CISL STUDI E RICERCHE NOTA CONGIUNTURALE 1/2002 5.1.2002 SINTESI DELLE TENDENZE CONGIUNTURALI.................................................................................................... 1 1. ECONOMIA ITALIANA ............................................................................................................................................... 1 2. ECONOMIA INTERNAZIONALE .................................................................................................................................. 3 TENDENZE CONGIUNTURALI ITALIANE ............................................................................................................ 10 PIL E CONTI ECONOMICI DEL III TRIMESTRE ....................................................................................................... 10 Conto economico delle risorse e degli impieghi ..................................................................................................... 11 PRODUZIONE INDUSTRIALE, FATTURATO, ORDINATIVI, FIDUCIA E VENDITE......................................................... 11 Indice della produzione industriale ......................................................................................................................... 12 Indici generali del fatturato e degli ordinativi dell’industria ................................................................................. 13 Indici del valore delle vendite del commercio fisso al dettaglio a prezzi correnti .................................................. 13 FORZE DI LAVORO: OCCUPAZIONE TOTALE; CONTRATTI NAZIONALI E RETRIBUZIONI CONTRATTUALI; ........ 14 GRANDI IMPRESE: OCCUPATI, RETRIBUZIONI, ORE LAVORATE E COSTO DEL LAVORO .................................. 14 Forze di lavoro per condizione e ripartizione geografica e occupati per settore di attività economica ................. 14 Indici generali delle retribuzioni contrattuali ......................................................................................................... 16 Indici degli occupati alle dipendenze nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi ......................................... 16 Indici delle ore effettivamente lavorate per dipendente nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi .............. 16 Incidenza ore straordinarie e indici ore di c.i.g. nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi ........................ 17 Indici delle retribuzioni e del costo del lavoro nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi ........................... 17 COMMERCIO ESTERO ................................................................................................................................................. 17 Esportazioni, importazioni e saldi della bilancia commerciale con i paesi extra UE, UE e in complesso ............. 18 PREZZI: CONSUMO E PRODUZIONE ........................................................................................................................... 18 Principali indici dei prezzi al consumo .................................................................................................................. 19 Indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali ....................................................................................... 19 MERCATI MONETARI E FINANZIARI .......................................................................................................................... 19 TENDENZE CONGIUNTURALI INTERNAZIONALI ............................................................................................ 20 EUROPA ....................................................................................................................................................................... 20 L’agenda dell’integrazione europea, 2002-2007 .................................................................................................... 22 STATI UNITI ................................................................................................................................................................. 23 GERMANIA ................................................................................................................................................................... 31 FRANCIA ...................................................................................................................................................................... 32 GRAN BRETAGNA ........................................................................................................................................................ 34 GIAPPONE .................................................................................................................................................................... 35 CALENDARIO 1/2002 ................................................................................................................................................... 37 INDICATORI ECONOMICI E FINANZIARI A CONFRONTO ............................................................................. 39 L’analisi elabora dati acquisiti fino al 4.1.2002 La sintesi di questa nota congiunturale è pubblicata su “Conquiste del lavoro” del 4.1.2002 0 Fonti: BANCA D’ITALIA/ CENSIS/ CER/ CONFCOMMERCIO/ CsC/ ENEL/ ICE/ IRS/ ISAE/ ISTAT/ PROMETEIA/ UIC/ BCE/ BLS/ EUROSTAT/ FED/ FMI/ IFO/ INSEE/ OCSE/ OIL/ ONS/ THE ECONOMIST (+ quelle in nota) SINTESI DELLE TENDENZE CONGIUNTURALI 1. Economia italiana La fase congiunturale dell’economia italiana ricalca le difficoltà sperimentate da tutte le economie dei paesi dell’euro e dagli Stati Uniti. L’attività produttiva, con i dati sulla produzione industriale di ottobre, è ormai chiaramente in affanno (-2,8% su un anno prima la produzione media giornaliera e -0,2 sul mese passato), né sembrano evidenziarsi possibilità a breve di rapido recupero, considerato l’ennesimo dato negativo che emerge dagli ordini alle imprese (-5,9 sull’ottobre 2000 e -0,1% sull’ultimo settembre). Notizie leggermente più confortanti provengono dalle vendite: il fatturato delle imprese, anche se sullo scorso settembre cala, in un mese soltanto, dell’1,3%, torna ad essere positivo almeno nel tendenziale (per quantità modesta: +0,8%, sull’ottobre 2000) e l’indice generale del valore delle vendite al dettaglio riporta in ottobre un incremento congiunturale (rispetto a settembre) dello 0,3%. E’ un incremento in valore, però, che quindi incorpora oltre alle variazioni di quantità anche quelle di prezzo. Il quadro degli indicatori di fiducia di imprese e famiglie sembra supportare questa previsione, con livelli che cominciano a muoversi, in particolare a dicembre, da quelli che ormai, sostanzialmente, sembrano essere stati i minimi del recente passato. Peggio vanno le cose nelle grandi imprese dell’industria ma anche dei servizi che riflettono, nei vari indicatori, non soltanto le dinamiche congiunturali di tutta l’economia – anzi, di tutte le economie – ma sono ancora ben dentro un processo di ristrutturazione protratto ormai da anni. La cui caratteristica precipua è quella di ridefinire il processo produttivo in funzione della domanda di lavoro e delle nuove tecnologie, con una costante riduzione di manodopera. Una dinamica, quella dell’occupazione nella grande impresa – che occupa in Italia, però, neanche il 20% del totale –, che è stata spesso in controtendenza con l’evoluzione del lavoro nella piccola e media durante l’ultimo anno. La grande industria, da settembre 2000 a settembre 2001, ha tagliato il 4,1% dei posti, mentre i servizi, nello stesso periodo, ne hanno persi per lo 0,2 (entrambi i dati al netto della c.i.g.): ma adesso le imprese di servizi continuano e continueranno a subire il colpo del dopo 11 settembre, per la limitazione del settore turistico. Le retribuzioni, tutto sommato, riescono ora – diciamo, nella media da gennaio a settembre 2001 – a tenere sull’inflazione (3% nell’industria e 4 nei servizi). Molto meglio, sul piano dei posti di lavoro creati, il quadro dell’occupazione in complesso. Dove, da gennaio a novembre, le retribuzioni per dipendente salgono in media del 2,3%. E dove, in ottobre e rispetto all’ottobre 2000 sale a 21.700.000 su una forza lavoro di quasi 24 milioni di persone. Cioè, col tasso di disoccupazione che passa dal 10 al 9,3%, restano 2.225.000 persone in cerca di occupazione (158.000 di meno). E’ l’effetto di una certa flessibilità governata, e non ad libitum. Ma rivela anche che ha funzionato molto meglio al Nord che al Sud, se la frattura del mercato del lavoro resta in sostanza sempre quella è: disoccupazione al 19% nel Sud, con punte sul 25% in Sicilia e Calabria, mentre al Nord è al 3,9%. Servono altri strumenti, qui: imprese che decidano di spostarsi (e vengano spinte a decidere di spostarsi) a Sud e una diversa politica fiscale per imporre la quale, sì – non per quisquilie – vale la pena, se è necessario, anche di litigare in Europa. Il quadro congiunturale, comunque, secondo diversi istituti di previsione che si spera non pecchino di ottimismo eccessivo, potrebbe presto mutare con una maggiore dinamica dei ritmi. Lo spartiacque, forse più che per gli effetti reali per la formulazione delle aspettative degli operatori 1 economici (decisive in questo campo), potrebbe essere nei risultati di dicembre. Econometro1, ad esempio, mostra un netto recupero per dicembre per tutti le voci che esprimono la fiducia e insieme costruiscono l’indice composito. L’elemento più interessante è proprio questo – l’omogeneità degli indicatori, tutti positivi – ed è quello che rende maggiormente attendibile la previsione. Meno rosee sono altre indagini, altrettanto se non più autorevoli, come quelle di diversi istituzioni internazionali o quelle del CsC che stimano per il prossimo anno una crescita modesta e inferiore a quella dell’anno in corso (1,3% contro l’1,8%). Dai dati consuntivi del III trimestre, la crescita italiana non sembra, comunque, inferiore a quella registrata dagli altri paesi europei. L’incremento del PIL è stato dello 0,2% rispetto al II trimestre e dell’1,9% in termini tendenziali (cioè, sul III trimestre del 2000): variazione di poco inferiore, quest’ultima, a quelle di Gran Bretagna (2,1) e Francia (2%) ma ben superiore alla crescita di Stati Uniti (0,8%) e Germania (0,3%) e, ovviamente, a quella del Giappone che è – che resta – negativa, a -0,5%. L’apporto che alla crescita del paese è venuto a mancare di più sono i consumi delle famiglie, rimasti stazionari, e gli investimenti, cresciuti solo dello 0,1% sul II trimestre ma diventati negativi, sempre per lo 0,1%, rispetto al III trimestre dell’anno scorso. Anche la domanda esterna ha mostrato i suoi limiti, con una variazione negativa delle esportazioni di beni e servizi pari a -3,6%. Rimane attivo, fortunatamente, il saldo corrente grazie soprattutto, però, alla caduta delle importazioni di beni e servizi (-2,7%): un indicatore indiretto ma significativo del rallentamento di domanda interna ed attività produttiva. In termini congiunturali, sempre attiva resta anche la bilancia corrente grazie all’ancora vivace flusso di esportazioni verso i paesi extra-Ue. Ma si fa palese l’effetto sulla bilancia commerciale sia della riduzione dell’interscambio per la congiuntura sfavorevole, sia del calo dei ritmi di crescita delle importazioni. La debole dinamica congiunturale si è riflessa, insieme alla flessione delle quotazioni del greggio, sulla dinamica dei prezzi che mostrano una decelerazione sostanziale nei listini industriali (questo novembre su questo ottobre, -0,3%; da novembre 2000 a novembre 2001, -1,3%; nei primi undici mesi del 2001 a confronto con gli stessi del 2000, invece, resta ancora un aumento medio dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali del 2,3%. Più lento ma continuo il ridimensionamento dei prezzi al consumo che l’ISTAT ha confermato in novembre al 2,4% (2,3% l’indice armonizzato) con un incremento mensile dello 0,2%, ma che già a dicembre – e secondo diversi analisti anche nei mesi immediatamente a venire – subisce una battuta d’arresto anche per effetto dell’euro. Altri analisti sono meno fiduciosi, però, un po’ per euroscetticismo acuto, un po’ – onestamente – per una preparazione tecnica all’evento che ha lasciato abbastanza a desiderare, soprattutto nei terminali finali delle operazioni di cambio e paventando – con qualche ragione, pensiamo – l’impulso selvaggio di quanti sono in grado di farlo ad aggiustare listini e parcelle all’insù approfittando del cambio. Questi osservatori prevedono, addirittura, in gennaio e febbraio qualche decimale di inflazione che sale… I mercati finanziari e monetari, fanno segnare una certa ripresa delle quotazioni, anche dei titoli tecnologici. Recuperato lo scivolone marcato del dopo 11 settembre, la perdita complessiva su un anno fa resta non lieve. Anzi, quella di Piazza Affari è la peggiore d’Europa, col MIBTEL a -25% (il NUMTEL, i titoli del nuovo mercato, ha addirittura dimezzato la propria capitalizzazione quest’anno), contro il -22 di Parigi, il -20 di Francoforte e Amsterdam, il -16 di Londra e il -7% di Madrid. 1 Indice combinato Il Sole 24 Ore-Radiocor-Datamedia. 