratelli»
non tollera le disuguaglianze; in tempi diversi deve tentare di porvi rimedio con gli
strumenti che concretamente si hanno in mano; sarebbe falso appellarsi allo a spirito»
per lasciare le cose come stanno. Ai rempi delle prime comunità in cui non era
possibile andare più a fondo, la donazione volontaria di parte del «proprio» era una
forma valida; oggi, pur non perdendo nulla della sua validità, deve ampliarsi a
donazione volontaria e gratuita nella trasformazione del mondo, nell’eliminazione
delle cause della propria stessa situazione privilegiata: perché la «povertà di spirito» e
il «distacco dai beni» non restino parole...
L’amore per l’uomo nel nome del Padre, che tende a ristabilire con gli strumenti
storicamente possibili l’uguaglianza e la comunione tra gli uomini resi disuguali e
divisi dal peccato, si manifesta con forza nella prima Lettera di S. Giovanni: «Se
qualcuno dice «Io amo Dio» e ha in odio il proprio fratello, è mentitore: chi infatti
non ama il fratello suo che vede, non può amare quel Dio che non vede» (4,20).
E’ in nome di questo stesso amore (verso il povero e verso il ricco, cui l’amore deve
portare a dire con chiarezza cose anche pesanti e dure, che invano si attenderebbero
da chi non ti ama!) che l’apostolo Giacomo scrive le sue forti espressioni sui ricchi:
«Ascoltate, fratelli miei carissimi, Dio non scelse forse quelli che per il mondo sono
poveri, per farli ricchi nella fede ed eredi del Regno promesso a quanti lo amano?
Ma voi disonoraste il povero! Non sono forse i ricchi quelli che vi opprimono, che
vi trascinano nei tribunali, che bestemmiano il bel nome che fu invocato su di
voi?» (2,5-7); «A voi, ora, o ricchi! Sfogatevi in pianto, ululando per le miserie che
vi sovrastano. La vostra ricchezza è imputridita e i vostri vestiti sono stati rosi dalle
tarme. L’oro vostro e l’argento hanno preso la ruggine e la ruggine sarà per
testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come fuoco. Bei tesori
ammassaste per gli ultimi giorni! Ecco, il salario degli operai mietitori dei vostri
campi, quello che è stato da voi defraudato, le grida e le proteste dei mietitori sono
entrate negli orecchi del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e
nuotato nei piaceri, vi siete ingrassati per il giorno del macello. Avete condannato.
assassinato il giusto: egli non vi fa resistenza (5,1-6).
Ancora oggi, alla radice di certe scelte troppo limitate, che riducono la «carità» a
dimensioni di elemosina o di opera di supplenza, senza vederne le dimensioni
«politiche», sono presenti insieme errori di valutazione storica e errori di lettura del
Messaggio rivelato e della Storia della Chiesa. Il Papa invoca una “nuova fantasia per
la carità” (cfr NMI). Riprodurre oggi i «modelli della carità» negli stessi termini in
cui si sono realizzati, è assolutamente insufficiente. In certi casi determinate opere di
«supplenza» oggi potrebbero anche costituire un comodo alibi per impegni più
profondi, dispensare illegittimamente dal dovere di essere stimolo per una società che
è in grado di darsi gli strumenti per risolvere alla radice molti problemi, chiudere in
pseudo-soluzioni di assistenza quando la giusta ripartizione dei prodotti di un lavoro
comune e la destinazione prioritaria delle risorse alle situazioni di maggior bisogno
(anche se economicamente certi «investimenti» non sono molto redditizi) dovrebbero
costituire le linee di fondo di una soluzione dei problemi a livello politico. In altri
casi la supplenza potrebbe diventare addirittura opera di connivenza con poteri
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pubblici o privati nel «tamponare» le falle più evidenti di una conduzione ingiusta o
errata che volutamente non dà spazio alla ricerca di soluzioni più reali o adeguate.
