igiene e medicina del lavoro - Digilander

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IGIENE E MEDICINA DEL LAVORO
Prof Bucci
8/04/08 ore 13:30-16:30
EDUCAZIONE SANITARIA
L’ educazione sanitaria è, innanzitutto, una educazione alla salute. Essa prevede la partecipazione
dell’interlocutore e, soprattutto, la valutazione delle sue personali vicende ed attitudini che
riguardano il problema dell’informazione. L’ educazione alla salute diventa, poi, necessità politica
ed esigenza sanitaria da concordare con le decisioni politiche, chiedendo, in tal modo, un
coinvolgimento degli esponenti politici perché le moderne definizioni di salute, che considerano la
salute come uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale, coinvolgono anche ben altre
rappresentanze al di fuori degli operatori sanitari; per questi motivi vi deve essere una
sensibilizzazione da parte degli esponenti politici e sociali riguardo il tema della salute.
L’educazione sanitaria ha, d’altra parte, intrapreso questa strada di grande allargamento alla società.
Tutto ciò comporta una promozione della salute, che deve essere promossa da una vera e propria
politica della salute.
Per il tema della salute noi abbiamo, in primo luogo, un approccio percettivo(da parte dell’OMS),
secondo il quale la salute si configura come uno stato di completo benessere fisico, psichico e
sociale(e non semplicemente come assenza di infermità), che porta la singola persona a dire “io sto
bene!”, configurandosi così come una visione meramente soggettiva. E’ assolutamente necessario,
però, l’integrazione di tale visione soggettiva con un approccio adattativo della salute (salute vista
come capacità di adattamento omeostatico dell’individuo al suo ambiente), che porta l’uomo a
rispondere a delle esigenze provenienti dall’ambiente esterno. Un terzo approccio della salute è
quello funzionale che considera la salute come la capacità dell’organismo di esplicare le funzioni
che gli sono richieste nel suo contesto biologico e sociale. Queste 3 visioni della salute non si
escludono a vicenda, ma si integrano fra loro configurando la salute come un qualcosa che abbia
capacità funzionali e, nel contempo, capacità di adattarsi a mutamenti dell’ ambiente esterno
(naturale
e
sociale,
modello
dell’uomo
stesso)
e
dell’ambiente
interno
all’organismo(biologico,genetico). Pertanto è necessario “sentirsi bene”, in modo tale da poter
rispondere al meglio alle sollecitazioni dell’ambiente e della socialità e, così, saper fronteggiare
tutte le variazioni della propria vita con tutto ciò che ci circonda.
La centralità dell’uomo (e del soggetto), ci costringe a comprendere il significato unitario della
salute, unità fisica-mentale-sociale nelle sue componenti sempre inscindibili fra loro; nessun
fenomeno legato alla salute può esser visto da un solo lato: come un triangolo, ogni lato è legato
dall’altro e dipende dall’altro, direttamente o indirettamente. Tutti i lati hanno la capacità di
rigenerarsi, andando a ricostituire l’integrità poligonale del triangolo, qualora venga a mancare una
dimensione ( ad esempio una mutilazione per la dimensione fisica, una nevrosi per la dimensione
mentale o un licenziamento nella dimensione sociale). Se è conservata la capacità di plasticità di un
lato, cioè di ricomporsi e richiudere il poligono, il triangolo viene ripristinato, avendo così la
certezza di condizione di salute e ricostruendo una buona qualità di vita che si era persa per quell’
evento sfavorevole.
L’educazione sanitaria, attualmente, valuta la soggettività come elemento fondante di tutto il
progetto di lavoro, di “empowerment” della popolazione dal punto di vista del quoziente sanitario, e
del progetto di diffusione della capacità di prevenzione primaria (primaria poichè tende ad
eliminare il fattore causale).
La SOGGETTIVITA’ è un elemento che incide in modo determinante sul “sistema” salute: la
ricerca biomedica e sociale ha ampiamente dimostrato come l’atteggiamento del soggetto(il suo
“vissuto”) possa influire sul suo stato di salute o di malattia. E’ fondamentale potenziare le
conoscenze in termini di prevenzione dei rischi di malattia; tale potenziamento passa attraverso una
valorizzazione della soggettività della persona. Ad esempio, non ci limitiamo più a dire ad un
fumatore accanito:“Non fumare perché ti fa male”, ma cerchiamo di capire perché una persona fumi
così tanto: al di là delle variazioni genetiche che possono predisporre un soggetto a fumare tanto, è
stato ampiamente dimostrato che determinate peculiarità fisiologiche (aspetti caratteriali,
determinati contesti ambientali) possano influire sull’abitudine al fumo, come atto conclusivo o
come situazione di assunzione neurotropica: il fumo possiede tanti composti con effetti definiti di
tipo “nervino”, così come la camomilla o l’oppio. Vi sono innumerevoli casi nel quale il medico ha
utilizzato l’approccio “terroristico” per cercare di far smettere di fumare il paziente, cercando di
informarlo di tutti i rischi a cui potrebbe andare incontro (dall’ipertensione al rischio trombotico,
dalle BPCO al k polmonare) senza ottenere alcun significativo risultato: altro esempio è quello delle
scritte, (oramai sempre più grandi e minacciose!!!), che non hanno sortito l’effetto sperato di
riduzione del vizio del fumo. [Addirittura per alcuni fumatori è bastato dire loro, invece, che il fumo
fa male alla pelle, per iniziare a smettere di fumare!] In realtà, questo tipo di approccio
“terroristico” dimentica totalmente il ruolo fondamentale della soggettività della persona, il loro
vissuto e i loro determinanti culturali e sociali: questo ruolo purtroppo, oramai, è sempre meno
considerato nella tradizionale medicina clinica, per la quale molto spesso il paziente è un numero,
un’entità sulla quale esercitare l’ars medica, e l’interlocutore del medico è la malattia e non il
malato: tutto questo è un ambito nel quale deve inserirsi l’educazione sanitaria.
