Sport e coscienza morale Nel vortice del cambiamento Il “mondo dello sport” vive una fase di passaggio epocale inserito com’è nel vortice dell’attuale cambiamento culturale che si esprime soprattutto nella complessità sociale e nella frammentazione del sistema in molteplici parzialità. Anche nello sport come in altri ambiti di vita è venuta ad affievolirsi e, a volte, a mancare quella che è stata chiamata la “strutturazione morale della coscienza del soggetto” (cfr: G. Angelini, Teologia, 4/1999, p. 372). La coscienza è il “luogo” simbolico in cui rendersi conto dell’adeguazione del dover essere all’essere e, nella fattispecie dello sport, della corrispondenza tra i valori condivisi e la concretezza del fare sport, a tutti i livelli e, dunque, fino alle regole comuni di comportamento che lo presiedono. Ciò è accaduto ai diversi ambiti di responsabilità, in alto e in basso della “gerarchia” sportiva. Di fatto, mentre un tempo Dirigenti e atleti venivano educati a tenere in evidente considerazione, soprattutto nell’esercizio delle loro professionalità e competenze, 1 alcuni principi ideali ritenuti punti di riferimento essenziali e indiscutibili, ora ogni soggetto sportivo sembra abbandonato a se stesso, costituendosi principio e norma nelle scelte di carattere sportivo. Quei principi, tramandati entro una tradizione riconosciuta, accolta e custodita, preformavano un “sistema” forte, capace di cementare persone e istituzioni, idoneo a legittimare organizzazione e attività, congruo a dirimere controversie, duttile ad ordinare in armonia conflitti e interessi. La persuasione comune si confermava nell’assunzione indiscussa delle finalità proprie dello sport, trasmesse dalla sua storia centenaria. Agli occhi degli sportivi non rappresentavano per nulla una “sovrastruttura” soverchiante o un ingombro ideologico, ma un fattore intrinseco, simultaneo e permanente rispetto agli obiettivi connaturali dello sport, tale da essere perseguito ovunque e comunque senza riserve Di conseguenza questa consapevolezza generale fondava scelte e comportamenti; generava mentalità e appartenenza; strutturava cultura e, direi, una specifica e riconoscibile eticità sportiva. 2 Oggi la realtà dello sport è attraversata da cambiamenti e accelerazioni; non si riconosce facilmente nei criteri precostituiti dalla “nobile” tradizione dell’ “ancien regime”. Sta assumendo modalità nuove che prospettano uno sport segnato prevalentemente dal denaro, dalle leggi del profitto e dalla domanda di consumo spettacolare, oltre ogni riferimento etico alla coscienza del soggetto sportivo. L’appello alla coscienza In un contesto come quello brevemente delineato, non può non emergere una domanda semplice: è ancora possibile reintrodurre e praticare nel “mondo vitale dello sport” l’appello alla coscienza? In altre parole, per usare l’espressione giubilare, è oggettivamente pensabile ridare allo sport “un volto e un’anima” o questo si rivela essere solo una pia intenzione? Appellarsi alla coscienza significa richiamare due orizzonti imprescindibili: l’orizzonte del soggetto e l’orizzonte della società. Il primo coglie il soggetto come persona e non tanto come individuo. Va diritto nel suo luogo più intimo e sacro, dove si specchia la sua identità e dove si 3 evidenzia il ruolo guida dello spirito, per edificare una vita buona e degna attraverso azioni coerenti. Il secondo coglie la società non come aggregato casuale di individui, ma come entità di persone organicamente costituite. Orientata al fine di una convivenza solidale sostenuta dal principio di cittadinanza, diventa spazio dove si attuano pienamente le identità personali, distinte ma non separate, in un dinamismo virtuoso che insieme le adempie come soggetti responsabili. Il mondo dello sport, considerato nella progressiva mutazione del suo oggetto causativo intrinseco – in quanto mondo di persone, di transazioni economiche, e di società sportive (parti integranti della società civile) – tende a languire in un ambito di irresponsabilità pubblica, dove “soggetto” e “società” sopravvivono a se stessi, brancolando nel buio, seguendo norme dettate dal tornaconto personale e societario. Per “guarire” da questo “languore” lo sport abbisogna di ritrovare una sua limpida coscienza, un nuovo rapporto con la persona e con la società, un nuovo “sistema” di regole. In concreto, lo sport ha bisogno di una rigenerazione e di una conversione. 