Una tale opera potrebbe alla lunga diventare controproducente nei confronti degli
stessi poveri, alimentando in loro uno spirito parassitario e fatalistico e impedendo
loro di prendere coscienza della realtà in cui vivono, della solidarietà che li lega, della
possibilità che essi hanno di unirsi per elaborare, proporre e promuovere modelli
alternativi di vita, ispirati a una giustizia autentica e concreta. Tenere divisi i poveri
con il ricatto dell’elemosina sarebbe una grave responsabilità non solo nei loro
confronti, ma nei confronti di tutta la società.
Purtroppo nella storia della Chiesa si è venuta creando, grazie a questi equivoci, una
artificiosa distinzione tra «giustizia» e «carità», sostenuta anche a livello teorico: ne
abbiamo abbondanti esempi in testi di teologia morale, di spiritualità, di teologia
pastorale.
L’ansia che blocca molti cristiani di fronte a un deciso impegno politico con tutti
coloro che vogliono una reale trasformazione della società trova anche in questa
storia alcune sue radici. Ma soprattutto mi pare che manca oggi, per effetto di
un’educazione almeno monca e carente, la coscienza che, in una società che è sempre
più in grado di darsi gli strumenti per realizzare in termini sempre più completi dei
rapporti di giustizia, la Carità più autentica deve mettere i cristiani tra i primi
ricercatori di questi strumenti e di queste forme nuove di giustizia. La Carità, come la
Fede e la Speranza, ha le sue dimensioni «politiche» precise, nel senso che, se è
amore autentico, spinge a ricercare le soluzioni più complete possibili, a non limitarsi
a rattoppi, per la ricerca e la eliminazione del male nelle sue cause. Limitarsi ad
azioni marginali, quando si è in grado di cambiare radicalmente le situazioni,
significa tradire insieme l’amore per l’uomo e l’amore per Dio, anche se a parole ci si
ispira.
E’ questo un primo elemento di «novità» che viene a caratterizzare il modo con cui
nella Chiesa si opera una «scelta dei poveri» e viene a costituire un nuovo modo di
essere della Chiesa stessa, fatta di poveri e per i poveri: l’impegno politico dei fedeli
che non si riduce a gioco di interessi partitici o di potere, ma ricerca a livello
comunitario soluzioni di giustizia ai problemi della convivenza umana, collaborando
in questo con tutti coloro che la stessa ricerca conducono, anche ispirandosi a
ideologie che in sé possono entrare in contrasto con la fede cristiana. La Carità si fa
«promotrice di giustizia», superando il vecchio equivoco e aiutando a superare le
barriere ideologiche. In questo modo si ricerca una vera «unità», «perché il mondo
creda»...
La «scelta dei poveri», nella prospettiva dell’evangelizzazione, si manifesta così
come una scelta fondamentale che mette realmente in condizione di portare un
messaggio qualificante e significativo per tutti, una proposta di «conversione» e di
«penitenza» in cui tutti si sentano coinvolti; in definitiva, è l’unica scelta capace di
aprire la strada a un messaggio di salvezza veramente universale.
Potrà forse sembrare un paradosso, tutto questo, ma sono sempre più convinto che
mettersi dalla parte del povero, difendere e sostenere i suoi diritti, ascoltare le sue
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proposte e rivendicazioni, non significhi affatto essere «uomini di parte», ma essere
semplicemente «dalla parte dell’uomo». Perché a tutti questa scelta apre la strada per
«farsi più uomini»:
*
ai poveri stessi, chiedendo loro di diventare diretti responsabili e
protagonisti della propria elevazione e della trasformazione della società, nel rifiuto
di ridursi ad eterni assistiti (una posizione di comodo per tutte e due le parti: ricco o
povero!), per rendersi capaci di proposte e iniziative innovatrici e rinnovanti;
*
ai ricchi e ai potenti, in ogni tempo e sotto qualsiasi forma, con la chiara
proposta di combattere ciò che li rende meno uomini: il potere e il dominio
sull’uomo, lo sfruttamento nei confronti dell’altro, l’alienazione nell’amore per il
denaro e i beni terreni o comunque nella difesa, conscia o inconscia, di quelle
situazioni strutturali che, se hanno permesso o prodotto il loro attuale stato di
privilegio, sono causa determinante della povertà altrui;
*
a tutti viene proposto allora lo «spirito di povertà» che non permetta di
«perdere la propria vita», la stessa dignità di persona, sia nell’essere oggetto che
soggetto attivo di sfruttamento o dominio, per guadagnare, alla fine, molto meno che
«tutto il mondo»!