Riguardo la soggettività del paziente, un elemento che sta assumendo sempre maggiore importanza
e che, purtroppo, è tuttora carente nella medicina clinica, è il tempo che si dedica al racconto del
paziente, in modo da stabilire un rapporto biunivoco e bidirezionale, considerandola anche in
concorrenza con la cosiddetta “medicina alternativa”, basata non tanto sull’ effetto tuttora
misterioso dei farmaci omeopatici (contenenti principi attivi quasi assenti, ad altissimo fattore di
diluizione), ma sull’ascolto che il medico omeopatico riserva al proprio paziente, anche superiore
ad un’ora per singolo paziente: tutto ciò rende l’omeopata un grandissimo consulente. Il medico
clinico, invece, nella cosiddetta anamnesi, riserva al massimo 15 minuti per ascoltare il racconto del
paziente! Tutto ciò è assolutamente svantaggioso sia per il paziente che per il medico: tale
conclusione è confermata anche dalle compagnie di assicurazione dei medici, che hanno individuato
un indicatore per stabilire quanto far pagare ad un medico la polizza contro le cause per
malpractice, in crescita in modo esponenziale in Italia e una vera piaga in USA, tanto che molti
medici sono stati rovinati dal pagamento delle cause di malpractice sanitaria, fortemente
incoraggiate dalla quotidiana pubblicizzazione e sponsorizzazione su quotidiani e riviste con
formule del tipo:”Credi di essere stato danneggiato dai medici? Rivolgiti a noi e ti faremo avere un
congruo risarcimento!”. Nella foga del paziente realmente danneggiato, o solo di chi crede di
esserlo o di chi vuole far credere a tutti i costi di esserlo, vien fuori che ogni medico è sottoposto ad
un vero e proprio processo legale, in aggiunta alle lettere di denuncia, per alcuni medici anche
quotidiane. Le compagnie di assicurazione americane hanno dovuto individuare un indicatore, per
capire quanto dovevano far pagare un medico: tale indicatore non è assolutamente, come si
potrebbe pensare, l’incidenza di errori da parte del medico, ma il tempo dedicato al paziente.
Infatti, chi dedica più tempo al paziente, chi lo ascolta, chi diviene suo complice e punto di
riferimento, sicuramente sarà oggetto di minor acredine nel caso le cose non vadano al meglio;
l’acredine da parte del pz verso il medico incomprensibile, inaccessibile, scostante, disattento,
bizzarro, stringato, frettoloso è sicuramente maggiore, e conduce più facilmente il paziente, pieno di
livore, a rivolgersi ad un avvocato per ottenere un congruo risarcimento, sia che l’intervento medico
sia stato effettivamente sbagliato, sia che l’intervento sia stato fatto nella norma.
Queste premesse ci servono per introdurre un discorso importante: quello dell’ Educazione
sanitaria, che si prefigge da tempo il compito di fare una didattica frontale agli adulti, educandoli a
cercare di stabilire dei canali bidirezionali. Per strumenti unidirezionali non intendiamo conferenze
o dibattiti, ma tutti i messaggi che possono derivare da una valida pubblicità progresso, dall’uso dei
mass-media, attraverso immagini esplicative, anche forti, talvolta, ma sicuramente efficaci. Questi
sono messaggi unidirezionali ma sono ormai compatibili con l’approccio bidirezionale
dell’educazione sanitaria. Il soggetto, e quindi la popolazione bersaglio della campagna di
educazione sanitaria, deve poter esprimere i propri bisogni, descrivere il proprio stato di salute e
poter dire anche quanto vuol fare per promuoverla e difenderla.
Nei quartieri più poveri e degradati delle grandi metropoli statunitensi il problema delle teen age
pregnancy è diventato drammatico: bambine di 10, 11 anni sono sempre più frequentemente
soggette al fenomeno della gravidanza inattesa e precoce con conseguenze estremamente gravi sia
per quanto riguarda la salute della madre che per quella del bambino. Quando si va a cercare di fare
educazione sanitaria in quei quartieri, spiegando che non è il caso di vivere la sessualità in questo
modo così frivolo, la sensazione degli educatori, purtroppo, è che questa gente letteralmente si butti
via e viva in un mondo completamente privo di speranze senza alcuna proiezione al futuro. Tutto
ciò è suggerito anche dal fatto che molto spesso queste ragazzine incinte sono figlie di donne a loro
volta teen-agers in gravidanza. L’atteggiamento di queste persone è quello di dichiararsi fuori dagli
schemi e pertanto di vivere la giornata godendosi i piaceri che offre la vita. In questo caso la difesa
della propria salute non c’è, è completamente assente e dobbiamo capire il perché non c’è.