4 La rigenerazione induce a pensare lo sport come in uno stato di parto, come sottoposto cioè ad un’energia originale che lo rigenera, appunto, a partire dal grembo della persona umana. Interpretando di fatto la persona, lo sport ne esprime tutte le facoltà, sia sotto il profilo dell’antropologia naturale che, per chi crede, dell’antropologia cristiana. La conseguenza è che si dà un vero sport solo se è funzionale alla persona umana, storicamente situata e socialmente inserita, suscitandone lo sviluppo in modo attivo e responsabile. La conversione induce a pensare lo sport come in uno stato di continuo discernimento e di verifica, a confronto con i suoi valori e i suoi fini. Così animato e valorizzato da una propria tensione etica, può garantire la sua funzione ludica e spettacolare, educativa e culturale, locale e transnazionale. La conseguenza è che non si dà vero sport se posto in balia di avventori o sfruttatori, motivati da ragioni incongrue rispetto allo stesso sport, ma nel rinnovamento della sua “filosofia” e della sua “prassi”, secondo le perenni esigenze della corporeità e della spiritualità, 5 inerenti nell’unità imprescindibile e insurrogabile della persona. Di qui si apre la questione della coscienza attiva applicata allo sport, cioè del come agire nello sport e con lo sport perché la centralità e il primato della persona siano non solo rispettati formalmente ma concretamente effettivi. E’ una questione gravida che implica un soprassalto di fantasia e di forza morale, ma anche una fresca e solida cultura della modernità. La risposta, come è ovvio, non si costruisce unicamente nel prospettare un’organizzazione sempre più efficiente e perfetta, ma nell’assunzione diretta di un’effettiva responsabilità personale. Essa consiste praticamente nell’elaborare un’ordinata convergenza di tutti quegli elementi utili a determinare il patrimonio umanistico e tecnico necessario allo sport. Si tratta di ricostruire i presupposti ideali da cui trarre le risorse intellettuali, pedagogiche e morali per alimentare le facoltà e le attitudini specifiche della persona impegnata in un’attività sportiva umanamente feconda e perfettiva. 6 In questo processo faticoso emerge con evidenza la necessità di individuare un “luogo critico” di verifica e di confronto. Esso non può non essere la coscienza, sia a livello del soggetto sportivo che a livello della società sportiva: una coscienza informata e del tutto consapevole della posta in gioco. La coscienza infatti non è un “luogo” scontato o supposto esistente o funzionante a priori, ma un’attività dello spirito dove è richiesto un impegno costante, uno specifico investimento psicologico, un apparato culturale e spirituale di prima qualità. Per un “Progetto culturale e sportivo” Per un cristiano che fa sport o che promuove lo sport esiste una diversità rispetto agli altri non credenti o agnostici o laici? Dove sta il punto critico che determina la differenza ? Sussiste, anche nell’attività sportiva, una discriminante che si situa nell’opzione fondamentale della vita, cioè nella scelta di fede come criterio teorico e pratico di valutazione e di azione, di giudizio e di comportamento. 7 La fede non è tal cosa che concerne solo il privato della coscienza o il retaggio di una mitologia dello spirito. La logica di una fede matura evidenzia la “pretesa” di essere globale; esige una visione integrale della vita, del mondo e della realtà, che incide sulle scelte private o pubbliche del soggetto credente. Visto sotto questo profilo, lo sport non si rivela né cristiano né agnostico, lo diventa immediatamente attraverso l’ottica delle scelte del soggetto che lo pone in essere, rispecchiandone esattamente le convinzioni, le motivazioni profonde, i giudizi sulla realtà dello sport. D’altra parte disporre di una siffatta visione e tracciare un orizzonte così impegnativo non si presenta agevole. Le opzioni etiche richiedono lunga maturazione, sedimentazione, prove e controprove; abbisognano di essere sostenute da una storia conosciuta, da una memoria efficace, da una elaborazione culturale, da un vissuto personale. Successivamente vanno correttamente estrinsecate nelle programmazioni sportive, nei linguaggi, nell’uso del tempo, cioè nelle effettive condizioni del fare sport. 8 Ben venga dunque il “Progetto culturale e sportivo” che acquista credibilità ed efficacia dalla sua provvidenziale attualità e dalla sua particolare urgenza. Non si abbia fretta a por mano alla sua definitiva scrittura: si abbia fretta a capire di che cosa si tratta, quali sono gli elementi compositivi, quali le tensioni dinamiche da immettere, quale la sua “abitabilità”, e quale la “dimora” che intende predisporre all’uomo sportivo nel suo essere cristiano nello sport. Rispetto alla visione cristiana della vita, lo sport rimanda ad una genialità divina, al dito di Dio Creatore, Signore e Redentore del mondo. Non è questione marginale o di pochi eletti! Esso accende le intelligenze e le coscienze di tutti gli sportivi che si richiamano alla fede cristiana. Carlo Mazza 9