Immigrati: favorire la loro partecipazione pubblica per dare una mano alla coesione sociale Edgar J. Serrano (*) Il 21° Dossier statistico sull’immigrazione rileva che gli stranieri presenti regolarmente nel territorio italiano siano quasi 5milioni, cioè, circa l’8% del totale della popolazione. Il dossier segnala, inoltre, che all’interno di questa presenza c’è ne un rilevante numero di minori (21,7%), di cui tantissimi nati in Italia (14%), anche se per il vigente quadro normativo in materia continuano ad essere trattati come stranieri. Sono i cosiddetti “italiani extracomunitari”; uno scandalo giuridico contro il quale è in corso una battaglia di dignità e di civiltà che chiede la modifica dell’attuale legge sulla cittadinanza. Mi riferisco all’iniziativa nazionale “L’Italia sono anch’io”. Una caratteristica della presenza degli immigrati stranieri in Italia è che si tratta di una presenza sostanzialmente economica che risponde a determinate esigenze del mercato interno del lavoro ma anche alla composizione demografica del paese. Questa presenza, senza dubbio, sta cambiando gradualmente la realtà sociale italiana. Eppure essa è tuttora oggetto di scarsa attenzione analitica; non si è ancora creata in questo paese un’estesa e condivisa consapevolezza circa l’inarrestabile processo che tale presenza ha messo in movimento. Questa mancanza è ancora più evidente nel dibattito pubblico. Occorre promuovere una seria riflessione pubblica sul tema del come il processo immigratorio sta cambiando la vita quotidiana degli italiani e la qualità stessa della convivenza. Finché continuerà a prevalere il “noi e loro” di cui spesso si sente dire; ambedue queste entità resteranno distanti sul piano relazionale e della discussione costruttiva e, quindi, senza alcuna possibilità di riflettere, insieme, su quel come di cui c’è tanto bisogno oggi per immaginare la più idonea convivenza pluriculturale. Per questo è importante promuovere il coinvolgimento e la partecipazione degli immigrati stranieri nella vita pubblica. La partecipazione è uno strumento che favorisce la responsabilizzazione soggettiva; essa impegna gli immigrati alla crescita civile, sociale e culturale della comunità in cui risiedono. Lo confermano le esperienze delle diverse Consulte o dei Consigli delle Comunità Straniere, sparse sul territorio nazionale, o la figura del Consigliere aggiunto, attivata in alcune province e in tantissimi comuni. Queste esperienze –veri e importanti esempi di esercitazione alla cittadinanza- dimostrano che, nella misura in cui gli immigrati sono seriamente coinvolti nella vita locale, essi cominciano a conoscere, a rispettare e ad apprezzare le regole virtuose della convivenza. Ma iniziano anche a dare il loro contributo alla stesura di altre e nuove regole che poi dovranno seguire. Le esperienze di partecipazione attiva e responsabile degli immigrati vanno, quindi, allargate. Di fronte alla resistenza culturale contro il protagonismo e la partecipazione degli immigrati stranieri, abbiamo il dovere di contrapporre iniziative virtuose che puntino ad ampliare il loro coinvolgimento nelle istituzioni e nella vita comunitaria. Abbiamo il compito di promuovere e sostenere la loro partecipazione non soltanto nelle situazioni che li riguardano direttamente, ma anche in quelle più generali della comunità dove risiedono. Mi oppongo con forza al luogo comune secondo cui, gli immigrati stranieri debbano essere presi in considerazione soltanto quando si discutono argomenti riguardanti la loro condizione di stranieri. Ciò di cui tutti dobbiamo renderci conto è che, se in una determinata comunità non sono garantiti determinati servizi, anche gli stranieri residenti ne subiscono le conseguenze; se il caro-vita colpisce le tasche degli italiani, anche le tasche degli immigrati ne sono colpite; se la criminalità diffusa aumenta, anche i beni e le proprietà degli immigrati onesti rischiano; se l’inquinamento delle città rende difficile la vita degli italiani, anche la vita degli immigrati stranieri è resa difficile. Se le cose stanno così, che senso ha lasciare fuori gli immigrati dal dibattito pubblico sul presente e sul futuro delle comunità dove essi risiedono? Perché non coinvolgerli nel dibattito e nella ricerca delle soluzioni? Chi ha mai stabilito che gli immigrati residenti debbano parlare esclusivamente di questioni legate all’immigrazione straniera? Soltanto una certa incapacità culturale legata a una visione distorta e limitata dei diritti di cittadinanza può circoscrivere il protagonismo degli immigrati ai soli “problemi” legati al processo migratorio. Una tale incapacità culturale sta impedendo l’effettiva estensione dei diritti di cittadinanza agli immigrati, primo fra tutti il diritto di voto amministrativo. A questo riguardo, credo che valga la pena fare una veloce considerazione. Come si sa, sono diversi i paesi europei che, già oggi, garantiscono il diritto di voto agli immigrati residenti (comunitari e non comunitari). Danimarca, Olanda, Svezia, Irlanda e Spagna consentono agli immigrati residenti di votare alle elezioni comunali. In alcuni casi, tale diritto si estende anche alle elezioni provinciali e persino ai referendum consultivi. Il tempo di residenza necessario per esercitare tale diritto va da sei mesi (Irlanda) a tre anni (Danimarca e Svezia). L’Olanda, invece, ne richiede cinque anni. Ma, a che punto siamo in Italia sul tema? Qui ci troviamo arenati in un bizzarro dibattito circa la “giusta interpretazione” (sic!) da conferire alla nozione di cittadino: c’è che sostiene che la Costituzione italiana si riferisca ai cittadini, utilizzando il termine qualche volta in senso tecnico e restrittivo e, qualche altra volta, impiegandolo come sinonimo di “persona” o di “soggetto giuridico”. Nel primo caso, i cosiddetti “diritti connessi all’esercizio della sovranità”, sarebbero prerogativa esclusiva degli italiani stricto sensu e, quindi, non dovrebbero essere estesi agli immigrati stranieri. Nel secondo caso, invece, si riconosce che certi e fondamentali “diritti democratici” possono essere riconosciuti anche agli immigrati stranieri non comunitari. Personalmente resto della convinzione che, se a una persona è richiesto il rispetto dei doveri della cittadinanza, è chiaro che a ciò dovrebbe corrispondere, simultaneamente, l'attribuzione dei diritti di cittadinanza. Il voto amministrativo rappresenta sicuramente uno di questi fondamentali diritti (altri diritti da considerare sono quelli di avanzare petizione alle Camere e di partecipare ai referendum sulle materie degli enti locali). Tutti questi diritti -compresi i diritti alla partecipazione e alla rappresentanza- se riconosciuti agli immigrati, potrebbero rappresentare uno stimolo importante per un sano e costruttivo processo di convivenza che, tra le altre cose, consentirebbe di far ascoltare le loro voci nelle istituzioni locali. Insomma, essendo la città lo spazio collettivo per eccellenza per creare senso di appartenenza, i diritti di cittadinanza dovrebbero essere riconosciuti a tutte le persone che abitano quello spazio, indipendentemente dalla loro provenienza. (*) Università degli Studi di Padova - ([email protected])