Nel discorso iniziale della Health Promotion, la conclusione è questa: è inutile andare a fare
educazione alla salute in contesti dove la socialità è così degradata da portare ad un rifiuto della
prospettiva di crescita, miglioramento e benessere (questo vale anche per determinati contesti e
gruppi sociali nei quali la grande maggioranza dei componenti fa uso e abuso di alcool o sostanze
stupefacenti).
Sotto l’occhio unidirezionale non vi è alcuna prospettiva; la bidirezionalità ci porta a capire cos’è
che non funziona, cioè il contesto, come somma di individualità, dove la percentuale del consumo
di sostanze d’abuso è epidemiologicamente significativa.
Gli interventi di educazione sanitaria possono essere molto variegati e utilizzare approcci differenti,
a seconda se ci rivolgiamo ai giovani o agli anziani, possiamo servirci di slides, filmini, personaggi
famosi, che possono essere delle buone misure per attirare l’attenzione: in realtà, ciò che conta è
quello che noi mostriamo e gli elementi fondanti della metodologia.
La definizione del 1958 di A.Seppilli, igienista emerito, di educazione sanitaria è quella che ancora
oggi risulta più valida:
“L’ educazione sanitaria è un intervento sociale, che tende a modificare consapevolmente e
durevolmente il comportamento nei confronti dei problemi della salute. Essa presuppone la
conoscenza del patrimonio culturale del gruppo e la focalizzazione dei suoi interessi soggettivi, e
richiede la rimozione delle resistenze opposte dal gruppo all’intervento”.
Seppilli definisce l’educazione sanitaria un intervento sociale, sgombrando il campo da quella che
era stata la convinzione fino a quel momento (educazione sanitaria come intervento individuale,
esercitato dal medico sul singolo paziente). Questo intervento deve essere volto a modificare il
comportamento, in modo consapevole e durevole (altrimenti sarebbe un cambiamento solo
transitorio). Perché ciò accada noi dobbiamo conoscere assolutamente il patrimonio culturale del
soggetto: se noi, ad esempio, interveniamo contro il consumo di alcol in regioni come il Veneto,
dove il consumo di alcol è il segno della avvenuta crescita e mascolinità di un ragazzo, dovremmo
cercare di rompere questi schemi culturali alquanto negativi.
Ci sono poi interessi soggettivi, sia in senso positivo che negativo: se c’è, ad esempio, un interesse
soggettivo eccessivo ed ossessivo nei riguardi del successo inteso come esasperazione di una moda
che porta ad una fisicità eterea, possiamo trovarci di fronte ad una soggettività che rappresenta un
alto fattore di rischio di anoressia e altri disturbi dell’alimentazione. Ci possiamo trovare di fronte
ad una persona che introduce anoressizzanti, fa diete molto drastiche, legge Men’s Health, fa
attività fisica esasperata: tutti segni di una soggettività caratteristica in senso negativo che il medico
deve conoscere per considerare l’alto rischio di anoressia. Una volta sapute queste fondamentali
info sul pz, possiamo intervenire per rimuovere le resistenze culturali, le resistenze soggettive e
quelle del gruppo. Noi sappiamo che con gli adolescenti le resistenze del gruppo sono fortissime: ad
esempio, se noi avessimo tentato di far indossare il casco a degli adolescenti, rivolgendoci alle
scuole, magnificando il casco, il gruppo avrebbe detto a quei 2-3 ragazzi che magari recepivano ed
acquisivano quel messaggio, quello che si diceva negli anni ’70 a chi girava col casco:”ma stai
andando sulla Luna?”, costringendo il povero ragazzo a togliersi il casco.
Si parla di patrimonio culturale perché dobbiamo considerare più dimensioni: la posizione sociale,
le strutture di comunicazione sociale. Qui si inserisce anche il discorso dell’educazione alla salute al
di fuori del nostro contesto di mondo occidentale: vi sono determinati contesti in cui occorre capire
la soluzione sociale del gruppo (che si tratti di cinesi, che si tratti di rom,etc) poiché abbiamo uno
specifico contesto sociale e una comunicazione interna che dobbiamo assolutamente conoscere.
Non possiamo, ad esempio, fare una campagna di prevenzione del tumore mammario ad una
popolazione di rom, dicendo alle donne: ”Voi dovete prendervi l’impegno di andare una prima volta
da un ginecologo a farvi fare una palpazione”, poiché se tale messaggio non passa attraverso il
leader non ha alcuna possibilità di attecchimento (e questo vale per molti altri gruppi culturali), e
non sarà, quindi, possibile in alcun modo esportare i nostri modelli e considerare i nostri
interlocutori come dei “vasi vuoti”.
Frase simbolo della educazione sanitaria è: “i nostri interlocutori non sono mai dei vasi vuoti. Infatti
le motivazioni che determinano la risposta ad uno stimolo non si organizzano nel momento in cui si
riceve lo stimolo; esse sono, almeno in certa misura già presenti nella personalità dell’individuo, in
quanto determinate da esperienze precedenti”.
