Volume II
CAPITOLO 5
DALLA MONARCHIA MILITARE ALLA TETRARCHIA (III secolo)
$A 1 Gli imperatori militari
$B La dinastia dei Severi
$C L’ultima parola all’esercito (192-193)
Alla morte di Commodo, nel 192, si creò
una situazione molto simile a quella seguita alla morte di Nerone: senza un successore
designato, senato, pretoriani e legionari fecero a gara a imporre un proprio candidato.
Quello scelto dal senato, Elvio Pertinace, un anziano senatore collaboratore di Marco
Aurelio, fu eliminato dopo pochi mesi dai pretoriani perché, nel tentativo di risanare le
finanze dopo gli sperperi di Commodo, non aveva elargito loro sufficienti donativi. I
pretoriani scelsero invece il candidato che prometteva le maggiori elargizioni, misero
insomma “all’asta l’impero”: a “comprarlo” fu il senatore Didio Giuliano. A dover dire la loro
restavano le varie legioni sparse per l’impero, che detenevano ormai il reale potere.
Ognuna di esse nominò un proprio imperatore; le ultime furono le legioni di stanza sul
limes renano e danubiano che designarono il loro generale Settimio Severo, governatore
della Pannonia. Preso il potere nel 193, egli impiegò quattro anni per eliminare gli altri
concorrenti, scelti dai rispettivi eserciti.
$C Settimio Severo, un generale al governo (193-211) Lucio Settimio Severo era
nato a Leptis Magna, nell’attuale Libia, aveva fatto carriera nell’esercito e restò sempre un
militare; anche quando divenne imperatore, governò da generale, autoritario ma non
tirannico.
Sposò una siriana, Giulia Domna, che apparteneva a una famiglia sacerdotale addetta al
culto di Baal, una divinità solare. Con una scelta che sembrava sottolineare un netto
distacco dalle tradizioni romane di cui si era fatto portavoce, per ultimo, Marco Aurelio,
Settimio cercò il consenso della plebe e soprattutto dell’esercito, piuttosto che quello del
senato, e impresse una svolta alla politica romana. Pertanto innanzitutto favorì l’esercito,
su cui si fondava il suo potere e che era indispensabile per difendere i confini sempre più
minacciati:
•
aumentò la paga dei soldati, permise loro di sposarsi durante la leva, spingendoli a
scegliere donne delle regioni in cui svolgevano servizio e a coltivare la terra nei periodi in
cui non combattevano, per incrementare l’agricoltura in crisi dopo l’epidemia di peste;
favorì così anche la romanizzazione delle zone periferiche, in cui gli accampamenti
militari spesso si trasformarono in città;
•
a Roma congedò i pretoriani in servizio per sostituirli con uomini a lui fedeli e
provinciali in numero maggiore;
•
creò tre nuove legioni e ne stanziò una vicino a Roma, quasi raddoppiando così la
presenza militare in Italia.
$C Cambiare i rapporti di forza
L’imperatore intendeva modificare il ruolo delle classi sociale. Si appoggiò quindi al ceto
equestre, a cui appartenevano molti ex militari, concedendo diversi privilegi:
•
assegnò il comando delle tre nuove legioni ai cavalieri anziché ai senatori, come
nella tradizione;
•
quando creò la provincia della Mesopotamia, la assegnò a un prefetto del ceto
equestre.
Cercò inoltre di equiparare italici e provinciali, lui che, provenendo dalle loro fila, ne
conosceva problemi e aspirazioni:
•
concesse ai provinciali di essere arruolati tra i pretoriani;
•
ne immise molti nel senato e tra i ranghi del ceto equestre;
•
sottrasse all’Italia la prerogativa di terra privilegiata rispetto alle province;
•
avviò numerose opere pubbliche nelle province e in particolare a Leptis Magna, sua
città natale.
Nei confronti delle classi alte e del senato, invece, l’imperatore attuò una politica di
penalizzazioni: pur rispettando formalmente il senato, lo esautorò quasi completamente
dei suoi poteri; incrementò le finanze pubbliche con confische ai senatori; inasprì la
pressione fiscale sui ceti alti.
$C Scelte economiche fallimentari All’abilità nel dare un nuovo assetto sociale
all’impero, Settimio Severo non fece corrispondere una grande competenza in economia.
Infatti, per trovare denaro sufficiente a pagare una retribuzione assai più alta ai soldati, egli
ridusse del 50% l’argento presente nelle monete, provocando la svalutazione monetaria
del 50% e la conseguente inflazione, con l’aumento vertiginoso dei prezzi. Fu addirittura
costretto a pretendere una tassazione in natura per evitare di vedere ridotte le entrate
nelle casse dello stato.
$C Scelte militari vincenti
Il ruolo primario di Settimio Severo rimase tuttavia quello
di comandante militare. Nel 197 l’imperatore riesumò il sogno secolare di assoggettare i
parti. Approfittò del fatto che essi avevano appoggiato uno degli aspiranti imperatori, il
comandante delle legioni in Siria, per riaccendere le ostilità. Riuscì a sottometterli,
distruggendo anche la capitale Ctesifonte, e a estendere i confini dell’impero fino a fare
della Mesopotamia una provincia, come aveva tentato Traiano. Per celebrare la vittoria
sui parti fece costruire un arco a Roma.