2 Le cause di questo peggior risultato sono i difetti strutturali di sempre della Borsa italiana: la proprietà troppo concentrata, le blindature di patti di sindacato e scatole cinesi, il peso della mano pubblica, il poco flottante e, soprattutto, il listino rachitico. Il numero di società quotate è addirittura diminuito, da 297 a 294, nel 2001. Per tirar su operatori ed investitori si guarda alla “prossima” ripresa e ai “possibili” utili delle imprese, anche se non mancano cattive notizie dal fronte internazionale ed interno: ad esempio, la prospettiva di utili ben inferiori al previsto per la Nokia e il riassetto FIAT non molto gradito ai mercati. Ma sono le condizioni congiunturali americane, al solito, ma anche quelle tedesche ad aver determinato la dinamica di Piazza Affari che ha, in generale, seguito le variazioni del Dow Jones e del Nasdaq. In definitiva, dopo i brutti colpi dei mesi scorsi, le prospettive dei mercati finanziari sembrano migliorare – o comunque la maggior parte degli operatori le prevedono in qualche miglioramento: che, agli effetti pratici, nell’immediato è la stessa cosa – anche se, in prospettiva, una flessione sembra inevitabile per i bassi margini di crescita degli utili previsti in molti – quasi tutti – i settori nel corso del 2002. Quanto alle banche, va segnalato – e denunciato: nella speranza che, chi sa mai, serva a qualcosa – che, ad oltre un mese dall’ultimo taglio dei tassi operato dalla BCE lo scorso novembre, solo tre degli otto principali istituti di credito italiani avevano ridotto il prime rate (il tasso garantito anche solo alla miglior clientela, quella più ricca) del mezzo punto tagliato a Francoforte. Stando ai dati ufficiali dell’ABI2, l’associazione delle banche italiane, dall’inizio dell’anno fino al penultimo ritocco della BCE i tassi sono calati da noi della metà rispetto al taglio operato in Europa. Conti pubblici italiani sicuramente migliori di quelli tedeschi e francesi. Ma, a fine mese, doccia fredda della Corte dei Conti3 sugli equilibri finanziari annunciati dal ministro Tremonti. Non per il “buco”, di centro-sinistrica fama, che ha ereditato ma che è vicino ai tetti fissati – comunque, più di altri buchi deficit/PIL oggi in Europa – ma per la copertura “aleatoria”, che suscita “perplessità”, della creatura più cara al ministro, la Tremonti bis: che dovrebbe finanziarsi con l’aumento delle entrate creato dall’espansione creata dalla Tremonti bis stessa… Non arriva a chiamarlo un gioco delle tre carte, il presidente della Corte Staderini, ma poco ci manca: “la vicenda – dice – suscita impressione e non voglio usare aggettivi più forti”…Tremonti ha fatto rispondere, in buona sostanza, che la Corte non capisce niente. Che può essere vero ma occorrerebbe, anche, dimostrare nel caso specifico. 2. Economia internazionale La fase congiunturale è caratterizzata da una sostanziale stagnazione. Nel complesso, l’economia occidentale regredisce solo moderatamente – con l’eccezione del Giappone – ma i ritmi di crescita sono praticamente azzerati e il pericolo di recessione si fa, su molti fronti, concreto. Pesante, poi, l’effetto su mercati ed aspettative della recessione in Giappone – soffermarsi a lungo sulla quale, consolidata com’è, ormai diventa ripetitivo – e della crisi verticale dell’Argentina. Che, malgrado l’impatto assai forte per quel continente e, in particolare, per quel paese, probabilmente resterà contenuta in America latina, dato che il suo lento montare ha dato tempo agli investitori, specie stranieri, di portarsi via i capitali. Tanto che, se la cosa non fosse così seria e carica di dolore e di miseria per milioni di persone, sarebbe proprio il caso di parafrasare, rovesciandolo, il titolo della bella romanza di Madonna che idolizza Evita Peron: “non piangere per me, Argentina”... Piangi, invece, che ce n’è ben donde, per te stessa, Argentina. 2 3 Cfr., la Repubblica, 28.12.2001, Le banche snobbano la BCE, quasi fermi i tassi sui prestiti. Cfr., tutta la stampa del 29.12.2001. 3 L’Argentina, va anche riconosciuto e detto – e gli argentini, del resto, se ne sono accorti – non è la Turchia. Questo paese ha un debito pubblico di $115 miliardi, in rapporto all’economia ($410 miliardi di PIL) perfino maggiore di quello argentino ($450 miliardi) ed anch’esso è in conclamato fallimento economico e finanziario. La differenza, naturalmente, è che la Turchia è di importanza cruciale per gli americani e la NATO – l’unico paese islamico dell’alleanza (66 milioni di abitanti), geopoliticamente in mezzo al Medio Oriente e, anche, ai confini turbolenti dell’ex Unione Sovietica – e alla Turchia, quindi, non all’Argentina (37 milioni di persone, relegate laggiù in fondo al mondo), è probabile che il Fondo monetario – scommette chi scrive – se non preferirà farla ripartire da zero, dal fallimento che, però, per le ragioni elencate qui è più improbabile, finirà col garantire la ciambella finanziaria di salvataggio capace di indurre gli investitori privati a tirar fuori Ankara dalle peste. L’FMI, del resto, non è esente da colpe gravi nel fallimento argentino che per anni, contro ogni evidenza ed ogni prudenza, ha presentato al mondo come il migliore allievo, il più disciplinato e il più ossequiente della propria classe, fino a ritrovarselo adesso, all’improvviso, espulso dalla scuola. Ha detto al programma “Today” della BBC il portavoce del comitato dei creditori esteri dell’Argentina formato a New York, Hans Humes4, che “il Fondo monetario è stato decisivo nel fabbricare questo disastro”, col so modo di agire: prima concedendo nuovi crediti importanti e poi, due settimane fa, tagliando del tutto la linea di credito di $22 miliardi che era stata concessa al paese. In effetti, la crisi argentina è globale e complessa – finanziaria, economica e inevitabilmente politica – con le soluzioni prospettate su questi vari piani nel bel mezzo di quella che comincia a somigliare a un inizio di guerra civile, tutte assai poco appetibili e tutte gravide di cupi timori per l’umore degli operatori. Sono in ansia, a parte i poveracci che perdono ogni loro piccolo avere lì in Argentina, soprattutto ma non soltanto le banche americane che detengono fette consistenti del debito estero argentino. Perché gli espedienti di cui vanno disquisendo e che vanno sperimentando, a cavallo tra la tragedia e la farsa, finanzieri, esperti e politologi globali, politici e politicanti argentini somigliano, invece, da vicino a problemi ulteriori più che a soluzioni reali: • in campo finanziario si parla apertamente di default, dato adesso per quasi sicuro, con $132 miliardi di debito estero di cui il nuovo presidente dice – o lascia capire – che non sarà onorato il servizio. Perché non si può. Perché la dollarizzazione non è servita, anzi: quando nel ’97 il dollaro s’è esageratamente apprezzato, s’è parallelamente apprezzato il peso mettendo fuori mercato le esportazioni… Si è parlato di una nuova valuta, parallela a dollaro e peso, l’“argentino”, per esorcizzare nell’immediato la svalutazione, ma a prezzo con ogni probabilità di un’iperinflazione. E si chiacchiera di fluttuazione programmata (sic!) del peso, di convertibilità ampliata (legata al real brasiliano e anche all’euro...), di “pesificazione” dei conti in dollari... E di tanti altri marchingegni che, in realtà, significano solo – appunto – svalutazione del peso che si annuncia ormai almeno del 35-40%, ufficiale: che, cioè, sarà devastante ma non servirà affatto a un gran che, poi, alla lunga...; • in campo economico, dove si prospettano un moltiplicarsi accelerato di fallimenti, ormai senza alcuna rete di protezione, il crollo della produzione e delle esportazioni e l’impennata di una disoccupazione che è già assai elevata; • e nell’area politica, in cui dopo le dimissioni del presidente de la Rua e quelle, prima, del nuovo governo e, poi, dopo neanche una settimana, del nuovo presidente Rodriguez Saà, è il caos, letteralmente. Con cinque presidenti – alcuni durati mezz’ora – in pochissime settimane. si tenta ora di uscirne col populista-peronista Duhalde. 4 BBC, Today, 21.12.2001 (in http://news.bbc.co.uk/hi/english/business/newsid_1722001/1722935.stm) 4 Tutte dimissioni, o non accettazioni di incarico, naturalmente forzate dal crollo economico subitaneo – ma a lunga fermentazione – e dalla corruzione ambientale di sempre, dalla riproposizione al “popolo” di vecchi politicanti screditati capaci di innescare un processo di successione drammatica impelagatosi subito tra una maggioranza litigiosa ed ormai incapace di agire (quella coalizzata – si fa per dire – attorno a de la Rua) e la minoranza peronista di Saà e di Duhalde che fa fuori essa stessa il presidente appena acclamato sei giorni prima e si scanna nella ricerca del candidato buono per le elezioni vere. Che erano tra qualche mese e ora, con dubbia costituzionalità, vedono il mandato del nuovo presidente ad interim prolungato a due anni. A travolgere le vecchie classi dirigenti, e i pochi ininfluenti innovatori che si portavano dentro, è stata in primo luogo la paura – diffusa – della svalutazione in arrivo e quella – fondata – che, col nuovo arrischiato “argentino”, non si garantiscono affatto alla gente i pagamenti dovuti (stipendi, pensioni, risparmi in banca). L’errore finale è stato quello di limitare il diritto dei risparmiatori, privati e istituzionali, a ritirare i fondi che avevano in banca: a nessuno era consentito portarsi via più di $250 dollari a settimana. Una misura di per sé, in condizioni così disperate, diciamo pure spiegabile in Europa o negli Stati Uniti. Ma che, in un paese dove la stragrande maggioranza della popolazione non è mai entrata in una banca e, comunque, è estranea al sistema bancario – e in cui, tra parentesi, un risparmio di mille dollari è già un gruzzolo serio – la misura ha fatto scalpore, scandalo e provocato il disastro e la rivolta. Non tanto in sé, per le ragioni elencate5, quanto per la giustificazione che il ministro dell’Economia, il primo poi cacciato a furor di popolo, ha pensato bene di darne: che bisognava farlo per continuare a pagare gli interessi sul debito estero del paese. E’ seguita a ruota – ma la si doveva prevedere: sta nei manuali del primo anno di economia all’università... – una mancanza di liquidità acuta e la quasi istantanea cancellazione di un’economia informale che dava lavoro a milioni di argentini: il 40-50% del PIL. Così si è sfiorata, si sfiora ancora, la guerra civile, E si va innervosendo pericolosamente un esercito già di per sé insofferente, che appena fiuta tradizionalmente odore – in realtà puzza spesso – di divisioni nella società e nella politica mostra di sopportare con grande difficoltà quelli che il capo di Stato maggiore della Marina con espressione piuttosto rivelatrice una volta ha sprezzantemente (ma – in quel momento – anche con qualche rassegnazione) chiamato “i riti pur necessari della democrazia”… Globalmente parlando, però, e tutto considerato, a livello dell’economia globalizzata nel suo complesso, “il peggio – è questa la valutazione cautamente ottimista di un acuto osservatore professionale – potrebbe essere passato per l’economia mondiale, anche se un ritorno all’esilarante performance dell’ultimo quinquennio sembra fuori questione6”. Il Fondo monetario, però, non sembra tanto d’accordo. Predice che nel 2002 l’economia mondiale sfiorerà pericolosamente una recessione globale e sostiene che “c’è anche una significativa possibilità che le cose vadano ancora peggio7”. E’ la sincronicità delle crisi, garantita dalla globalizzazione, in tutto il mondo e ormai senza più alcuna locomotiva – dice – a garantirla. L’OCSE attesta, comunque ed intanto, che nel terzo trimestre del 2001 la crescita dei 30 paesi associati – i più sviluppati del mondo – è stata pari allo 0%: crescita nulla, perciò, come già nel secondo trimestre. Non è proprio recessione per il blocco dei paesi OCSE, perché secondo la 5 Anche se particolarmente maligna, e peraltro fondata, è sembrata la pubblicità della Volkswagen nei quotidiani con lo slogan “per lo meno, se mettete i vostri soldi in garage invece che i n banca, potete sempre portarveli via”... 6 John Llewellyn (“capo economista globale”, è il suo titolo ufficiale) della Lehman Brothers, prefaziona così il ponderoso Global Economics Webcast-Outlook 2002–– Prospettive economiche globali 2002. 7 Cfr., Chicago Tribune, W. Neikirk, 19.12.2001, IMF Warns of Worldwide Recession– or “Worse”–– Il Fondo monetario internazionale ammonisce di una recessione a scala mondiale– o peggio. 