Prof. Diego Manetti
Storia
IL FASCISMO IN ITALIA
Il primo dopoguerra in Italia è segnato dall’affermazione del Fascismo.
Le ragioni di un tale successo sono da cercarsi in fattori
- interni al Fascismo (trasformazione in partito nel 1921, ambiguità ideologica, uso spregiudicato
della violenza accompagnato da promesse di stabilità e pace sociale)
- esterni al Fascismo (aggravarsi delle lotte sociali, decadenza classe liberale, incapacità dei
partiti popolari di realizzare un’effettiva alternativa di governo, svolta conservatrice dei ceti
borghesi per timore della rivoluzione).
Il Fascismo approfitta della situazione per
- giungere al potere (marcia su Roma, 1922)
- affermare il terrore (delitto Matteotti, 1924)
- instaurare la dittatura in Italia (1925-26), abolendo le libertà politiche, civili e sindacali e
concentrando tutti i poteri nella persona del capo del Fascismo (Duce)
1. Ascesa del Fascismo
Il Fascismo è caratterizzato dall’applicazione sistematica della violenza alla lotta politica. Esso incarna
il mito della rivoluzione come rottura con il passato.
E’ Mussolini – socialista rivoluzionario, imbevuto delle teorie di Sorel, acceso interventista nella
Grande Guerra – a condurre le attese rivoluzionarie a concretizzarsi in un disegno totalitario: la
rivoluzione fascista conduceva allo Stato totalitario, onnipotente, nuovo idolo in grado di controllare la
vita sociale, civile e privata dei cittadini, sottraendo i detentori del potere politico qualsiasi verifica
democratica.
Ma il Fascismo non si sarebbe imposto senza appoggi più ampi:
-
La piccola e media borghesia, con le sue tendenze antiparlamentari e antidemocratiche,
imbevuta di nazionalismo e soggetta alle paure del dopoguerra. A tali ceti il Fascismo guardò
facendo dell’ambiguità il suo programma, come esplicitato in un discorso di Mussolini del 1921
(proprio Mussolini era stato contro l’intervento nella guerra di Libia, 1911-1912, vs Giolitti, e
poi acceso interventista in occasione della Prima Guerra Mondiale) che disse: “Noi ci
permetteremo il lusso di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, a seconda
delle circostanze”. Il Fascismo trovò dunque l’appoggio dei ceti medi in cui si parlava di
rivoluzione ma si aspirava piuttosto a un ordine nuovo, presentandosi come rivoluzionario e
restauratore dell’ordine al tempo stesso.
-
La grande proprietà terriera della Pianura Padana e la borghesia industriale, ovvero quelle
forze conservatrici preoccupate dal rafforzamento del movimento contadino e operaio e che
non volevano alcuna rivoluzione, disposte dunque a sfruttare il Fascismo – benché
rivoluzionario – pur di restaurare l’ordine. L’acuirsi delle lotte sociali e la nascita del Partito
Comunista Italiano (1921) contribuirono a far convergere le forze conservatrici in appoggio al
Fascismo come garanzia di ordine e sicurezza.
-
La crisi della classe politica liberale fu un terzo fattore di appoggio per nulla trascurabile:
incapace della riforma dello Stato, lasciò spazio al Fascismo, nonostante ci fosse chi, come il
giovane liberale Pietro Gobetti, avversasse il Fascismo in quanto “autobiografia” degli antichi
mali d’Italia.
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2. Tramonto dello Stato liberale
L’Italia era uscita vittoriosa dalla Prima Guerra Mondiale ma le era mancato il senso della vittoria:
- le masse popolari si erano trovate con centinaia di migliaia di morti, le campagne abbandonate,
la febbre spagnola (un’epidemia che nel 1917-19 fece più vittime della guerra stessa), la fame e
il carovita; mentre i contadini premevano per ottenere dalla classe dirigente il mantenimento
delle promesse fatte durante il conflitto (distribuzione di terre), la classe operaia infiammata
dalla rivoluzione russa, reclamava maggior potere in fabbrica
- il movimento Socialista colse l’occasione per ribadire il suo neutralismo, proclamando il
disinteresse per le clausole di pace
- ufficiali e sottufficiali della piccola e media borghesia faticavano a ritornare alla vita civile,
tanto che numerosi fiorirono i movimenti degli ex-combattenti, sostenitori del mito della
“vittoria mutilata” (per l’opposizione degli Usa l’Italia non riceve Fiume né la Dalmazia, vs
quanto stabilito dal Trattato di Londra dell’aprile 1915) e pronti a infiammarsi agli appelli
dannunziani per la conquista di Fiume (che si era proclamata città italiana con un plebiscito)
- La classe liberale era uscita indebolita e divisa, con il vecchio Giolitti che non esitava ad
accusare i fautori dell’interventismo di parte liberale.
A livello politico alla crisi della classe dirigente liberale fa riscontro il successo dei partiti di massa. Nel
1919 viene fondato il Partito Popolare Italiano, il cui primo segretario è don Luigi Sturzo. I cattolici
abbandonano così la linea dell’astensionismo (che mantenevano dal Non expedit di Pio IX, del 1874) e
si impegnano in politica. Per garantire l’autonomia del partito, don Sturzo dichiara di ispirarsi
apertamente alla dottrina cattolica pur restando un partito aconfessionale. Le gerarchie ecclesiastiche
appoggiano comunque il partito cattolico per far fronte alla minaccia socialista.
Parallelamente, aumentano vertiginosamente gli iscritti al PSI all’interno del quale la corrente
massimalista prevale su quella riformista. I massimalisti, che fanno capo al giornale di partito
“Avanti!”, hanno come obiettivo immediato l’instaurazione di una repubblica socialista fondata sulla
dittatura del proletariato. Hanno come modello la rivoluzione bolscevica che però, anziché preparare,
attendono come ineluttabile. Per una maggiore coerenza con l’impegno rivoluzionario sono invece i
gruppi di estrema sinistra che fanno capo alla rivista “Ordine Nuovo” guidata da Antonio Gramsci
(con Palmiro Togliatti) direttamente ispirati ai soviet e decisi a una reale azione rivoluzionaria.