Poi si dedicò a rinforzare le frontiere:
•
avviò un’imponente fortificazione nella Germania superiore e nella Rezia;
•
fissò un limes tripolitanus di oltre 1000 km per difendere la provincia d’Africa dalle
incursioni provenienti da sud;
•
partito nel 207, già malato, per la Britannia con i figli Antonino Caracalla e Geta,
associati al potere, rafforzò il vallo di Adriano, poiché i caledoni da nord avevano valicato il
vallo di Antonino.
Nel 211 moriva nell’attuale York. Si racconta che prima di morire abbia detto ai figli: «Siate
uniti, arricchite i soldati e non curatevi di tutto il resto» (Cassio Dione, Storia di Roma,
76,15).
$C Caracalla e l’estensione della cittadinanza (211-217) Caracalla e Geta assunsero
quindi il potere, ma, conclusa una pace frettolosa e disonorevole con i caledoni, si
affrettarono a tornare a Roma, dove Caracalla uccise il fratello minore tra le braccia della
madre Giulia Domna, eliminò tutti i suoi oppositori, tra cui il grande giurista Papiniano, che
aveva collaborato con Settimio Severo, e si lasciò andare a inaudite crudeltà sia a Roma
sia nelle province. Tuttavia nel 212 promulgò la Constitutio Antoniniana, con cui
riconosceva la cittadinanza romana a tutti i cittadini dell’impero. Il suo intento, in
realtà, non era tanto quello di integrare i popoli nell’impero, quanto quello di aumentare gli
introiti nelle casse dello stato, che egli aveva prosciugato. La concessione del diritto di
cittadinanza era sempre stata usata da Roma come premio e incentivo per favorire la
fedeltà delle province e la romanizzazione: con l’editto perse tale funzione. Tuttavia la
cittadinanza rafforzò il senso di appartenenza dei provinciali all’impero romano, di contro ai
popoli che premevano alle frontiere sempre più minacciosamente: lo stesso Caracalla
dovette fronteggiare le tribù germaniche di alamanni e goti. Poi, mentre era impegnato in
una nuova guerra contro i parti, nel 217 egli cadde vittima di una congiura.
$F Storie di parole
Caracalla e la sua veste
Il soprannome di Caracalla che fu attribuito a Bassiano Marco Aurelio Antonino, figlio di
Settimio Severo, deriva dalla particolare veste in uso presso i galli, che egli soleva
indossare.
$C La fine dell’ultima dinastia A succedere a Caracalla di fatto furono le donne della
famiglia, tutte di origine siriaca: Giulia Domna e le sue tre figlie, che imposero sul trono il
quattordicenne Elagabalo, il cui nome era un omaggio al dio Sole (Helios in greco ed
Elagabal in Siria), di cui il giovinetto era sacerdote. I suoi costumi erano decisamente
orientaleggianti: cercò di presentarsi come il dio Sole, si circondò di maghi, cercò,
ispirato dalla madre, di ridurre il potere dell’esercito, riconobbe il potere alle donne della
famiglia tanto da creare un “senatino” femminile, un consiglio di donne che affiancasse il
principe nel governo. Il suo tentativo di sostituire le divinità tradizionali con il culto di un
solo dio e, nel contempo, di promuovere il sincretismo religioso (G) derivavano dal clima
che ormai si respirava nell’impero. Elagabalo arrivò, però, a commettere stranezze così
imbarazzanti che probabilmente la stessa nonna, Giulia Mesa, figlia di Giulia Domna, dopo
avergli fatto adottare il cugino Alessandro Severo, lasciò che i pretoriani nel 222
uccidessero Elagabalo.
Alessandro Severo invertì entrambe le tendenze della dinastia, sia quella che si
appoggiava all’esercito sia quella di ispirazione orientale, e instaurò un rapporto di
collaborazione con il senato. Egli si lasciò guidare dai consigli di un giurista famoso,
Ulpiano, e promosse il rispetto dei vari culti; commise tuttavia l’errore di imporre una
disciplina militare più severa, che gli attirò l’odio dei pretoriani, i quali uccisero sotto i suoi
occhi Ulpiano. Dopo una campagna militare contro i persiani della nuova dinastia dei
Sasanidi che avevano sconfitto i parti, Alessandro Severo tentò di arginare la pressione
delle tribù germaniche fra Reno e Danubio, offrendo loro anche un tributo, ma le truppe
indignate lo uccisero. Era il 235 e per l’impero iniziava una fase di anarchia e di caos.
$A 2 L’anarchia militare (235-284)
$B Un contesto storico difficile
$C Cinquant’anni di caos
Alla morte di Alessandro Severo l’impero sprofondò
nell’anarchia, che si protrasse dal 235 al 284. Anche se in alcuni momenti sembrò che il
senato potesse riottenere il potere di nominare un imperatore, furono i pretoriani e le
diverse legioni stanziate alle varie frontiere a giocarsi la partita, eleggendo come
imperatori i propri comandanti, salvo poi eliminarli nel momento in cui non elargivano
sufficienti benefici alle truppe o si mostravano poco intraprendenti in guerra. In certi periodi
ci furono contemporaneamente più imperatori eletti in diverse parti dell’impero e alcuni
arrivarono addirittura a costituire dei regni semiautonomi. La maggior parte degli
imperatori non mise mai piede a Roma e tutti furono perennemente impegnati a
combattere contro gli altri pretendenti e solo parzialmente anche contro i nemici esterni.
