fusione inversa: questioni dottrinali e

FUSIONE INVERSA: QUESTIONI DOTTRINALI E GIURISPRUDENZIALI
1. Ricostruzione della nozione di fusione inversa
Nell’affrontare l’argomento della fusione inversa l’interprete è tenuto innanzitutto a
individuare una nozione di fusione inversa, o – meglio – a costruirla da sé, in quanto questa
particolare tipologia di fusione è rimasta ignorata dal legislatore anche dopo l’ultima riforma
del diritto societario.
Come punto di partenza può anzitutto dirsi che la fattispecie di cui ci occupiamo è una
fusione per incorporazione (art. 2501 c.c.) e, come tale, è potenzialmente soggetta, oltre alle
norme generali sulle fusioni, alle discipline particolari previste per l’incorporazione (artt.
2504-bis, quarto comma, 2504-ter, secondo comma, 2505 e 2505-bis c.c.).
I tratti caratteristici della fusione inversa sono due. Il primo è dato dal fatto che tra le
società interessate dalla fusione esiste un rapporto di partecipazione al capitale, non
necessariamente totalitario o in grado di assicurare il controllo, ai sensi dell’art. 2359 c.c.,
sebbene questi due presupposti di frequente si incontrano nella prassi. Quanto detto,
ovviamente, non è particolarmente espressivo circa la peculiarità della fusione inversa, visto
che la gran parte delle fusioni per incorporazione viene realizzata tra soggetti legati da
partecipazioni. Sicuramente fondamentale è il secondo aspetto, che è rappresentato dal fatto
che la società partecipata assume il ruolo di incorporante, il che contribuisce a distinguere
definitivamente una fusione inversa da una “ordinaria” operazione d’incorporazione tra
società partecipate, dove il soggetto incorporante è solitamente la società “madre”, ossia
quella che detiene la partecipazione nel capitale della futura incorporata. Quest’ultima
frequentissima modalità di concentrazione aziendale viene solitamente indicata come “fusione
per incorporazione”, senza ulteriori specificazioni, anche se, alla luce della distinzione con la
fusione inversa, potrebbe essere meglio definita come incorporazione “diretta” o “forward”.
Circa tali questioni terminologiche, va precisato che nella prassi si è spesso registrato l’uso
dell’espressione “reverse merger” per identificare i casi di fusione inversa. Ciò non pone
particolari questioni, purché l’impiego della suddetta formula sia consapevolmente fatto in
modo atecnico, senza cioè fare riferimento alla disciplina dei principi contabili internazionali1,
per il quale un reverse merger individua quelle forme di aggregazione aziendale in cui il
soggetto giuridicamente acquisito coincide con l’impresa economicamente acquirente. Come
si avrà modo di precisare nelle prossime pagine, non necessariamente la fusione inversa
integra i requisiti dettati dall’Ifrs 3 per il reverse merger, sicché l’uso di quest’espressione
come sinonimo di fusione inversa, sulla presunta assoluta identità tra i due fenomeni sopra
descritti, risulta errato.
La fusione inversa può presentarsi nella pratica in due modalità diverse, a seconda che
la partecipazione dell’incorporanda sull’incorporante sia totalitaria o meno. Come è stato
rilevato in dottrina, il dato della percentuale di partecipazione e dell’esistenza o meno di un
rapporto di controllo è irrilevante al fine di individuare quali siano le norme da applicare, ma
ha, invece, influenza sulla “magnitudine” dei problemi pratici che andranno risolti. Infatti, si è
osservato che, nel caso in cui il capitale dell’incorporante sia interamente posseduto
1
In particolare al principio contabile internazionale Ifrs 3, che è stato approvato dalla Commissione
europea ed introdotto negli ordinamenti interni degli Stati membri attraverso il reg. CE 2236 del 29
dicembre 2004.
dall’incorporanda – ipotesi definita come fusione inversa “in senso proprio” – deriverebbe, in
esito alla compenetrazione dei patrimoni, che l’incorporante resterebbe unica azionista di se
stessa, possedendo tutte le azioni da lei emesse. In tal caso, laddove si volessero evitare gli
oneri della determinazione e valutazione della congruità del rapporto di cambio in funzione di
un aumento di capitale, nel progetto di fusione dovrebbe essere prevista l’assegnazione pro
quota ai soci dell’incorporanda delle azioni dell’incorporante nello stesso momento in cui la
fusione acquista efficacia. Per converso, il problema risulta attenuato nel caso in cui la società
incorporante è partecipata solo per una frazione del suo capitale, essendo la parte restante
detenuta dagli stessi soci dell’incorporanda nelle medesime proporzioni con cui essi
partecipano al capitale di quest’ultima società. Infatti, sia nel caso di fusione inversa in senso
proprio, sia nell’ultima fattispecie esaminata, la compagine sociale dell’incorporanda
coincide, per identità di soci e di quote partecipative, con quella dell’incorporante postfusione. Tuttavia nella situazione di partecipazione non totalitaria, la decisione di non
intervenire sul capitale dell’incorporante e di accogliere integralmente le azioni proprie non
pone il rischio di creare una società unica azionista di se stessa, sebbene possa avere come
“effetto collaterale” il superamento del limite patrimoniale al possesso delle proprie azioni.
Inoltre, come si vedrà in seguito, la situazione di uguaglianza della compagine sociale
garantirebbe l’applicazione analogica (integrale, per alcuni Autori; parziale, per altri) dell’art.
2505 c.c.
2. Motivazioni economiche che sottendono un’operazione di fusione inversa
La scelta di procedere ad una fusione inversa, anziché diretta si fonda su motivazioni
economiche solide e del tutto legittime, sicchè risulta del tutto ingiustificato il sospetto – pur
affacciatosi in dottrina - di un “secondo fine” non palesato e non confessabile. La
constatazione che l’ordinamento prende in considerazione esplicitamente la fattispecie della
fusione per incorporazione diretta (artt. 2505 e 2505-bis c.c.), non può essere usata nel senso
di farne derivare un’implicita indicazione di legittimità esclusiva e non estendibile ai casi di
fusione inversa. Le norme citate, infatti, dettano solamente una disciplina “agevolatrice” per
tipologie di fusione in cui l’adempimento dei normali oneri procedurali si dimostra essere
superfluo o eccessivamente gravoso in rapporto alla limitatezza della compagine sociale di
minoranza. Pertanto queste disposizioni non hanno la finalità di porre un discrimen tra una
modalità d’incorporazione ritenuta lecita – ossia la fusione per incorporazione diretta – e
un’altra, “rovesciata” rispetto alla prima, presunta come illecita, perché avente uno scopo
abusivo e un carattere privo di apprezzabili ragioni economiche. D’altronde, come è stato
rilevato, “in linea di principio, dal punto di vista della determinazione del rapporto di cambio
e della tutela dei creditori, la circostanza che si proceda alla fusione per incorporazione della
controllante nella controllata non presenta pericoli di abuso diversi o maggiori di quelli che si
verificano nel caso normale, quando ad “estinguersi” è la controllata, la quale viene
incorporata nella controllante” (Spolidoro).
2.1. Motivazioni di ordine strategico - organizzativo
Spesso le motivazioni alla base della scelta di una fusione inversa risiedono nella
possibilità di evitare problematiche di ordine organizzativo. Questo aspetto è tanto più
evidente quando la società partecipante è una holding, con scarse relazioni con soggetti terzi,
mentre la partecipata è una società operativa che intrattiene rapporti con una vasta clientela.
In dottrina sono stati evidenziati i seguenti punti critici derivanti dalla scelta della
fusione diretta, i quali conseguentemente depongono per l’adozione dello strumento della
fusione inversa:
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onere di comunicare l’operazione ai numerosi clienti e fornitori della partecipata;
onere, per questi soggetti, di modificare i propri archivi contabili;
nel caso in cui la società partecipata sia una banca di grosse dimensioni, onere di
modificare il codice ABI, ritirare e sostituire tutti gli assegni emessi, richiedere un
nuovo codice fiscale, rischiando una possibile temporanea paralisi della propria
attività;
oneri di tipo economico e procedurale per eseguire le volture nel caso in cui la
partecipata sia proprietaria di numerosi beni mobili o immobili registrati che devono
essere “trasferiti” all’incorporante (sul punto si tornerà infra);
esistenza, in capo alla società partecipata, di rapporti giuridici non trasmissibili o la
cui trasmissione potrebbe essere ostacolata o impedita da terzi. Si può trattare di
concessioni amministrative, di licenze o di rapporti contrattuali particolari, in cui la
controparte sia la Pubblica Amministrazione e la legge richieda il consenso di
quest’ultima al fine di rendere efficace il trasferimento del negozio.