Prospettando una soluzione “alla russa” della crisi sociale in atto nel Paese, le forze socialiste si
precludono ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico-borghesi.
Nel 1919 la situazione economica era assai negativa: 2 milioni di disoccupati, inflazione, drastica
riduzione della produzione agricola. In tutto il mondo del lavoro si diffondono fermenti di rivolta (lotte
sociali; scioperi nelle fabbriche, nelle campagne ma anche nelle ferrovie) che spesso sfuggono al
controllo sindacale. Si parla molto di rivoluzione.
In questo contesto sorgono i Fasci di Combattimento Italiani (1919), fondati da Mussolini che, se da
un lato si proclama antimonarchico, anticlericale, sostenitore della gestione operaia delle fabbriche e
della distribuzione delle terre ai contadini, dall’altro supporta la rivendicazione di Fiume e della
Dalmazia, la riduzione dello statalismo economico e l’antisocialismo. I Fasci coniugano insomma
nazionalismo e antisocialismo (Mussolini stesso era stato espulso dal Psi in quanto interventista alla
vigilia della I GM). Lo stile violento e aggressivo dei Fasci si manifesta fin da subito con l’incendio
della sede dell’“Avanti!” (1919).
L’Italia era uscita dalla guerra vedendo scomparire il nemico per antonomasia, cioè l’Austria. Tuttavia
la sua era una vittoria mutilata. All’indomani dell’armistizio l’Italia aveva infatti due alternative: o
rinunciare alla Dalmazia, puntando a un buon rapporto con la neo-nata Jugoslavia, oppure pretendere il
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rispetto letterale delle clausole del patto di Londra siglato nell’aprile 1915. Alla conferenza di
Versailles il presidente Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino cercarono di ottenere il massimo
possibile, reclamando i territori promessi (Trentino, Friuli, Istria e Dalmazia) con l’aggiunta di Fiume.
Wilson, presidente degli Usa, in quanto non firmatario del patto di Londra poté opporsi (per evitare un
eccessivo rafforzamento dell’Italia e per rispettare i diritti nazionali della Jugoslavia) a tali richieste,
facendo fallire la missione diplomatica italiana e imponendo la rinuncia ai territori balcanici e alla
città di Fiume. Orlando si dimise in favore di Nitti.
Nel settembre 1919 Gabriele D’Annunzio (cui si deve l’espressione “vittoria mutilata” riferita all’esito
italiano della conferenza di pace della I GM) occupa Fiume alla testa di un gruppo di ex combattenti, di
irredentisti ma anche di soldati dell’esercito regolare. Occupata la città, viene proclamata una carta
costituzionale che mescola confusamente aspirazioni nazionaliste, spunti social-rivoluzionari
(corporazioni) e velleità dannunziane da signorotto cinquecentesco. Tale esperienza politica durerà circa
15 mesi (9/19-12/20)
Di fronte a queste tendenze eversive ed illegali, stava il potenziamento dell’apparato statale
provocato dalla guerra. Gli apparati dello Stato erano infatti enormemente cresciuti, sottraendosi al
controllo del Parlamento: erano aumentati i poteri del governo (esecutivo) nonché l’autonomia dei corpi
dello Stato (esercito e burocrazia).
Questa crisi del sistema parlamentare si aggravò nel dopoguerra perché:
- il successo elettorale dei partiti di massa (socialista, popolare, e comunista dal 1921) rese
impossibile la prosecuzione della pratica trasformistica e gli accordi personali che fino ad allora
avevano caratterizzato la vita parlamentare (parlamentarismo: riduzione del Parlamento ad arena
per le lotte tra fazioni e gruppi contrapposti in nome di diversi interessi particolari);
- la lotta politica e sociale assumeva forme che si sottraevano al controllo e alla mediazione
parlamentare;
- a destra e a sinistra aumentavano le forza politiche che vedevano nel Parlamento un’istituzione
ormai superata.
Nelle elezioni del 1919, le prime con il sistema proporzionale a scrutinio di lista (sistema che favorisce i
partiti dotati di grande organizzazione nazionale), trionfarono i partiti di massa:
- il Partito Popolare (1,2 mln di voti), fondato nel 1919 da don Luigi Sturzo, erede del
movimento della Democrazia Cristiana di inizio Novecento, forte del consenso della Santa Sede
e della decisione di Benedetto XV di abolire ufficialmente il non expedit (Pio IX, 1874) e
caratterizzato dalla esplicita aconfessionalità, voluta da don Sturzo per sottolineare
l’indipendenza dalla Chiesa;
- il Partito Socialista (1,8 mln di voti), in crisi per la divisione tra riformisti (stretti tra la forte
spinta popolare di rinnovamento e l’irrigidirsi delle forze liberali più conservatrici) e
massimalisti (che attendevano fatalisticamente la rivoluzione, incapaci di realizzarla se non con
sterili dispute verbali).
Dopo il 1919 nessuno dei grandi gruppi politici – liberale, popolare, socialista - era in grado di dar vita
da solo a una maggioranza di governo e, succeduto Nitti a Orlando, ben 5 governi si succedettero tra il
1919 e il 1922. Data l’opposizione tra PPI e PSI, l’unica alleanza possibile è tra popolari e liberaldemocratici.
All’instabilità politica si aggiungeva la crisi economica:
- la guerra aveva accelerato le concentrazioni industriali, compromettendo lo sviluppo
dell’industria leggera in favore di quella pesante e siderurgica;
- erano cresciuti legami sempre più stretti tra settore industriale e bancario;
- l’inflazione galoppante aveva segnato la rovina dei ceti medi e favorito la speculazione sui
titoli in Borsa;
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le difficoltà della riconversione industriale post-bellica causarono il crollo di grandi industrie
(la siderurgica Ilva, la meccanica Ansaldo) e delle banche a esse legate, mentre si scatenava la
“scalata” agli altri istituti bancari.