5 convenzione ufficiale la certificano solo due trimestri consecutivi di calo di crescita e formalmente – anche se sostanzialmente siamo lì – non basta a farla registrare un +0% di crescita per sei mesi di seguito. Ma, rispetto al terzo trimestre del 2000, il PIL dei 30 in questo terzo trimestre s’è ridotto, su base annua, dall’1,2 allo 0,8%, il risultato peggiore dal ’95. In termini congiunturali, rispetto cioè al secondo trimestre che lo ha preceduto, quattro tra i G-7 – la crème de la crème dell’OCSE – hanno accusato tassi negativi: Giappone, -0,5% (dopo il -1,2 del secondo trimestre: dunque, due trimestri di calo secco e recessione ormai conclamata); USA, dall’1,2% medio annuo della crescita ancora nel secondo trimestre a -0,6% (in realtà, poi, corretto ad una perdita molto più secca); Canada, -0,2; e Germania, -0,1%. Gli altri tre sono cresciuti, più o meno moderatamente: Francia e Gran Bretagna col +0,5% e l’Italia al +0,2. E la zona euro, nel complesso, è riuscita a crescere dello 0,1%. I 12 paesi dell’euro passano nel trimestre, sempre su base annua, da un +1,7% ad un più rimpicciolito +1,3%. Preoccupanti dunque, nello specifico di alcuni grandi paesi, le variazioni negative trimestrali di crescita del PIL che, anche dove continua a salire, lo fa a ritmi che tendono ad affievolirsi evidenziando effetti peggiorativi sul mercato del lavoro. L’occupazione tende a diminuire, in maniera più consistente che altrove, negli Stati Uniti, in Giappone e in Germania, con problemi che si manifestano, però, anche in Francia, in Gran Bretagna – cioè dove le componenti della domanda, ed in particolare i consumi, mostrano a tutt’oggi segnali di una certa vivacità – e, ma per il momento un po’ meno, anche in Italia. Qualche barlume di luce negli USA, tra molte incertezze–– e molti dati tra loro in netta contraddizione: che, pure, sono gli unici indizi utili forse, se ben interpretati, a scandagliare il futuro. Qui il recupero della domanda – forse, per il momento, ancora più atteso che realizzato, però incipiente – ha prosciugato molte scorte accumulate nei magazzini (per un record di 61,9 miliardi di dollari nei tre mesi finiti a settembre) e può – può… – dunque, già a breve-medio termine – forse nel 2002, forse alla fine del primo semestre… – far ripartire la produzione. E il superindice di dicembre che calcola la fiducia dei consumatori pare aver superato il dato di novembre di quasi 9 punti, ben al di sopra delle aspettative anche se, poco più di un anno fa, era superiore di ben il 40%. Ma segnala più che altro un’intenzione – o una speranza, verosimilmente anche fondata – che il peggio si avvii a passare, visto che, nello stesso periodo, le spese effettivamente realizzate scendono, per il Dipartimento del Commercio, dello 0,7%; che a metà dicembre arrivano gran brutte notizie di calo record, il peggiore da nove anni a questa parte, delle vendite al dettaglio in novembre (-3,7%, con punte dell’11% per l’auto, dopo il boom a credito di ottobre); che gli investimenti in nuovi impianti ed equipaggiamenti sono crollati dell’8,5%; e che a frenare più di ogni altro l’economia è proprio il mondo degli affari. D’altra parte, le ultime statistiche del Dipartimento del Commercio sui margini di profitto li danno – al netto delle tasse – giù del 6,8% nel terzo trimestre. Così come viene rivista ora al ribasso, dallo stesso ministero ed ufficialmente8, la contrazione del PIL che, nel terzo trimestre, va giù in realtà dell’1,3%. Diminuiscono le richieste di sussidio alla disoccupazione, ma in un’escalation che continua (a novembre, tasso al 5,7%) e che non registra ufficialmente se non parte dei senza lavoro, quelli che rientrano nei canoni rigorosi del computo statistico. 8 Tutti i dati citati hanno per fonte il Dipartimento del Commercio e sono stati diffusi dalla Reuters, 21.12.2001, GDP Decline Sharper Than Thought–– Il calo del PIL è più netto di quanto si pensasse. 6 In sintesi sembra però legittimo dire che, economicamente parlando, il momento peggiore per la fiducia della gente – quello che con l’ansia e la preoccupazione per il futuro è sembrato per qualche settimana effettivamente paralizzare l’America, forse con ottobre e l’inizio di novembre è passato. Più incerta, ancora più incerta, la situazione nell’area euro alla vigilia dell’introduzione della moneta unica, con la Germania soprattutto in frenata drastica e, dunque, la più grande economia della zona UEM che non solo non tira più ma frena tutto. Proprio come frena tutto la fase congiunturale prolungata di rallentamento in America che contrae le esportazioni europee un po’ dovunque. E’ questa, in effetti, la motivazione principale – il calo accentuato delle esportazioni – con cui la Banca centrale europea, a metà dicembre9, ha confermato all’1,7%10 il ritocco al ribasso delle previsioni di crescita della zona euro nel 2002 dalla stima di giugno, che la collocava tra il 2,1 e il 3,1%. Nel 2003, dice ora la previsione ufficiale, per l’insieme dell’area la crescita andrà dal 2 al 3%––– che, in verità, non rassicura granché considerando che, poi, le correzioni sono costretti sempre, o quasi, a farle in ribasso. In questo scenario di stagnazione, continua a raffreddarsi l’inflazione nell’area UEM. Secondo i dati dell’Eurostat, i prezzi in novembre dovrebbero attestarsi intorno al 2,1% di media annua contro il 2,4% di ottobre, e le prospettive in proposito sono favorevoli ad una più marcata decelerazione. Prezzi in calo anche negli USA e in Giappone, paese questo nel quale da molto tempo il tasso di inflazione è negativo e il problema vero è la deflazione, accompagnata da recessione e depressione di tutta l’economia.. Nella zona euro, gli indicatori e i superindici relativi alla fiducia di imprese e famiglie presentano, complessivamente, rallentamenti marcati, contraddetti qua e là anche da qualche promettente rialzo improvviso. E, a fronte della decelerazione dell’attività produttiva, si consolidano i segnali di problemi montanti per gli equilibri fiscali – i bilanci e la futura parità di bilancio – di molti paesi (i più grossi ed anche economicamente più rilevanti) che hanno indotto molti studiosi e politici a chiedere di “ridiscutere” il patto di stabilità. Particolare di peso è che siano proprio i conti pubblici della Germania i più in sofferenza e sotto osservazione da parte della Banca centrale europea. Secondo la Commissione europea – e non solo – il rapporto deficit/PIL tedesco è il più lontano dai parametri programmati e dovrebbe essere del 2,5% nel 2001 e del 2,7% nel 2002. Con uno “squilibrio” fiscale amplificato dal rallentamento della crescita, dalle minori entrate ad esso conseguenti, dalla disoccupazione montante e dai sussidi necessari a far fronte, in qualche modo, al problema. Le borse, un po’ tutte, sembrano aver smaltito l’effetto 11 di settembre11 e riprendono un percorso positivo. Ma resta tutta la consueta volatilità e restano – soprattutto in America – gli squilibri ormai strutturali fra costi dei titoli e loro rendimento annuale (un rapporto sempre sul 20 a 1 e più del 5060% di sovraccosto rispetto alla media storica). Nel secondo round delle sue previsioni annuali, reso pubblico il 13.12.2001 nell’ultimo Bollettino mensile pubblicato prima dell’introduzione dell’euro. 10 Cfr. l’anticipazione nella precedente Nota congiunturale 12-2001, p. 4. 11 Ma, scrive l’agenzia Reuters il 19.12.2001 (E. Kirschbaum, German Experts Press for Truth of Pre-911 Stock Activity— Esperti tedeschi cercano la verità su attività di borsa pre-11 settembre), un’inchiesta condotta in Germania dalla Convar, impresa specializzata capace di recuperare dati informatici anche dai files o dagli hard disks più danneggiati – come quelli che andarono distrutti o sepolti dalle tonnellate di finissime polveri grasse sviluppate nell’incendio delle Torri gemelle – sta scoprendo che proprio nei minuti dell’attacco passarono per quei computers 100 milioni di dollari di transazioni. Quantità, in così pochi minuti, niente affatto usuale, tutte proprietà trasferite all’istante ma accreditate su carte di credito cui, con la distruzione delle memorie elettroniche, non sarebbero mai state imputate... La Convar conclude tentatively, provvisoriamente, che qui gatta per lo meno ci cova... 9 7 Ragioni tecniche (pagamenti di impegni assunti in passato, “riporti”, ecc.), insieme ad una serie di fusioni e di acquisizioni ma anche di fallimenti che hanno investito diversi settori, e la ripresa in alcuni comparti tecnologici hanno alimentato le contrattazioni: sempre molto sensibili – ipersensibili – comunque, ai dati congiunturali provenienti soprattutto dagli USA e dalla Germania. Una volta tanto – o se volete, per altro verso, per l’ennesima volta – ma sotto il capitolo internazionale perché il tema riguarda davvero un po’ tutti, parliamo un po’ di pensioni e dei loro problemi. Infatti, si diffonde – anche perché in tanti si adoperano assiduamente a diffonderla – la psicosi che, con una popolazione portata, grazie a Dio, a campare un po’ dovunque di più, i sistemi di sicurezza sociale – da noi, in Europa, in America, in Giappone – non saranno in grado di pagare le pensioni ai beneficiari. E’ l’argomento di fondo degli appelli lanciati dovunque – anche in America – alla riforma, ovviamente in senso più “rigoroso” delle pensioni – che, tradotto, vuol dire abbassarle e spostarne finanziamento ed amministrazione sempre più dallo Stato ai privati. Nel caso degli Stati Uniti d’America, il lavoro della Commissione bipartitica messa in piedi da Bush è “finito in farsa”, scrive il notissimo economista di Princeton, Paul Krugman12: perché, conclude, “privatizzare la sicurezza sociale – questo era il risultato che Bush voleva – l’avrebbe rafforzata di certo: se la mossa fosse stata accompagnata da tagli severi delle rendite pensionistiche e dal contributo finanziario ingente proveniente da fonti esterne ma non specificate. Sì, è mangiare una ciambella alla marmellata ogni mattina aiuta a dimagrire: se si tagliano però drasticamente tutti gli altri alimenti e si fa un mucchio d’esercizio fisico. Non siete contenti anche voi che l’assurdità della proposta di Bush sia venuta alla luce prima che 1.000 miliardi di dollari venissero stornati su fondi privati?”. Nel nostro caso, sarebbe la quarta riforma in dieci anni: riforme che poi, non date retta, sono state strutturali perché hanno stabilmente cambiato parametri e condizioni di finanziamento e di godimento. Dicono, però, non abbastanza: per l’invecchiamento, il costo, ecc., ecc. Cose tutte vere, presumendo come verità rivelata, però, che un paese non sia più disponibile – come sempre e ripetutamente, in passato, in ogni decennio del dopoguerra – ad alzare le tasse per pagare le pensioni a chi, poi, adesso ne usufruisce più a lungo. Ma, dato che produttività e salari, con rare eccezioni, sono aumentati e continuano ancora ad aumentare – più velocemente…, di meno…, ma comunque… – è questa la strada maestra del finanziamento di un’esigenza che cresce: si possono anche aumentare le tasse per garantire ai propri anziani e, domani, a noi stessi condizioni di vita decenti. Basta non sacrificare tenuta e ragionevole miglioramento del tenore di vita aumentando le tasse un po’ meno degli aumenti di produttività e di salario: cioè, basta fare quel che è stato fatto finora dalle generazioni che, fino alla nostra, hanno migliorato il loro tenore di vita pur riuscendo a incrementare la fetta di PIL destinata a finanziare le pensioni. Il che non significa affatto, sia chiaro, che non c’è da ritoccare nulla sulle pensioni: in Italia, come in Giappone o in America. Significa solo che l’urgenza su questo tema è più ideologica che contabile e, in ogni caso, più legata a una scelta politica piuttosto che a un’altra: tassare e tenere o non tassare e sforbiciare? mandare un po’ di aumento di produttività (che c’è sempre) alle pensioni e, magari un po’ meno, al lavoro ma – soprattutto: vista la tendenza sperequata di questi ultimi anni – al capitale e al profitto? Un rapido excursus sulle principali valute, rileva come il dollaro, in termini di valore rapportato al potere d’acquisto, sembri destinato a reggere all’impatto della crisi economica di tutti e di tutto New York Times, 28.12.2001, P. Krugman, Could’ve Been Worse–– Avrebbe anche potuto andar peggio, [il 2001…]: un editoriale che sintetizza il giudizio dell’economista americano sui grandi fatti economici dell’anno. 12 8 meglio delle altre valute. La ragione di fondo è che i mercati vogliono verificare il funzionamento dell’euro, prima di dargli maggiore fiducia e, in secondo luogo – perché in fondo poi è il breve termine che a loro interessa – che, poi, gli investitori credono di più alle prospettive di crescita e di produttività a lungo termine dell’economia americana che di quella europea. In fondo, al contrario di dieci anni fa, oggi nessuno in America invidia la performance strettamente economica (quella sociale e quella del vivere meglio è, forse, altra cosa) di europei e giapponesi. E, certo, può essere benissimo – la teoria dei cicli, dopotutto, è anche sperimentazione provata – che fra dieci anni… Ma adesso… Si sa che il dollaro è sopravvalutato… ma in America sanno anche che il suo vigore ispira fiducia a un’economia che di boccate d’aria ha bisogno, come ispira fiducia la mossa della Fed che ha ancora abbassato i tassi dello 0,25%. Ormai, però, negli Stati Uniti l’aggiustamento al ribasso, durato quasi un anno, sembra arrivare alla fine. I fondamentali che supportano la sterlina restano sempre i migliori tra quelli di tutti i G-7. Questo, e anche la tradizione finanziaria della City, facilita l’afflusso di capitali e, nell’immediato, ancor più che sull’euro qui arriveranno quelli che lasceranno a breve l’America rafforzando ancora di più la sterlina. Lo yen s’è ancora deprezzato sul dollaro, fino a una parità di 132 per ogni biglietto verde: lo score peggiore da quattordici anni. Ha pesato il diluvio di dati cattivi che annuncia l’approfondirsi della crisi così come le continue voci su “raccomandazioni” insistenti del governo alla Banca centrale di acquistare buoni del Tesoro stranieri. Non va perso di vista, cioè, che almeno in parte questo deprezzamento è il risultato di scelte deliberate (da parte del governo, almeno) e tese a rendere più competitive le merci giapponesi sui mercati mondiali. Infine, l’euro che, come abbiamo visto, resta penalizzato nel ragguaglio col dollaro ma che nelle ultime settimane e con l’avvicinarsi della novità 1° gennaio, sta recuperando qualche posizione. Il problema – è la legge o, comunque, la consuetudine economica del contrappasso – è che questo apprezzamento incipiente colpirà ancora di più, proprio in questo momento, un export che langue. Comunque, alla data prevista, anche se con una bella dose di confusione dovunque ed incertezze sulle ricadute collaterali che potrebbero esacerbare a breve gli attuali problemi economici – ma, tutto sommato, in maniera che i mercati hanno valutato liscia e, dunque, positiva – si apre la scommessa-opportunità che tende ad unificare l’Europa un poco di più a partire dalla moneta. Scommessa difficile e senza precedenti nella storia dell’uomo (prima la moneta e poi lo Stato, o un insieme coeso di Stati). Ma scommessa obbligata per contare qualcosa nel mondo globalizzato che abbiamo. Che, per durare e fiorire, dipende però ormai dall’unificazione, o almeno dall’armonizzazione accelerata, di tante altre dimensioni del vivere insieme: un’economia, una società e una politica anch’esse più comuni. L’America – del resto, e questa per alcuni è quasi la prova del nove – è molto, molto euroscettica13. Uno studio specialistico al quale gli addetti ai lavori attribuiscono grande valore 14 preconizza che il 2002 vedrà un mercato del greggio “volatile”; ma volatile, poi, a ben vedere per modo di dire Qui, l’elenco delle fonti sarebbe davvero assai lungo: quasi tutti i grandi quotidiani, i guru, gli accademici ed i politici americani giurano che l’euro düra minga, che non può durare. Speriamo solo, seriamente, che non lo dicano perché l’Europa, facendo l’euro prima di far l’economia e la politica, sta sfidando la storia e la scommessa – è vero, come abbiamo accennato – se non si accelera il passo dell’integrazione è difficile. Speriamo che lo dicano a mo’ di scongiuro, perché hanno, diciamo, qualche fondato e calcolato timore che, se l’euro va, il dollaro si sgonfia un po’… 14 Della Cambridge Energy Research Associates: ne riferisce l’Associated Press, il 13.12.2001, Study Predicts Volatile Oil Market–– Uno studio prevede un marcato petrolifero volatile [“prevede” suona un po’ meglio che “predice” no?, anche se significa proprio lo stesso]. 