In determinate situazioni, quali l’analfabetismo, ad esempio, il messaggio che arriva al soggetto è
mediato da qualcuno (il leader, il capo tribù…). Consideriamo inoltre i riti magici, scaramantici,
condizioni religiose dove al centro vi è l’elemento rituale, e tutte le situazioni che vanno al di là del
modo di concepire le cose da parte della classe medica (che potrebbero identificarsi nel cosiddetto
effetto placebo): tali situazioni potrebbero far diventare il nostro messaggio di educazione sanitaria
incomprensibile. Ciò vale soprattutto di chi si occupa di cooperazione: ad esempio, rivolgendosi
alla popolazioni africane, non è mai vantaggioso cercare di far cadere le loro credenze, ma occorre
sempre cercare di rispettare tali usi e costumi e di fare in modo che i nostri messaggi siano,
inizialmente, magari solo parzialmente accettati in un ambito di educazione sanitaria che deve far
almeno in modo che le vaccinazioni, l’uso di acqua non contaminata, il ricorso ad indumenti puliti
siano l’elemento fondante del proprio empowerment. In quel contesto, se l’educatore dovesse dire
alla popolazione che quei riti siano tutte stupidaggini, sarebbe altamente controproducente perché
allontanerebbe la popolazione perché la potrebbe far sentire responsabile di una grave trasgressione
religiosa. Pertanto bisogna fare attenzione a non essere severi, arroganti, esigenti, intolleranti nei
confronti degli usi, dei rituali, delle abitudini e delle attitudini del singolo e della collettività.
Ad esempio, a persone che stramangiano o che bevono troppo, sarebbe ad alto rischio di insuccesso
e sfiducia predisporre massacranti diete dimagranti dopo aver additato arrogantemente il loro modo
di mangiare o bere,. Gli anziani, in tal caso, sono i soggetti per i quali risulta più difficile eliminare
usi ed abitudini di questo genere e rappresentano anche portatori di messaggi che vengono raccolti
(pensiamo alla figura del “saggio” del paese). E’ la società che, in definitiva, va profondamente
trasformata! Perciò io dico:”A Castelfranco Veneto e in tutti i piccoli paesini di campagna con
tradizioni secolari ormai radicate possiamo andare a fare una campagna per cercare di sradicare
abitudini sbagliate che potrebbero essere a rischio della salute??????”. Non possiamo pretendere di
cambiare le cose soltanto attraverso i nostri messaggi. Cosa può effettivamente sorreggere e
sospingere i nostri messaggi? Sicuramente la limitazione e la normativa sono molto utili.
Se noi ci dovessimo rivolgere alla classe dei GIOVANI NOTTAMBULI, ragazzi che hanno la
cultura dello sballo e del divertimento sfrenato fino a tarda notte in discoteca, dovremmo cercare di
far capire a questi ragazzi come la cultura dello sballo possa essere effettivamente molto pericolosa
per la salute: rivolgersi a questi giovani richiede molto più tempo e dedizione rispetto ad un
pubblico adulto, ma, a lungo andare, può dare buoni risultati.
La trasformazione della società (è proprio questo il modestissimo obiettivo degli igienisti, che si
propongono poi, come passo successivo, la conquista del mondo) è fatta, quindi, attraverso i
messaggi, i media, i testimonial, le normative. È chiaro che, a tal punto, il comportamento sbagliato
delle persone, che noi cerchiamo di modificare, sarà più facile da indirizzare nella giusta direzione,
una volta che il soggetto abbia acquisito tutte le debite informazioni.
La socialità è intesa come gruppo che ha influenza nell’ambiente e assume pertanto un’importanza
determinante. La consapevolezza e la durevolezza fanno si che il nuovo comportamento divenga
un’abitudine: questo è il momento in cui l’educatore sanitario può dire di aver raggiunto il
traguardo. Chi impara a mangiare molta frutta e verdura impara perfino a mangiare relativamente
sciapo e poi, una volta abituati a mangiare sciapo, infastidisce mangiare salato.
Il nostro obiettivo è di arrivare a formare un’ abitudine. E’ necessario individuare metodiche che
chiariscano le informazioni e giungano ad inserire il cambiamento nel sistema generale dei
comportamenti dell’individuo, fino a formare un’abitudine. Ora, in rispetto al patrimonio culturale,
l’individuo deve essere naturalmente solidale: modificare questo equilibrio, che è il frutto di una
vita, non è affatto facile. Un esempio può essere questo: sarebbe facile dire ad una tribù di tagliatori
di teste: “Ma che orrore! Che scempio tagliare le teste!”, ma se il patrimonio culturale di quella
popolazione è quello, noi cerchiamo di esportare delle regole e messaggi contrari a usi e abitudini
sbagliate alle quali vi è una totale solidarietà. Ancora più difficile recare messaggi di educazione
sanitaria nelle zone dove tutte le donne subiscono la cosiddetta infibulazione. Sarebbe facilissimo
fare un discorso del tipo:”Ma cosa fate? Come riducete queste povere donne? Perché dovete
torturarle in questo modo?”, ma nella realtà dei fatti non è così semplice. In questi casi, il processo
di educazione, dovrebbe dapprima richiedere una attenta opera di persuasione, fatta attraverso una
vera presa di coscienza dell’ importanza che ha per i nostri interlocutori il patrimonio culturale, che
poi si traduce in una grande forza di volontà di cambiamento.