Pochissimi, come vedremo, riuscirono a governare per un tempo sufficiente a lasciare
un’impronta nella storia di Roma.
$C La rinascita persiana Fra le tante ragioni della crisi occorre annoverare la rinascita di
un impero glorioso: quello persiano. I parti, popolazione imparentata con i persiani, li
avevano sostituiti nel controllo dell’altopiano iranico, si erano estesi verso occidente e per
quattro secoli avevano dato filo da torcere all’impero romano. Ma ora, indeboliti dalle
guerre contro i romani e dalle lotte intestine tra i potenti signori (gli shah) che avevano
minato l’unità dell’impero, i parti non riuscirono a impedire agli abitanti della Perside, cioè
ai persiani, di riprendere il potere sulla regione. Con la dinastia dei Sasanidi (discendenti
da una famiglia di Magi chiamata Sasan), i persiani ricostituirono l’impero dei loro avi, con
un forte potere centrale, recuperarono l’antico mazdeismo e rinnovarono il loro
espansionismo. Per i romani fu un problema. I parti erano ellenizzati, di cultura più aperta
e ormai infiacchiti, i persiani erano invece una forza nuova e potente, che costituiva una
seria minaccia sul fronte orientale dell’impero.
$M Memo
Mazdeismo
da scrivere
$C Frontiere a rischio
I persiani non erano i soli a minacciare i confini dell’impero.
A nord nuove tribù di germani, nomadi dediti alla razzia e al saccheggio, che già dal
tempo di Mario premevano periodicamente alle frontiere, ora forzavano le difese romane
ed erano sempre più difficili da respingere:
•
i goti, che provenivano dalle regioni sul mar Baltico, calarono nella penisola
balcanica fino in Grecia e riuscirono a raggiungere Efeso, in Asia Minore;
•
alla metà del secolo, alamanni e franchi forzarono il fronte renano. I primi
valicarono le Alpi e saccheggiarono la pianura Padana;
•
i franchi dilagarono in Gallia e raggiunsero la Spagna.
A sud, nella provincia d’Africa, una delle più prospere dell’impero, erano in fermento sia le
tribù non romanizzate dell’interno, sia i contadini e persino i proprietari terrieri vessati da
una tassazione sempre più gravosa.
$C La fine della coesione sociale
Anche nei periodi difficili e in presenza di
imperatori tirannici l’impero aveva retto perché i ceti dirigenti garantivano la coesione
sociale e il governo delle province. Ma ora si era verificato un vero collasso delle
istituzioni e l’impero rischiava di sfaldarsi. La perdita di autorità del senato aveva
consegnato agli eserciti il potere di scegliere l’imperatore; i pericoli esterni avevano
aumentato la forza e il numero dei militari e costretto gli imperatori ad accrescere, per
mantenerli, la pressione fiscale sui proprietari terrieri e sugli abitanti delle città.
Sulle campagne gravavano l’effetto di saccheggi, razzie e devastazioni degli eserciti in
lotta tra loro in continue guerre civili, e lo spopolamento causato dal costante
reclutamento militare. A ribellarsi erano i contadini, che spesso appoggiavano i
proprietari in lotta contro il potere centrale oppure si davano al brigantaggio, che divenne
una forma di rivolta.
$C Le cause della crisi economica L’impero aveva ormai raggiunto la sua massima
espansione e non aveva quindi più la possibilità di attingere a nuove ricchezze
conquistando altre terre. Al contrario, le spese aumentavano continuamente perché gli
imperatori erano costretti a elargire ingenti donativi agli eserciti per garantirsi il trono e
fronteggiare i pericoli esterni. Non sapendo dove trovare il denaro, gli imperatori ricorsero
sempre più spesso alla svalutazione del denarius d’argento, che arrivò a contenere
anche solo il 2-3% di metallo prezioso e per il resto solo rame. Lo stato si tutelava
pretendendo il pagamento dei tributi in monete d’oro o in natura o in prestazione di
manodopera. L’economia era al tracollo e si rischiava di tornare al baratto.
Nel 250, ad aggravare la situazione, sopraggiunse un’altra ondata di peste, che per
quindici anni continuò a mietere vittime.
$B Imperatori a tempo determinato
Dei quasi 40 imperatori o usurpatori che si susseguirono nei cinquant’anni di anarchia
militare, solo alcuni sono degni di menzione.
$C Gallieno e la prima spaccatura dell’impero (253-268) Sotto Publio Licinio Egnazio
Gallieno, abile condottiero che fu imperatore dal 253 al 268, un usurpatore, Postumo,
riuscì a coalizzare tutte le province occidentali e creò un impero delle Gallie, che rimase
indipendente per alcuni anni, ma collaborò a difendere il confine renano.
In Oriente fu lo stesso imperatore a riconoscere invece come governatore di tutto l’Oriente
Odenato, un aristocratico arabo di Palmira, nella Siria interna. Di stirpe semita ma di
cultura ellenistica, questi si era proclamato signore della città e si era opposto all’avanzata
del re persiano Shapur. Nel 266 Odenato fu assassinato e il principato di Palmira passò
alla sua vedova Zenobia, che si proclamò regina di Palmira e creò uno stato autonomo,
particolarmente ricco e fiorente perché vi convergevano le carovane provenienti
dall’Arabia e dall’Egitto.