Agli scioperi nel settore privato e pubblico si aggiunsero le agitazioni contadine: alle leghe rosse (che
detengono il monopolio della rappresentanza sindacale e mirano al programma massimo della
“socializzazione della terra”) si affiancano le leghe bianche (cattoliche, in difesa della piccola proprietà
contadina).
La conseguenze della crisi bancaria del 1920-22 furono che:
- i piccoli investitori persero tutto;
- per l’intervento statale in favore delle banche in crisi si rafforzò il legame Stato-industriebanche;
- alcuni gruppi finanziari svilupparono un forte senso di rivincita.
La voglia di rivincita dei gruppi finanziari derivava dalle effettive conquiste del movimento operaio e
sindacale (otto ore lavorative, contratti collettivi periodici, aumenti salariali), tanto che divenne di
primaria importanza per gli industriali contrastare gli scioperi e congelare i salari. A tal fine sorse nel
1919 la Confindustria, organizzazione di oltre 6.000 aziende.
Dopo un nuovo sciopero generale (Torino, 1920) guidato dalla sinistra socialista ispirata al giornale
“Ordine Nuovo” diretto da Gramsci, si arrivò a uno scontro frontale. L’“Ordine Nuovo” ispirava i
consigli di fabbrica che, sul modello dei soviet russi, aspiravano al superamento dei vecchi organismi
sindacali e, secondo il principio leninista, incarnavano quell’avanguardia operaia che avrebbe dovuto
guidare il proletariato alla rivoluzione. Furono tagli consigli a promuovere nell’autunno 1920
l’occupazione delle fabbriche.
Il “riflusso dell’ondata rossa” – cioè la fine dell’occupazione delle fabbriche del cosiddetto “biennio
rosso” 1919-20 – coincise con il tentativo da parte di Giolitti di restaurare gli ordinamenti e l’autorità
dello Stato liberale, approfittando della frattura e della crisi del movimento socialista. Tornato al
governo nel 1920, Giolitti non utilizzò la forza per sgomberare le fabbriche ma si impose come
mediatore (come già avvenuto durante lo sciopero generale del 1904) tra operai e industriali, in modo
da non inasprire le tensioni. L’idea di Giolitti era di ricorrere al vecchio metodo trasformista per
accontentare le parti in causa e stemperare il conflitto. Alla Confindustria si oppone il più forte
sindacato di area CGL, ovvero la FIOM (Federazione italiana operai metallurgici), in concorrenza con i
consigli di fabbrica guidati da Gramsci per la gestione della occupazione delle fabbriche. Giolitti scelse
si appoggiare la FIOM (seguendo il motto del “divide et impera”) spingendo la Confindustria a un
accordo di natura economica e promettendo un disegno di legge per il controllo sindacale delle
fabbriche. In tal modo la spinta rivoluzionaria dei consigli di fabbrica fu arginata dagli stessi
sindacati i quali rinunciarono all’occupazione delle fabbriche con la speranza di veder realizzato il
disegno di legge sul controllo delle fabbriche, promessa giolittiana destina a rimanere tale.
Il movimento dei Consigli di Fabbrica rimase così ben presto isolato alla sola Torino, segnando una
frattura tra le dirigenze socialiste e i sindacati da una parte e il gruppo socialista dell’“Ordine Nuovo”
dall’altra: i gruppi di estrema sinistra accusavano infatti i dirigenti FIOM di aver svenduto
un’opportunità rivoluzionaria per meri accordi sindacali. Da tale frattura nacque il Partito Comunista
Italiano (1921) in occasione del congresso socialista di Livorno nel quale la minoranza di estrema
sinistra abbandonò il PSI per aderire alle direttive del Comintern (assumendo al denominazione di
“partito Comunista” e staccandosi dagli elementi riformisti). Maggior teorico del nuovo partito fu
Antonio Gramsci (1891-1937) che nel PCI vedeva l’unico vero partito del proletariato, con funzione
liberatrice pari a quella propria dei liberali in epoca risorgimentale.
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Nello stesso tempo, Giolitti affrontò la questione di Fiume regolando la questione direttamente con la
Jugoslavia tramite il trattato di Rapallo (novembre 1920) con cui l’Italia rinunciò alla Dalmazia e
Fiume venne riconosciuta città libera (verrà poi annessa all’Italia nel 1924). Poche cannonate sparate
dall’esercito regolare bastarono per mettere in fuga i dannunziani, concludendo così l’occupazione
durata circa 15 mesi.
In campo economico e finanziario percorse una strada intermedia: abolì il prezzo politico del pane –
che gravava sul bilancio statale – ma colpì i redditi maggiori e i profitti di guerra.
Nel frattempo le squadre d’azione fasciste si erano poste al servizio dei proprietari terrieri che
avevano affrontato le rivendicazioni delle organizzazioni sindacali contadine – socialiste e cattoliche nella Pianura Padana, in Romagna e Toscana. Ben presto l’azione delle squadre si era estesa dalle
campagne alle città, finanziata da alcuni gruppi industriali. Con la tacita connivenza dello Stato si
instaurò un clima di guerra civile, in cui vennero sconvolte le organizzazioni sindacali, cooperative e
mutualistiche, spesso utilizzando anche l’assassinio politico. La strategia di Mussolini era di cavalcare
esplicitamente il sentimento anti-socialista affermatosi all’indomani della fine del biennio rosso.
L’atto di nascita del cosiddetto fascismo agrario è segnato dai cosiddetti fatti di palazzo d’Accursio:
nel novembre 1920 i fascisti assediarono il palazzo comunale di Bologna per impedire l’insediamento
della nuova giunta socialista. I socialisti si difesero sparando sulla folla e uccidendo anche civili
innocenti. Questo tragico errore diede l’alibi ai fasci di combattimento per proclamarsi difensori
dell’ordine pubblico e ingaggiare un’aspra lotta contro i socialisti, facendo dilagare il fenomeno dello
squadrismo in tutto il Centro-Nord d’Italia.