Per comprendere bene come muoversi nell’ambito degli strumenti a disposizione dell’educazione
sanitaria, occorre conoscere alcune dimensioni, che portano a capire perché si fa una cosa e come si
fa a modificare per modificarla. È necessario, perciò, innanzitutto cercare di capire cos’è il
comportamento.
Il COMPORTAMENTO è la risposta ad uno stimolo che:
- provoca nell’individuo una serie di dinamiche che interessano la personalità
- evoca tutta una serie di esperienze precedenti
Tutto questo lo osserviamo anche nella quotidianità: se io mi trovo in una borgata romana e un
pedone attraversa la strada distrattamente sarà magari sommerso da strombazzate di clacson. Il
gesto di suonare il clacson da parte dell’autista può evocare nel pedone tutta una serie di reazioni
che possono recare in lui un disturbo personale e portarlo anche a rispondere a male parole
all’autista ed eventualmente anche a massacrarlo di botte. Un comportamento adeguato sarebbe
stato quello di accorgersi di aver sbagliato, e, pertanto, spostarsi e magari chiedere anche scusa. Ma
nel soggetto precedente non è così: quello stimolo magari ha evocato in lui tutta una serie di
momenti in cui, quando si è trattato di fare l’educato, è stato accusato di essere un individuo di
scarso valore. Il comportamento è, pertanto, la risposta ad uno stimolo che non nasce da un istinto
animale, ma da una sollecitazione di una serie di dinamiche che coinvolgono le esperienze
precedenti. Il comportamento è anche il risultato di un rapido coinvolgimento di tutta la personalità
dell’individuo, e che si traduce in un’azione che riporta ad uno stimolo. Questo stimolo può essere
un invito, una proposta. Uno stesso stimolo portato a soggetti diversi può innescare comportamenti
assai differenti.
Ad esempio:
Stimolo: “Vuoi farti questa bella striscia di coca, che ti tira un po’ su?”
Comportamento: ”Perché no? Voglio divertirmi stasera e spaccare tutto!!!”; oppure :”No grazie”
Possiamo, pertanto, accettare di fare un’esperienza trasgressiva, fine a se stessa, oppure possiamo
seccamente rifiutare, considerando i rischi a cui possiamo andare incontro. Ci possono essere
sbagliati comportamenti di effimera sfida alle convezioni: lanciare sassi dal cavalcavia, armarsi di
spranghe e maceti prima di andare allo stadio. La risposta ad una stessa proposta può essere diversa,
perché nel singolo soggetto sono diverse le storie, le esperienze, le influenze del nucleo familiare.
In ogni individuo esiste un orientamento mentale verso quel determinato aspetto della realtà,
chiamato in causa dallo stimolo. Questo orientamento mentale noi lo chiamiamo atteggiamento, ed
ha un ruolo importantissimo nel comportamento, in quanto influenza la risposta allo stimolo.
Gli atteggiamenti sono, pertanto, le concezioni psichiche generali che concernono determinati
aspetti della realtà (atteggiamento verso la vita, atteggiamento verso il denaro…)
Riassumendo, il comportamento è la risposta ad uno stimolo, mediato dal nostro atteggiamento.
Ad esempio, l’invito da parte di un branco a picchiare una persona indifesa e più debole richiede
una risposta che è mediata da un atteggiamento di rifiuto nei riguardi della prepotenza esercitata sul
debole o, al contrario, da un atteggiamento di accettazione della proposta di prevalere e perseguire il
più debole. Se il mio atteggiamento è negativo per quanto riguarda l’uso e l’abuso di alcool, sarà
molto più facile che, allo stimolo della proposta del consumo smodato di alcol, la mia risposta sia
nel senso della salute e, quindi, del rifiuto della proposta.
La risposta allo stimolo che induce un comportamento non è una risposta immediata e animalesca:
per quanto noi possiamo considerare questa risposta comportamentale un istinto (a meno che non si
tratti di bisogni primari quali mangiare e vestirsi), il comportamento è sempre il risultato di una
organizzazione di esperienze personali e l’atteggiamento che ne è derivato e che abbiamo acquisito.
L’atteggiamento negativo verso la vita, ad esempio, può portare a privilegiare determinati piaceri
dannosi rispetto a comportamenti virtuosi: ecco che, se si considera piacevole il consumo di alcool
oltre misura, è possibile che ciò derivi da un atteggiamento negativo della vita, che, in tal caso, non
è un bene da difendere o prolungare ma solo da arricchire di elementi piacevoli.
In tutto questo discorso che ruolo ha la genetica nel determinismo degli atteggiamenti, e quindi dei
comportamenti?
La certezza del ruolo della genetica non è assolutamente dimostrata, ma è fortemente sostenuta.
Attualmente si ritiene che alcune nevrosi e psicosi abbiano alla base, sebbene non si conoscano i
precisi meccanismi patogenetici, un importante substrato genetico, attraverso il ruolo che ha tutta
quella serie di mediatori implicati nei complessissimi circuiti del SNC. Non abbiamo però alcuna
certezza sui malfunzionamenti e le disfunzioni che sono alla base del problema: siamo ai confini tra
la neurologia e la psichiatria; tra la neuroendocrinologia e la psichiatria. Se consideriamo la
prevalente psichiatria di oggi, si suppone che ci siano cause organiche neuroendocrinormonali, e
quindi anche genetiche, alla base delle varie forme di schizofrenia, depressione, maniacalità e
paranoia. C’è però una scuola basaliana che non la pensa assolutamente così, ma che ritiene che tali
patologie siano il risultato di un contesto ambientale malato che induce il sano ad avere
comportamenti impropri (è la società che è malata e non l’individuo!).