Gallieno rinunciò a ricostituire l’unità dell’impero, anche perché i due stati indipendenti
fungevano da baluardo difensivo ai confini; egli si dedicò ad alcune riforme interne e fece
cessare le persecuzioni dei cristiani e per quarant’anni essi vissero in pace.
Nel 267 ripresero le incursioni sul confine danubiano, mentre quello renano era difeso
dall’imperatore delle Gallie. I germani giunsero fino ad Atene e la saccheggiarono.
Gallieno riuscì a respingerli, ma nel 268 fu assassinato dai suoi ufficiali.
$E Massimino il Trace, il gigante (235-238)
Fu il primo imperatore di origini barbare, un centurione nativo della Tracia, si dice facesse
il pastore prima di arruolarsi, non conosceva il greco e capiva poco anche il latino. Aveva
fatto carriera nell’esercito ed era amato dalle truppe perché era uno di loro. Era un
gigante, pare usasse un braccialetto come anello al pollice e potesse trascinare da solo un
carro da guerra. Nei suoi anni di regno combatté a difesa dei confini settentrionali, non
mise mai piede a Roma e avviò la prima persecuzione sistematica di cristiani per
confiscare i loro beni. Fu ucciso dopo una rivolta.
$E Valeriano, l’imperatore prigioniero (253-260)
Esponente dell’ordine senatorio, Publio Licinio Valeriano associò al regno il figlio Gallieno
e sperimentò una nuova forma di governo, tenendo per sé la difesa dei territori orientali e
assegnando al figlio quella delle province occidentali.
Ma Valeriano, costretto a combattere sul fronte orientale sia contro i goti sia contro i
persiani, fu sconfitto e addirittura fatto prigioniero presso Edessa, in Mesopotamia, dal re
persiano Shapur (Sàpore per i latini), che non rinunciò a rendere l’umiliazione dei romani
più cocente celebrando la propria vittoria con bassorilievi incisi sulle rocce. Gallieno,
impegnato a resistere ai germani, non poté soccorrere il padre e Valeriano, costretto a
lavorare nella costruzione della diga del Re, morì prigioniero nel 260. I cristiani dissero che
era stato punito da Dio.
Costretto a combattere sia contro i goti sia contro i persiani, Valeriano fu sconfitto dal re
persiano Shapur, fatto prigioniero e costretto a lavorare nella costruzione della diga del re,
che rese l’umiliazione più cocente celebrando la propria vittoria con bassorilievi incisi sulle
rocce. Valeriano morì prigioniero nel 260.
Filippo l’Arabo e il millenario di Roma (244-249)
Estraneo anch’egli alla tradizione romana, fu tollerante verso i cristiani e si diceva fosse
cristiano anche lui, fu impegnato a difendere le frontiere e concluse la pace con i persiani.
Nel 248 celebrò con grande pompa il millenario della nascita di Roma. Nel 249 fu sconfitto
e ucciso da Decio, proclamato imperatore dalle sue truppe in seguito alle vittorie contro i
goti.
$C Aureliano e le mura di Roma (270-275) A ricostituire l’unità dell’impero furono
alcuni imperatori di origine illirica, tra cui Lucio Domizio Aureliano. La sua prima azione
fu quella di costruire una nuova cinta di mura intorno a Roma. La città, infatti, malgrado la
sua enorme espansione, possedeva solo l’antichissima cerchia di mura che la tradizione
faceva risalire al re Servio Tullio, ormai assolutamente inadeguata a contenere un milione
di abitanti. Non erano mai state costruite altre mura perché Roma non aveva mai rischiato
realmente un assedio. Ora la situazione era diversa. Una popolazione germanica era
arrivata fino alle Marche, Aureliano riuscì a ricacciarla oltre il Danubio, ma nel contempo
decise di evacuare la Dacia, che, priva di barriere naturali e circondata da altre popolazioni
germaniche, era indifendibile. Riuscì invece a riconquistare Palmira e ottenne la
sottomissione dell’ultimo imperatore delle Gallie, indebolito da ribellioni di soldati e di città.
Si impegnò poi a diffondere il culto del Sole, cercando di imporlo come supremo culto
ufficiale, gli dedicò il giorno del 25 dicembre e si identificò con il dio attribuendosi il titolo di
dominus et deus, “signore e dio”. L’imperatore cessava così di essere un princeps, un
primo alla pari con il senato, e diventava un signore, un dominus, investito d’autorità dal
dio, non più dal senato e neppure ormai dall’esercito. Il principato si trasformò quindi in
dominato.
$B Il disastro economico-sociale alla fine del III secolo
$C Il tracollo
Cinquant’anni di anarchia politico-militare aggravarono la crisi
economica. Oltre ai problemi nel settore agricolo, si registrarono altre difficoltà:
•
i conflitti spesso interruppero le vie di comunicazione e ostacolarono i traffici e le
relazioni commerciali;
•
la scarsa disponibilità di beni aggravò l’inflazione causata dalla svalutazione della
moneta;
•
il prelievo fiscale, necessario per affrontare le spese militari, gravò sui ceti
produttivi, cominciò a diffondersi la povertà e con essa i conflitti sociali.