Oltre ad evitare le suddette criticità, la fusione inversa permette anche di:
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alleggerire l’assetto societario, sostituendo alla società partecipante i soci della stessa
nella partecipazione al capitale della società partecipata: si pensi ai casi (non recenti)
di costituzione mediante operazioni di scorporo fiscalmente agevolate (cfr. art. 34
legge 2 dicembre 1975 n. 576; art. 10 legge 16 dicembre 1977 n. 904; art. 79 legge 22
ottobre 1986 n. 742) di società holding, rivelatesi con il passare del tempo prive di
ogni utilità;
preservare l’avviamento commerciale, attraverso l’unificazione delle imprese sotto la
ragione o denominazione sociale o presso la sede di più ampia rilevanza ambientale;
preservare lo status di società quotata della partecipata;
permettere anche alla partecipante di aprirsi al mercato dei capitali, ottenendo
“implicitamente” la quotazione attraverso la negoziazione delle azioni
dell’incorporante. Pertanto l’acquisizione e la successiva fusione con un’impresa
quotata, che assume il ruolo di incorporante, vengono spesso considerate come
alternative meno onerose rispetto alla richiesta di quotazione dei propri titoli.
Un discorso a parte merita la questione – cui si è accennato sopra - della trasmissibilità dei
rapporti giuridici e dei cespiti della partecipata a favore della partecipante. A nostro avviso,
sulla fondatezza di queste motivazioni può svolgere un ruolo importante la natura che si
riconosce all’istituto della fusione.
È nota la vexata quaestio che vede una parte della dottrina, la quale sostiene che la
fusione consista in una mera modificazione degli atti costitutivi delle società coinvolte,
contrapposta a quegli interpreti, avallati dalle pronunce pressoché unanimi della
giurisprudenza, secondo cui l’istituto in esame ha il suo fondamento nell’estinzione delle
società e nel trasferimento del patrimonio all’incorporante o alla società risultante dalla
fusione.
Appare del tutto evidente che l’accento posto dalle tesi successorie sull’aspetto
traslativo, avvicina notevolmente la figura della fusione al trasferimento d’azienda, per il
quale l’ordinamento richiede l’osservanza delle forme stabilite dalla legge per il trasferimento
dei singoli beni che compongono l’azienda (art. 2556 c.c.). Pertanto, è prassi diffusa
procedere alla trascrizione dell’atto di fusione non tanto agli effetti dell’art. 2644, bensì in
relazione al combinato disposto degli artt. 2648 e 2650 in omaggio al principio della
continuità delle trascrizioni immobiliari, sancendo l’inefficacia delle successive trascrizioni
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finché la trascrizione dell’acquisto mortis causa non sia stata effettuata. Quanto al profilo
dell’idoneità dell’atto al trasferimento, pur sottolineandosi l’“espansività” della successione
universale nel determinare il subingresso in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi, nonché
nelle situazioni di scienza delle società incorporate o fuse, si nega la possibilità che
l’incorporante o la società risultante dalla fusione possa succedere nei contratti e nelle
situazioni soggettive d’interesse legittimo caratterizzati dall’intuitus personae. Il che
rappresenta un forte ostacolo alle aggregazioni realizzate tramite merger leveraged buy out,
laddove, cioè, l’incorporante sia un mero “contenitore” della partecipazione in una società
operativa destinata a fondersi.
In verità le suddette problematiche devono considerarsi oggi superate per il tramite
dell’adozione sia normativa (seppur espressa in modo implicito dagli artt. 2502-bis e 2504-bis
c.c.) sia giurisprudenziale (Corte di Cassazione, SS. UU., 8 febbraio 2006, n. 2637 in Riv.
Not, 2006, pag. 1135, con nota adesiva di F. Scalabrini e G.A.M. Trimarchi) di un diverso
profilo ricostruttivo della natura giuridica della fusione, quale quello espresso dalla teoria cd.
“modificativa”. La fusione, cioè, consisterebbe in una mera modifica degli atti costitutivi, che
non ha come fine l’estinzione della società ed il trasferimento del patrimonio della stessa,
bensì l’integrazione reciproca, complementare e simultanea dei preesistenti contratti sociali.
In questa prospettiva, il concetto di successione assume valenza unicamente descrittiva, senza
più necessità di rinviare alle norme sul trasferimento d’azienda. Pertanto, viene meno la
necessità di operare la stipulazione di atti di trasferimento o di adempiere gli oneri di
pubblicità corrispondenti, in quanto si ritiene sufficiente la pubblicità legale del Registro delle
Imprese al fine di garantire l’opponibilità ai terzi della mutata situazione giuridica inerente i
beni, i contratti e le garanzie reali relativi alla società incorporata o fusa. Quanto alla
problematica dei rapporti fondati sull’intuitus personae, si afferma che la fusione non
disperde affatto l’organizzazione di persone, di mezzi, di capacità (know how) e quant’altro
costituisce il catalizzatore della clientela per l’azienda sociale. Con ciò non si vuole negare
che la compenetrazione dei patrimoni, conseguente alla fusione, possa comportare dei rischi
circa il corretto adempimento della prestazione, dato che l’azienda della società estinta deve
necessariamente essere riorganizzata con quella dell’altra società partecipante alla fusione,
sotto la direzione di organi gestori che possono non presentare gli stessi requisiti di
affidabilità, efficienza e capacità manageriale di quelli delle società incorporate o fuse. Il
punto è che dalla diversità della norma contenuta nel primo comma dell’art. 2504-bis c.c.
rispetto alla disciplina del trasferimento d’azienda e della successione ereditaria consegue che,
sebbene in entrambi i casi ricorra una variazione soggettiva del debitore, con intuibili
diversità in termini di attitudini e capacità, nella fusione l’originario apparato produttivo
s’inserisce nell’ambito di un più ampio complesso organizzativo, senza soluzioni di continuità
o esclusioni. Pertanto non possono ritenersi integrate le previsioni di clausole che fanno
derivare lo scioglimento del vincolo negoziale dal trasferimento dell’azienda o dalla morte del
contraente. Non potendo trovar applicazione la disciplina in tema di trasferimento d’azienda,
l’elemento della fiducia nell’esecuzione del contratto - la cui mancanza integra giusta causa di
recesso ai sensi dell’art. 2558, secondo comma c.c. - perde importanza ai fini della tutela del
creditore, il quale dovrà piuttosto fare affidamento sugli ordinari rimedi contrattuali in tema
di difetti funzionali della causa, quali la risoluzione per impossibilità sopravvenuta o per
inadempimento (quest’ultima laddove si riesca a dimostrare che la realizzazione della fusione
integri una causa d’impossibilità imputabile al debitore).
2.2. Motivazioni di ordine fiscale
Soprattutto negli anni passati, la tecnica della fusione inversa è stata preferita anche
per motivi di ordine fiscale. Più precisamente, vigente la norma tributaria - introdotta ed
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espunta più volte dall’ordinamento - della possibilità di impiegare il disavanzo da
annullamento per rivalutazioni in franchigia d’imposta (art. 123 T.U.I.R. previgente e art. 6,
d.lgs. 358/97), uno dei motivi di maggior interesse, nella scelta della fusione inversa, si
fondava sulla possibilità di far emergere “differenze da annullamento” in una società (la
controllata) che per natura non potrebbe averne. Quest’impostazione si basava, cioè, sulla
convinzione di poter assimilare le suddette differenze, derivanti dall’annullamento delle
azioni proprie assunte dall’incorporante con la fusione inversa, al disavanzo da annullamento,
solitamente emergente in una fusione per incorporazione diretta, beneficiando così del
medesimo regime tributario riconosciuto a quest’ultimo.
Il panorama fiscale è stato modificato dall’art. 172 del nuovo T.U.I.R., introdotto in
attuazione della legge delega per la riforma del sistema fiscale statale (art. 4, lett. m, l. 80/03).
In base alla nuova disciplina i maggiori valori iscritti nel bilancio civilistico, per effetto
dell’imputazione del disavanzo da concambio o da annullamento, non hanno rilevanza fiscale
e, in quanto tali, non sono imponibili. È stato così affermato, anche in campo fiscale, il
principio di neutralità della fusione e di continuità dei valori, espungendo dal sistema la
possibilità di riconoscere fiscalmente - sia mediante il pagamento di un’imposta sostitutiva sia
gratuitamente - l’importo del disavanzo da fusione e, quindi, dei plusvalori latenti nelle
immobilizzazioni e dell’avviamento, i quali pertanto avranno rilevanza esclusivamente nel
bilancio civilistico.
Sancito in linea generale il suddetto principio di continuità – che resta tuttora in vigore
- si è riaffacciata più di recente nell’ordinamento fiscale italiano la possibilità di riconoscere
gratuitamente, ai fini delle imposte dirette, i maggiori valori dei beni acquisiti oltre che
dell’avviamento, derivanti dall’imputazione del solo disavanzo da concambio (art. 1, commi
242-249, l. 296/06). La norma in realtà non costituisce un nuovo incentivo alla scelta della
fusione inversa, in quanto essa, essendo volta allo scopo di incentivare le aggregazioni tra
soggetti indipendenti, è subordinata al requisito dell’assenza di rapporti di partecipazione (non
solo di controllo) tra incorporante ed incorporata: requisito, invece, per definizione sempre
presente nelle fusioni inverse.