Se l’atteggiamento non ha una componente genetica, sarà il vissuto a mediare il comportamento.
Un eccellente psicologo romano, Nicola Vezzani (????), sostiene che non esiste alcun genetismo. I
maligni potrebbero pensare che sarebbe un discorso puramente economico: se si scopre che il
discorso è solo medico, chi ci va più dallo psicologo?? Lo psicologo, infatti, dice:”Ascoltate quello
che ho da dirvi, perché se entrerò nelle vostre esperienze scavando nel passato, attraverso il
raggiungimento di un evento o una esperienza da voi rimossa, troverò il vostro problema interiore”.
[Il prof la pensa come medico, anche se non disprezza gli psicologi, perché alcuni di essi, attraverso
la rievocazione del passato riescono a riportare alla luce dolori, ferite con uno sfogo. Da questo
sfogo nasce effettivamente qualcosa, come il sogno, che può esorcizzare un certo tipo di dolore
esorcizzandolo. Secondo il prof, però, fino a quando si tratta di un trauma infantile questo approccio
può anche essere utile, ma per quanto riguarda una manifesta nevrosi o psicosi sicuramente il
discorso è più complesso, e serviranno, oltre ad approcci analitico-verbali, anche approcci
farmacologici, e pertanto giocheranno anche fattori di tipo genetici].
Si può parlare di predisposizione genetica, ad esempio, non al fumo, ma alla dipendenza che si crea.
Alcuni magari iniziano a fumare qualche sigaretta da adolescente, quasi per gioco e prendono il
vizio, ma possono smettere in qualsiasi momento; per altri si arriva a poco a poco alla dipendenza
fisica vera e propria, tanto che possono comparire palpitazioni e affanno se non fumano dopo un tot
di tempo. Noi stiamo però parlando di un atteggiamento: l’atteggiamento non è quello che ci porta
alla dipendenza; infatti, io posso essere dipendente perché, geneticamente, ho la predisposizione ad
esserlo ma, al tempo stesso, avere un atteggiamento di odio nei confronti del fumo (tanti fumatori
provano ad andare nei centri antifumo ma, con tutta la buona volontà, non riescono a smettere). Non
possiamo parlare, in tal caso, di una ereditarietà dell’atteggiamento (l’atteggiamento è formato in
modo situazionale contro il fumo); quello che è stato ereditato è, purtroppo un complesso,
geneticamente determinato, meccanismo enzimatico che rende i cataboliti presenti nel fumo di
sigaretta indispensabili per l’organismo.
Perché, ad esempio, c’è un atteggiamento ostile verso l’ospedalizzazione, al di là delle valutazioni
del medico? Nel momento in cui un medico dice ad una paziente:”lei si deve ricoverare”, quella
persona potrebbe avere nausea e dolori allo stomaco. Secondo la tesi di Maria Morulo (??),
l’atteggiamento negativo verso l’ospedalizzazione riguarda un passato, neanche troppo remoto, in
cui all’ospedale si andava solo a morire: è come se ci fosse una coscienza soggettiva, una memoria
collettiva dell’ospedale inteso come luogo di morte.
Altro esempio è questo: può capitare che l’ansia suscitata dall’argomento cancro, possa indurre un
atteggiamento estremamente negativo: si tocca ferro, non si nomina la parola e l’importante è che
questo argomento venga subito rimosso, arrivando addirittura a rimuovere l’esistenza del rischio,
affermando frasi quali “mio nonno ha fumato 2 pacchetti di sigarette al giorno per 70 anni ed è
morto a 100 anni!”.
Ancora un esempio: nei riguardi delle grandi epidemie e delle malattie infettive, grazie
all’esperienza di secoli noi abbiamo atteggiamenti positivi nei riguardi di alcuni comportamenti,
quali evitare il contagio dei lebbrosi; un atteggiamento positivo secondo il quale la persona
contagiosa prenda precauzioni per evitare il contagio di altre persone sane.
Altro atteggiamento positivo di questo genere, ma ancora più elementare, è la pulizia individuale:
questo è il risultato di una esperienza empirica; il lavaggio delle mani, ad esempio, è fondamentale
nella prevenzione delle infezioni nosocomiali. Il medico, infatti, normalmente ha un atteggiamento
positivo nei confronti del lavaggio delle mani prima di visitare il pz, prima di una puntura,… tanto
che questi procedimenti diventano, a lungo andare, una vera e propria abitudine per la quale si ha un
atteggiamento positivo e per cui, se non la facessimo, ci troveremmo in difficoltà.
Da quanto è stato detto, possiamo affermare che, alla base di ogni comportamento vi sono delle
dinamiche difficilmente controllabili razionalmente. Lo stesso atteggiamento non è facilmente
controllabile razionalmente, perchè è qualcosa che deriva dalla nostra personalità e dagli
accadimenti che ci hanno condizionato nel corso della vita, mediati da una componente genetica.
Alla fine dei conti le dinamiche emotive fanno in modo che sia veramente difficile far ragionare una
persona su ciò che è salubre e ciò che è insalubre se noi teniamo conto degli atteggiamenti al
riguardo. La mediazione, rispetto al comportamento e all’atteggiamento, è qualcosa di emotivo e
difficilmente controllabile.