13 9 perché in media, probabilmente, dice che scenderà di $6 al barile sotto la media dei prezzi del 2001. Quando, in febbraio, un barile si vendeva a$30 e a dicembre era sceso sotto i 20. Ora, la convinzione è che la chiave di una maggiore stabilizzazione dei prezzi a livelli di perdita per i produttori possibilmente minore stia nel successo del tentativo perseguito dall’OPEC di convincere i maggiori produttori che all’organizzazione non sono associati (Russia, Messico, Norvegia) a tagliare la propria produzione. Cioè, la soluzione negoziata di ridurre la produzione per tener su i prezzi. La Russia s’è impegnata a farlo. Ma, almeno in un primo momento, non dei 500 mila barili richiesti dall’OPEC – che a fronte di questa riduzione si obbligava a ridurre la sua, quotidiana, di un altro milione e mezzo di barili –, solo di 150 mila ogni giorno–– e in un periodo nel quale finora l’aveva tagliata di tanto sempre e comunque. Poi, in un secondo tempo, pare essersi convinta (con gli altri produttori non OPEC: Messico, Norvegia, Oman, Angola) ad avvicinarsi alla riduzione auspicata dall’OPEC, tra tutti cioè 462 mila barili di meno al giorno (primo effetto dell’effetto annuncio: subito, $2 in più al barile). Se l’impegno verrà ora onorato da tutti i sottoscrittori – valido per sei mesi, vincola tutti i produttori, OPEC e non, a ridurre di 2 milioni di barili al giorno la produzione dal 1° gennaio 2002, con possibile revisione se il costo del greggio supererà “stabilmente” (già… che vuol dire?) i $28 al barile – la conseguenza è chiara: con un’offerta resa insieme più scarsa di 2 milioni di barili al giorno, dice il rapporto, la guerra non sarebbe più tra offerenti che si fanno concorrenza tra loro ma tutta un’altra faccenda: “sarebbe una guerra dell’offerta contro la domanda15”. E, in una mossa ormai data per scontata, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere il linkage, il collegamento, che avevano mantenuto per anni tra rispetto dei diritti umani e apertura commerciale alla Cina. Pechino ha reagito seccamente: “Bush ha fatto solo quel che doveva”, ha detto un portavoce del ministero del Commercio estero e della Cooperazione economica16. E, in fondo, gli USA hanno semplicemente rimosso un’incongruenza che si faceva palese: perché diventava per lo meno un po’ strano difendere a spada tratta alleati e clienti che, talvolta, esibiscono un livello di rispetto dei diritti umani realmente abominevole (Arabia Saudita, Pakistan, ecc., ecc.) e, poi, negare alla Cina uno status commerciale pari a quello da quei paesi “goduto” in nome dei diritti umani violati. Che lo sono, senza ombra di dubbio. Ma non solo lì. E poi la Cina non è forse essa stessa, ormai, un paese – quasi – alleato? TENDENZE CONGIUNTURALI ITALIANE PIL e Conti economici del III trimestre Il PIL del 2001, secondo la gran parte degli osservatori e, in particolare, la SVIMEZ (l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), si attesterà all’1,8% e, nel 2002, la crescita calerà all’1,5. Nel Sud, peraltro, quest’anno il Pil aumenterà leggermente di più della media, cioè dell’1,9% predice. Ma, a temperare eccessivi entusiasmi, fa subito notare che, l’anno prossimo, invece crescerà un po’ di meno della media (1,4%). Resta la previsione che se, però, Intanto, al 5 1.2002, secondo l’Indicatore delle materie prime, stilato regolarmente dall’Economist, il costo del barile è sceso del 25% in un anno. E quello medio in dollari di tutte le materie prime, sempre nel corso degli ultimi dodici mesi, è sceso anch’esso del 10%. 16 All’Associated Press, 28.12.2001, US Ends Trade–Rights Link in China–– Gli USA mettono fine al collegamento tra commercio e diritti umani in Cina. 15 10 riuscirà a decollare un piano di interventi strutturali serio – nella finanziaria però non c’è quasi niente… – lo sviluppo del Sud sarebbe sicuramente molto più impetuoso. Nell’analisi dei dati relativi al conto economico trimestrale del paese relativo al III trimestre dell’anno, bisogna tenere conto, per una più corretta valutazione soprattutto dei dati di crescita del PIL, che nel periodo luglio-settembre si sono contate due giornate lavorative in più rispetto al III trimestre del 2000. Nel periodo da gennaio a settembre 2001, il PIL dell’Italia è cresciuto del 2,2% rispetto al corrispondenti nove mesi del 2000 (dato da valutare, però, anche alla luce dei due giorni lavorati in più sopra accennati) e dell’1,9% solo nel III trimestre dell’anno a confronto con lo stesso del 2000. In questo III trimestre, poi, confrontato a quello precedente – il II del 2001 –, la crescita del PIL in Italia ha registrato un + 0,2%. Il PIL degli altri maggiori paesi che rientrano nei confronti abituali registra i dati seguenti— con correzioni dei giorni lavorativi aggiustate a quelli effettivi in ogni paese; nel primo dato (quello congiunturale) relativo al secondo trimestre rispetto a quello precedente; e, nel secondo dato qui tra parentesi (il tendenziale) rispetto al secondo trimestre del 2000). E’ • calato dello 0,5% in Giappone (stesso -0,5 anche nel tendenziale, cioè sul III trimestre del 2000); • calato negli Usa dello 0,1% (e cresciuto dello 0,8% nel tendenziale); • calato dello 0,1 anche in Germania (e cresciuto appena dello 0,3% nel tendenziale) • aumentato in termini congiunturali dello 0,5% in Francia e in Gran Bretagna (e, rispettivamente, del 2% e del 2,1% nel dato tendenziale). Conto economico delle risorse e degli impieghi Dati destagionalizzati (miliardi di lire ai prezzi del 1995) AGGREGATI SEC95 III trimestre 2001 MILIARDI DI LIRE VARIAZIONI % 1995 III trim. '01 III trim. '01 Su Su II trim. '01 III trim. '00 1,9 -2,9 Prodotto interno lordo 500.216 Importazioni di beni e servizi f.o.b. 138.731 Consumi finali nazionali 385.602 0,2 Su -2,7 I trim. 0,0’99 - spesa delle famiglie residenti 298.914 0,0 0,9 86.688 0,1 0,6 - spesa della P.A. e ISP Investimenti fissi lordi 0,9 101.376 0,1 -0,1 - macch., attr. e prod. Vari 48.995 0,5 -0,6 - mezzi di trasporto 10.974 -0,7 -6,2 - costruzioni Variazione delle scorte e oggetti di valore 41.407 3.238 Esportazioni di beni e servizi f.o.b. 148.730 -0,2 2,2 - - -3,6 -3,3 Produzione industriale, Fatturato, Ordinativi, Fiducia e Vendite Sulla produzione industriale del mese di ottobre, i dati elaborati sulla base degli elementi finora disponibili dicono che l’indice è aumentato dello 0,8% rispetto all’ottobre del 2000 e che anche nei 10 mesi gennaio-ottobre 2001 l’indice è salito, di un modestissimo 0,2%, rispetto al corrispondente periodo del 2000. Confindustria ha subito reiterato – non da sola, certo, ma in buonissima 11 compagnia altolocata: Fondo monetario, Bruxelles, maggioranza, un bel pezzo di minoranza e accademici vari… – che ci vogliono le “riforme strutturali”17. Questa scarsa dinamicità di risultati registrati negli ultimi mesi dovrebbe essere confermata anche nei prossimi: le analisi congiunturali rapide mostrano tutte che una ripresa dell’attività produttiva non dovrebbe iniziare – e, poi, forse… – solo a fine del primo trimestre del 2002. E anche per il mese di novembre, l’ISAE stima una crescita su quello dell’anno scorso come quella registrata ad ottobre: +0,8%. Però, e questi sono i dati che meglio fotografano la situazione attuale di difficoltà, ad ottobre la produzione media giornaliera ha registrato una diminuzione tendenziale (cioè, sull’ottobre dell’anno scorso) del 2,8%: e, ciò, malgrado una giornata lavorativa di più, 23 contro le 22 dell’ottobre 2000. Cala anche l’indice di produzione destagionalizzato: in un mese, tra settembre ed ottobre, -0,2%: a testimonianza del trend discendente che caratterizza un po’ tutto il settore industriale. L’analisi per destinazione economica del dato grezzo tendenziale mostra un incremento della produzione di beni di consumo del 4,5%, insieme ad un aumento dell’indice della produzione dei beni di investimento dell’1,8%, mentre cala la produzione di beni intermedi, dello 0,9%. In realtà, mascherato com’è dall’effetto calendario, l’incremento reale dell’attività produttiva è più consistente. In termini congiunturali invece – rispetto al mese precedente – la produzione dei beni di consumo rimane dov’era (+0,4%) mentre si riduce nel comparto dei beni di investimento (-0,3%) e nei beni intermedi (-0,4%). Nonostante il trend discendente ancora diversi settori riportano segni positivi rilevanti. E’ il caso di tessile e abbigliamento, della lavorazione di minerali non metalliferi degli alimentari e della carta. Indice della produzione industriale (base 1995=100)(a) Ottobre 2001 INDICI VARIAZIONI % Ott 2001 Ott 2001 Ott 2000 Ott 2001 Set 2001 Gen-Ott 2001 200020002000 Gen-Ott Produzione industriale 119,0 +0,8 - +0,2 Produzione industriale media giornaliera 109,8 -2,8 - 0,0 Produzione industriale: dati destagionalizzati 106,5 - -0,2 - (a) Industria in senso stretto, con esclusione delle costruzioni Sempre nel mese di ottobre, e sulla base degli elementi finora disponibili, l’indice del fatturato dell’industria, calcolato sul valore delle vendite espresse a prezzi correnti, è leggermente aumentato, dello 0,8% rispetto al corrispondente mese dell'anno precedente: risultato combinato dell’aumento di fatturato dell’1,8% sul mercato interno e della diminuzione dell’1,5% su quello estero. Sul mese “Per rendere le imprese capaci di competere e combattere al meglio”, naturalmente. E’, testuale, Antonio D’Amato, presidente di Confindustria su Il Sole 24 Ore, 15.12.2001. Come se solo tagliando pensioni e contenendo retribuzioni – è a questo che pensa quando recita la giaculatoria delle “riforme strutturali” – le imprese potessero cercare di rilanciarsi: neanche una parola su investimenti, ricerca e sviluppo e, anche, flessibilità, certo. Ma contrattata. E, a proposito di riforme strutturali, che dire della replica del Tesoro all’osservazione della Ragioneria dello Stato che alla delega sulle pensioni “manca la copertura”? La risposta (anche questa testuale, riportata sui Il Sole 24 ore del 27.12.2001) dice come sia “stato previsto che di volta in volta, con la definizione dei decreti attuativi, si farà una verifica degli oneri e nel caso emergano problemi di copertura il Tesoro provvederà con la Finanziaria”. Benissimo. Una soluzione empirica e, del resto, non nuova. Ma, di grazia, cosa ha ma, di strutturale, questo “di volta in volta”? 