Giolitti sottovalutò il Fascismo: pensava che potesse servire per contenere i fermenti di ribellione
socialista e che potesse essere “normalizzato” e “costituzionalizzato”. Questo spiega perché il potee
pubblico si rese responsabile di una colpevole tolleranza nei confronti dello squadrismo. Allo stesso
tempo Giolitti cercò di indebolire i partiti di massa – popolare e socialista – che non intendevano
sostenere un governo dei liberali. Sciolto il Parlamento, Giolitti indisse dunque nuove elezioni nel
1921, dalle quale però emerse un nuovo successo dei popolari e dei socialisti. Questo fallimento della
strategia elettorale portò Giolitti alle definitive dimissioni. L’unico fatto nuovo fu che i Fascisti,
entrati nel blocco nazionale che comprendeva conservatori, liberali e democratici, conquistarono per la
prima volta visibilità pubblica con 35 deputati che significarono una sorta di riconoscimento ufficiale
del ruolo politico svolto dal movimento guidato da Mussolini.
Dimessosi Giolitti, si crearono le condizioni per l’avvento del Fascismo: questo appariva ormai come
garanzia d’ordine per quanti temevano le lotte sociali e una possibile rivoluzione proletaria e allo stesso
tempo si presentava come forza rivoluzionari per dannunziani e nazionalisti che si sentivano traditi dal
trattato di Rapallo siglato da Giolitti. Il nuovo presidente del consiglio Ivanoe Bonomi tentò di risolvere
le tensioni proponendo un patto di pacificazione a Fascisti e Socialisti. Il patto rientrava nella strategia
di Mussolini che mirava alla normalizzazione del movimento fascista, ma incontrò l’opposizione dei
ras (capi-squadra locali così chiamati dal nome dei signori feudali etiopici) che, temendo di perdere
potere e autonomia, misero in discussione la leadership di Mussolini.
Mussolini sconfessò dunque tale patto (e Bonomi si dimise in favore di Facta) ma in cambio ricevette
il consenso dei ras a trasformare il movimento in Partito Fascista (1921). Quindi, rinunciando alle
pregiudiziali antimonarchiche e anticlericali per allargare i propri consensi, iniziò a operare sempre più a
fondo sui due piani paralleli: la violenza armata e l’azione politica. Mentre la crisi del Psi si consumava
con il distacco dei riformisti di Turati e la fondazione del Partito Socialista Unitario (PSU, ottobre
1922), Mussolini decise infine di tentare il colpo di stato: il 28 ottobre 1922 le bande fasciste
marciarono su Roma. Il Re Vittorio Emanuele III si rifiutò di proclamare lo stato d’assedio (sia perché
insicuro sulla fedeltà dei suoi ufficiali, sia perché speranzoso che Mussolini difendesse la monarchia da
possibili rivolte socialiste che, come già successo in Russia nel 1917 allo zar, avrebbero portato
all’abbattimento del potere centrale) e chiamò Mussolini a presiedere un nuovo governo, formato da
liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari. L’illegalità fascista trovava così sanzione
legale ad opera della monarchia stessa.
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3. Il Fascismo dalla marcia su Roma al delitto Matteotti
Giunto al potere in modo semplice e senza dover usare (ufficialmente) la violenza, il Fascismo si impose
senza un programma preciso. I più pensavano che Mussolini avrebbe resistito pochi anni (proprio per
questa sua ambiguità e indefinibilità politica), altri invece (Godetti, Sturzo, Gramsci) misero
immediatamente in guardia dal rischio che il fascismo potesse trarre forza proprio da quanti si
illudevano che fosse qualcosa di momentaneo, mentre riassumeva in sé tutti i mali e i vizi della
società italiana.
Sul piano pratico il Fascismo si presentava come garanzia di stabilità sociale; sul piano ideologico
affermava la saldatura tra Stato e Nazione, superando così le istituzioni liberali in favore di uno Stato
totalitario, monolitico, onnipresente, fondato sul rapporto diretto tra il Duce e il popolo. Mussolini unì,
con efficace ambiguità, promesse di normalizzazione moderata e minacce di una seconda ondata
rivoluzionaria.
Preso il potere, Mussolini ricorse anche a personale politico che non aveva origini fasciste, come il
filosofo idealista Giovanni Gentile, autore nel 1923 della riforma scolastica che tentava di fondere
fascismo, hegelismo e pensiero risorgimentale.
Mussolini mostrava così la consapevolezza di non essere sufficientemente forte per governare da solo,
ragione per cui formò un governo di coalizione, aiutato anche dal fatto che:
- Pio XI (1922-1939) non appoggiava il Partito Popolare (come invece fece Benedetto XV);
- Il movimento socialista era diviso in comunisti, massimalisti e riformisti (questi ultimi guidati
da Matteotti), oltre a esserci crisi profonda tra PSI e CGL.
Mussolini rassicurò i ceti conservatori attraverso l’intervento delle squadre d’azione. Tra le diverse
scorribande all’insegna della violenza e del terrore, queste squadre nel dicembre 1922 compirono a
Torino una spedizione punitiva contro rappresentanti sindacali e operai, lasciando sul terreno una
ventina di morti. I capi locali di tali squadre – i ras – vennero inquadrati nella Milizia volontaria per la
scurezza nazionale (1923) in modo da essere controllati meglio da Mussolini. Alle violenze illegali di
andava così affiancando una azione repressiva legale e paramilitare.
In campo economico e sociale, Mussolini smantellò la legislazione precedente – risalente all’età
giolittiana – e impresse
- un indirizzo liberista nei confronti degli imprenditori (favorito dalla ripresa economica
mondiale del 1925) e
- un indirizzo corporativo nei rapporti tra lavoratori e datori di lavoro, teso a eliminare le libertà
sindacali e a controllare le rivendicazioni operaie. In particolare il patto tra sindacati fascisti e
Confindustria (1923) segnò la fine del sindacalismo libero.
