2. La cittadinanza femminile L’uomo moderno è sempre più portato a identificare il proprio ideale di libertà nel raggiungimento della eguaglianza, ma la nostra società sempre più diversificata e complessa non favorisce e rende così difficile la ricostruzione dell’eguaglianza sostanziale. La titolarità dei diritti pertanto, non è più di ogni “singolo individuo”, ma di alcuni in quanto membri di un gruppo dotato di particolari caratteristiche. Tale considerazione può benissimo essere adeguata a molteplici differenze: etniche, culturali, religiose, di orientamento sessuale. Ma c’è una differenza che ha uno specialissimo ruolo e non può essere messa sullo stesso piano delle altre: quella tra uomini e donne. E’ una differenza che ha dato luogo ad una clamorosa, e oggi scandalosa, esclusione della cittadinanza anche nelle società in cui più si sono sviluppate istituzioni libere e democratiche. Solo nel corso del Novecento i paesi democratici hanno dato la pienezza dei diritti civili e infine anche il diritto di voto alle loro cittadine: che dunque erano state, fino ad allora, “cittadine senza cittadinanza”. Ma l’accesso ai diritti politici non ha prodotto una vera inclusione delle donne, che restano cittadine di seconda classe, se si guarda ai dati del salario, dei risultati professionali, della presenza nelle sedi decisionali o politiche: cosa che non si può spiegare, come nel caso di alcuni gruppi sociali o etnici, con le condizioni economiche o culturali, visto che le donne vivono in tutti i ceti sociali e in tutti gli ambienti. In altre parole, l’esclusione delle donne non è una distrazione o una incompiutezza della cittadinanza moderna, che possa essere semplicemente riparata o risarcita, ma è essenziale ad essa. Da ciò deriva la difficoltà per le donne di essere incluse dentro una cittadinanza che resti eguale a se stessa. Il nodo fondamentale è costituito dal posto della famiglia nella società moderna, e dal posto della donna nella famiglia. 96 A partire dalla funzione della famiglia, e dalla loro posizione in essa, le donne, definite prioritariamente come mogli e madri, sono state a lungo considerate incapaci di essere pienamente cittadine: perché troppo legate alla vita affettiva e corporea e quindi poco razionali, perché legate ai doveri della casa, in generale obbedienti ad una logica altra da quella della vita pubblica e dalla deliberazione politica. O perché non dotate, a causa di queste loro caratteristiche, della indipendenza necessaria a partecipare a pieno titolo ala vita pubblica. L’uomo pubblico trova nella donna privata la sua ombra, la serenità interiore necessaria che le consente di conquistare il suo riconoscimento sociale, quello ufficiale, quello che conta. E’ la donna privata che non può diventare “donna pubblica”, ma tutt’al più una forma debole di uomo pubblico, pagando un alto prezzo di difficoltà e di disagio, cosa che l’uomo, in quanto uomo, non paga. Alcune studiose femministe descrivono questo stato di cose con la categoria di patriarcato, che indica la continuità tra sfera pubblica e sfera privata, tra subordinazione della donna nella casa e sua esclusione della cittadinanza. Per usare in modo serio, come criterio interpretativo il concetto di patriarcato, si devono ricordare brevemente i suoi tratti storici: - il potere assoluto e per essenza “politico” del padre; - lo stato di sudditanza e obbedienza di donne e figli; - l’esclusivo diritto all’eredità; - il diritto all’istruzione e alla vita pubblica dei figli maschi, mentre le femmine sono tenute fuori dall’istruzione e sposate d’autorità. Almeno uno di questi tratti dovrebbe essere presente, perché si possa definire patriarcale una società. Dunque chi insiste in quest’uso dovrebbe dirci quale sia la sua utilità rispetto a una società, come quella attuale, caratterizzata dall’eguaglianza giuridica delle donne, dalla presenza di politiche di pari opportunità, dal superamento delle barriere all’istruzione femminile. Un nocciolo di verità va tuttavia riconosciuto alla tesi del patriarcato fraterno: ed è che il principio dell’eguaglianza ha agito nel mondo moderno senza mettere in discussione la separazione tra sfera pubblica e sfera domestica, e la destinazione rispettiva di uomini e donne. 