Più interessante è, invece, il nuovo comma 10 bis dell’art. 172 T.U.I.R., introdotto con
la finanziaria per il 2008 (art. 1, commi 46 e 47, l. 244/07) e valevole sia in ambito Irpef ed
Ires sia in ambito Irap, il quale segna un “ritorno al passato”, nel senso che con esso si torna
ad ammettere la possibilità di riconoscere fiscalmente i maggiori valori, attributi nel bilancio
civilistico dell’incorporante, agli elementi dell’attivo dell’incorporata (norma applicabile
anche nei casi di conferimento d’azienda e di scissione). L’adozione di questa opzione fiscale
- valida anche per le operazioni effettuate entro il periodo di imposta in corso al 31 dicembre
2007 – è però subordinata al pagamento di un’imposta sostitutiva scalare sull’importo dei
maggiori valori (comma 2 ter dell’art. 176 T.U.I.R.).
L’applicazione di questa normativa ai casi di fusione inversa è tutt’altro che pacifica,
potendosi ammettere solo laddove si voglia dare risposta positiva ai seguenti due interrogativi
strettamente collegati. Il primo riguarda la possibilità di riconoscere nella differenza di valore
derivante dall’annullamento (o dall’assegnazione ai soci) delle azioni dell’incorporante
detenute dall’incorporata, un significato giuridico-economico pari a quello del disavanzo da
annullamento, in quanto esso rappresenterebbe il costo sopportato dall’incorporata per
acquistare la partecipazione nell’incorporante. La questione è quanto mai controversa,
potendosi solo dar conto in questa sede delle molteplici voci discordi emerse nella dottrina,
divisa tra chi sostiene la suddetta assimilazione e chi ritiene, invece, applicabile la normativa
fiscale sull’annullamento delle azioni proprie, pur ravvisando una disparità di trattamento
rispetto all’esito che si avrebbe adottando una fusione diretta, anziché inversa. In ogni caso, se
si accoglie la soluzione positiva circa la parificazione delle differenze in questione con il
disavanzo da annullamento, ci si scontra con il secondo interrogativo, ossia con la
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constatazione che le norme tributarie sopra richiamate fanno riferimento all’imputazione dei
plusvalori ai beni ricevuti dall’incorporata, non a quelli già di proprietà della società
incorporante. Nella fusione inversa, invece, i plusvalori, derivanti – secondo l’interpretazione
accolta - dall’annullamento delle azioni dell’incorporante detenute dall’incorporata, sono
riconducibili ai beni dell’incorporante stessa. Con un’interpretazione fondata non sulla lettera,
ma sulla ratio della norma fiscale, occorrerebbe perciò ammettere che, per simmetria di effetti
rispetto a quanto avviene con una incorporazione diretta, nella fusione inversa le norme
agevolatrici di cui sopra siano applicabili alla rivalutazione dei beni dell’incorporante, e non
dell’incorporata.
Volendo, quindi, tracciare un quadro sinottico della tassazione della fusione inversa,
possiamo dire che:
 ai fini dell’imposizione indiretta, la fusione inversa sarà sottoposta alle imposte di
registro (art. 4, co. 1, lett. b), Tariffa, D.P.R. 131/86, come modificato da art. 10, co. 5,
lett. c), d.l. 323/96), ipotecaria e catastale (artt. 10 e 4 Tariffa D.Lgs. 347/1990) in
misura fissa, in aderenza all’orientamento prevalente in dottrina (civilistica e tributaria)
ed in giurisprudenza (Comm. Trib. Prov. Milano, 2 febbraio 1999, n. 6; Cass. SS.UU.
2637/06; Corte Giust. CE 46/06; Cass. 23356/06) circa la natura non traslativa della
fusione;
 ai fini dell’imposizione diretta, resta confermato il principio di continuità dei valori (art.
172 T.U.I.R.), al quale si aggiunge il regime rivalutativo del nuovo comma 10 bis
dell’art. 172 T.U.I.R., di dubbia applicazione, però, ai casi di fusione inversa.
3. Tecniche di esecuzione della fusione inversa
L’individuazione del corretto procedimento di esecuzione della fusione inversa è forse
la questione più problematica tra quelle che hanno interessato la dottrina e la giurisprudenza.
Questo non è dovuto solo alle difficoltà concettuali di esaminare una situazione “anomala”,
dato che la società figlia, ossia la partecipata, incorpora la madre, cioè la partecipante, ma
anche alle conseguenze che la scelta di una particolare soluzione procedurale può comportare
nella definizione delle problematiche di ordine più squisitamente civilistico connesse
all’operazione. Il riferimento in tal senso è alla questione delle azioni proprie che, a seguito
della compenetrazione dei patrimoni, l’incorporante potrebbe dover iscrivere nell’attivo del
suo stato patrimoniale.
La prassi tradizionale, formatasi nell’applicazione dei principi contabili italiani, ha
elaborato tre differenti modalità di esecuzione della fusione inversa:
1. Aumento di capitale e accoglimento integrale nel patrimonio delle azioni proprie.
Questo metodo consiste nell’esprimere all’attivo e al passivo tutte le poste contenute
nello stato patrimoniale dell’incorporata, tranne ovviamente crediti e debiti reciproci. Tra
queste poste figura anche la partecipazione detenuta dalla società partecipante-incorporanda,
che, riportata nell’attivo dell’incorporante, costituisce un ammontare di azioni proprie che può
eccedere (e solitamente eccede) il limite del 10% del capitale sociale.
Il punto critico di questa soluzione consiste proprio nella presenza nel patrimonio
dell’incorporante delle azioni proprie: non solo perché viene superato il limite previsto
dall’art. 2357-bis c.c., ma anche perché sono emersi dubbi in dottrina e in giurisprudenza
circa la necessità di iscrivere nel passivo l’apposita riserva per azioni proprie. Per quanto
riguarda la prima questione, le azioni proprie potrebbero essere annullate con perdita/utile o
alienate (rispettando il limite temporale massimo di tre anni) o, ancora, distribuite pro quota
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ai soci gratuitamente. Queste alternative, inoltre, potrebbero riguardare l’intero pacchetto
azionario o solo una sua parte, in modo da conservare nel patrimonio un pacchetto di azioni
proprie, ma nel rispetto del limite legale di possesso.
2. Assegnazione in sede di fusione delle azioni proprie e contestuale aumento di capitale
solo per la parte eventualmente residua.
Questa alternativa viene vista favorevolmente dalla dottrina in quanto evita o per lo
meno limita le problematiche sopra citate, derivanti dal possesso di azioni proprie. Un altro
pregio di questa soluzione consiste nel fatto che essa, permettendo di evitare, nella maggior
parte dei casi, l’acquisto di partecipazioni al proprio capitale, può essere impiegata anche nel
caso in cui l’incorporante sia una società a responsabilità limitata, la quale, per espresso e
assoluto divieto di legge ex art. 2474 c.c., non può detenere proprie quote partecipative.
3. Annullamento delle azioni proprie e contestuale aumento di capitale sociale.
Questa soluzione, che prevede un annullamento totale delle azioni detenute
dall’incorporanda (compensato in tutto o in parte dall’aumento di capitale dell’incorporante
per soddisfare il concambio), è una sorta di compromesso tra le due soluzioni precedenti:
come la prima non prevede la distribuzione diretta delle azioni proprie ai soci, ma come la
seconda evita l’iscrizione in bilancio delle stesse.
4. La transizione ai principi contabili internazionali approvati in sede comunitaria
L’introduzione nell’ordinamento italiano dei principi contabili internazionali si fonda
sul regolamento comunitario 1606/2002, con il quale il Parlamento e il Consiglio dell’Unione
Europea hanno deciso l’omogeneizzazione dei diversi principi contabili nazionali al fine di
migliorare la comparabilità dei bilanci delle società aventi titoli negoziati in mercati pubblici e
di favorire un miglior funzionamento del mercato interno.