Desideroso di trovare appoggio presso la Chiesa cattolica, Mussolini usò benevolenza (più formale
che sostanziale), ad esempio riportando il crocifisso in scuole e ospedali, introducendo l’obbligo
dell’insegnamento religioso nelle elementari (riforma Gentile, 1923) nonché dell’esame di Stato (gradito
alle scuole cattoliche non statali). Nel frattempo, non si asteneva però dal perseguitare ferocemente i
sacerdoti antifascisti. Duplice era l’obiettivo di Mussolini in questo atteggiamento: mostrare che il
Partito Popolare era superfluo (e dunque la Chiesa poteva appoggiare quello fascista) e lasciare spazi
sufficienti per una violenza mirata e intimidatoria, atta a vincere eventuali resistenze cattoliche.
Proprio in ambito cattolico l’indirizzo antifascista fu affermato con vigore da don Sturzo nel
congresso del Partito Popolare dell’aprile 1923, dando l’alibi a Mussolini per espellere dal governo i
ministri dello stesso partito. Lo stesso don Sturzo si dimise poco dopo dalla segreteria del Partito
Popolare.
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Liberatosi così del più forte e scomodo fra gli alleati di governo, con la legge elettorale Acerbo (1923)
che concedeva i 2/3 dei seggi al partito di maggioranza relativa (almeno il 25% dei voti), Mussolini pose
le basi per eliminare definitivamente la vita democratica.
In vista delle elezioni del 1924 le squadre fasciste intensificarono la loro azione, mentre Mussolini
organizzò un listone in cui chiamò a convergere tutti coloro che volevano collaborare “al di fuori e al di
sopra e contro i partiti”. Aderirono liberali, nazionalisti, ex-combattenti, monarchici, raccogliendo il
65% dei voti.
Dopo tale esito, il socialista riformista Giacomo Matteotti denunciò in un discorso alla Camera le
violenze e le illegalità delle squadre fasciste durante il periodo elettorale. Il 10 giugno 1924 fu prelevato
a Roma da una di tali squadre. Il suo cadavere sarà trovato dopo due mesi nella campagna romana.
Scosso per quello che era un palese assassinio politico, il successore di don Sturzo, il popolare De
Gasperi, decise di non prendere più parte ai lavori parlamentari, dando vita alla cosiddetta secessione
dell’Aventino (giugno 1924) con l’obiettivo di isolare il fascismo.
Mussolini capì però che gli aventiniani non avevano la forza di rovesciarlo e che il re non sarebbe
intervenuto. Il 3 gennaio 1925 tenne dunque alla camera un discorso che segnò l’inizio della dittatura
fascista in Italia.
4. L’organizzazione dello Stato fascista
Il 3 gennaio 1925 Mussolini esordì assumendosi tutta le responsabilità “morale, politica e storica” per
quanto accaduto. Quindi smantellò definitivamente la legislazione liberale, trasformando il governo
fascista in regime.
Nel 1925-26 tramite l’approvazione delle leggi fascistissime
- fu impedita ogni libertà di stampa e associazione,
- furono sciolti tutti i partiti tranne quello Fascista,
- fu esautorato il Parlamento a pieno vantaggio del governo,
- furono abolite tutte le autonomie locali, affidando la nomina dei sindaci (podestà) al governo.
Benché lo Statuto Albertino rimanesse formalmente in vita, era svuotato di ogni contenuto liberale e
si era ormai affermato lo stato totalitario.
Nel novembre 1926 venne istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, persecutore
degli antifascisti.
Dopo aver stabilito che nei conflitti di lavoro le controparti esclusive potessero essere solo la
Confederazione delle corporazioni fasciste e la Confederazione dell’Industria, nell’aprile 1926 si
stabilì per legge il riconoscimento legale controllato delle associazioni sindacali, azione suggellata
poi dalla Carta del Lavoro (1927) – che affermava come obiettivo primario lo sviluppo della
potenza nazionale, alludendo alla matrice imperialistica della politica estera fascista.
La riforma legislativa dello Stato fascista proseguì con la riforma del codice penale a opera di
Alfredo Rocco (1930), rafforzata dal controllo propagandistico dell’opinione pubblica (radio,
film, manifestazioni popolari) e dall’inquadramento del popolo (associazioni giovanili, sportive,
militari, i Balilla, occasioni di scontro con l’Azione Cattolica in quegli anni).
Fondamentale era l’integrazione del popolo nello Stato fascista, tanto che venne resa obbligatoria
la tessera del partito Fascista - considerato ormai come un organo statale - per i lavoratori statali
prima e poi di fatto per tutta la cittadinanza. Grande impatto pubblico ebbero le numerose opere
pubbliche (bonifica delle Paludi Pontine).
Attenta era poi l’organizzazione del tempo libero al fine di formare una cultura fascista (attività
sportive, spettacoli propagandistici e cinematografici a carattere nazionalista). Accanto a tutto
questo, funzionava una capillare rete di polizia che collaborava a garantire un consenso ampio e
guidato, non certo fondato sul dibattito e sulla libera critica.
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Grande adesione al Fascismo si ebbe dal mondo della cultura (Giovanni Gentile). Solo
tardivamente alcuni scienziati presero le distanze dalle teorie razziste del Fascismo. Alcuni
intellettuali abbandonarono il Paese (Enrico Fermi, il fisico emigrato negli Usa nel 1938). Nel 1932
il Fascismo impose un giuramento di fedeltà al regime ai docenti universitari e solo 12 non
aderirono, complice il fatto che anche la stessa Università cattolica di Milano vedeva nel Fascismo
il superamento del liberalismo, il nemico “storico” della Chiesa.
Dura opposizione si ebbe però da Benedetto Croce, che nel 1925 redasse un Manifesto degli
intellettuali antifascisti in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Gentile
nell’aprile dello stesso anno.
Dura fu la reazione del regime, che si liberò dei suoi oppositori (Godetti), o li costrinse all’esilio
(Nenni, Sturzo, Togliatti, Turati) o li incarcerò (Pertini, Gramsci). E proprio questa reazione rese
sempre più consapevole il mondo intellettuale dei vizi e del male che albergavano nell’ideologia e
nel regime fascisti.