17 12 precedente la diminuzione del fatturato era stata dell’1,3%. Particolarmente positivi i dati di vendita di beni di consumo e di investimento, mentre denunciano una flessione i beni intermedi. L’indice degli ordinativi, sempre in ottobre, ha fatto registrare invece una diminuzione tendenziale, -5,9%, assai forte e per l’ottavo mese consecutivo: sul mercato interno, -5,1%, e da quelli esteri, 7,1%. Sul settembre 2001, in un mese, il calo è stato contenuto, lo 0,1%, con un -0,8 dal mercato interno compensato dal +1,1% registrato su quello estero. Nel mese di ottobre 2001 gli indici generali destagionalizzati del fatturato e degli ordinativi sono entrambi diminuiti su settembre: rispettivamente dell’1,3 % e dello 0,1% e, nei primi dieci mesi del 2001 del 2,7% rispetto allo stesso epriodo del 2000. Sono risultati che andranno ad incidere necessariamente sull’attività produttiva dell’economia nei mesi futuri ma riconfermano solo la fase congiunturale negativa attraversata da molti settori produttivi. Indici generali del fatturato e degli ordinativi dell’industria (base 1995=100) Ottobre 2001 DATI GREZZI INDICI Ott 2001 Fatturato Totale DATI DESTAGIONALIZZATI VARIAZIONI % Ott 2001 Ott 2000 INDICI VARIAZIONI % Gen-Ott 2001 Gen-Ott 2000 Ott 2001 Ott 2001 Set 2001 130,5 +0,8 +2,8 119,6 -1,3 Nazionale 127,1 +1,8 +2,7 116,4 -1,7 Estero 139,1 -1,5 +2,9 127,5 -0,5 Ordinativi Totali 121,7 -5,9 -2,7 111,1 -0,1 Nazionali 119,6 -5,1 -2,0 107,1 -0,8 Esteri 125,3 -7,1 -3,9 117,9 +1,1 L’indagine consueta dell’ISAE dice che si rasserena il clima di fiducia delle famiglie italiane. L’indice dei consumatori aumenta di qualche punto su novembre a dicembre ed è un’inversione di tendenza confermata e già cominciata, timidamente, a novembre. Migliorano in particolare le attese per la situazione economica generale, per le condizioni del mercato del lavoro e per le possibilità di risparmio delle famiglie. Nell’ultimo mese di cui sono disponibili i dati relativi alle vendite al dettaglio, ottobre, rispetto a quelli sia congiunturali che tendenziali di un mese fa, l’indice è in netto miglioramento. Nel mese di ottobre, infatti, l’indice generale del valore delle vendite del commercio fisso al dettaglio, ottenuto dalla sintesi degli indici della grande distribuzione e delle imprese operanti su piccole superfici ha registrato un aumento tendenziale – nell’arco, cioè, di un intero anno e per il valore corrente delle vendite che incorpora la dinamica sia di quantità che di prezzi – del 2,2%. Depurato degli effetti stagionali, l’indice permette di valutare l’andamento del valore delle vendite al dettaglio in termini congiunturali relativo al mese di ottobre 2001: che segna un aumento dello 0,3% sul mese precedente. Indici del valore delle vendite del commercio fisso al dettaglio a prezzi correnti (base 1995=100) SETTORI MERCEOLOGICI DATI GREZZI Ottobre 2001 DATI DESTAGIONALIZZATI 13 INDICI VARIAZIONI INDICI % VARIAZIONI % Ott 01 Ott 01 Ott 00 Gen- Ott 01 Gen- Ott 00 Ott 01 Ott 01 Set 01 Non alimentari 130,7 122,1 +3,4 +1,5 +2,2 +2,0 121,7 114,6 +0,5 +0,2 Totale delle vendite 125,1 +2,2 +2,1 117,1 +0,3 Alimentari Forze di lavoro: Occupazione totale; Contratti nazionali e Retribuzioni contrattuali; Grandi imprese: Occupati, Retribuzioni, Ore lavorate e Costo del lavoro Per rilevare l’entità complessiva delle forze di lavoro, l’ISTAT ha condotto la sua capillare indagine trimestrale su un campione di 200 mila persone in 1.400 comuni di tutte le province nella settimana che va dal 17 al 23 settembre— cioè, stavolta in leggero anticipo sulla scadenza usuale per evitare concomitanze col censimento, Però, per facilitare i confronti, i dati vengono presentati comunque come relativi ad ottobre. I risultati, illustrati in tabella (tutti al netto dei fattori stagionali) rimarcano che l’offerta di lavoro ha registrato in ottobre un aumento, rispetto allo stesso mese del 2000, dello 0,4% (cioè, +90.000 unità) e, rispetto a luglio 2001, sempre al netto dei fattori stagionali, una crescita marginale congiunturale dello 0,1%. Sui tre mesi precedenti, e fino a luglio, la crescita dell’occupazione – di ogni tipo di occupazione – nel trimestre fino ad ottobre, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, si è dimezzata. In definitiva, ad ottobre, il numero di occupati è risultato pari a 21.698.000 unità su una forza di lavoro complessiva calcolata a 23.923.000, con ritmo di crescita su base annua dell’occupazione pari all’1,2% (+248.000 unità), in rallentamento rispetto al recente passato per una minore dinamica in agricoltura e nell’industria e la crescita più contenuta nei settori di costruzioni e servizi. Il numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito in ottobre, rispetto a un anno prima, del 6,6% (-158.000 unità), ma meno di quanto fosse diminuito nel periodo precedente. Comunque, ha continuato a scendere in tutte le ripartizioni del territorio italiano. Ma in modo più accentuato, a Sud dove la disoccupazione è passata dal 20,2% dell’ottobre 2000 al 19% in un anno. Non è poco, ma non è abbastanza perché il tasso resta, comunque, maledettamente elevato e perché rimangono punte intollerabili, sopra al 26%, ad esempio, in Calabria. Sale nel Sud più che altrove anche l’occupazione: +2,7% in un anno, cioè 160 mila persone, cui corrispondono nel Nord Ovest 118 mila nuovi occupati, nel Centro +89 mila e nel Nord Est 67 mila. E’ un aumento discreto, ma ancora niente di più. Interessante è anche il fatto che, in tutto il paese, la riduzione della disoccupazione femminile sia stata dell’1,1%, passando dal 13,8 dell’ottobre 2000 al 12,7% dell’ottobre 2001. E’ dunque la donna che lavora la figura, diciamo così, più dinamica sul mercato del lavoro attuale. Il tasso di disoccupazione si è ridotto dal 10% dell’ottobre 2000 all’attuale 9,3% (che è +0,1 rispetto al dato rilevato tre mesi prima, a luglio), mentre, al netto dei fattori stagionali, il numero delle persone in cerca di occupazione è diminuito del 2,3% rispetto a tre mesi fa prima, al 9,2%. E vale la pena di certo notare che molti dei nuovi posti di lavoro creati non sono atipici, a tempo determinato, a part-time ma regolari, a tempo indeterminato. Forze di lavoro per condizione e ripartizione geografica e occupati per settore di attività economica (migliaia di unità) Ottobre 2001 Condizione e settore di attività economica DATI NON DESTAGIONALIZZATI DATI DESTAGIONALIZZATI Valori Variazioni su Ottobre 00 Valori Variazioni su Luglio 01 assoluti Assolute Percentuali assoluti Assolute Percentuali 14 ITALIA Forze di lavoro 23.923 +90 +0,4 23.825 +14 +0,1 Occupati 21.698 +248 +1,2 21.627 +66 +0,3 Agricoltura 1.149 -14 -1,2 1.112 -11 -1,0 Industria in senso stretto 5.145 -90 -1,7 5.102 -7 -0,1 Costruzioni 1.740 +78 +4,7 1.724 +10 +0,6 13.664 +275 +2,1 13.689 +74 +0,5 2.225 -158 -6,6 2.198 -52 -2,3 9,3 -0,7 9,2 -0,2 Forze di lavoro 11.669 +75 +0,6 11.616 +40 +0,3 Occupati 11.217 +122 +1,1 11.175 +57 +0,5 Persone in cerca di occupazione 451 -47 -9,5 441 -17 -3,6 Tasso di disoccupazione 3,9 -0,4 3,8 -0,2 Servizi Persone in cerca di occupazione Tasso di disoccupazione NORD CENTRO Forze di lavoro 4.717 +28 +0,6 4.691 -11 -0,2 Occupati 4.378 +51 +1,2 4.361 +13 +0,3 Persone in cerca di occupazione 339 -23 -6,4 330 -24 -6,7 Tasso di disoccupazione 7,2 -0,5 7,0 -0,5 MEZZOGIORNO Forze di lavoro 7.538 -13 -0,2 7.518 -15 -0,2 Occupati 6.103 +75 +1,2 6.090 -3 0,0 Persone in cerca di occupazione 1.435 -88 -5,8 1.428 -12 -0,8 19,0 -1,1 19,0 -0,1 Tasso di disoccupazione L’indagine mensile di fine novembre, condotta sui contratti collettivi nazionali di lavoro (numero di quelli vigenti, monte retribuzioni e conflitti) riferita al cosiddetto “ribasamento” degli indici del dicembre ’95 (fatto = a 100), osserva che, a fine mese, la copertura dei contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore riguardava 10,9 milioni di lavoratori dipendenti per una quota, in termini di retribuzioni complessive (monte retributivo) pari al 94,8% del totale dei contratti osservati. Ma a gennaio, quando scadranno diversi contratti (agricoltura, edilizia, diversi settori della P.A., trasporti e banche) questa percentuale di copertura si ridurrà radicalmente, ben sotto il 50%. E bisognerà vedere quanto, poi, ci vorrà a rinnovarli, questi contratti, perché Confindustria e, per la sua parte di datore di lavoro, anche il governo puntano, chiarissimamente, a procrastinarli al massimo, imponendo a lavoratori e sindacato una stagione di lotta. Le retribuzioni contrattuali orarie – non necessariamente, dunque, le retribuzioni orarie effettive: quelle coperte da CCNL – crescono adesso esattamente come l’inflazione (che a novembre, sul novembre del 2002, è salita del 2,4%). Aumentano, infatti, del 2,8% come valore delle retribuzioni orarie sul novembre di un anno fa, dello 0,3% su quelle di ottobre (proprio quanto ad ottobre su settembre) e dello stesso 2,4% dei prezzi nel periodo gennaio-novembre 2001 rispetto allo stesso periodo del 2000. Nel periodo gennaio-ottobre 2001, infine, non sono state lavorate per conflitti di lavoro 5,2 milioni di ore, dato inferiore dell’1% a quello dello stesso periodo dell’anno passato. 15 Indici generali delle retribuzioni contrattuali (base: dicembre 1995=100) Novembre 2001 INDICI Novembre 2001 VARIAZIONI % Novembre 2001 Novembre 2001 Gen.-Nov. 2001 Ottobre 2001 Novembre 2000 Gen.-Nov. 2000 Retribuzioni orarie 117,5 0,3 2,8 2,4 Retribuzioni per dipendente 117,3 0,3 2,8 2,3 L’indagine sull’occupazione, gli orari di lavoro e le retribuzioni presso le imprese dell’industria e dei servizi con 500 e più addetti, relativa al mese di settembre 2001 dice che i dati, come succede da anni, continuano a peggiorare. E’ la fotografia del rallentamento dell’economia, ma riflette anche un processo di “ristrutturazione” – eufemisticamente si dice così – delle imprese che è in corso da alcuni anni ma che proprio adesso sta accelerando: come evidenziano i dati congiunturali sull’occupazione, specie al netto della c.i.g.. Nel valutarli, comunque, è anche importante tenerne presente la portata ridotta da tempo sul complesso dell’occupazione: già nel ‘96 queste imprese tra tutte non contavano più del 21% del totale di lavoratori dipendenti dell’industria e del 29% di quelli dei servizi. Da allora, le grandi fabbriche si vanno sempre più riducendo di numero e nel numero di addetti cui danno lavoro direttamente. La “ristrutturazione”, fuor di metafora, è taglio dei “rami secchi” (che, poi, sono persone…), è delocalizzazione, è rimpiazzo di capitale vivo (i lavoratori) con capitale morto (macchinari e processi, innovativi e capital intensive ma poveri di posti di lavoro). Più in dettaglio, analizzando le tabelle che qui di seguito riassumono i dati relativi alle grandi imprese, si può rilevare come, a settembre, restino pressoché dove erano ad agosto le ore lavorate per dipendente, come si faccia pressoché irrilevante l’incidenza degli straordinari, cali appena nell’industria la c.i.g. e aumenti, invece, di molto, nei servizi, come cresca un po’ nell’industria (3%) e un po’ di più nei servizi (4%), nei primi nove mesi dell’anno, la retribuzione media continuativa mentre il costo del lavoro per dipendente salga leggermente più dell’inflazione (3,6%) nell’industria ma per niente, anzi cali seccamente (-0,1%), nella grande impresa dei servizi. Indici degli occupati alle dipendenze nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi Settembre 2001 DATI DESTAGIONALIZZATI INDICI VARIAZIONI VARIAZIONI % % Gen.Sett.2001 Sett. 2001 Sett.2001 Sett.2001 Ago. 2001 Sett.2000 Gen.- Sett.2000 DATI GREZZI INDICI INDICATORI Sett.2001 Occupati alle dipendenze nell'industria Occupati alle dipendenze nell'industria (al netto c.i.g.) Occupati alle dipendenze nei servizi Occupati alle dipendenze nei servizi (al netto c.i.g.) 86,8 -3,2 -2,6 86,4 -0,2 87,1 -4,1 -2,6 86,7 -0,8 97,3 -0,1 -0,3 96,9 0,1 97,2 -0,2 -0,3 96,8 0,1 Indici delle ore effettivamente lavorate per dipendente nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi (base 1995=100) Settembre 2001 SETTORI DATI GREZZI DATI AL NETTO DEGLI EFFETTI DI CALENDARIO DATI DESTAGIONALIZZATI 16 INDICI INDICI Sett. 2001 Sett. 2001 INDUSTRIA 93,6 97,9 SERVIZI 90,8 93,4 VARIAZIONI % Sett. 2001 Gen.- Sett.2001 Sett. 2000 Gen.- Sett.2000 0,3 -0,2 -0,4 INDICI VARIAZIONI % Sett. 2001 Sett. 2001 Ago. 2001 0,1 98,6 -2,0 96,1 -0,1 Incidenza ore straordinarie e indici ore di c.i.g. nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi (base 1995=100) Settembre 2001 INDICATORI Sett. 2001 Sett. 2001 Sett. 2000 Gen.- Sett.2001 Gen.- Sett.2000 INDUSTRIA Incidenza ore straordinarie (a) Ore di cassa integrazione guadagni (b) SERVIZI 4,7 70,4 -0,1 61,1 0,0 -3,5 Incidenza ore straordinarie (a) Ore di cassa integrazione guadagni (b) 6,7 48,6 0,7 168,5 0,2 71,4 (a) (b) Rapporto percentuale rispetto alle ore ordinarie e differenze assolute tra le incidenze percentuali. Indice e variazioni percentuali. Indici delle retribuzioni e del costo del lavoro nelle grandi imprese dell’industria e dei servizi (base 1995=100) Settembre 2001 INDICI INDICATORI INDUSTRIA Retribuzione lorda media per dipendente di cui retribuzione continuativa Costo del lavoro medio per dipendente SERVIZI Retribuzione lorda media per dipendente di cui retribuzione continuativa Costo del lavoro medio per dipendente VARIAZIONI % Sett.2001 Sett. 2001 Sett. 2000 Gen.- Sett.2001 Gen.