Vedo in questo atteggiamento verso i poveri un secondo elemento di «novità»
rispetto a posizioni tradizionali nella comunità cristiana; esso non è frutto solo di
maturazioni interne alla comunità stessa, ma di maturazioni avvenute in seno ai
«poveri» stessi, intesi come gruppo sociale e non come individui isolati:
*
I poveri tendono sempre più a rifiutare di essere considerati come una
specie di «umanità inferiore» da «assistere» e beneficare. Vanno comprendendo di
avere un ruolo ben preciso da giocare; sanno di avere cose importanti da dire a questa
società: la conoscono sempre meglio e sanno criticarla e giudicarla con sempre
maggior acutezza. Stanno prendendo sempre più profonda coscienza della loro
condizione nei suoi termini reali: condizione «collettiva» e non di singole persone o
gruppi isolati; condizione che deriva da precise impostazioni della vita sociale, non
dalla «natura», dalla «sfortuna» o, peggio, da una presunta «volontà di Dio».
Comprendono quindi che si tratta di una condizione che può e deve essere
modificata. Nello stesso tempo si rendono conto che per modificarla bisogna
cambiare l’assetto strutturale, istituzionale, della società. La loro presa di coscienza
significa un passo avanti verso una maggior pienezza di umanità: per i singoli e per le
collettività. La solidarietà che si crea tra i poveri assume il carattere di proposta essa
stessa: è un modello alternativo di crescita che viene proposto e che si cerca ad ogni
costo di realizzare, in una società che ha sempre privilegiato delle élites, con forme di
promozione individualistica. E’ il segno e l’inizio della costruzione di una umanità
fondata sull’unione e non sulla costrizione o sulla sopraffazione, anche se
ammorbidite o camuffate. Un grande passo in avanti verso un Vangelo che è Carità.
*
Nella Chiesa allora la scelta dei poveri diventa rifiuto di sostituirsi ad
essi, sia per «assisterli», sia per proporre o imporre loro delle «rivoluzioni» elaborate
da specialisti a tavolino, incapaci di liberarli per davvero, perché ancora una volta li
sottopongono a un vero e proprio colonialismo culturale. E’ il rifiuto ad ogni costo
(anche a costo di rimandare nel tempo certe «liberazioni» particolari) di trattare il
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povero con sentimento di superiorità, da maestro e guida a inerte seguace, in attesa
soltanto dell’elemosina o di qualcuno che agisca «per» lui.
La coscienza che si debba giungere a «dare la parola ai poveri» si diffonde, ma nei
fatti si trova ancora molta difficoltà ad accettarne fino in fondo le conseguenze; per
arrivarci è necessaria una «povertà di spirito» molto più profonda di quella che può
portare anche a lodevoli distacchi da beni materiali: è necessaria una fede nell’uomo
così radicata che faccia vedere come questi uomini sanno veramente proporre analisi,
indicazioni operative, modelli di comportamento, estremamente validi; che questi
«poveri» sono capaci di costituire dei propri movimenti per costruire una società
diversa e sono in grado di fare cose che obiettivamente valgono molto di più di quello
che altri potrebbero fare «per» loro. Non più tanto, allora, «fare per i poveri», ma
mettersi con i poveri, per cercare con loro e come loro «cosa fare» insieme.