In senso economico, dopo il 1925 il Fascismo fu tutto impegnato a rafforzare la lira con politica
nuovamente protezionista, riducendo i salari, con conseguente rallentamento della produzione
industriale e delle esportazioni e con incremento della disoccupazione. La deflazione – la riduzione
di moneta circolante per rafforzarne il valore – colpì anche l’agricoltura, già danneggiata dalle
battaglie del grano (la cui coltivazione fu protetta a scapito di altre più redditizie pur di ridurre il
deficit derivante dall’importazione di frumento).
Nel 1929 fu lanciata una politica demografica con lo scopo di favorire le famiglie numerose,
accompagnandola con una politica occupazionale (con forte impulso ai lavori pubblici).
Presentandosi come colui che aveva salvato l’Italia dalla rivoluzione, Mussolini godette
dell’appoggio di ambienti politico-finanziari inglesi (Churchill), francesi e americani. Ma non tardò
a mostrare il volto imperialistico del regime (intervento in Albania, 1926).
La fine dello Stato liberale si consumò quando venne approvata la nuova legge elettorale (1928)
che introduceva il sistema della lista unica (tanti candidati quanti i seggi da occupare),
costituzionalizzando poi il Gran Consiglio del Fascismo che divenne organo di stato, di fatto
svuotando di ogni significato e valore politico la Camera e il Parlamento.
5. Il Fascismo come totalitarismo imperfetto
Mentre in Germania il nazismo era ancora un fenomeno marginale, nella seconda metà degli anni
Venti in Italia il Fascismo era ormai realtà consolidata. Esso consisteva nella sovrapposizione di due
strutture parallele: il vecchio Stato monarchico e il Partito Fascista. Punto di congiunzione era il già
citato Gran Consiglio del fascismo. Per scelta di Mussolini, lo Stato fu sempre preponderante, per
cui il PNF, vistosi ridotto il margine di azione politica, tentò di dilatare la sua presenza nella società
in modo capillare (la tessera del PNF divenne pratica di massa dalla fine degli anni Venti, essendo
addirittura necessaria per concorsi e posti pubblici).
La fascistizzazione del Paese venne portata avanti tramite la creazione di una fitta rete di
associazioni: l’Opera Nazionale Dopolavoro (che si occupava del tempo libero di milioni di
lavoratori); il Comitato Olimpico Nazionale (CONI, per promuovere e controllare le attività
sportive); i Gruppi Universitari Fascisti (GUF); l’Opera Nazionale Balilla (ONB, per ragazzi dai 12
ai 18 anni); i Figli della Lupa (per bambini sotto i 12 anni).
Occupare la Società significava però per il fascismo trovare un modo di affrontare il più grande
ostacolo in essa presente: la Chiesa, forte della presenza di parrocchie in tutta la penisola, capaci di
aggregare socialmente e culturalmente. Già nel 1923, con la riforma Gentile, Mussolini si era
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presentato come protettore della Chiesa e ne aveva approfittato per espellere i ministri del Partito
Popolare e spingere alle dimissioni lo stesso Don Sturzo. Ma adesso si trattava di andare ben oltre.
Dopo anni di trattative, si giunse infine alla firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929):
- il Trattato riconosceva l’indipendenza del Vaticano (riducendolo a uno Stato comprendente
Piazza San Pietro e pochi edifici limitrofi), mentre la Chiesa riconosceva il Regno d’Italia e
Roma come sua capitale
- la Convenzione fissava il risarcimento dovuto dall’Italia alla Santa Sede per la perdita dello
Stato della Chiesa (sanando così la spinosa “questione romana” apertasi ai tempi di Pio IX)
- il Concordato fissava il valore civile del matrimonio religioso, l’obbligo dell’insegnamento
della dottrina cattolica nelle scuole medie, il riconoscimento dell’autonomia dell’Azione
Cattolica (sottoposta al solo Vescovo locale), l’esenzione dal servizio militare per i sacerdoti.
Tali patti rappresentarono un compromesso tra la ricerca di autonomia della Chiesa e l’aspirazione
a un ruolo di primo piano garantito dallo Stato Fascista. Risolta la “questione romana”, Mussolini
incamerò un notevole successo diplomatico, guadagnandosi anche l’appoggio del mondo cattolico,
al punto che nelle elezioni plebiscitarie del 1929 il Fascismo ottenne il 98% dei voti favorevoli
(dato che va considerato sapendo che la segretezza del voto era spesso violata da modalità di
votazione al limite dell’illegalità).
L’altro ostacolo con cui restava da confrontarsi era la monarchia: mentre dopo il 1934 Hitler è
capo del governo e presidente della Repubblica (poi trasformata in III Reich), Mussolini è capo di
governo e di partito, ma deve rendere conto al Re Vittorio Emanuele III che, benché di provata
debolezza (come evidenziatosi in occasione della marcia su Roma del 1922), ha formalmente il
diritto di nominare (e revocare) il presidente del consiglio. La monarchia resta dunque un motivo di
interna debolezza del regime.
6. Il Fascismo e il Paese
L’Italia del ventennio fascista è un Paese in crescita demografica (dai 39 mln del 1921 ai 44 del
1939) ed industriale. Nonostante lo sviluppo, resta però un Paese arretrato (il reddito di un
italiano alla fine degli anni Trenta è circa ¼ di quello di uno statunitense). Tale arretratezza è
funzionale al regime: il fascismo (come il nazismo) predica il ritorno alla campagna, al
ruralizzazione, esaltando la famiglia e lo sviluppo demografico (premi alle coppie prolifiche,
secondo la teoria del “maggior numero, maggior potenza”), bloccando l’emancipazione femminile
(la donna è angelo del focolare, relegata al ruolo domestico, inserita nella associazione delle
Massaie rurali).
Tale ritardo è d’altra parte un ostacolo alla realizzazione di un regime totalitario moderno.