Per quanto riguarda la contabilizzazione delle operazione di fusione, il riferimento
normativo è l’Ifrs 3, che ha sostituito lo Ias 22. Questi documenti, però, non riguardano
esclusivamente le fusioni o altre specifiche operazioni societarie identificate per la loro
matura giuridica: essi sono rivolti a tutte quelle operazioni, che secondo la nostra prassi
giuridico-contabile definiremmo straordinarie, attraverso cui si realizza la crescita esterna di
un’impresa. Tali operazioni sono definite business combinations, termine con il quale si vuole
far riferimento a ogni operazione di aggregazione di imprese o di aziende, che risponda
congiuntamente ai seguenti tre requisiti:
1. deve trattarsi di un trasferimento d’imprese o aziende in funzionamento, che può
realizzarsi sia attraverso il passaggio diretto dei beni (ad esempio, cessione d’azienda o di
ramo d’azienda o conferimento degli stessi), sia attraverso l’acquisizione dei titoli che li
rappresentano (ad esempio, compravendita o conferimento di una partecipazione azionaria
di controllo);
2. l’esito finale dell’operazione deve essere un nuovo soggetto economico, anche se
giuridicamente non si registra la costituzione di un nuovo soggetto di diritto (ad es. è una
business combination la cessione di un ramo d’azienda da un’impresa ad un’altra, sebbene
i soggetti giuridici non mutino);
3. deve realizzarsi il trasferimento del controllo (dell’azienda o della società) tra
soggetti distinti e indipendenti.
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La logica di fondo dell’impostazione contabile in esame è quella di dare prevalenza al
criterio della sostanza economica dell’operazione piuttosto che alla forma giuridica con cui
essa è realizzata. Di conseguenza, vengono ricondotte ad unità e sottoposte alla stessa
disciplina contabile molteplici operazioni che, venendo attuate sotto differenti forme
giuridiche (fusione, scissione, conferimento d’azienda, acquisto di partecipazioni o d’azienda,
…), erano tradizionalmente contabilizzate in modo diverso (alcune operazioni, come
l’acquisto di ramo d’azienda e il conferimento, sono rilevate ai valori correnti; altre, invece,
come la fusione, in quanto considerate operazioni di mera riorganizzazione aziendale, sono
caratterizzate dall’impiego del principio di continuità dei bilanci). Si giunge a questi risultati
in quanto la contabilizzazione dell’operazione viene fatta dipendere dall’appartenenza della
stessa ad un tipo di negozio giuridico piuttosto che ad un altro.
La “rivoluzione copernicana” dell’Ifrs 3 consiste, perciò, nel considerare prevalente
l’effetto economico che la business combination comporta e nel far dipendere da esso la
modalità di contabilizzazione. Dal punto di vista procedurale, non si pongono problemi
diversi da quelli analizzati nel paragrafo precedente, seguendo impostazione contabile
tradizionale. Le uniche differenze consistono nella necessità di individuare, anche nella
fusione, il soggetto che acquisisce il controllo (da un punto di vista economico e non
giuridico2) e il “costo” da questi sostenuto (calcolato in termini di valore economico delle
azioni emesse per il concambio, ossia con riferimento ai prezzi di borsa dei suoi titoli o in
base al suo fair value, privilegiando, in ogni caso, la metodologia che permette di ottenere il
valore più attendibile), il quale, in base al principio del purchase, sarà impiegato al fine di
rilevare in bilancio i valori correnti dei beni acquisiti e l’eventuale avviamento positivo o
negativo. Pertanto, sotto la spinta dell’Ifrs 3, la fusione viene assimilata ad un conferimento o
ad una cessione d’azienda, determinando una latente contraddizione all’interno
dell’ordinamento. Infatti, poiché, a livello giuridico, la ricostruzione della natura della fusione
si fonda sulla principio di continuità (dei rapporti giuridici e quindi anche dei valori di
bilancio), non è affatto agevole conciliare questa prospettiva con quella contabile, dove si
parla apertamente di trasferimento dei beni delle società estinte e di emersione dei plusvalori e
dell’avviamento. In questa prospettiva si dovrebbe parlare di un “doppio binario” giuridicocontabile, dove il richiamo al concetto del trasferimento avrebbe solo una valenza descrittiva.
Un’ulteriore peculiarità riguarda le azioni proprie detenute dalla società risultante e la
correlativa riserva, di cui si parlerà nel paragrafo successivo.
5. L’acquisto di azioni proprie per effetto di fusione
L’acquisto di azioni proprie a seguito di fusione rientra nella previsione dell’art. 2357bis, primo comma, numero 3 c.c. Quest’articolo individua alcune fattispecie particolari di
acquisto, al fine di derogare in tutto o in parte agli stringenti limiti previsti dal precedente art.
Distinzione importante nei casi di reverse acquisition, dove, a causa del maggior valore dell’impresa
incorporata rispetto all’incorporante e, di conseguenza, di un rapporto di cambio “sfavorevole” per i
soci dell’incorporante, questi dopo la fusione vengono a trovarsi in minoranza e perdono il controllo,
prima detenuto, della loro società, sicché il soggetto giuridicamente acquirente diventa
economicamente acquisito. Come già osservato, questo fenomeno non si identifica necessariamente
con una fusione inversa, ma può riguardare anche le più comuni fusioni per incorporazione diretta. Per
inciso è utile ricordare che nelle reverse acquisitions l’operazione di fusione può comportare una
variazione del valore nominale delle azioni, rendendo necessario intervenire a riguardo sull’atto
costitutivo della incorporante, sempre che il suddetto valore non sia rimasto inespresso ai sensi
dell’art. 2328, comma 1, 5) c.c.
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2357 c.c. Le ragioni di questa diversità di disciplina possono rinvenirsi nella diversità degli
scopi o della genesi dell’atto di acquisto. L’art. 2357 c.c. è norma destinata ad operare in tutti
i casi in cui l’acquisto si manifesti come un atto intenzionale della società, senza individuare
specifiche finalità cui l’acquisto stesso deve essere subordinato per essere considerato lecito.
Al contrario, l’art. 2357-bis c.c. elenca quattro casi tassativi, per i quali l’acquisto è solamente
accidentale, in quanto esso non è l’oggetto di una iniziativa della società o comunque ne è un
effetto solo collaterale.
Nell’ambito delle problematiche giuridiche legate alla fusione inversa, l’acquisto di
azioni proprie ha interessato gli interpreti soprattutto con riguardo alla necessità di rispettare
l’ultimo comma dell’art. 2357-ter c.c., il quale stabilisce l’obbligo di costituire una riserva
corrispondente al valore delle azioni proprie iscritte nell’attivo, finché i titoli non siano
alienati o annullati. Si fa riferimento ai casi Trenno e SIB-Pepperland, in cui è stata valutata
negativamente l’assenza della costituzione della riserva in esame in sede di deliberazione
della fusione. Le decisioni del Tribunale di Milano, in sede di omologazione, si segnalano,
quindi, non solo per aver richiesto la creazione della riserva per il caso di acquisto ex art.
2357-bis, n. 3), ma anche per aver affermato la necessità che tale posta compaia in bilancio
come conseguenza della deliberazione di fusione: in un momento, pertanto, che è
cronologicamente antecedente a quello in cui acquista efficacia la fusione stessa e le azioni
proprie vengono effettivamente acquisite.
Come è stato rilevato da un’autorevole dottrina (Spolidoro), “le questioni da risolvere
sono in realtà due: in primo luogo occorre stabilire se la deroga prevista dall’art. 2357-bis,
primo comma, n. 3) c.c., valga non solo a consentire di superare i limiti indicati dall’art. 2357
c.c., ma anche a rendere superfluo l’accantonamento della riserva indisponibile prevista
dall’art. 2357-ter c.c.; in secondo luogo, ammesso che la norma dell’art. 2357-ter c.c. debba
essere comunque rispettata, occorre stabilire se la costituzione della riserva debba essere
effettuata sin dal momento della delibera di fusione (e pertanto ne sia una condizione di
legittimità, la cui carenza è rilevabile come fattispecie ostativa dell’omologazione) oppure se
possa seguire all’attuazione della fusione”.
Circa la necessità di costituire la riserva azioni proprie anche in caso di acquisto a
seguito di fusione, basterà in questa sede ricordare che, nonostante la questione si presenti
controversa, la maggior parte degli interpreti ha affermato l’inderogabilità dell’ultimo comma
dell’art. 2357-ter c.c.
Più importante ai nostri fini è invece la seconda problematica, anche se – può
anticiparsi – sul tema non si sono registrati contrasti dottrinari, essendo stata unanimemente
riconosciuta l’erroneità dell’impostazione adottata dalla giurisprudenza milanese.
Nella massima della sentenza Trenno si legge, infatti, che “qualora per effetto di
fusione, sia essa diretta oppure inversa, la società si trovi a detenere azioni proprie, l’obbligo
di accantonare la riserva prevista dall’articolo 2357-ter c.c. costituisce condizione di
legittimazione della fusione, nel senso che la riserva deve esistere al momento
dell’approvazione della delibera, così come devono esistere, in una semplice operazione di
acquisizione diretta di azioni proprie gli utili da impiegare come corrispettivo per i soci che
vendono le azioni della società”. Quest’impostazione è sostanzialmente mantenuta anche nel
decreto SIB-Pepperland, laddove afferma che “anche in presenza di operazione di fusione,
ove emerga un acquisto di azioni proprie, è imprescindibile la costituzione di una riserva pari
all’importo di dette azioni, ai sensi del terzo comma dell’art. 2357-ter c.c., o comunque che il
patrimonio netto della società incorporante contenga valori corrispondenti a tale riserva”.