Prendere coscienza della propria dignità umana, del ruolo che si può giocare
nell’evoluzione della società, dei «valori» di cui si è portatori, è un segno di vera
elevazione umana: è il primo passo per liberarsi da una causa fondamentale di
divisioni e di ingiustizie: il fatalismo che induce a subire gli eventi, ad accettare ruoli
di pura subordinazione, a ricercare come vie di soluzione le raccomandazioni, gli
appoggi e le protezioni dei detentori del potere e della ricchezza.
Facendo questo passo di coscientizzazione. rifiutando gli schemi individualistici
proposti dalla società borghese, i poveri di oggi si faranno reali portatori di «culture
alternative». Essi stessi però dovranno restarvi fedeli fino in fondo: liberandosi dalla
povertà materiale, dovranno continuare ad essere i «poveri nello spirito». E’ molto
diffuso (oltre che molto tradizionale) il tentativo di ingabbiare i movimenti di crescita
umana collettiva dei poveri con favori particolari e con la proposta di modelli di vita
ispirati al consumismo dei ricchi. E’ un metodo che permette alla società stabilita di
«salvarsi», difendendo e diffondendo i criteri su cui si regge, facendoli accettare
come gli unici validi, garantendo alla fine la sopravvivenza di strutture di divisione e
di oppressione. Il povero, conquistato al consumismo, in cui vedrà dapprima una vera
liberazione rispetto alle condizioni di vita subite fino allora, tenderà facilmente a
rinunciare ai valori che sono propri della sua storia personale e della storia collettiva
della classe cui appartiene, accetterà di relegarli tra le «utopie irrealizzabili».
E’ questo che fonda la potenza di tutti i sistemi sociali fondati sull’interesse e sulla
ricerca del predominio di una categoria sull’altra: far leva sull’egoismo dell’uomo o
sulla sua naturale esigenza di tranquillità e di pace per rendere irrealizzabile qualsiasi
alternativa: giocano su questi stessi elementi per rompere la solidarietà, farne perdere
la coscienza, diffondendo con potenti mezzi propagandistici (le mode, i mass-media.
gli spettacoli...) i propri modelli. Così le possibili proposte alternative. scartate e
declassate, non si realizzeranno; le «utopie» perderanno la loro forza «profetica»; le
«speranze» rinnovanti dei poveri non troveranno realizzazioni al di fuori
dell’accettazione di posti di marginalità, sempre subordinate all’accettazione di ruoli
di sottomissione. Ciò permetterà di squalificare continuamente i movimenti stessi che
si battono per la crescita umana delle classi e dei popoli che si trovano in condizione
di soggezione e di sfruttamento, dimostrando «con i fatti» (gli unici «fatti» cui si
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permette di realizzarsi) che le loro proposte e la loro lotta «vanno contro gli interessi
degli stessi poveri». La potenza dei mezzi di comunicazione e di altri mezzi di
manipolazione dell’uomo permette di dividere le masse povere dai loro leaders, di far
ricadere su di loro la responsabilità diretta di eventuali peggioramenti delle situazioni.
Una tecnica molto vecchia: basti rileggere con questo occhio il cap. 5 dell’Esodo. La
delegazione di scribi che erano andati dal Faraone a «implorare»: «Perché tratti così i
tuoi servi?», uscendo si imbatté «in Mosè e Aronne che stavano là per incontrarli e
dissero loro: Jahvè vi osservi e vi giudichi! Voi ci avete resi odiosi agli occhi del
Faraone e agli occhi dei suoi servi e avete dato in mano a loro una spada per
ucciderci» (Es 5,15-21). I «liberatori» appaiono come i primi responsabili delle
sofferenze, anche perché la presa di coscienza e l’impegno finiscono con il costare
molto di più che l’accettazione passiva.