L’arretratezza culturale ed economica (che permane nonostante le generiche assicurazioni di
“solidarietà tra i settori della produzione” contenute nella Carta del Lavoro del 1927) fa sì che
l’adesione più convinta al Fascismo venga dalla media borghesia (esaltata dai valori del regime e
dalla prospettiva di carriera nel Partito), mentre i ceti popolari restano fondamentalmente distanti,
mantenendo schemi mentali e sociali inalterati.
Per controllare il Paese, il Fascismo tenta di inserirsi:
- nella scuola: dopo la riforma Gentile (1923), introduce il testo unico per le elementari (1930),
benché molti maestri continuino a dare al regime una adesione blanda e generica
- nell’università: il giuramento di fedeltà al regime (1931) vede solo 12 contrari su 1.200
professori, ma resta comunque una certa autonomia di fatto dei docenti
- nella cultura: molti intellettuali aderiscono al regime per trarne vantaggi e riconoscimenti
(Gentile, Pirandello) ma il controllo sulle attività culturali resta comunque marginale
- nella stampa: soprattutto in quella politica, il controllo è più stretto.
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Viene fondato addirittura un Ministero per la Cultura Popolare (MinCulPop, 1937) a imitazione
di quello nazista per la propaganda. Nel 1927 viene fondato l’EIAR (antenato della RAI) che
controlla le trasmissioni radiofoniche (dopo il ’35 la radio diventa mezzo di propaganda fortissimo,
diffusa nelle abitazioni civili, in scuole e uffici pubblici).
Si cerca poi di frenare l’importazione di film americani, sovvenzionando il cinema italiano, ma il
regime si accontenta soprattutto di imporre i cinegiornali prima di ogni spettacolo: realizzati
dall’Istituto Luce, sono efficacissimi mezzi di informazione e propaganda che raggiungono milioni
di spettatori.
7. Fascismo ed economia
Tra capitalismo e socialismo, il fascismo tenterà una terza via, il corporativismo: la gestione
diretta dell’economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni
distinte per settori di attività e comprensive di imprenditori e lavoratori dipendenti. Questo sistema
verrà attuato solo nel 1934, ma si ridurrà a una pura aggiunta burocratica che non inciderà
realmente sull’economia.
Dopo un avvio liberista e produttivista (1922-1925), causa di inflazione e svalutazione della Lira
(145 lire per una sterlina), il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi nel 1925 cambiò radicalmente
indirizzo imponendo rigide misure protezionistiche per ottenere deflazione, stabilità della moneta e
controllo statale sull’economia.
La svolta del 1925 prende avvio dalla “battaglia per il grano”: il tentativo di raggiungere
l’autosufficienza nel settore dei cereali, proteggendo i prodotti interni (con l’imposizione di dazi,
come già nel 1887, per scongiurare le importazioni) e aumentando la produzione (+50% il grano
negli anni Trenta). Il prezzo fu il sacrificio degli allevatori (privati di pascoli destinati a grano) e
delle colture specifiche per le esportazioni (ortofrutticole) colpite dal protezionismo.
La seconda battaglia sarà quella detta “Quota 90”, ossia per la rivalutazione della lira (1926):
obiettivo raggiunto in circa un anno, grazie a un cospicuo prestito dagli Usa e con il conseguente
taglio dei salari dei lavoratori dipendenti, nonché la flessione delle industrie rivolte all’esportazione,
colpite dall’eccessivo rafforzamento della lira (90 lire per una sterlina).
Questi elementi di crisi dovuti alle scelte del Fascismo si aggiunsero alla crisi del 1929 che colpì
anche l’Italia (ma in misura minore di altri Paesi in virtù di una economia arretrata e dunque meno
imperniata sulle moderne realtà borsistico-finanziarie).
Dinnanzi a questo il regime reagì:
-
con una campagna di lavori pubblici: per far ripartire la produzione vengono avviati grandi
cantieri (come il New Deal di Roosevelt e Hitler in Germania) per strade, ferrovie e bonifiche
delle paludi; in particolare, la bonifica dell’Agro Pontino (territori a Sud della capitale, 193134) restituisce 60.000 ettari all’agricoltura. Grande successo propagandistico (mito rurale) e
fondazione di città nuove (Sabaudia e Littoria, l’odierna Latina)
-
con l’intervento diretto dello Stato: vengono fondati l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI, 1931,
che sostituisce le banche nella erogazione di aiuti finanziari alle industrie in crisi) e l’Istituto per
la Ricostruzione Industriale (IRI, 1933, divenuto azionista di maggioranza delle banche in crisi,
rilevandone le quote di partecipazione industriale; nato provvisorio, diventa stabile nel 1937)
che fanno dello Stato italiano il primo banchiere e il primo imprenditore in Italia.
Grazie a queste misure, nel 1935 l’Italia poteva dirsi fuori dalla crisi economica.
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8. L’imperialismo fascista
Rimessa in moto l’economia, questa si trasformò presto in economia di guerra per sostenere le
aspirazioni imperialistiche della componente nazionalista del Paese, desiderosa di far rivivere le
glorie di Roma antica. Diversamente dalla Germania, che aveva motivo di stimolare il riscatto di
una nazione uscita sconfitta dalla Grande Guerra, l’Italia non ha motivazioni così forti negli anni
Venti, limitandosi a vaghe aspirazioni di grandezza nazionale.
I rapporti divengono poi tesi con la Francia, quando questa ospita esuli antifascisti italiani, ma
l’Italia resta comunque alleata delle democrazie occidentali, come dimostra l’incontro di Stresa
dell’aprile 1935 in cui ITA, FR e GB condannano il riarmo tedesco. In questa occasione Mussolini
si presenta come mediatore rispetto alla GER.
L’illusione di forza nazionale lo porta a progettare l’aggressione all’Etiopia, unico grande stato
africano ancora libero, funzionale alla creazione di un impero laddove l’Italia possiede già al
Somalia (1889), l’Eritrea (1890) e la Libia (1912). Tale campagna sarebbe l’occasione per far
convergere l’attenzione popolare su una metà precisa, capace di distogliere l’attenzione dai motivi di
crisi interni al Paese. Soprattutto, sarebbe l’occasione per riscattare la sconfitta di Adua (1896).