$C La crisi delle città
Le città, elemento fondante dell’impero, estese in ogni angolo
dell’immenso territorio, si erano via via ingrandite per l’afflusso dei ceti più poveri, che in
città beneficiavano delle distribuzioni gratuite di generi alimentari. Con la crisi delle finanze
statali queste distribuzioni vennero drasticamente ridotte e molti preferirono
abbandonare i centri urbani per spostarsi in campagna a cercare lavoro nelle ville
aristocratiche. Le città erano diventate insicure anche per i ceti abbienti, soprattutto nella
parte occidentale dell’impero, dove le incursioni dei germani si facevano sempre più
frequenti. In molti casi le città vennero dotate di mura imponenti, ma questo non bastò a
fermare la fuga dei proprietari terrieri verso le loro ville di campagna, che provvidero a
fortificare contro eventuali attacchi. I centri urbani persero così i maggiori finanziatori di
opere pubbliche e il loro aspetto non ebbe più quello splendore che le aveva caratterizzate
nel secolo precedente.
$A 3 La tetrarchia (293-306)
$B La riforma dell’impero
$C Diocleziano, il primo di quattro (284-305)
Nel quadro di crescenti difficoltà si
colloca il regno di Diocleziano, che seppe imprimere una svolta alla storia dell’impero.
Anche Diocleziano, come gli ultimi imperatori prima di lui, era di origine illirica: era nato
infatti in Dalmazia nel 247. Acclamato imperatore dall’esercito nel 284, comprese che la
crisi andava risolta con una riforma radicale dell’impero, a partire proprio dalla scelta del
suo capo supremo, che doveva essere sottratta all’arbitrio delle truppe. Ma occorreva
anche garantire un controllo e una difesa dell’immenso territorio stabile e capillare, visto
che i pericoli esterni si facevano sempre più minacciosi.
La soluzione prese la forma della tetrarchia (dal greco tetrás, “il numero quattro” e arché,
comando), “governo di quattro”: nel 286 Diocleziano si affiancò al governo un generale
originario della Pannonia, Marco Aurelio Valerio Massimiano, con il titolo anch’egli di
augusto, e gli affidò il controllo della parte occidentale dell’impero, tenendo per sé quella
orientale, più estesa e con maggiori problemi alle frontiere. Per garantire la successione
senza problemi, nel 293 Diocleziano decise di affiancare ai due augusti due cesari:
Galerio Valerio Massimiano,così chi legge si chiede se c’erano due Massimiano!!!!!
Correggere in Galerio Valerio Massimiano, un romano della Dacia, e Valerio Costanzo
Cloro, un militare di origine illirica. Destinati a succedere automaticamente agli augusti –
che avrebbero dovuto abdicare dopo vent’anni – i due cesari, diventati augusti, avrebbero
designato altri due cesari come collaboratori e successori, con un meccanismo che
avrebbe dovuto garantire il governo dei migliori e una successione pacifica. Per evitare il
rischio di uno sfaldamento dell’impero, Diocleziano mantenne una posizione di rilievo tra i
quattro, attribuendosi il titolo di deus e dominus e di Augusto Giovio, “figlio di Giove”, che
da un lato richiamava la tradizione romana, dall’altro sottolineava la natura divina
dell’imperatore. Anche Massimiano si attribuì il un titolo divino, quello di Erculio, “figlio di
Ercole”, che richiamava l’idea della forza militare, ma lasciava Massimiano in posizione
subordinata rispetto al “Giovio” Diocleziano.
$C Quattro capitali più una
Per garantire la presenza dei quattro imperatori nelle
zone dove più era necessaria, Diocleziano divise l’impero in quattro prefetture e stabilì
quattro nuove capitali: per sé scelse la prefettura d’Oriente, con capitale Nicomedia, in
Bitinia, dove poteva controllare e difendere il Bosforo, con i suoi traffici commerciali, e
fronteggiare al confine orientale gli attacchi dei Sasanidi, soprattutto contro Armenia,
Mesopotamia e Asia Minore.
A Galerio, il suo cesare, assegnò la prefettura dell’Illirico, con capitale Sirmio, sul confine
danubiano, sempre in pericolo per gli attacchi dei germani. Il confine settentrionale poteva
essere controllato da Milano, capitale della prefettura d’Italia, dove si installò Massimiano.
L’altro confine a rischio, quello renano, fu difeso invece da Costanzo Cloro, a capo della
prefettura delle Gallie, con capitale Treviri, dove scoppiavano rivolte di contadini di origine
celtica non ancora romanizzati.
Roma rimase la capitale morale dell’impero e conservò il suo prestigio, ma era ormai
lontana dai centri del potere: l’imperatore vi si recava raramente e l’evento eccezionale era
accolto con cerimonie fastose. Tuttavia l’Urbe restava il simbolo dell’eternità, e persino
della necessità, dell’impero, un’idea che si mantenne viva anche in epoca cristiana.
$C La moltiplicazione delle province Per rendere più gestibile l’amministrazione delle
province, abolita la distinzione augustea tra province senatorie e imperiali, Diocleziano le
suddivise riducendone l’estensione, in modo da limitare il potere dei governatori
provinciali: le 48 province originarie divennero 104, raggruppate in 12 diocesi, strutture
amministrative per la raccolta dei tributi; anche l’Italia fu divisa in due diocesi, nord e sud.
Le diocesi furono a loro volta raggruppate per tre nelle quattro prefetture di cui abbiamo
parlato.