Come emerge chiaramente dal testo delle pronunce dei giudici milanesi, la costituzione della
riserva prevista dall’ultimo comma dell’art. 2357-ter c.c. dovrebbe avvenire nel momento in
cui i soci deliberano la fusione, sebbene gli effetti della stessa non si siano ancora prodotti e
con essi l’acquisto delle azioni proprie da parte dell’incorporante. Più possibilista appare,
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invero, la pronuncia resa col decreto SIB-Pepperland, in cui si ammette la liceità
dell’operazione nel caso in cui, pur non essendo stata prevista la costituzione della riserva, “il
patrimonio netto della società incorporante contenga valori corrispondenti a tale riserva”.
Quest’impostazione risulta certamente più corretta di quella sostenuta in modo categorico nel
decreto e nella sentenza Trenno; tuttavia non può non segnalarsi come essa si mostri in
contraddizione con il carattere “imprescindibile” riconosciuto alla costituzione della riserva
per azioni proprie, coerentemente con l’orientamento espresso sul caso Trenno.
Si è già avuto modo di anticipare che la dottrina è unanime nel respingere la soluzione
interpretativa sostenuta dal Tribunale di Milano nei due casi citati. Due sono le considerazioni
alla base di questa conclusione. Innanzitutto occorre rilevare che il momento cronologico in
cui si verifica l’acquisto delle azioni proprie è quello della data di efficacia della fusione e non
quello dell’approvazione della relativa delibera. Infatti, prima di deliberare sulla fusione
inversa e sul conseguente acquisto di azioni proprie, la società incorporante non detiene
ancora i titoli: questi solo successivamente saranno “trasferiti” dalla società incorporanda. La
situazione in cui versa la società, al momento della deliberazione di una fusione che comporta
l’acquisto di azioni proprie, è del tutto simile a quella in cui la stessa società si troverebbe
laddove l’assemblea autorizzasse gli amministratori ad un acquisto ex art. 2357 c.c. È anche
vero che nella prassi si procede a costituire un’ulteriore e diversa riserva al momento della
concessione dell’autorizzazione all’acquisto da parte dell’assemblea (c.d. “riserva per
acquisto azioni proprie”). Tale riserva però non è obbligatoria per legge, ma viene in genere
creata al fine di evitare l’acquisto di azioni proprie in presenza di situazioni contabili che non
consentano, per motivi contingenti, la creazione ex novo di una riserva indisponibile. o titoli
analoghi.
Riportando le considerazioni appena svolte alla fattispecie della fusione inversa e alle
decisioni contenute nei decreti citati, appare chiaro che l’unica riserva che poteva
legittimamente costituirsi in bilancio, contestualmente alla deliberazione assembleare sulla
fusione, era una riserva disponibile e meramente facoltativa che garantisse la presenza di un
adeguato valore a garanzia dell’effettività del capitale, in vista il futuro acquisto di azioni
proprie. Poiché questa decisione rientra nella libera determinazione dell’assemblea della
società incorporante e nel atteggiamento più o meno prudenziale dei soci, mentre la legge non
impone nulla a riguardo, è evidente che nessuna censura poteva muoversi in sede giudiziaria
sulla legittimità del progetto di fusione e della relativa delibera di approvazione.
Se si fa riferimento al dato testuale dell’ultimo comma dell’art. 2357-ter c.c., il quale
richiede la costituzione della riserva all’iscrizione delle azioni proprie all’attivo del bilancio e
il mantenimento della stessa finché le azioni non siano trasferite o annullate, appare chiaro
che il presupposto richiesto dalla legge è rappresentato dall’iscrizione dei titoli, il quale si
verifica solo successivamente alla deliberazione di fusione. Più precisamente l’iscrizione sarà
compiuta nel primo bilancio successivo all’operazione, da intendersi come situazione
patrimoniale della società, da cui deve risultare costantemente lo stato di copertura del
capitale sociale.
La seconda osservazione critica che è stata avanzata dalla dottrina circa l’orientamento
del Tribunale di Milano, riguarda la considerazione che, tra il momento della delibera di
fusione e quello dell’attuazione della stessa, possono verificarsi notevoli modificazioni nei
patrimoni delle società partecipanti all’operazione: le azioni dell’incorporante presenti nel
patrimonio dell’incorporanda potrebbero essere alienate in tutto o in parte prima della
stipulazione dell’atto di fusione o il possesso delle azioni potrebbe essere assente nella fase
deliberativa e sorgere solo successivamente. Come è stato osservato, sebbene il più delle volte
accada che la quantità di azioni detenute dall’incorporanda non muti dal momento in cui viene
deliberata la fusione, non esiste alcuna norma, che imponga di astenersi da qualunque attività
relativa alle azioni dell’incorporante eventualmente detenute dall’incorporanda nel periodo
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successivo alla fusione. Nel caso in cui la partecipazione nell’incorporante venisse acquisita
solo successivamente alla delibera di fusione inversa, non potrebbe essere ragionevolmente
accettato che la delibera, originariamente legittima, divenisse illegittima per effetto
dell’intervenuto acquisto e della mancata predisposizione nel bilancio precedente alla fusione
della riserva in esame. Né si potrebbe supporre che l’illegittimità derivi da un divieto di
acquisto di azioni dell’incorporante a carico degli amministratori dell’incorporanda.
Va, infine, ricordato, alla luce delle affermazioni del Tribunale di Milano sul caso
SIB-Pepperland, che l’eventuale impossibilità di coprire il valore delle azioni
dell’incorporante esistenti nel patrimonio dell’incorporata con voci disponibili o distribuibili
dal patrimonio netto dell’incorporante prima della fusione, non costituisce affatto … un
impedimento tale da rendere illegittima la fusione: basterebbe infatti che, per effetto della
fusione si generasse un avanzo sufficiente a consentire la creazione della riserva; oppure, se
questo non accadesse basterebbe che fosse prevista l’utilizzazione delle azioni proprie per
soddisfare il rapporto di cambio, ovvero che fosse contemplata la distribuzione delle azioni
proprie trovate presso l’incorporata ai soci dell’incorporante post-fusione, pro quota; oppure,
ancora, che dette azioni fossero immediatamente vendute o annullate.
In virtù di quanto esposto, appare evidente che debba essere rigettata la tesi della
costituzione della riserva per azioni proprie contestualmente alla deliberazione di fusione.
Nello stesso tempo deve riconoscersi che la stessa riserva non costituisce “condizione di
legittimità della fusione”. Le ricordate pronunce del Tribunale di Milano possono mantenere
un limitato valore prescrittivo solo se vengono intese come un avallo giurisprudenziale ad una
procedura prudenziale, consistente nella creazione di una riserva facoltativa in vista del futuro
acquisto. Tale prassi, pur non essendo richiesta dalla legge, è diffusa ed è sicuramente
apprezzabile, anche se non esonera gli amministratori dal verificare sempre l’effettività delle
risorse disponibili al momento dell’acquisto, verificando che queste non siano state erose
dall’insorgenza di perdite.
Per concludere il tema in esame riteniamo utile precisare che, dopo l’introduzione nel
nostro ordinamento dei principi contabili internazionali, la validità delle argomentazioni e
delle conclusioni esposte, è limitata a quelle imprese che non adottano i nuovi standard e che,
quindi, continuano ad iscrivere le azioni proprie nell’attivo e la corrispondente riserva nel
patrimonio netto. Per le altre, invece, il valore nominale delle azioni proprie è da esporsi in
diminuzione del patrimonio netto, rettificando direttamente o indirettamente capitale sociale,
indipendentemente dai motivi dell’acquisto, mentre il premio o lo sconto rispetto al valore
nominale deve essere portato a rettifica delle altre componenti del netto, senza transitare per il
conto economico: di conseguenza non si pone in nuce la necessità di iscrivere la riserva
prevista dall’ultimo comma dell’art. 2357-ter c.c. Ulteriori informazioni sul possesso di
partecipazioni al proprio capitale saranno contenute nella nota integrativa. L’iscrizione delle
azioni proprie nell’attivo si verificherà unicamente, invece, in quei casi in cui una società
possiede il proprio capitale per conto di altri (per es. un’istituzione finanziaria che possieda il
proprio capitale per conto di un cliente), ma ovviamente anche siffatte situazioni esuleranno
dall’ambito applicativo della norma in esame.