Nell’ottobre 1935 Mussolini inizia l’invasione dell’Etiopia. FR e GB non possono stare a guardare
e spingono la Società delle Nazioni (di cui l’Etiopia fa parte) a comminare sanzioni all’ITA,
ovvero il divieto per i Paesi della SdN di esportare in Italia merci e materiale bellico. Sanzioni di
fatto poco più che formali, poiché si possono esportare le materie prime (comunque necessarie) e
perché di fatto non colpiscono USA e GER che non aderiscono alla SdN (la GER è uscita nel 1933).
Di fatto le sanzioni approfondiscono la però al crisi nei rapporti tra ITA e democrazie occidentali,
portando Mussolini a dipingere il Paese come vittima di una congiura internazionale. A ciò si
aggiunga che la campagna di Etiopia è giustificata anche in nome della missione civilizzatrice
dell’Italia, chiamata – secondo la propaganda - a liberare quel popolo da un regime ingiusto e
oppressivo.
Dopo 7 mesi di dura lotta l’esercito etiope comandato dal Negus si arrende a quello italiano,
numeroso (400.000 uomini) e meglio equipaggiato. Il 5 maggio 1936 il maresciallo Badoglio entra
in Adis Abeba. Il re VM III riceve la corona di Imperatore d’Etiopia.
Benché il Paese sia ben povero di risorse naturali e inospitale (come già si era rivelata la Libia
all’indomani della conquista), per il regime è un grande successo propagandistico. L’Occidente non
può che accettare la conquista come un fatto compiuto: FR e GB riconoscono l’Impero Italiano in
Africa orientale.
Questo dà a Mussolini l’idea di essere nel momento giusto per avvicinarsi alla GER (dopo aver
deciso di condividere la campagna spagnola in appoggio a Franco, 1936-1939), con la quale
stringe il patto di amicizia “asse Roma-Berlino” (ottobre 1936), illudendosi di poter così gestire i
rapporti tra la GER di Hitler e le democrazie occidentali. L’anno successivo l’ITA aderisce al Patto
anti-Comintern (1937) sottoscritto l’anno prima da GER e JAP: iniziano a delinearsi i blocchi
della seconda Guerra mondiale.
A poco a poco i rapporti di forza di invertono però e, compiuta l’Anschluss dell’Austria (marzo
1938) e l’occupazione della Cecoslovacchia (di fatto permessa dal via libera all’annessione tedesca
dei Sudeti decisa da ITA, FR e GB alla Conferenza di Monaco del settembre 1938), è Hitler a
influenzare le scelte del Duce, portandolo a firmare l’alleanza militare tra ITA e GER, il Patto
d’Acciaio (maggio 1939).
Mentre Mussolini si illude che la guerra si ancora lontana, Hitler già prepara l’occupazione della
Polonia che di lì a poco avrebbe scatenato il secondo conflitto mondiale (settembre 1939).
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9. L’Italia Antifascista
Dal 1925 con l’inizio della dittatura fascista il dissenso nei confronti del regime assunse due forme:
quella propagandistica degli esuli all’estero e quella della agitazione clandestina in patria.
Gli antifascisti si possono suddividere in:
1. Liberali: hanno il loro riferimento nel filosofo Benedetto Croce che svolge azione di dissenso
culturale nei confronti del regime (suo è il Manifesto dell’Antifascismo Italiano che risponde al
Manifesto Fascista di Gentile)
2. Concentrazione antifascista: nata nel 1927, raggruppa diverse fazioni di esuli antifascisti che
dall’estero attendono al caduta de regime cui oppongono testimonianza e propaganda
dall’esterno
3. I Comunisti: agiscono in patria, con volantini, lotta clandestina, infiltrazioni nelle
organizzazioni giovanili fasciste. Mentre Palmiro Togliatti (subentrato a Gramsci alla guida del
Pci quando questi viene arrestato nel 1927), membro del Comintern, sostiene l’isolazionismo del
PCI e il culto di Stalin secondo la linea del comunismo sovietico, Antonio Gramsci dal carcere
scrive i Quaderni in cui prende le distanze dalla linea ufficiale del partito
4. Giustizia e Libertà: nata nel 1929 (Carlo Rosselli è tra i fondatori, giovane antifascista
assassinato nel 1937 da sicari fascisti con il fratello Nello), contesta l’attendismo della
Concentrazione e l’isolazionismo del PCI, volendo invece coniugare liberalismo e marxismo
nella lotta al fascismo.
Se i risultati pratici non saranno incisivi, occorre però dire che dall’iniziativa di questi gruppi
nasceranno le condizioni morali e motivazionali per la successiva Resistenza armata contro il
regime.
Il regime, dal canto suo, comincia a perdere consenso per:
- la rigida politica economica: le spese militari sono altissime (campagna d’Etiopia e di Spagna),
l’autarchia economica decisa dal 1935 non offre i risultati promessi e l’ITA è ben lontana
dall’autosufficienza
- l’avvicinamento alla Germania, gestito da Mussolini e dal genero Galeazzo Ciano con
apparente leggerezza
- l’eccessivo controllo politico sul Paese, privato dell’ultimo organo democratico con la
soppressione della Camera del Parlamento nel 1939 sostituita dalla Camera dei Fasci e delle
Corporazioni, di fatto nominata interamene dal regime
- la promulgazione delle leggi razziali (1938) - a imitazione delle leggi di Norimberga di Hitler
(1935) - che suscitano sconcerto in un Paese in cui gli Ebrei (50.000, per lo più a Roma) erano
ben integrati e ben accetti. Tali leggi portano anche la Chiesa di Roma a prendere ulteriormente
le distanze dal Fascismo
- il consenso giovanile, l’unico forse vero e spontaneo, andrà in crisi appena la guerra rivelerà la
debolezza militare dell’Italia fascista