Questa nuova struttura aumentò a dismisura l’apparato burocratico, che fino a quel
momento era stato snello:
•
a capo di ogni provincia fu posto un funzionario civile, un governatore chiamato in
vari modi (praeses o iudex), e un capo militare (dux);
•
a capo di ogni diocesi c’era un vicario, rappresentante dell’imperatore, con compiti
giudiziari e fiscali;
•
le quattro prefetture erano rette dai tetrarchi tramite i prefetti del pretorio.
Un incarico come funzionario era molto ambito per via di uno stipendio relativamente alto,
esenzioni fiscali e soprattutto per la possibilità di fare carriera. I funzionari di carriera
costituirono con il passare del tempo una vera e propria casta. La carriera civile dei
governatori, che erano in genere senatori, e dei vicari, di rango equestre, fu separata da
quella militare, aperta solo a militari di professione che potevano ormai essere anche
barbari.
La gigantesca burocrazia garantiva il rispetto della volontà del governo centrale fin negli
angoli più remoti dell’impero, ma era così costosa che alcuni studiosi ritengono sia stata la
causa, o almeno una delle cause, della sua decadenza.
$C La trasformazione delle istituzioni All’aumento della burocrazia corrispose una
definitiva perdita di potere delle istituzioni tradizionali che, risalenti alla repubblica, si
erano mantenute, pur indebolite, durante il principato.
•
Il consolato, che era diventato una carica onorifica assunta da alcuni imperatori per
sottolineare la continuità con la tradizione repubblicana, ora perse significato.
•
Il senato ottenne da Diocleziano il governo di Roma e delle due diocesi dell’Italia,
ma potevano farne parte solo senatori residenti a Roma, burocrati o personaggi vicini ai
tetrarchi. D’altro canto, però, l’assenza dell’imperatore da Roma esaltò il potere locale del
senato.
•
A pretori e questori rimase solo il compito di organizzare giochi circensi e
spettacoli teatrali.
•
Il prefetto del pretorio divenne un aiutante di campo dell’imperatore e il
responsabile della gestione delle finanze.
$C Dominus et deus
Il potere era nelle mani dei tetrarchi e delle loro corti e
soprattutto di Diocleziano. Nelle loro apparizioni in pubblico, il cerimoniale era sfarzoso:
essi sedevano in trono, abbigliati in splendide vesti, con un manto di porpora e una
corona, da sempre simbolo del potere in Oriente; i sudditi dovevano prostrarsi ai loro piedi
e compiere l’adoratio (“adorazione”) baciando il lembo della loro veste. Erano tutti segni di
un potere autocratico, tipico di imperatori divini.
Le capitali e le città dove si spostavano, come Spalato, ultima residenza di Diocleziano,
erano rese splendide con nuove costruzioni, edifici e monumenti.
$C La riforma dell’esercito
Da tempo le funzioni dell’esercito non erano più
indirizzate alla conquista, ma alla difesa dei confini. Diocleziano provvide quindi a
riformarne la struttura. Aumentò il numero delle legioni, ma diminuì gli effettivi, in modo
che ogni comandante fosse a capo di un minor numero di soldati, sia perché potesse
controllare meglio la loro disciplina sia perché fosse dotato di minor potere.
Tuttavia la storia dell’ultimo cinquantennio aveva dimostrato che le truppe stanziate nei
presidi lungo l’estesissima linea di confine non erano in grado di reggere un attacco
improvviso e massiccio. Pertanto Diocleziano suddivise l’esercito in un comitatus,
“compagnia”, un esercito mobile che accompagnava l’imperatore negli spostamenti e
restava nella città di residenza quando non era in fase operativa, e in reparti di limitanei,
stanziati lungo il limes. I comitatentes o palatini, i reparti migliori di fanteria pesante e
cavalleria, meglio attrezzati e adatti alle battaglie campali, erano il fulcro della difesa
dell’impero contro gli attacchi massicci; i limitanei, invece, dovevano essere procurati dai
grandi proprietari terrieri delle regioni da difendere, che però spesso preferivano pagare
una tassa. Il ricavato delle tasse era usato per arruolare nuove reclute, sempre più spesso
tra quelle popolazioni germaniche che avevano avuto il permesso di stanziarsi lungo il
limes.
Il totale dei militari risultò quasi raddoppiato, con 600.000 soldati fedeli più ai tetrarchi
che ai comandanti, ed erano truppe che andavano ben pagate per evitare rivolte e
ammutinamenti di fronte alle pressioni dei barbari.
$C Un nuovo tipo di limes
Dal momento della costituzione di un impero territoriale
fino ai tempi di Augusto, il limes era sempre stato mobile perché l’impero era in
espansione e il confine cambiava in continuazione. Adesso non era più tempo di
espandersi e il limes divenne fisso e consolidato con opere di fortificazione, a volte
imponenti. Al di là del confine ora c’era il nemico, il barbaro, non più da “civilizzare”, ma da
tenere lontano.
Per permettere rapidi spostamenti di truppe, le strade dovevano essere ben tenute e
sorvegliate, con soldati acquartierati lungo le vie, nei castella, fortezze o accampamenti
fortificati. Diocleziano creò anche una nuova strada, la Diocletiana o Dioclezianea, tra
Eufrate, Palmira e Damasco.