- Sett.2000 112,7 116,7 106,6 10,1 4,5 8,1 4,5 3,0 3,6 101,9 115,5 97,2 4,7 3,9 4,5 0,6 4,0 -0,1 Commercio estero I dati disponibili sull’interscambio commerciale si riferiscono al mese di ottobre per il complesso di tutti i paesi cui vendiamo e da cui acquistiamo prodotti, servizi e materie prime. Mentre, per il mese di novembre, è come di consueto già disponibile solo il dato sull’interscambio dei soli paesi esterni all’Unione europea. Nel mese di ottobre, l’interscambio complessivo ha dato un saldo positivo per 3.833 miliardi di lire, contro un valore positivo più ridotto, di 588 miliardi, registrato nello stesso mese del 2000: con esportazioni a +0,8% ed importazioni che, c calate in modo accentuato – riflesso del rallentamento economico del paese – a -6,1%, contenendo l’esborso aumentano l’attivo. Il saldo complessivo, nei primi dieci mesi dell’anno, ammonta a 12.460 miliardi contro un attivo inferiore più della metà, di 5.503. nello stesso periodo dello scorso anno. Nel confronto col settembre 2001, i dati destagionalizzati evidenziano, contro la diminuzione del mese precedente, un aumento dello 0,4% delle esportazioni ed un caldo, dello 0,5%, delle importazioni. Analizzando, poi, i soli dati relativi ai paesi dell’Unione europea, perciò ancora soltanto quelli di ottobre 2001, rispetto allo stesso mese del 2000, le esportazioni verso i paesi UE sono diminuite del 3%, mentre le importazioni sono calate dell’1,1%, con un saldo commerciale che qui è negativo per 255 miliardi di lire, quando era in attivo per 207 miliardi nello stesso mese del 2000. Nel periodo gennaio-ottobre 2001, il saldo complessivo è sempre negativo, per 302 miliardi, la metà rispetto ai 17 599 di rosso dello stesso periodo del 2000. Nel confronto con settembre 2001, i dati destagionalizzati registrano una diminuzione dell’1,8% delle esportazioni e una flessione dello 0,8% delle importazioni. I dati del mese di novembre, già disponibili invece per i paesi fuori dell’Unione europea, vedono aumentare le esportazioni, rispetto allo stesso mese del 2000, di un buon 6%, mentre le importazioni diminuiscono – drasticamente – del 14,4%. Il saldo commerciale di novembre con i paesi extra UE è, dunque, risultato positivo per 4.215 miliardi di lire, rispetto a quello sempre positivo ma assai più ridotto, di 88 miliardi, registrato nello stesso mese dell’anno precedente. E, nel periodo gennaio-novembre 2001, il saldo è stato positivo per 16.977 miliardi, a fronte dei 6.190 di attivo dello stesso periodo del 2000. Rispetto ad ottobre 2001, al netto della stagionalità, infine, le esportazioni sono aumentate del 2,3% e le importazioni sono diminuite del 2,9%. Questo risultato è rilevante anche perché l’interscambio coi paesi extra-Ue (Stati Uniti, Russia, Cina, Giappone e paesi dell’OPEC) compensa i brutti dati di interscambio che abbiamocoi paesi UE, in passivo dai mesi estivi. In generale, bisogna rendersi ben conto che il forte attivo ottenuto rispetto a quello dello scorso anno è un indicatore congiunturale dovuto soprattutto a flussi di importazione fortemente ridotti per la riduzione dei ritmi di crescita di investimenti e beni di consumo, con le esportazioni in difficoltà per la riduzione complessiva esse stesse, nella crisi, di tutto il commercio mondiale. Esportazioni, importazioni e saldi della bilancia commerciale con i paesi extra UE, UE e in complesso Ottobre e Novembre 2001 DATI GREZZI DATI MILIARDI DI VARIAZIO DESTAGIONALIZZATI MILIARDI DI LIRE VARIAZIONI % LIRE NI % Nov.01 Gen-nov.01 Nov.2001 Nov.2001 Gen-nov.01 Nov.00 Gen-nov.00 Nov.2001 Ott .2001 PAESI EXTRA UE Esportazioni Importazioni Saldi 21.451 17.236 4.215 220.468 203.491 16.977 Ott.2001 Esportazioni Importazioni Saldi 24.585 24.840 -255 Esportazioni Importazioni Saldi 47.427 43.594 3.833 Gen-ott.01 234.125 234.427 -302 6,0 -14,4 7,5 2,3 Ott.01 Ott.00 PAESI UE -3,0 -1,1 Gen-ott.01 Gen-ott.00 2,3 2,1 SCAMBI COMMERCIALI IN COMPLESSO 433.142 420.682 12.460 0,8 -6,1 4,7 3,1 20.592 16.690 3.902 Ott.2001 2,3 -2,9 Ott.2001 Set.2001 22.085 22.686 -601 -1,8 -0,8 42.213 39.867 2.346 0,4 -0,5 Prezzi: consumo e produzione Rispetto a novembre, i prezzi al consumo di dicembre – in base ai dati provvisori sull’inflazione anticipati oggi dall’Istat e diffusi nelle cosiddette anticipazioni delle città campione (ma non ancora controllati e convalidati: saranno confermati, dopo queste operazioni di verifica, il prossimo 17 gennaio), danno un’indicazione già assai attendibile: l’indice nazionale per l’intera collettività presenta, nel mese, una variazione di +0,1% sul precedente e di +2,3% rispetto al dicembre 2000. Ancora frenata, quindi, ma ancora non tanto per virtù speciali esercitate da venditori e consumatori quanto per il peso del rallentamento economico generale. L’indice europeo armonizzato di novembre registra le stesse variazioni di quello italiano: +0,1 e +2,3% nel dato congiunturale e in quello tendenziale. Rispetto ad ottobre, in novembre aumentano soprattutto i costi di alimentari e bevande analcoliche e di ricreazione, spettacoli e cultura (+0,4%) e, poi, di abbigliamento e calzature (+0,3). Diminuiscono (di un forte -0,7%) le spese per la salute. Anche in ragione d’anno, aumenta anzitutto 18 il prezzo degli alimentari (+4,2%) e, poi, quello delle bevande alcoliche (+3,7). Cala soltanto il prezzo delle comunicazioni (-1,8%). Principali indici dei prezzi al consumo Dicembre 2001 INDICI VARIAZIONI % INDICI DEI PREZZI AL CONSUMO Novembre 2001 Dicembre 2001 Dic.01 Nov.01 Dic.01 Dic.00 Per l’intera collettività (base 1995=100) con tabacchi 116,7 116,8 +0,1 +2,4 Armonizzato (base 1996=100) 112,1 112,2 +0,1 +2,3 Sulla base dei dati finora pervenuti dalle imprese, nel mese di novembre l’indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali è diminuito dello 0,3% rispetto ad ottobre (ad ottobre, il calo era stato di -0,6 su settembre) e dell’1,3% rispetto a novembre del 2000. Ed è il dato più basso da giugno ’99, ancora marcato soprattutto dal calo dei prezzi dei prodotti energetici. Al netto di prodotti petroliferi, energia elettrica, gas ed acqua la variazione congiunturale è di -0,1% e quella tendenziale (dunque, su novembre 2000) è aumentata solo dello 0,7%. A novembre su ottobre (dato congiunturale), le variazioni più marcate riguardano minerali (-1,7%), energia elettrica gas e acqua (-1,4%), e prodotti chimici (-0,7%). Aumentano i prodotti in cuoio (+0,2%), i macchinari e i prodotti alimentari (+0,1). A novembre sullo scorso novembre (dato tendenziale), calano significativamente i prezzi alla produzione di prodotti petroliferi (-17,7%), energia, gas e acqua (-7,7), prodotti chimici (-3,3%) e aumentano cuoio (+4%), lavorati di minerali non metalliferi (+3,3) e alimentari, bevande e tabacchi (+2,9%). La variazione della media dell’indice negli ultimi dodici mesi rispetto a quella dei dodici mesi precedenti è risultata pari a +2,6% e quella dei primi undici mesi del 2001 sugli stessi del 2000 di +2,3%. Indice dei prezzi alla produzione dei prodotti industriali (base 1995=100) Novembre 2001 VARIAZIONI % INDICE Novembre 2001 Nov 01 Nov 01 Dic 00-Nov 01 (a) Gen 01-Nov 01 ( b) Ott 01 Nov 00 Dic 99-Nov 00 (a) Gen 00-Nov 00 (b) 110,5 -0,3 -1,3 +2,6 +2,3 (a) Media degli indici relativi ai dodici mesi (b) Media degli indici relativi agli undici mesi Mercati monetari e finanziari I dati sulla congiuntura americana – su e giù e, poi, ancora su… ma la tendenza adesso è all’insù – e su quella tedesca – decisamente al ribasso – hanno condizionato i mercati finanziari. E sull’altalena tra ottimismo e pessimismo, si dimenano gli operatori. Che, già condizionati dal post-11 settembre e dalla sue sequele, dalla crisi terribile, finanziaria ed economica dell’Argentina – che pochi credono possa fermarsi alle sue frontiere – e dall’implosione politica e dall’esplosione annunciata del Medio Oriente18, reagiscono prontamente e positivamente 18 Dove solo i pazzi, o i falchi estremisti alla Sharon, pensano di trovare interlocutori più docili, loro dicono ragionevoli, di Yasser Arafat–– mentre quello che cercano, in realtà – e che a lungo hanno pianificato – è proprio far saltare il banco per affossare una volta per tutte in radice ogni possibile barlume di pace. 19 – sia come borsa che sul terreno dei tassi a lungo, i più importanti, appena i dati congiunturali (quelli più direttamente collegati alla performance e ai vari indicatori di settore) lasciano intravvedere un qualche accenno concreto di ripresa. In effetti, nelle ultime settimane i risparmiatori sembrano aver ritrovato una certa fiducia nei mercati finanziari e, quindi, nella possibilità di una prossima ripresa, anche se il nuovo taglio dei tassi di interesse a breve da parte della Fed non ha entusiasmato i mercati americani e europei più di tanto. Rimane un qualche nervosismo, ma rimane anche un trend sostanzialmente positivo, “acceso” anche dai tecnologici a loro volta tirati da notizie positive importanti come quella della Nokia che ha dichiarato utili per gli ultimi mesi del 2001 superiori alle previsioni, spingendo l’hi-tech in alto in USA e in Europa. Da noi, per i titoli di Stato continuano a calare i rendimenti. All’asta di fine mese, i BoT trimestrali sono scesi sotto il 3% raccogliendo liquidità da parte dei piccoli risparmiatori che, tuttavia, con l’eccezione degli investitori istituzionali, non hanno rivolto una massiccia domanda sul BoT annuale, il quale è salito lievemente nei rendimenti al 3,2%, nonostante la domanda degli investitori istituzionali. Da notare, infine, la convergenza tra i rendimenti dei titoli italiani e tedeschi. Il differenziale tra Btp e Bond è ormai a 29 punti base e la chiusura dello spread, del differenziale appunto – è l’attuale accentuata difficoltà dell’economia tedesca che ha prodotto la chiusura della forbice tra i due tassi – è importante perché è proprio la forchetta che più esplicitamente motiva o scoraggia gli spostamenti di capitale. TENDENZE CONGIUNTURALI INTERNAZIONALI Europa Migliora un po’, la temperatura economica media dell’area euro. Il PIL del terzo trimestre s’è arrampicato all’insù, come abbiamo visto, dello 0,1% e stanno allentandosi le pressioni inflazionistiche (i prezzi al consumo, nella media dell’area, sono cresciuti in un anno a novembre del 2,1%, -0,3% dal mese prima, da ottobre) e i prezzi alla produzione, che influiscono di più sul futuro prossimo, nei dodici mesi fino ad ottobre sono caduti dello 0,6% in media nella zona dell’euro, dell’1,6% in Francia e dello 0,6 in Italia. Non va bene la produzione industriale, però, che nei dodici mesi tra ottobre 2002 e 2001 è caduta del 2,7%, quasi un punto di più delle previsioni. Lo prova un articolo – Sharon ha preparato la trappola – notevole per l’onestà intellettuale e politica dell’estensore, A. Fishman, sul supplemento di fine settimana 15-16.12.2001 del maggior quotidiano israeliano, Yediot Aharonot. E ne riferisce Le Monde, 18.12.2001, S. Cypel, Le plan de Sharon pour se débarrasser d’Arafat–– Il piano di Sharon per sbarazzarsi di Arafat. Dice – e documenta – Ha’aretz che “niente di quanto succede in questi ultimi giorni è casuale”. Il piano è stato ideato dal gen. Meir Dagan e partendo, in sostanza, dalla premessa, tutta sharoniana, che “l’accordo di Oslo del ’93 [sul riconoscimento reciproco tra Israele e Palestina] è il male peggiore mai subito da Israele” conclude che “bisogna distruggerlo ad ogni costo”. Degli autori, naturalmente, Rabin è già stato “distrutto” e, adesso, tocca a Arafat. Preda non facile, sfuggita già a mille trappole, ma che Sharon adesso – anche con l’aiuto dell’11 settembre – spera di riuscire ad intrappolare. Detta così, certo, pare una bestemmia. Ma – scrive un altro autorevole quotidiano israeliano Ha’aretz, nell’edizione inglese del 18.12.2001 (A. Benn, Israel strives to import America’s war on terror–– Israele tenta di importare la guerra americana al terrore) – proprio l’11 settembre è stato una manna insperata per Israele e il suo “estasblishment politico e di sicurezza sta arrivando alla conclusione che gli attacchi terroristici dell’11 settembre hanno dato un buon vantaggio a Israele” disinnescando proprio al momento giusto le pressioni americane per il riconoscimento internazionale, e degli Stati Uniti stessi, dello Stato di Palestina. 20 Sembrano tendere al meglio, leggermente, invece gli affari. L’indice Reuters dell’attività produttiva generale in zona euro19 è cresciuto dello 0,2 in novembre su ottobre e le vendite al dettaglio dell’1,8% da settembre 2000 a settembre 2001. E parte l’euro. Ora, è certo – non è un dato di fede, di quelli che amano contestare i nostri abbondanti euroscettici, specie di governo come denuncia il ministro degli Esteri – che la moneta unica sarà a medio e lungo termine un forte vantaggio per tutti noi europei, rendendoci più competitivi nei confronti delle altre economie-mondo, quella americana anzitutto. Ma è anche certo, anzi assodato, che alcuni effetti immediati del passaggio alla nuova moneta comune potrebbero raffreddare un entusiasmo già abbastanza labile e, addirittura, qualche po’ esacerbare tendenze già presenti al rallentamento economico in Europa. La confusione, in qualche misura, sarà inevitabile trattandosi di distribuire in pochi giorni la bellezza di 15 miliardi di banconote e 50 miliardi di monetine a 300 milioni di persone in 12 paesi. La confusione ci sarà, in specie, quando e se, • quando e se, alla prova dei fatti – come sta avvenendo, non soltanto in Italia, proprio mentre chiudiamo questa Nota –, gli impegni ad approntare gli strumenti tecnici necessari a far funzionare il sistema (Bancomat, macchinette varie, sportelli bancari, sportelli ferroviari e autostradali – non saranno stati approntati per bene: alle 10 di mercoledì 2 gennaio, su dieci Bancomat personalmente testati a Roma in un’area di 1 Kmq., tre consegnavano euro, quattro lire e tre erano disattivati “per motivi tecnici”… Al meglio, si vanno producendo file più lunghe e acquisti rallentati proprio quando i consumi più avrebbero bisogno d’una bella accelerazione; • quando e se la tentazione naturale di tutti i dettaglianti ad arrotondare i prezzi all’insù non sarà – e non sembra esserlo, poi – contenuta: perché causerebbe un blip di inflazione non tanto grave in sé ma, soprattutto, perché capace di paralizzare ancora la volontà della BCE di tagliare i tassi nel periodo cruciale – due mesi, tre – della transizione e dell’aggiustamento: un periodo pericolosamente lungo se, proprio in questo lasso di tempo, l’Europa sfiorasse la recessione; • quando e se uno pagherà, diciamo, in lire e il resto lo riceverà in euro; • quando e se il cambio di moneta si rivelasse, al dunque, anche il problema di ordine pubblico – di polizia – che alcuni presumono: come, ad esempio, la BBC che parla di 300 miliardi di dollari – al meglio di evasione fiscale, al peggio di mafia e di altro – investiti negli ultimi due anni in giro per l’Europa, soprattutto in costruzioni per evitare di suscitare quale domanda, poi, sui loro contanti al momento del cambio da marchi, lire e franchi agli euro; • quando e se verrà fuori che è stata – come è stata sicuramente – una sciocchezza denominare il taglio massimo della nuova moneta a ben 500 euro, cioè, oggi, a $450: un taglio tanto più appetibile per i falsari visto che il massimo del circolante in dollari è solo di 100; e vista la scarsissima accettabilità già oggi del biglietto da 500 mila lire in circolazione di cui, questo, vale ben il doppio...; • e quando e se, come in questi primi giorni appare del tutto evidente, è stata un’altra sciocchezza la decretazione BCE che, nella sua insondabile e non proprio dimostrata saggezza, ha vietato alle banche di distribuire prima del 1° gennaio l’euro in banconote, consentendo solo alle monete – e poche – di essere messe a disposizione soprattutto dei dettaglianti: quando e se, cioè, è dimostrato che aveva ragione l’associazione Eurocommerce a sostenere che, coi primi del 2002, ci sarebbe stato, in queste condizioni, un vero cash crunch: una carestia acuta di banconote di piccolo taglio... Altri problemi complicheranno la vita. La trasparenza di prezzi che non saranno uguali, pur espressi nella stessa moneta, per lo stesso prodotto nei vari paesi penalizzerà, a breve, i margini di diverse imprese; alla lunga, però, si imporrà la necessità di uniformare quei prezzi e porterà a una maggior efficienza economica della distribuzione. 