6. Applicabilità dei procedimenti semplificati di fusione
In dottrina non si sono incontrate particolari difficoltà a riconoscere l’applicabilità
della procedura semplificata a casi di fusione per incorporazione - ma anche di fusione
propria - in cui la determinazione del rapporto di cambio risultava inutile o di valore
meramente formale, in quanto la sostanza economica dell’operazione e gli assetti societari
non venivano mutati. Nella stessa prospettiva non sono mancati gli orientamenti favorevoli a
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far rientrare anche i casi di fusione inversa sotto la copertura normativa dell’art. 2505 c.c.,
concentrando l’analisi, però, su una particolare fattispecie, quale quella in cui l’incorporanda
possiede totalmente l’incorporante. Si è perciò sostenuto che la procedura semplificata “esige
l’inutilità o addirittura l’impossibilità della determinazione del rapporto di cambio derivante
dal fatto che esso è automatico quando una delle società è interamente posseduta dall’altra,
ciò a prescindere dal fatto che si debba procedere ad una formale assegnazione. Pertanto l’art.
2504-quinquies c.c. [oggi art. 2505 c.c.] è da ritenere applicabile anche all’ipotesi speculare,
cioè uguale ed inversa rispetto a quella espressamente contemplata dalla legge” (Fimmanò).
Più cauta appare invece quella dottrina che riconduce l’applicabilità della procedura
semplificata ai casi in cui non solo non si deve procedere ad un calcolo del rapporto di
cambio, ma non è altresì necessaria una formale assegnazione di azioni o quote (Spolidoro).
Nella fusione inversa con possesso totalitario manca il momento valutativo dei capitali
economici delle società coinvolte, al fine di stabilire il rapporto di cambio, e manca,
conseguentemente, anche la necessità di richiedere un giudizio di congruità agli esperti ex art.
2501-sexies c.c. Tuttavia gli azionisti dell’incorporanda devono diventare azionisti
dell’incorporante e le azioni da essi detenute devono essere cambiate con quelle
dell’incorporante. Pertanto, dovendosi procedere ad un cambio di azioni, il progetto di fusione
non può fare a meno di contenere le indicazioni prescritte in materia e in particolare
l’indicazione delle modalità di assegnazione delle azioni ai sensi del n. 4) dell’art. 2501-ter
c.c. Procedendo in questa prospettiva si deve riconoscere anche la necessità della relazione
degli amministratori (art. 2501-quinquies c.c.), per lo meno nell’illustrazione dei motivi che
sono stati alla base della decisione di procedere ad una determinata assegnazione delle azioni.
Sulla scorta di queste riflessioni, la dottrina citata ha affermato che, nel caso in cui si voglia
applicare la procedura semplificata alla fusione inversa, potrà realizzarsi un’estensione solo
parziale delle agevolazioni dell’art. 2505 c.c., in quanto si dovrebbe comunque includere nel
progetto le indicazioni di cui ai nn. 3), 4), 5) dell’art. 2501-ter c.c. e redigere la relazione degli
amministratori.
Va, inoltre, precisato che quella parte della dottrina, propensa all’applicazione della
procedura semplificata ai casi di fusione inversa, ha assunto come ipotesi, non solo l’esistenza
di una partecipazione totalitaria tra le due società, ma anche la realizzazione dell’operazione
attraverso l’assegnazione diretta pro quota delle azioni dell’incorporante agli ex soci
dell’incorporanda. I casi analizzati dalla dottrina riguardavano, quindi, operazioni compiute
senza la necessità di procedere ad un aumento del capitale sociale dell’incorporante. Trattasi,
cioè, dei casi più semplici tra quelli ipotizzabili, anche perché per essi non si pone già in
origine il problema del rapporto di cambio. Esiste, però, la possibilità che le società decidano
di procedere ad una fusione inversa con concambio. In questo caso si determina un aumento
di capitale, al fine di soddisfare il cambio azionario, e l’accoglimento integrale delle azioni
proprie derivanti dalla partecipazione detenuta dall’incorporata. In una tale prospettiva non
può che condividersi la perplessità circa la piena applicabilità dell’art. 2505 c.c. a fattispecie
di fusione inversa così realizzate. Infatti in questi casi la presenza del concambio e di un
aumento di capitale richiederebbero il rispetto delle prescrizioni previste per la procedura
“ordinaria” di fusione, ossia di quelle norme cui l’art. 2505 c.c. deroga esplicitamente. In
questa seconda ipotesi, però, l’indice normativo che permetterebbe di derogare alla procedura
“ordinaria” non andrebbe cercato nell’art. 2505 c.c., ma altrove e, più precisamente, in
materia di scissioni: al terzo comma dell’art. 2506-ter c.c. (Notari). Questa norma afferma che
è consentito omettere la relazione degli esperti ai sensi dell’art. 2501-sexies c.c. nei casi in cui
si proceda a scissione attraverso l’assegnazione del patrimonio a società beneficiarie di nuova
costituzione e si preveda un criterio proporzionale di attribuzione delle azioni o quote.
Utilizzando il riferimento alla norma sulle scissioni, si può argomentare in ottica sistematica
che “la relazione dell’esperto sul rapporto di cambio può essere superflua anche quando, in
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senso proprio, un cambio di azioni ha luogo in concreto, come appunto avviene nella
scissione in cui “non sono previsti criteri di attribuzione delle azioni o quote diversi da quello
proporzionale”, ma non vi è nessuna modificazione della quota di partecipazione dei soci al
complesso delle società interessate”(Spolidoro). Alla luce di queste riflessioni, l’art. 2505 c.c.
viene sì ad essere applicato anche ai casi di fusione inversa, limitando, però, le deroghe ivi
concesse alla sola relazione degli esperti. Pertanto, indipendentemente dalle modalità di
realizzazione, l’operazione de qua ammetterebbe sempre un’applicazione, sebbene solo
parziale, della procedura semplificata di fusione. Come, però, rileva la dottrina da ultimo
citata “questa conclusione non può essere mantenuta quando la società controllante, che si
estingue fondendosi nella società da essa interamente posseduta, abbia azionisti o soci
appartenenti a diverse categorie, che non possono ripristinare nell’incorporante lo status quo
ante, esistente nell’incorporata; ovvero nelle situazioni in cui, secondo la tecnica
dell’economia aziendale, è giustificato porre la questione della necessità di determinare
rapporti di cambio differenziati”. In questi casi, non solo non potrà prescindersi dal calcolo e
dalla valutazione della congruità di un rapporto di cambio, ma occorrerà anche esplicitare i
motivi per cui si è scelto di fissare un solo rapporto di cambio anziché molteplici o, invece, si
è deciso di optare per la differenziazione dei rapporti di cambio, anziché fissare un solo
coefficiente. Per tali fattispecie appare, perciò, inderogabile anche il rispetto dell’art. 2501sexies c.c., il che comporta la completa inapplicabilità della procedura semplificata stabilita
dall’art. 2505 c.c.
In virtù delle conclusioni raggiunte, è possibile esaminare due questioni ulteriori. La
prima riguarda l’applicabilità della procedura semplificata ex art. 2505 c.c. a quei casi in cui
l’incorporanda non possiede una partecipazione totalitaria nell’incorporante. Qui appare
evidente che un rapporto di cambio deve essere necessariamente calcolato: il coefficiente in
questione serve a determinare, da un lato, quante azioni dell’incorporante (già detenute
dall’incorporanda) devono essere assegnate ai soci dell’incorporanda stessa e, dall’altro,
quante rimangono all’incorporante come azioni proprie oppure, in alternativa, quante
quest’ultima deve emettere in aggiunta, al fine di soddisfare interamente il concambio. Non è
quindi possibile usufruire delle deroghe stabilite nell’art. 2505 c.c., dato che, in situazioni di
possesso non totalitario, deve essere determinato un rapporto di cambio vero e proprio, e non
meramente formale: rapporto che serve a tutelare tanto gli interessi degli azionisti della prima,
quanto quelli degli azionisti della seconda. Probabilmente, l’unico spazio che residua ad
un’applicazione (piena o parziale, nel senso sopra evidenziato) dell’art. 2505 c.c.
riguarderebbe i casi in cui la parte residua capitale sociale dell’incorporante, rispetto a quella
di competenza dell’incorporanda, sia divisa tra i soci di quest’ultima nelle medesime
proporzioni con cui essi partecipano al capitale della incorporanda stessa. In tali fattispecie ci
sarebbe la necessità di determinare un rapporto di cambio solo formale e, quindi, potrebbe
ritenersi utilizzabile il procedimento semplificato dell’art. 2505 c.c., in toto o solo in parte (se
si aderisce all’interpretazione sopra esposta, in quanto, stante la necessità di procedere ad
un’assegnazione di azioni dell’incorporante agli ex soci dell’incorporata, sarebbero comunque
richieste la relazione degli amministratori e la redazione di un progetto di fusione completo).