Tutto è emerso diversi anni fa con le pubblicità progresso di informazione contro la diffusione
dell’HIV, accompagnate da vaste polemiche nei confronti del Ministero della Salute, degli Organi
Istituzionali, della Presidenza del CDM, che avevano introdotto questa iniziativa. L’informazione
che, alla fine, doveva passare era quella di non drogarsi, e lo spot era composto da un gruppo di
bravi ragazzi che raccomandava un altro gruppo di bravi ragazzi (belli, bravi e simpatici) a non
drogarsi. Era chiaro che questo gruppo non era a rischio ma era già “a posto” e difficilmente si
sarebbe drogato; il ragazzo più povero, emarginato, con problemi (più a rischio di andare incontro
alla droga), vedeva questo messaggio come qualcosa di estremamente estraneo alla sua cultura.
Questa esperienza ci ha insegnato che determinati argomenti dovrebbero essere trattati col giusto
peso e che questi messaggi dovrebbero essere rivolti in modo più consapevole e mirato.
La pubblicità che mirava a far vedere come il marito fedifrago avesse avuto un rapporto occasionale
con una donna sieropositiva e potesse poi trasmettere alla moglie, inconsapevole, questa
condizione, fu ritenuta alquanto irritante e scarsamente efficace: tale spot , infatti, non intercettava il
movente della trasgressione ma solo gli effetti della trasgressione (il danno indotto sull’innocente).
L’esempio del fumo è molto caratteristico: noi sappiamo che si fuma per molte ragioni.
Il fumo ha acquisito valenze gratificanti in relazione:
- Ai rapporti interpersonali (si fuma con una persona sconosciuta e in questo atto comune
sembra più facile comprendersi)
- in rapporto all’espressione di sé(il ragazzo fuma per sembrare adulto, la donna per sentirsi
emancipata)
- In rapporto alla identificazione con personaggi considerati modelli di riferimento positivo
(la diva del cinema, l’eroe del western o, semplicemente, il genitore o l’insegnante)
Possiamo considerare i rapporti interpersonali con il momento della sigaretta; essa può facilitare la
conversazione, può aumentare l’espressione di sé, far sembrare più adulto un ragazzo. L’errore del
fumatore, ieri più di oggi, era l’identificarsi con attori del cinema, eroi, personaggi famosi: pensate
all’Humphrey Bogart di Casablanca. Fortunatamente questo problema oggi si sta ridimensionando:
nel mondo del cinema esistono pochi personaggi fumatori affascinanti e in televisione è
assolutamente vietata la ripresa di persone che stanno fumando.
Sono state effettuate anche diverse ricerche che miravano a comprendere i moventi del fumo
mediante studi effettuati su bambini, nel momento in cui si forma la personalità: è stato dimostrato
che la disposizione positiva al fumo può essere mediata anche da messaggi pubblicitari di uno
Schumacher invincibile che sfreccia sulla sua Ferrari recante la scritta Marlboro a caratteri cubitali.
L’associazione vincente Ferrari-sigarette è stata confermata anche dalle risposte di specifici
questionari offerti ai bambini delle elementari.
Negli ultimi anni le campagne contro il fumo si sono letteralmente moltiplicate, soprattutto in
ambito sanitario, in primo luogo perché non c’è niente di più fastidioso che vedere un infermiere o
un medico in camice spipparsi allegramente una sigaretta (vedi entrata del policlinico e ghetto a
tutte le ore del giorno). Il pensiero del paziente è “Ma se mi dicono di non fumare e loro fumano ma
che razza di medici sono?E se loro lo fanno tranquillamente, perché non posso farlo io? Magari non
fa male veramente!”. Per questi motivi, il personale sanitario è considerato modello di riferimento
positivo per i comportamenti che hanno valenze sanitarie. L’esempio del medico o dell’infermiere
che fuma è considerato come un importante punto di appoggio per il fumatore.
Abbiamo visto finora tutto quello che riguardava la disposizione, e quindi l’attitudine che porta ad
un comportamento; il comportamento è la risposta allo stimolo, pertanto ci manca ancora un
elemento che chiuda il cerchio: la motivazione, quel tramite mediante il quale lo stimolo conduce al
comportamento. Lo stimolo produce in una persona uno stile.
La motivazione è definita come la risposta allo squilibrio provocato dallo stimolo, risposta che ci
induce ad avere un comportamento che tende a riprodurre l’equilibrio che è stato momentaneamente
compromesso dallo stimolo. Con lo stimolo (l’offerta della sigaretta, la proposta dello sballo, la
proposta di una alimentazione squilibrata, etc) noi cerchiamo di riacquistare il nostro equilibrio
(perso) con la risposta, che è la motivazione che ci porta ad un comportamento ben preciso. La
motivazione si profila anche come il desiderio di fare qualcosa per superare il disagio determinato
dallo stimolo. E’ da considerare, inoltre, che le motivazioni che determinano la risposta ad uno
stimolo non si organizzano nel momento in cui si riceve lo stimolo; esse, almeno in una certa
misura sono già presenti nella personalità dell’individuo in quanto determinate da esperienze
precedenti.