19 Cfr. The Economist, 8.12.2001. 21 Però, diciamolo chiaramente: malgrado tutti questi se e questi ma, la scelta dell’euro è quella giusta, al minimo perché era resa necessaria dal fatto che da solo ormai nessun paese europeo regge più a lungo la competizione globale e che insieme, invece, si può contare davvero. Meraviglia non poco, certo, che al Vertice europeo di Laeken, concluso il 15 dicembre, nel parlare del futuro dell’Europa all’euro, praticamente, i capi di Stato e di Governo dei 15 non abbiano neanche accennato: hanno parlato, in teoria, quasi soltanto di grandi idee; e, in pratica, di forza di reazione rapida armata (che, però, non è stata finalizzata), di mandato di cattura europeo (che, però, è stato quasi deragliato e, comunque, depotenziato) e di agenzie ed autorità varie – ricordate? Helsinki, Parma… – da distribuire tra vari paesi (distribuzione che, però, alla fine è stata rimandata)… L’agenda degli eventi critici per il processo di integrazione dell’Unione nei prossimi anni, allo stato – ma verrà modificata, molto probabilmente ritardata – prevede queste date e questi sviluppi: L’agenda dell’integrazione europea, 2002-2007 Gennaio 2002 L’euro sostituisce tutte le monete dei 12 dell’UEM Gennaio 2002 La Spagna assume la presidenza semestrale dell’UE per Marzo 2002 (da conf…) Comincia i lavori la Convenzione cosiddetta “costituzionale” dell’UE Maggio-Giugno 2002 Elezioni in Francia: presidenziali e per la Camera dei deputati per Giugno 2002 (da conf...) La Commissione presenta le proposte negoziali comuni per l’allargamento dell’Unione Luglio 2002 La Danimarca assume la presidenza semestrale dell’UE Settembre 2002 Elezioni tedesche per Dicembre 2002 (da conf…) Fine dei negoziati per l’accesso all’Unione Gennaio 2003 La Grecia assume la presidenza semestrale dell’UE Gennaio-Giugno 2003 (da conf…) Inizio della Conferenza intergovernativa Giugno 2003 (da conf…) La Convenzione presenta le sue proposte di inquadramento “costituzionale” ed istituzionale dell’Unione europea alla Conferenza intergovernativa Luglio 2003 L’Italia assume la presidenza semestrale dell’UE Dicembre 2003 (da conf…) Conclusione della Conferenza intergovernativa ed approvazione del nuovo inquadramento “costituzionale” ed istituzionale dell’Unione europea Dicembre 2003 Prima data possibile per l’approvazione del Trattato di Accesso dei nuovi paesi membri da parte del Consiglio e del Parlamento europeo per Giugno 2004 (da conf…) Ratifica dell’allargamento da parte dei parlamenti nazionali (paesi membri e candidati) Giugno 2004 Elezioni del Parlamento europeo Gennaio 2006 Prima data possibile per l’accesso all’UEM dei paesi candidati Gennaio 2007 Data più probabile per l’accesso all’UEM di alcuni tra i paesi candidati Come salta agli occhi, sono molte – e le più cruciali, ovviamente – le scadenze programmate ma condizionate dalla sigla “da confermare” che appaiono in questo calendario: che non è esaustivo ma quasi. Sull’Europa, però, o – più specificamente – sulle prediche di cui essa, la sua lentezza rispetto all’America, è oggetto costante da parte degli incliti e saggi – dal Fondo monetario alla Commissione europea, dal ministro del Tesoro alla Banca d’Italia, dalla Confindustria, ovviamente, a molti accademici e a quasi a tutti i giornali, di qua e di là dell’Atlantico – bisogna, secondo chi scrive, dire chiara e tonda una cosa che speriamo anche abbastanza definitiva. Queste prediche ritornellano tutte che la colpa è tutta del modello sociale europeo, perché “l’intricata rete di protezioni garantita al lavoro in Europa più che aiutare a far crescere 22 l’occupazione è una delle principali ragioni per cui la disoccupazione europea resta testardamente elevata20”. Questo è il conventional wisdom, come lo chiamano proprio gli americani, la spiegazione più ricorrente, diffusa e scontata. Ma in realtà non sono pochi anche quanti, in Europa e forse ancora di più proprio in America, considerano che sia stata e sia più importante, proprio al fine della creazione o no di lavoro, l’altra differenza che c’è tra le sponde dell’Oceano Atlantico: che in Europa, da un decennio e anche più, prima le banche centrali dei vari paesi e, poi, la Banca centrale europea hanno imposto una politica monetaria molto più restrittiva di quella con cui la Fed governa tassi di interesse e massa monetaria in America. Oggi, i tassi europei sono al 3,25% (il 3 gennaio la BCE li ha ancora lasciati invariati21) e quelli statunitensi all’1,25: molto meno della metà e con un’inflazione che in Europa è più bassa di quanto sia in America. Stati Uniti Ci sono segnali, importanti, che accennano a una qualche ripresa: il fatto che calino, sensibilmente, le scorte di magazzino, che la flessione di produzione industriale risulti inferiore a quella prevista dai maggiori istituti di previsione, che i prezzi alla produzione calino a novembre dello 0,6% su ottobre–– anche se il segnale si spiega soprattutto col calo della domanda e non è, quindi, poi così virtuoso. Ma un caveat è utile. Anche se quello che qui chiamano il “consenso degli economisti” sembra maggioritariamente – e volontaristicamente – coagularsi attorno ad una previsione di ripresa a breve, vale la pena di ricordare che l’anno scorso, di questi giorni, quello stesso “consenso” raccontava di un’economia che sarebbe cresciuta nel 2001 al 3%: quando oggi si sa che, se arriverà appena sopra lo 0%, sarà una manna... Il fatto è che l’economia statunitense continua a ristagnare, anzi in alcuni punti sembra affondare anche di più. L’utilizzo degli impianti industriali negli ultimi mesi è solo al 75%, il tasso più basso degli ultimi vent’anni, in calo verticale dall’83% del 2000. E un altro economista di chiarissima fama, Rudiger Dornbush – tutt’altro che anti-sistema e, anzi, di natura sua sempre ottimista sulle sorti dell’economia di mercato, di quella americana in ispecie (un anno fa, aveva solennemente predetto che il 2001 sarebbe stato un anno di grande boom per l’economia americana…), sposa oggi la tesi del Nobel dell’economia Robert Gordon. Che da tempo sostiene – e in buona parte anche dimostra22 – che un’interpretazione più corretta dell’aumento reale di produttività negli USA dimostra come – sono le parole di Dornbush – “buona parte del miracolo economico degli anni ’90 non sia mai esistito23”. Insomma, congiuntura fosca ma che, nell’ultimo mese – lo accennavamo nella parte di sintesi sull’economia internazionale, a p.2 – ha anche fatto vedere diversi segnali incoraggianti. 20 La mette così, come fanno in tanti da noi, in un ponderoso e ponderato articolo del New York Times, 5.12.2001, E. L. Andrews: Europe Toughens Up on Job Cuts–– L’Europa si fa dura sui licenziamenti, quasi salutando quella che considera ora la maggiore propensione europea a “fare come gli americani”. 21 E Wim Duisenberg, il presidente, ha colto l’occasione per ribadire che vuole coprire tutti gli otto anni del suo mandato, alla faccia dell’impegno “informale” che per essere designato, pure, aveva assunto nel ’98 con Chirac e gli altri capi di governo e di Stato a ritirarsi dopo quattro anni per consentire la successione a capo della BCE del governatore della Banca di Francia Jean-Claude Trichet... 22 Cfr., per i riferimenti utili, il numero 11-2001 di queste Note congiunturali, in Nota31. 23 Articolo che compare, in contemporanea, su una catena di molti giornali in tutto il mondo (“syndicated”, dicono gli americani, anche se col sindacato la cosa non ha nulla a che fare) e, in Italia, su la Repubblica, 20.12.2001, col titolo Lavorare poco, lavorare bene ecco il segreto dell’Europa. 23 Però le prospettive o, meglio, le speranze più… speranzose di una ripresa rapida, almeno allo stato, risultano ora bruscamente frenate dai dati sul deterioramento del mercato del lavoro. In novembre, s’è registrato un incremento sostanziale del numero dei disoccupati (331 mila unità, di cui 163 mila solo nel manifatturiero: dove, dal luglio 2000, l’America ha perso 1 milione e 200 mila posti di lavoro del milione e 800 perduti in totale) e il tasso di disoccupazione è saltato su, dal 5,4 di ottobre al 5,7%24. Erano cinque anni che gli USA non toccavano questo livello, ben al di sopra delle previsioni formulate dagli analisti. E l’economia si accinge a registrare nel 2001 il livello massimo di posti di lavoro persi da dieci anni a questa parte25. Negli ultimi due mesi hanno perso il posto – lavoricchi e lavori precari, ma anche posti molto qualificati – più di 800 mila persone: dato che ha schiacciato sulla realtà dura dell’economia dei fatti le visioni più rosee prospettate, per un futuro rapido e favorevole evolversi della congiuntura, dall’economia di carta e dai pronostici più politicanti e ha pesato in maniera rilevante sui mercati finanziari. Tre sono gli elementi più impressionanti tra i dati che emergono studiando la disoccupazione: • il primo rileva l’aumento preoccupante delle richieste continuative di sussidi: e qui è solo sulle richieste ufficiali di sussidio presso gli uffici dell’assistenza – dove c’è... – federale e locale che si calcola il tasso, ufficiale appunto, di disoccupazione); • il secondo fattore di forte rilievo sociale è, a novembre, l’aumento al 32,2% (10 punti più di un anno fa) dei senza lavoro tra i giovani neri: guardando all’occupabilità, invece che alla disoccupazione, fa impressione il fatto che un teenager nero abbia il 20% di probabilità in meno di trovare oggi un lavoro di quante ne avesse a novembre di un anno fa. Inoltre, rallenta la creazione di nuovi lavori e quindi sale la durata della disoccupazione; • il terzo elemento preoccupante è che i posti di lavoro che adesso si stanno adesso perdendo sono proprio i migliori26. Sale inoltre l’avvertenza che, anche se poi avessero ragione gli “ottimisti” – cioè, se alcuni dati sui consumi e quelli sulla riduzione delle scorte significano davvero che la congiuntura ha già toccato il fondo –, il trapasso dalla recessione alla ripresa non significherà di per sé che la disoccupazione smette di crescere, almeno finché l’economia non tornerà a tassi di sviluppo sul 3%. E anche di più se si volessero recuperare livelli di disoccupazione assestati intorno al 4%. Perché è questo il punto. Non se e quando comincerà la ripresa, ma se e di quanto essa consisterà. Se la crescita robusta degli ultimi anni ’90 – non sarà stata la produttività, come dice Gordon; non sarà stato un miracolo, come asserisce Dornbush: ma robusta essa è stata – alla fine risulterà solo un’aberrazione o se diventerà, piuttosto, la regola… E se, poi, questa ripresa quando viene continuerà a produrre non solo ricchezza ma pure lavoro, lavori, occupazione. E c’è chi, assai autorevolmente, ne dubita27. Washington Post, 8.12.2001, J. M. Berry, Unemployment at 6-year High–– Disoccupazione al massimo da sei anni e New York Times, 8.12.2001, D. Leonhardt, Unemployment Rate Jumped Last Month on Surge of Layoffs–– Balzo del tasso di disoccupazione il mese scorso. 25 Tutti dati forniti dall’agenzia di collocamento privata Challenger, Gray & Christmas e riferiti dall’Associated Press, 26.12.2001, Report: Most US Layoffs in Years— Uno studio: il massimo di licenziamenti da anni a questa parte. 26 New York Times, 13.12.2001, S. Howe Verhovek, High-Tech States Now Lead Nation in Joblessness— Sono gli Stati più high-tech quelli che adesso guidano la classifica dei disoccupati: gli Stati dell’Ovest, dalla Silicon Valley in California, all’Oregon, a Seattle (la Microsoft, ecc.) nello Stato di Washington... 