In una prospettiva efficientistica, quella della logica del potere e della ricchezza di
parte, si tenderà ancora a dimostrare come l’unica via per liberarsi dalla povertà e da
tutti i mali che vi sono connessi è quella «sempre seguita»; si farà di tutto per
mostrarne i successi, tentando di ridurre l’ampiezza e l’importanza dei fatti che la
possono smentire: il dilagare della povertà a livello mondiale, la distanza sempre
crescente tra i popoli «ricchi» e quelli «in via di sviluppo», la creazione di sacche di
povertà e sottosviluppo anche nelle società «progredite».. Nello stesso tempo si
tenderà anche a caricare sulle spalle degli stessi poveri la maggior parte della
responsabilità della loro condizione: li si accuserà di «pigrizia», di «immoralità», di
«incapacità e di mancanza di spirito di inventiva», di «disponibilità a farsi
strumentalizzare da agitatori estremisti», ecc... (si provi a ripensare, a questo
riguardo, agli stereotipi presenti in molte zone di intensa immigrazione nei riguardi
dei nuovi arrivati: vengono a coprire i ruoli di rango secondario che man mano si
rendono disponibili con il diffondersi di un maggior benessere tra gli autoctoni e tra
gli immigrati di più vecchia data, ma vengono accusati di cercare i «posti migliori»,
per «non dover faticare»).
In queste situazioni, il richiamo alla fedeltà ai valori originari di solidarietà e di
impegno di crescita collettiva nella trasformazione radicale delle condizioni che la
impediscono o la rendono troppo difficile, è sempre più attuale e doveroso. Fa parte
di un’opera di elevazione umana che non voglia ridurre l’uomo alla dimensione
«economica» e non accetti di chiuderlo in prospettive di «crescita» puramente
materiale.
All’interno della Chiesa, come ho notato più sopra, è cresciuta in questi ultimi anni
questa doppia dimensione di coscienza: una scoperta sempre più profonda della
povertà e dell’oppressione dell’uomo come fatto sociale e collettivo, non legato a puri
fattori individuali, ma collegato a cause strutturali, presenti nel dinamismo stesso
della società; la tendenza progressiva a identificarsi come «Chiesa dei poveri» e
«Chiesa povera»; Chiesa in cui trovano piena cittadinanza quelli che non hanno
potere e «non contano»; Chiesa che tende a rifiutare sempre di più il ruolo di potenza
che dialoga con altre potenze, nella coscienza che il potere non libera nessuno;
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Chiesa che cerca di superare i modelli assistenzialistici e paternalistici, per
impegnarsi in un’opera che sia insieme di promozione umana e di evangelizzazione,
nella coscienza ancora che umanizzazione ed evangelizzazione sono termini
inscindibili, anche se non riducibili l’uno all’altro.
Nasce allora un atteggiamento nuovo e diverso verso i poveri e le loro stesse
rivendicazioni: non sono più causa di stupore e di turbamento; soprattutto non
vengono più viste solo come «disordine».
Anche se ancora predominano modelli ormai superati e rinascono qua e là
equivoci e incomprensioni, si fa sempre più frequente tra i cristiani l’appoggio e la
partecipazione ai movimenti di liberazione dell’uomo, dal movimento operaio ai
movimenti per la liberazione dei popoli oppressi e del «terzo mondo».
Accanto ai pronunciamenti espliciti su fatti concreti e accanto all’impegno diretto dei
credenti, sorge tutta una elaborazione teologica: le teologie della liberazione e della
speranza. Si prepara così quel retroterra culturale che è mancato alla Chiesa nel
secolo scorso per cui è restata estranea a molti tra i movimenti e i momenti più
significativi della storia dell’uomo contemporaneo.
L’azione pastorale è molto probabilmente destinata a risentirne fortemente gli effetti,
soprattutto quando una maggiore e più approfondita esperienza aiuterà a superare
l’attuale momento di ambiguità e di iniziative un po’ abborracciate e farraginose.
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