97 Questo paradosso rende tuttora disagevole e deludente l’acquisizione della piena cittadinanza delle donne, che ne fa, come è stato detto, un caso di “cittadinanza difficile”, anche nelle democrazie più avanzate. Sussiste quindi tra uomo e donna una diseguaglianza di natura fondata su base funzionale: come dice Aristotele, “non è la stessa la temperanza d’una donna e d’un uomo, e neppure il coraggio e la giustizia, ma nell’uno c’è il coraggio del comando, nell’altra il coraggio della subordinazione, e lo stesso vale per le altre virtù”. Perciò, in virtù di questo pensiero di Aristotele non esiste diseguaglianza tra uomini e donne, ma soltanto diversità di funzioni e di ruoli sociali, entrambi importanti e meritevoli di essere riconosciuti degni di ammirazione e di rispetto. La inferiorità morale della donna, la sua inadeguatezza ad essere cittadina, non richiede neppure di essere argomentata, ma deriva la sua immediata evidenza da un fatto della vita quotidiana, ovvio sino ad apparire del tutto naturale: il fatto che è lei ad occuparsi della riproduzione della vita fisica degli individui e della specie. Resta tuttavia nella tradizione politica occidentale, insieme all’interdizione della donna dalla sfera pubblica, un riconoscimento della sua dignità che non ha eguali in altre culture. Da questa profonda radice cresce, nei secoli, una progressiva messa a fuoco della differenza familiare, con l’individuazione di una specificità morale, da cui deriverebbero insieme la dignità della donna e il suo peculiare destino, così diverso da quello dell’uomo. La diseguaglianza, insomma, viene compensata dal riconoscimento di uno speciale valore morale. C’è sempre, in fondo alla mente di una donna, un’idea di maternità: fosse anche in senso negativo, come nell’incertezza sulla propria fecondità o nella paura ossessiva della gravidanza. Inevitabilmente il fantasma della maternità si introduce nella vita sessuale anche della donna più restia ad essa, talvolta in modo pacifico, talvolta producendo serie difficoltà e incidenti, come per l’appunto l’aborto. 98 Chi non vuole riconoscerlo, accettarne la presenza, è più esposta a questi rischi. Il fantasma della maternità si pacifica se lo si accetta, se lo si lascia dimorare presso di sé: anche se non si è e non si vuol essere madri. Separando pure, nella pratica, la sessualità dalla procreazione, ma considerando la consapevolezza che non basta così poco per ridefinire l’identità femminile. Oggi le donne accedono in massa al mondo della cultura, che poco a poco non è più solo maschile. Ma il contesto nel quale viviamo tende a mettere la creatività intellettuale e in genere la produttività professionale in contrasto con la fecondità femminile, come se le due cose non potessero andare insieme. Al di là delle difficoltà oggettive, che appartengono ad un’altra sfera e chiedono altre soluzioni, è probabile che una riappropriazione di quello che prima ho chiamato il “fantasma della maternità” possa aiutare le donne a superare certi blocchi soggettivi. Perché la creatività umana trova la sua forma archetipica nella capacità generativa della donna; e dunque sarebbe assurdo che le donne pensassero di acquisire una capacità di produzione lavorativa spegnendo del tutto la voce (simbolica) di quella loro così invidiata fecondità. La consapevolezza di ciò, tuttavia, non può essere confusa con una dichiarazione di pentimento, né può servire come argomento per sostenere l’opportunità che le donne tornino a mettere al centro della loro vita il ruolo di madri. Al contrario, è proprio l’autonomia, la possibilità reale di progettare la propria vita, di cercare i propri equilibri, che consente, se questa è la scelta, una maternità più ricca e più generosa; e consente anche di socializzare, ovvero di trasformare in patrimonio comune dell’umanità, il patrimonio morale e culturale della maternità al di là della cerchia della famiglia. Il tema della scelta dunque o, se si preferisce, dell’autodeterminazione, non deve quindi essere abbandonato, ma piuttosto riesaminato alla luce di una riflessione equilibrata, attenta all’identità e alle ragioni morali, così da eliminare tanto i motivi più ingenuamente razionalistici quanto quelli più ristrettamente autodifensivi.3 99 3 OLTRE IL FEMMINISMO - Le donne nella società pluralista di Claudia MANCINA - Società Editrice il Mulino Bologna - 2002.