$B Economia in sofferenza
$C Prezzi e monete
Burocrazia ed esercito così ingigantiti comportarono un enorme
aumento della spesa pubblica, proprio nel momento in cui le entrate scemavano in
conseguenza della crisi della produzione e dell’inflazione dilagante che faceva lievitare i
prezzi. Per arginare il problema, Diocleziano, nel 301, promulgò un editto che fissava un
calmiere dei prezzi. L’effetto era prevedibile: la gente cominciò a fare incetta di merci a
prezzo calmierato per rivenderla a un prezzo assai più alto al mercato nero. Era un segno
della mancanza di una politica economica dello stato e della debolezza del potere nel far
rispettare le leggi, malgrado il controllo capillare della burocrazia. Gli effetti del calmiere
sull’economia furono tanto disastrosi che esso fu abrogato un anno dopo.
$C La riforma fiscale
Per far fronte alla smisurata spesa pubblica, il sistema delle
riscossioni fiscali straordinarie, che non garantiva entrate costanti e fisse, non funzionava
più: Diocleziano avviò quindi una riforma fiscale.
Nel 297 indisse un primo censimento, da ripetere ogni cinque anni, per valutare il reddito
della popolazione, e stabilì due tipi di imposte:
•
un’imposta per caput (“a testa”), che doveva essere corrisposta in denaro e
calcolata sulla quantità di “teste”, cioè di individui, a disposizione come manodopera in una
proprietà;
•
un’imposta fondiaria per iugum, cioè per quantità di terra coltivabile posseduta. I
funzionari imperiali valutavano la produttività dei terreni, il loro valore in base ai frutti
coltivati, e imponevano un’imposta in natura chiamata annona.
La tassazione fu estesa anche all’Italia, finora esente dalle imposte.
I prefetti del pretorio, in base all’ultimo censimento effettuato, decidevano ogni anno le
somme necessarie per mantenere l’esercito e l’apparato burocratico, il numero di soldati
da destinare alla difesa e quello di operai per le opere pubbliche e affidavano a funzionari
e responsabili delle comunità municipali la riscossione delle tasse. Ogni città o ogni
provincia doveva, ad esempio, una certa quantità di denaro, un tanto di grano, un tanto di
vino o di cavalli.
I consigli municipali delle città dovevano garantire il flusso regolare delle tasse; in caso
di ammanchi, ogni consigliere era tenuto a pagare di tasca propria. Diminuì pertanto il
consenso dei ricchi, che sfuggirono gli incarichi municipali, un tempo molto ambiti.
$C Destini segnati La riforma fiscale avviò un processo destinato ad avere enormi
ripercussioni sociali. La gente, oberata dalle tasse, cominciò a cambiare mestiere o
addirittura a fuggire per non farsi rintracciare dagli esattori; alcuni si arruolarono
nell’esercito, altri preferirono vivere di espedienti. Ma, per far funzionare la complessa
macchina imperiale, le entrate dovevano essere stabili: si ricorse allora all’irrigidimento
di una struttura sociale che nei primi due secoli dell’impero era stata caratterizzata da
una grande mobilità e aveva garantito il progresso civile. Ora invece ogni individuo doveva
mantenere la stessa residenza, lo stesso status economico, che trasmetteva per via
ereditaria. Venne fissata perciò per legge l’ereditarietà dei mestieri: i figli dovevano
continuare le attività dei padri e i figli dei proprietari terrieri si videro pertanto vietata la
carriera militare.
I coloni, cioè i contadini che avevano ricevuto un appezzamento di terra da coltivare da
un grande proprietario e che finora avevano dovuto dare in cambio solo alcune giornate di
lavoro gratuito e un canone d’affitto, ora erano tenuti a un maggior numero di giornate, a
restare legati al latifondo, a passare di mano in mano insieme alla terra quando la
proprietà veniva ceduta, perché altrimenti si sarebbe modificata la tassa per caput.
La riforma determinò un profondo e intollerabile senso di oppressione e l’economia
cominciò a stagnare.
$C Immensi latifondi fortificati Molti piccoli e medi proprietari terrieri, che non riuscivano
a soddisfare le richieste di esattori spesso disonesti, preferirono cedere la terra a un
signore (dominus), un latifondista, legandosi a lui tramite la commendatio, un rapporto
con cui “ci si commendava”, cioè ci si raccomandava a un potente giurandogli fedeltà e
obbedienza e offrendogli il proprio lavoro in cambio di protezione. Il commendato, che
riceveva protezione dal signore, manteneva il possesso della propria terra, ma perdeva la
proprietà. I latifondi divennero sempre più grandi e potenti, ottennero l’immunità che
garantiva l’esenzione dalle imposte, in origine concessa solo alle terre appartenenti allo
stato, e sottraeva le proprietà alla giurisdizione dei funzionari imperiali. Anche per la
difesa, i latifondisti preferirono affidarsi alle proprie forze e dotarono i loro possedimenti di
fortificazioni contro eventuali attacchi esterni. Acquisirono così una forza sempre
maggiore e cominciarono a svincolarsi dal potere centrale.
$C La fine di un’epoca La crisi economica e sociale avviata già da un secolo non ebbe
le stesse ripercussioni in tutto l’impero, ma si fece sentire con più forza nella parte
occidentale, che divenne sempre meno produttiva, mentre l’Oriente poteva contare su
una più lunga tradizione, maggiori risorse economiche e stabilità. La suddivisione voluta
dall’imperatore era il segno di una più profonda divisione delle due parti dell’impero.