Solo ora che conosciamo tutte le variabili del comportamento, la loro natura, le dimensioni e i
rapporti reciprocaci, possiamo muoverci nel cosmo della educazione sanitaria, intervenendo su
diversi ambiti. Possiamo agire sulla motivazione ed arrivare all’obiettivo di modificare il
comportamento per farlo diventare durevole.
Alcune motivazioni sono puramente biologiche: se il mio stimolo, ad esempio, è la fame, ciò
determina sempre una modulazione del comportamento verso il mangiare. Ma il nostro
atteggiamento verso il mangiare può variare da soggetto a soggetto: per uno spuntino possiamo
intendere una piccola merenda a base di frutta o verdura oppure 2-3 doppi cheese-burger. Questa è
una dinamica quotidiana: noi ricostruiamo il nostro equilibrio attraverso una motivazione che porta
ad un comportamento (il mangiare); ma come e cosa mangiamo? Questo dipende
dall’atteggiamento che noi abbiamo verso il cibo.
In medicina noi verifichiamo che lo squilibrio comportamentale è provocato dal sintomo e la
risposta comportamentale è rivolgersi al medico. Se l’atteggiamento nei confronti della medicina è
diffidente, il soggetto prende una camomilla e dire “va bè, passerà..”
Nella pubblicità gli alimenti, ad esempio, vengono presentati in modo che i valori di riferimento
sociale siano più significativi dei valori biologici: la merendina a scuola è sociale, pane e
marmellata no. In questi casi si deve iniziare un intervento di informazione.
Le implicazioni di tutto questo sono di tipo sociale-psicologico: queste motivazioni hanno qualcosa
che nasce dal senso della comunità e dal rapporto soggettivo col proprio gruppo. . In altre parole, la
motivazione psico-sociale scaturisce da bisogni emotivi comuni a tutti gli uomini per effetto della
loro stessa condizione sociale. Tale motivazione nasce dal bisogno dell’uomo di essere garantito nel
gruppo. Nell’educazione sanitaria tutto questo l’esempio di approccio bipolare
Passiamo ora alle motivazioni socio-culturali, che sono costruite sui valori che la società si è data.
I valori, di cui possiamo avere tanti esempi (famiglia, amicizia, fedeltà…), li possiamo definire
così:
le concezioni di ciò che, nella società è ritenuto desiderabile e positivo. Ma ogni società ha una
concezione diversa di questi valori: ciò che può essere desiderabile per una può non esserlo per
un’altra, e questo deve essere ben compreso dall’educatore.
Ad esempio, in Sardegna, tempo fa era un valore assoluto il mantenimento cruento di un certo
sistema che portava alla condanna inappellabile della necessità di vendetta in caso di omicidio ai
danni di un familiare da parte dell’altra famiglia. E’ evidente che si tratta di un valore legato alla
famiglia; è una estremizzazione nei comportamenti di valore fondamentalmente sano: l’integrità del
nucleo familiare e il rispetto della vita. In questo contesto di realtà locali ci deve essere il rispetto
dovuto a determinati valori tradizionali radicati nel tempo che, al primo impatto, possono anche
apparire alquanto bislacche.
Un educatore che proviene dallo stesso gruppo comprende più facilmente determinati
comportamenti e sarebbe anche più credibile di una persona lontana ed estranea completamente a
quelle realtà.
I valori inoltre si possono trasformare nel tempo: il valore di avere molti figli è un valore ai tempi
delle società agricole (avere così molte braccia per lavorare i campi), ed è stato un valore ai tempi
del Ventennio(11 milioni di baionette contro il nemico) Oggi, invece, tale valore viene visto sotto
l’ottica della paternità e della maternità responsabile: se non c’è la possibilità economica di
mantenere tanti figli forse è meglio non farne parecchi.
Il desiderabile, che è all’origine del valore, è concretizzato interiormente attraverso l’educazione.
Nel processo educativo generale, che ha inizio fin dalla nascita, ogni individuo viene motivato a
fare quelle cose che gli permettono di realizzare i valori della comunità.
Ultimi Consigli del Prof(un po’ banali):
I medici non dovrebbero mai parlare per assunti e loghi comuni e riferirsi a quello che dice la
massa, ma riferirsi a cose documentate e provate, sempre con cognizione e precisione. Non
cediamo, inoltre, mai alla tentazione di utilizzare il linguaggio tecnico, perché il paziente ha
bisogno di capire e comprendere a pieno ciò di cui stiamo parlando.
Il metodo bidirezionale (ad esempio docente-discente) è assai vantaggioso: ci si scambia notizie da
una parte e dall’altra e propone anche il confronto tra coloro che ascoltano, utile a trovare elementi
di soluzione!
Il metodo unidirezionale (pubblicità..) ha, invece, elementi negativi: innanzitutto chi ascolta non
può controbattere e nemmeno verificare se si approva ciò che viene insegnato o suggerito. Ha però
dei vantaggi: può fornire messaggi a moltissime persone contemporaneamente ed ha un forte
impatto di suggestione. Questi due metodi sono, in definitiva, importantissimi, ancor più se integrati
nel modo più preciso possibile.
Altro concetto importante da conoscere è che l’educazione sanitaria si articola fondamentalmente
attraverso tre momenti: educazione restrittiva, partecipativa (educazione alla salute) e persuasiva
(health promotion)
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