La seconda questione che rimane da affrontare riguarda una delle novità legislative, in
tema di fusione, introdotte con la riforma: l’incorporazione delle società possedute al novanta
per cento. È, infatti, opportuno chiedersi se tale disposizione sia applicabile anche ai casi di
fusione inversa, dove l’incorporanda detiene (almeno) il novanta per cento dell’incorporante.
La risposta deve essere in questo caso negativa. La norma in esame ammette la possibilità di
derogare alla relazione degli esperti, offrendo agli azionisti di minoranza, presenti
nell’incorporanda, un diritto di exit, nel caso in cui essi non accettino il rapporto di cambio
fissato dagli amministratori. Traslando la fattispecie normativa alle società coinvolte nella
fusione inversa, si potrebbe ipotizzare che ai soci di minoranza dell’incorporante,
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rappresentanti non più del 10% del capitale sociale, venga offerto un diritto d’acquisto a
fronte della mancata redazione della relazione degli esperti. Quest’interpretazione non è
ammissibile, in quanto stravolge la ratio della norma. La relazione ex art. 2501 sexies c.c.
serve, infatti, a valutare la congruità di un rapporto di cambio, che non riguarda direttamente i
soci dell’incorporante, bensì quelli dell’incorporanda. Sono questi ultimi che devono
sostituire i titoli fino ad allora detenuti con quelli dell’incorporante, a prescindere dalla
modalità tecnica con cui si procede alla fusione. Di conseguenza, non potendosi prescindere
dalla relazione degli esperti, la conclusione, cui deve giungersi, consiste nel negare
l’applicabilità dell’art. 2505-bis c.c. ai casi di fusione inversa.
Nessun dubbio, infine, circa la piena applicazione dell’art. 2505-quater c.c., laddove
ne sussistano i presupposti.
Da ultimo sembra doveroso compiere una breve riflessione sulle prospettive future di
applicabilità della procedura semplificata alla fusione inversa: prospettive che sono
strettamente legate all’introduzione dei principi contabili internazionali. Le conclusioni cui
siamo giunti e che riconoscono l’applicabilità della procedura semplificata nei casi di
possesso totalitario, mentre la escludono negli altri, restano valide anche laddove si applichino
i principi contabili internazionali. Infatti, laddove la fusione inversa si presenti come business
acquisition, diretta o inversa, il rapporto di cambio deve essere sempre calcolato e con esso
deve essere sempre redatta la relazione di stima: il tutto al fine di determinare il “costo”
dell’operazione acquisitiva. Se si considerano, poi, i ragionamenti contabili che fanno da
sfondo alla determinazione del capitale sociale, all’emissione delle nuove azioni e al
mutamento del valore nominale dei titoli, nei casi di reverse acquisition, appare evidente che
ogni sforzo interpretativo sarebbe vano nel tentativo di estendere l’ambito di applicabilità
delle norme in questione. Solo nel caso in cui la fusione inversa non rappresenti una business
acquisition, ma una mera riorganizzazione aziendale (ad es. l’incorporanda detiene la totalità
del capitale dell’incorporante) residuerebbero spazi per l’applicazione dell’art. 2505 c.c.
7. Fusione inversa ed “eterogenea”
In dottrina (De Acutis) è stato sollevato il quesito dell’applicabilità dell’obbligo di
relazione di stima, ai sensi degli artt. 2343 e 2465 c.c., ai casi di fusione inversa “eterogenea”,
coinvolgente cioè una società di persone (controllante e incorporanda) e una società di capitali
(controllata e incorporante) interamente posseduta dalla prima. A causa della diversità dei tipi
societari coinvolti nell’operazione, la fusione comporterà implicitamente problematiche e
conseguenze analoghe a quelle che si avrebbero laddove si procedesse ad una mera
trasformazione da società di persone in società di capitali.
Il maggior profilo di rischio, che deriva da questa fattispecie di fusione, è insito nella
determinazione del valore del patrimonio della società di persone. Nel sistema previgente,
questo compito era affidato alla redazione di una perizia di stima, la quale pur non essendo
prevista esplicitamente in siffatti casi di fusione, dagli interpreti era ritenuta comunque
indispensabile, in virtù della necessaria applicazione della disciplina prevista per le
trasformazioni, laddove compatibile. A conferma della fondatezza di quest’orientamento, il
d.lgs. 6/03 ha introdotto una norma a riguardo: si tratta dell’ultimo comma dell’art. 2501sexies c.c., il quale assegna agli esperti nominati per la relazione sulla congruità del rapporto
di cambio, il compito di redigere la perizia di stima per la valutazione del patrimonio della
società di persone. La norma è apprezzabile in quanto risponde ad evidenti esigenze di
semplificazione e di risparmio di tempo e di costi, anche se vanno rilevati due problemi
applicativi.
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Il primo discende dal fatto che la norma in esame prevede la redazione della perizia di
stima senza ulteriori specificazioni (in modo analogo a quanto avveniva nel previgente art.
2498 c.c.) mentre l’art. 2500-ter c.c. richiede l’emersione dei valori attuali del patrimonio
della trasformanda. Da questa premessa discende un dubbio sul modo in cui interpretare la
norma dettata in tema di fusione. Se, infatti, si fa leva sul suo dato letterale, si potrebbe
ritenere che, al pari dell’art. 2498 c.c. pre-riforma, che veniva applicato in casi di specie, essa
vada interpretata nel senso di richiedere l’impiego dei criteri stabiliti per la redazione del
bilancio civilistico. Se, invece, la norma in questione viene messa in correlazione con l’art.
2500-ter c.c., in un’ottica di sistema, si dovrebbe affermare che la perizia ha l’obbligo di far
emergere i valori attuali. Riteniamo che quest’ultima interpretazione meriti di essere accolta,
dato che l’ultimo comma dell’art. 2501-sexies c.c., nel dettare uno snellimento procedurale, ha
espresso in termini di diritto positivo un orientamento consolidato fra gli interpreti, secondo
cui la disciplina sulla trasformazione deve intendersi richiamata nei casi in cui
quest’operazione sia implicita in una fusione.
Il secondo punto attiene alla corretta determinazione dell’ambito applicativo dell’art.
2501-sexies, ultimo comma c.c. Si è rilevato, infatti, che “la delimitazione della fattispecie
pecca per eccesso, giacché non in tutte la “ipotesi di fusione di società di persone con società
di capitali” si verificano i presupposti che giustificano l’applicazione della stima ex art. 2343
c.c. … Non è infatti mai richiesta la perizia ex art. 2343 c.c. in ipotesi in cui non si formi un
nuovo capitale … Ciò porta a dire che all’esperto ex art. 2501-sexies c.c. non viene affidata la
perizia ex art. 2343 c.c. allorché, pur trattandosi di “ipotesi di fusione di società di persone
con società di capitali”, la società risultante dalla fusione sia: a) una società di persone; b) una
società di capitali preesistente che non aumenta il capitale sociale”(massima 27 della
Commissione del Consiglio Notarile di Milano). Si è sostenuto, perciò, che nel caso in cui
l’incorporanda-società di persone abbia nel proprio patrimonio esclusivamente le azioni
dell’incorporante-società di capitali “non v’ha dubbio che la relazione sarebbe affatto
superflua”(De Acutis). Questa soluzione si basa sul presupposto che la partecipazione
posseduta dall’incorporanda non determini un incremento del patrimonio dell’incorporante.
Ciò avverrebbe sia nel caso in cui tale partecipazione sia interamente utilizzata per soddisfare
il rapporto di cambio attraverso l’assegnazione delle azioni ai soci dell’incorporanda, sia nel
caso in cui si deliberi un contestuale annullamento della partecipazione, sia, infine, nel caso in
cui i titoli siano accolti nel patrimonio dell’incorporante. In quest’ultima situazione ci si
troverebbe di fronte ad un trasferimento patrimoniale solo apparente, dato che, secondo la
dottrina citata, le azioni andrebbero iscritte nummo uno nello stato patrimoniale
dell’incorporante.
Questa tesi non convince pienamente. Infatti, se può apparire ragionevole omettere la
perizia di stima nei casi di assegnazione diretta o di annullamento del pacchetto azionario
detenuto dall’incorporanda, non sembra altrettanto corretto derogare all’obbligo in parola nei
casi di mantenimento, nel patrimonio dell’incorporante, delle azioni proprie. Preferiamo,
infatti, accogliere la tesi, che ha trovato conferme in dottrina e in giurisprudenza, in virtù della
quale le azioni proprie in portafoglio, siccome rappresentano un valore che esiste nel
patrimonio della società emittente ed è suscettibile di essere monetizzato, devono essere
iscritte in bilancio secondo i criteri di valutazione ed, in genere, secondo le regole stabilite
dalla legge per qualunque altro titolo azionario. Di conseguenza, riteniamo che, qualora si
decida di realizzare la fusione inversa “trasferendo” le azioni all’incorporante, l’iscrizione del
valore delle stesse nell’attivo non potrà prescindere da una preventiva perizia di stima ai sensi
dell’art. 2343 o dell’art. 2465 c.c. D’altronde in dottrina si afferma che l’obbligo di perizia di
stima non ammetterebbe alcuna eccezione e andrebbe, pertanto, osservato anche se il
patrimonio della trasformanda (nel nostro caso incorporanda) fosse formato solamente da
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denaro. Queste conclusioni trovano fondamento nel presupposto che la relazione del perito
non abbia solo funzione valutativa, ma anche certificativa dei beni sociali (Cabras).