Nel 305, come aveva stabilito alla nascita della tetrarchia, Diocleziano abdicò e costrinse
anche un riluttante Massimiano a fare lo stesso. Il potere passò ai due Cesari, ma la
successione non fu così tranquilla come l’imperatore aveva auspicato.
Egli, che sarebbe morto nel 313, fece in tempo a constatare di persona il fallimento del
suo progetto. Ma non sapeva forse che con lui sarebbe morta un’epoca e se ne sarebbe
aperta un’altra.
$B Persecuzioni di stato contro i cristiani
$C Dalle persecuzioni episodiche alle persecuzioni di stato Con Diocleziano si
chiuse il lungo periodo di persecuzioni dei cristiani. Erano cominciate con quella di Nerone
nel 64, un episodio isolato, per proseguire poi con quella avvenuta sotto Marco Aurelio, a
Lione in Gallia, nel 177, anch’essa limitata nel tempo e nello spazio. Con Decio, a metà
del III secolo, le persecuzioni furono promosse dall’alto in modo sistematico, anche se
con un’alternanza tra imperatori persecutori e altri che, invece, o favorivano i culti orientali
come Elagabalo, o preferirono un sincretismo religioso, come Alessandro Severo, o
addirittura erano probabilmente già cristiani, come Filippo l’Arabo. Gallieno fece cessare le
persecuzioni e regalò ai cristiani quarant’anni di pace.
Gli imperatori che intrapresero persecuzioni sistematiche e sempre più feroci contro i
cristiani furono:
•
Decio (249-251), proclamato imperatore dalle sue truppe in seguito alle vittorie
contro i goti, convinto che le cause della crisi della metà del III secolo fossero da ricercare
anche nei culti orientali, che allontanavano dalla religione e dalla tradizione romana, ordinò
a tutti i capifamiglia di dichiarare la loro fede religiosa e di sacrificare agli dèi romani.
Ottenevano così un libellus (“libretto”), un certificato che attestava l’avvenuto sacrificio,
senza il quale si veniva condannati alla confisca dei beni, al carcere e alla tortura. La
burocrazia si rivelò molto efficiente nello svolgere i controlli e molti “libretti di sacrificio” ci
sono pervenuti conservati nelle sabbie del deserto egiziano. Di fronte alla richiesta di
sacrificare all’imperatore, i cristiani reagirono in genere in tre diversi modi: alcuni si
rifiutarono e affrontarono il martirio eroicamente; altri accettarono di farlo, ma solo
formalmente, mantenendo la propria fede; altri ancora abiurarono alla loro fede e
sacrificarono all’imperatore: furono definiti lapsi, “caduti”. Quando chiesero di essere
riammessi nella Chiesa, nacque una contrapposizione tra chi voleva riammetterli e chi li
rifiutava.
•
Valeriano avviò una persecuzione, durata dal 257 al 260, a cui diede un preciso
indirizzo, al fine di danneggiare i vertici di una chiesa ormai troppo potente: colpì i
vescovi e i personaggi di alto rango, tra cui addirittura un papa, confiscò i beni delle
comunità, proibì le riunioni e il culto.
•
Diocleziano, infine, organizzò la più feroce persecuzione mai attuata e la più
sistematica, ma anche l’ultima.
$C L’ultima persecuzione (303-313) Il cristianesimo si era propagato e integrato nella
società romana in seguito alla tolleranza dimostrata da Gallieno. Diocleziano, invece,
faceva coincidere la salvezza dell’impero con il rispetto degli dèi tradizionali, riteneva
perciò pericoloso il cristianesimo, tanto più che le comunità cristiane erano ormai ben
organizzate intorno alla figura del vescovo, che godeva di molta autorità, e l’imperatore
non poteva tollerare personaggi dotati di troppo potere.
Emanò pertanto quattro editti che miravano ad annientare le comunità dei cristiani,
obbligandoli a:
•
bruciare le Sacre Scritture, distruggere i luoghi di culto e consegnare gli arredi sacri;
•
celebrare sacrifici pagani, che vennero organizzati ovunque;
•
rinunciare alle cariche pubbliche;
•
vedersi confiscare molti beni.
La persecuzione iniziò il 23 febbraio del 303 per opera del prefetto del pretorio che si
scagliò contro la comunità cristiana sorta proprio nella capitale di Diocleziano, Nicomedia,
ed era una delle maggiori (aveva persino una chiesa di fronte al palazzo imperiale; fu
proprio la chiesa a essere distrutta per prima). Come reazione, un gruppo di cristiani
appiccò per due volte un incendio al palazzo reale.
Anche se il numero dei martiri in fondo fu modesto rispetto al grande numero ormai
raggiunto dai cristiani, la persecuzione rimase tuttavia la più grave mai avvenuta:
andarono persi antichi codici delle Scritture, forse testi originali delle lettere degli apostoli e
le prime stesure dei Vangeli, la maggior parte degli scritti di teologia di Origène (dei 6000
originari oggi ne restano pochissimi). A testimoniare la persecuzione rimangono le fonti
coeve, soprattutto Eusebio di Cesarea e Lattanzio.
In Occidente la strage finì nel 306, in Oriente si protrasse almeno formalmente fino al 311,
poi il nuovo imperatore Costantino promulgò un editto sulla libertà di culto.