Nel caso in cui la società incorporanda abbia un patrimonio formato da altri beni
iscritti all’attivo, oltre alla partecipazione, e/o da passività, la soluzione sarebbe, secondo la
dottrina citata, meno sicura. Infatti, come precedentemente ricordato, si sostiene che se la
fusione venisse attuata con un aumento di capitale da parte dell’incorporante, la perizia
sarebbe inevitabile; mentre, qualora si decidesse di non procedere ad alcun aumento di
capitale, si potrebbe derogare all’ultimo comma dell’art. 2501-sexies c.c., valorizzando a
contrario l’orientamento giurisprudenziale che richiede la perizia quando la società
incorporante deliberi l’aumento di capitale in funzione della fusione. Tuttavia, la soluzione
suggerita per il caso in cui non si aumenti il capitale dell’incorporante, lascerebbe spazio ad
alcuni dubbi, che dipendono dalla funzione che si vuole riconoscere alla previsione di una
perizia di stima. Se, infatti, ad essa si attribuisse il compito di garantire l’effettività dei valori
destinati all’aumento di capitale, si dovrebbe necessariamente affermare l’inutilità della
perizia stessa in quanto è assente un’imputazione al capitale dell’incorporante, il quale rimane
invariato. Se, invece, aderendo all’orientamento che richiede l’emersione dei valori reali del
patrimonio dell’incorporanda, si volesse riconoscere alla stima in questione, la funzione di
garantire l’effettività dei valori (attivi e passivi) per il semplice fatto che gli stessi andranno
iscritti nel bilancio dell’incorporante, la conclusione sarebbe radicalmente diversa, anche in
assenza di un aumento di capitale. Infatti, l’esecuzione della perizia permetterebbe di tutelare
maggiormente gli interessi dei creditori che successivamente alla fusione entreranno in
rapporto con la società, al pari di quanto avviene in caso di mera trasformazione ai sensi
dell’art. 2500-ter c.c.3
8. Fusione inversa come merger leveraged buy out
La riforma del diritto societario non ha comportato una legittimazione expressis verbis
del (merger) leveraged buy out, né ha in alcun modo inciso sull’ambito di applicazione
dell’art. 2358 c.c. Piuttosto ha voluto solamente fornire un’interpretazione autentica di questa
norma: interpretazione che è insita, però, nell’art. 7 della legge delega (l. 3 ottobre 2001, n.
366) e non nell’art. 2501-bis c.c., disposizione dal carattere meramente procedimentale. Il
legislatore delegato, infatti, non poteva intervenire sull’ambito applicativo dell’art. 2358 c.c.,
riformulandolo o circoscrivendolo. Nessuna delega era stata fornita al governo per una
modifica della suddetta norma, né sarebbe stato comunque ipotizzabile un simile intervento,
dato che l’art. 2358 c.c. è stato introdotto nel nostro ordinamento in attuazione della seconda
direttiva europea (dir. CEE, n. 77/91 del 13 dicembre 1976), di una normativa, quindi,
sovranazionale e indisponibile da parte del singolo Stato membro. Dall’attuale vigenza del
divieto di assistenza finanziaria e dall’immutato ambito applicativo della sua fattispecie,
discende che, anche dopo la riforma, le fusioni potranno ritenersi lecite in relazione all’art.
2358 c.c. solo laddove non comportino una violazione diretta dello stesso. Di conseguenza,
l’importanza dell’art. 2501-bis c.c. (rectius dell’art. 7, l. 366/01) consiste esclusivamente
nell’aver “sbarrato drasticamente la via al rischio di arbitrarie estensioni del divieto imposto
da quest’ultima norma [art. 2358 c.c.], onde evitare che possano crearsi situazioni
Sicuramente estranei alla tutela approntata dall’art. 2501-sexies, ultimo comma c.c. restano i creditori
“anteriori all’iscrizione prevista nel terzo comma dell’art. 2501 ter”. Questi possono giovarsi del
diritto di opposizione ex art. 2503 c.c. e, se sono creditori dell’incorporanda, hanno la garanzia
aggiuntiva rappresentata dalla responsabilità illimitata dei soci dell’incorporanda stessa, purché non
abbiano dato il consenso espresso o presunto alla fusione (2504-bis, ultimo comma c.c.).
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d’incertezza circa la sorte di operazioni di assoluta regolarità e importanza” (Schlesinger), per
via di una presunta violazione indiretta della disposizione in esame o di una frode alla legge.
In questa prospettiva l’art. 2358 c.c. continua ad avere una propria portata precettiva
nei confronti delle operazioni non rientranti nella fattispecie – dai confini, invero, alquanto
evanescenti – dell’art. 2501-bis c.c. Non è, però, possibile formulare un giudizio a priori e
compiere una catalogazione che distingua tra operazioni lecite e illecite: ogni fattispecie dovrà
essere esaminata nella sua specificità e il riferimento normativo non dovrà essere
rappresentato solo dall’art. 2358 c.c., ma anche da altre norme volte a sanzionare altri
comportamenti illeciti, tra le quali meritano di essere tenute in particolare considerazione, a
nostro giudizio, quelle degli artt. 2497 e segg. c.c.
La fusione inversa potrebbe rappresentare uno dei casi in cui gli aspetti patologici del
merger leveraged buy out si manifestano più chiaramente. In questa sede preme segnalare
alcuni rilievi avanzati dalla dottrina, i quali sono strettamente dipendenti dalla soluzione data
al problema della natura dell’art. 7 della l. 366/01. Infatti, se si aderisce all’orientamento
dottrinale che ritiene illecita la suddetta norma perché confliggente con la seconda direttiva
europea, l’ambito applicativo dell’art. 2358 c.c. non potrebbe essere limitato dal legislatore
nazionale e il divieto di financial assistance troverebbe una “violazione manifesta in maniera
particolarmente nitida nel caso di reverse merger, dato che in questa fattispecie la target non
si estingue ed assume direttamente il debito contratto per l’acquisto delle proprie
azioni”(Dolmetta). Se, invece, si adotta – come a nostro giudizio andrebbe fatto – la
prospettiva secondo cui l’art. 7, l. 366/01, quale norma interpretativa, si limita a dichiarare la
legittimità del merger leveraged buy out, bandendo così interpretazioni analogiche del divieto
in parola e non ravvisando ipotesi di frode alla legge, l’attenzione dell’interprete dovrebbe
concentrarsi esclusivamente su quelle situazioni in cui il contrasto con l’art. 2358 c.c. è diretto
e palese. Tra queste ci sarebbero quelle fusioni inverse in cui la target (incorporante) concede
garanzie specifiche per il finanziamento. Si pensi, in particolare, al caso in cui,
successivamente all’acquisto della partecipazione nella società bersaglio, le azioni vengano
date in pegno ai finanziatori: procedendo ad una fusione inversa, tali azioni, qualora non
fossero interamente assegnate ai nuovi soci per soddisfare il concambio oppure non venissero
annullate (con contestuale aumento di capitale ed eventuale individuazione di altre forme di
garanzia) confluirebbero nel patrimonio della società come azioni proprie. In tal modo il
patrimonio della società incorporante non costituirebbe, come richiede l’art. 2501-bis c.c., una
mera “garanzia generica o fonte di rimborso”, ma conterrebbe valori vincolati a garanzia
specifica del debito. Uguale risultato si avrebbe qualora, successivamente all’acquisto e prima
della fusione, venissero costituite garanzie reali su alcuni cespiti della target. In casi del
genere la risposta in merito alla violazione diretta dell’art. 2358 c.c. dipende
dall’interpretazione dell’espressione “fornire garanzie per l’acquisto”. Infatti, laddove si
faccia leva sull’aspetto finalistico emergente (seppur implicitamente) dalla disposizione de
quo (oltre che dalla direttiva comunitaria), si deve riconoscere che, affinché si configuri la
fattispecie della financial assistance, la norma supponga 1) un atto della target; 2) che detto
atto sia precedente o almeno contestuale all’operazione di prestito (Partesotti); 3) che possa
rinvenirsi, nello svolgimento dell’intera operazione, una collusione tra gli amministratori delle
due società (Spolidoro). Da qui la legittimità dei merger leveraged buy out realizzati con
fusione inversa, che non integrino i suddetti presupposti.
Piergiorgio Castellano
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