27 In un modo o nell’altro è quanto dichiarano – e temono e spiegano – a Business Week, 3.12.2001 (A Jobless Recovery Just Ahead? Why unemployment may keep rising even after growth picks up–– Una ripresa senza lavoro? Perché la disoccupazione potrebbe continuare a crescere anche dopo che la crescita riprenderà), economisti di fama, e assai prudenti, come L. F. Katz, di Harvard, E. Harris, della Lehman Brothers, S. Thiruvadanthai, del Centro Levy ed altri che diventerebbe troppo lungo elencare… 24 24 Preoccupante, per i diretti interessati ma non certo sul piano societale, epperò sintomo interessante di un qualche disagio, è la decisione annunciata da diverse grandi banche (J.P. Morgan Chase, Morgan Stanley, Goldman Sachs...) di ridurre del 40-50% il bonus annuale dei consiglieri di amministrazione: in media, da 1 miliardo a 500 milioni di dollari. Intanto, il piatto – dell’occupazione – come si dice piange. E Bush, proprio facendo appello al rischio di un ulteriore incremento dei disoccupati, ha incalzato il Congresso ad approvare il suo piano di stimoli fiscali all’economia. Ma non ha sfondato e un compromesso verrà ormai cercato alla ripresa, dopo le feste, e forse trovato se l’Amministrazione si renderà mai disponibile davvero a negoziarlo coi democratici, superando il carattere di “misura ideologicamente strutturata”, con cui il NYT ha bollato il suo piano28. Che la maggioranza in Senato – di misura ormai in mano ai democratici col “ribaltone” del sen. Jeffords dovuto proprio alla “sordità” dell’Amministrazione sul piano della giustizia sociale e dei diritti dei lavoratori – supportata anche da alcuni repubblicani considera sbilanciato in modo addirittura sfacciato a favore della grande impresa e dei suoi bilanci e del tutto inefficace, come stimolo reale all’economia e come sostegno a chi il lavoro lo sta perdendo29. Il cruccio di una disoccupazione che sale si fa, in effetti, più intenso ed è condiviso anche dalla Federal Reserve che, esplicitamente con questa motivazione, ha ancora abbassato fino all’1,75% i tassi di riferimento, e all’1,25% quello di sconto, ritagliandoli in un anno per undici volte di 4,75 punti percentuali e assestandoli ad un livello che così esiguo era stato soltanto nel 1961. E, sempre per questa stessa ragione – e perché la Fed ha aggiunto di preoccuparsi ancora, più in generale, di un’“attività economica che rimane flaccida (soft)” anche se “sul lungo termine”30 promette crescita di PIL e di produttività – molti economisti prospettano ora la possibilità di nuove limature dei tassi già in gennaio. Anche se ormai – dopo ben undici tagli per quasi 5 punti percentuali senza grandi effetti sem non quello, difensivo ma certo di rilievo, di aver attutito la caduta dell’economia tenendo alta la domanda di case proprio mentre flettevano gli investimenti – pare accertato che qualcosa non funzioni più proprio bene nel meccanismo di trasmissione che collegava le azioni della Fed all’economia reale. Le ragioni sono diverse. Anzitutto perché non è vero che la Fed controlli, come si dice, i tassi. Controlla solo un tasso: quello specifico sul mercato overnight dei fondi federali che, di per sé, ha scarsa importanza se non per l’indirizzo, di massima, che dà agli altri tassi. E, poi, per l’“ottimismo autolesivo di tanti operatori di mercato che continuano a credere, malgrado ogni prova contraria, che Mr. Greenspan sia davvero un mago, convinti che presto un suo gioco di prestigio rilancerà un altro drammatico boom e poi rialzerà i tassi per raffreddare un’economia ridiventata rovente”. E’ però, questo, “un credo che aiuta a tenere alti i tassi a lungo termine e, con ciò, assicura che nessun boom del genere diventi imminente31”. New York Times, editoriale del 21.12.2001, Thwarted Hopes in Congress–– Speranze affossate al Congresso. Sul numero scorso di queste Note, 12-2001, a p. 28 e Nota49, viene illustrato il piano di Bush, la sua filosofia di fondo del trickle-down (lo “sgocciolamento” del grasso che si accumula sulla tavola del ricco Epulone sulle mani dei tanti poveri assiepati sotto a quel tavolo) e le critiche ad esso avanzate. 30 Comunicato Fed dell’11.12.2001. 31 Lo spiega, magistralmente, Paul Krugman, sul New York Times del 14.12.2001 (Eleven and Counting–– Undici e contando), anche con un pizzico di cattiveria forse eccessiva verso Alan Greenspan: colpevole, afferma con qualche dato a supporto, di aver coltivato lui stesso la mistica “del mago” che ora gli si rovescia contro. 28 29 25 E’ stato anche fatto notare, a Wall Street, che, in realtà, i tassi di interesse sui buoni del Tesoro a lungo termine sono tornati, a metà dicembre, quasi ai livelli dell’autunno scorso. E qualcuno 32 ha spiegato, plausibilmente, che sono le aspettative di forte ripresa del mercato a motivare il fenomeno. C’è anche una spiegazione diversa, però, che i tassi di interesse a lungo termine crescano perché i mercati anticipano un declino del dollaro: • anzitutto, a causa di un livello di indebitamento estero americano che attualmente, ogni anno, è ad oltre $400 miliardi, il 4% del PIL, e che – tutti gli economisti concordano – neanche l’America può continuare, poi, all’infinito; per cui c’è, diffusa, la presunzione ragionevole che il dollaro finirà col deprezzarsi. E’ questo fattore, il deprezzamento previsto, che fa elevare i tassi a lunga in modo da compensare per i detentori stranieri di bond americani le perdite dovute a questo deprezzamento; • e, in secondo luogo, per l’arrivo dell’euro che, al di là dell’ostentata indifferenza e delle proclamazioni qui quotidiane di irrilevanza, in USA vedrebbero in realtà come una potenziale minaccia alternativa, per il momento ancora tarpata solo dal livello irrealistico di parità che improvvidamente venne fissato due anni fa, al varo della moneta unica. Altra preoccupazione è quella relativa ai consumi, la spesa per i quali, che era salita, in ottobre, in ragione d’anno del 2,9%, vede già profilarsi pesante in novembre l’impatto del calo d’occupazione: diminuisce, infatti, dello 0,7% che corrisponde a un -8,7% in termini di calo annuale e incrementa il clima di incertezza33. Di fatto, il PIL nel terzo trimestre è sceso, nella correzione adesso ufficiale, dalle previsioni dell’1,1 alla realtà del -1,3% ed è certo che nell’ultimo trimestre del 2001 è previsto ancora in flessione (avanza cautamente un'altra contrazione, del -1,5%). Inoltre, una vera, consistente ripresa non è credibilmente prevista se non dalla seconda metà del secondo trimestre del 2002: dopo maggio, in sostanza, ma probabilmente ancora più in là. Sull’inflazione, non ci sono preoccupazioni neanche qui. I prezzi crescono, ma con moderazione e dentro limiti che la Fed stessa ritiene più che accettabili. La tendenza incipiente, però, per il 2002, è piuttosto al rialzo e l’ulteriore rallentamento dell’economia nel dopo 11 settembre sta dettando un processo di riaggiustamento che potrebbe, con la ripresa, spingerli in su. La liquidazione delle scorte in atto, gli aggiustamenti al ribasso della capacità produttiva e il cambio graduale in atto nelle aspettative dei consumatori vanno predisponendo la scena, in alcuni settori (tra cui l’auto e l’industria aeronautica), per una ripresa anche dei prezzi. Se essa fosse, come anticipano diversi osservatori, abbastanza sostenuta, l’inflazione potrebbe anche salire al di sopra dei livelli che attualmente i mercati prevedono, per un processo di aggiustamento qui più rapido e pronunciato che, ad esempio, in Europa34. In sintesi, e tornando allo stato attuale delle cose, il clima generale esprime ancora una certa ansia, incertezza e pessimismo di fondo: che l’undicesimo taglio consecutivo ai tassi da parte della Fed non fa altro che confermare con la massima autorevolezza: parla, infatti, esplicitamente di recessione in America. New York Times, 17.12.2001, R. W. Stevenson, For Policy Makers, the Question Is: How Much Is Enough?–– Per i decisori politici, la domanda è: ma quanto è abbastanza? 33 Il dato sul calo mensile lo riporta sul Washington Post, 22.12.2001, S. Pearlstein, che riesce a titolare Spending Fell Only Slightly in Novemebr— La spesa è calata solo di poco a novembre, esclusivamente perché evita di tradurre in termini annuali il declino del mese... Scriveva, più realisticamente, il New York Times, qualche giorno prima, il 10.12.2001, di una Recovery and the Reluctant Consumer–– La ripresa e il consumatore riluttante, che si vedono poche prospettive di una ripresa a breve tirata dai consumi. Redditi stagnanti – spiega – e alti livelli di indebitamento personale, delle famiglie e delle imprese, la rendono fortemente improbabile. 34 Cfr., Global Research, Global Financial Markets Outlook della Bank of America Corporation, , Dec, 2001, #4., p.3. 32 26 Però, è vero altrettanto che anche dall’economia reale cominciano ad emergere una serie di dati confortanti o, comunque, più confortanti. Sul “fronte” manifatturiero, il più depresso nei mesi scorsi, si registra ad esempio un incremento degli ordini alle imprese (+7,1%), in ottobre, subito contraddetto a novembre, però, dalla diminuzione di ordinativi di beni durevoli35 (-4,8%) ed in particolare, di quelli del settore trasporti (caduti del 57,9%, specie gli ordini di aeroplani) al netto del quale ci sarebbe ancora un incremento, più limitato (1,1%) di ordini. Ma, nel tira e molla continuo dei dati, proprio a novembre l’indicatore di fiducia del settore esprime un incremento consistente salendo in un mese di quasi 5 punti, da 39,8 a 44,5. Crescono però poco, solo del 2% contro l’8,9 di ottobre, gli ordini di prodotti informatici e di computers. Più in generale, la fiducia dei consumatori misurata come di prassi dal Conference Board, sale a dicembre di 9 punti su novembre. Ma il Conference Board, che stila quest’indice-chiave36, ricorda esso stesso che poco più di un anno fa, era superiore di ben il 40% ai livelli attuali e adesso corregge i dati che aveva diffuso a ottobre e novembre riducendoli drasticamente. Di più, mette le mani avanti preannunciando che potrebbe doverlo fare anche a dicembre. Un articolo, serio, del Washington Post37 segnala però la coincidenza, definita “contraddittoria”, tra il balzo in avanti dei consumi di ottobre, trainato dal record di acquisti di auto nuove – con finanziamento a costo zero però, garantito dalle case automobilistiche agli acquirenti –, ed il livello massimo in dieci anni, sempre ad ottobre, di pignoramenti di case per insolvenza ipotecaria (però, a novembre, sono aumentate anche le vendite di case nuove). In realtà, non è una contraddizione. I dati riflettono entrambi un consolidamento di tendenza che si conferma. Infatti, l’espansione degli anni ’90 era stata tirata essenzialmente, come si sa, dal boom dei consumi, con un tasso di risparmio sceso quasi a zero nel 2000 e, di conseguenza, un rapporto tra indebitamento e reddito disponibile arrivato al massimo storico. Così, molte famiglie sono affondate nei debiti e, oggi, si trovano di fronte alla concreta realtà di non riuscire più a far fronte alle rate dei pagamenti perché, con lo scoppio della bolla speculativa, hanno perso parte dei loro risparmi in borsa e, magari, hanno perso anche il lavoro. O ne hanno potuto trovare solo uno che rende loro di meno, a volte anche molto di meno (quelli che il ministro del Lavoro Robert Reich chiamava, già a metà degli anni ‘90, i working poor–– i poveri al lavoro). Ma, come dire?, l’abitudine di spendere a credito, con denaro tutto sommato che costa poco – assai meno che da noi – anche sui mutui, è difficile perderla (e questo spiegherebbe anche l’aumento di nuove vendite di case a novembre) quando le case automobilistiche, ad esempio, ti concedono dilazioni di pagamento a dieci anni e a tasso zero ma di cui, ovviamente, poi le rate bisogna pagarle38… In ogni caso, le vendite natalizie39 sono andate malino. E, infine, pure l’indice NAPM (quello dei managers preposti agli acquisti delle imprese: che d’ora in poi cambia nome e si chiamerà Institute for Supply Management, istituto per la gestione dell’offerta) mostra segnali di ripresa (a dicembre sale di circa il 10% su ottobre: da44 a 48), non superando la soglia di contrazione del settore (che è uguale a 50 e sotto la quale si trova da molto, 35 Si definiscono così i beni destinati a durare almeno tre anni. Il Conference Board è un’organizzazione di ricerca economica internazionale, ma americana anzitutto, che lavora direttamente per le imprese, ben 3.000 in 67 paesi del mondo. Fondato nel 1916, ha lo scopo statutario di “migliorare e favorire il sistema imprenditoriale e gli affari”. Sito web, www.conference-board.org. 37 Washington Post, 4.12.2001, D. Deane e J.M. Berry, An Up and Down Recession–– Una recessione in altalena. 38 Tutti questi dati recenti hanno per fonte il comunicato del Dipartimento del Commercio del 28.12.2001. 39 A stare ai dati riportati dai grandi magazzini (Wal-Mart,. J. C. Penney, Federated Department Stores, quest’ultimo padrone di Macy’s e Bloomingdale’s) e riferiti dall’Economist del 5.1.2002: meglio, sicuro, di alcune aspettative assai fosche ma peggio, parecchio, dei risultati di un anno fa. 36 27 dall’agosto 2000) ma avvicinandola e innescando, così, una serie di reazioni – più esattamente di attese di sviluppi migliori – per il futuro dell’economia. Emerge, ma resta largamente ancora sotto traccia se non in qualche segnalazione più attenta di stampa40, il problema che ha affossato nel fallimento un colosso come la Enron: il fatto che non poche imprese, per far bella figura con gli azionisti, abbiano l’abitudine a non far comparire i debiti effettivi sui bilanci ufficiali che devono presentare alle autorità di controllo. Alla lunga, scoppiano. Nella rincorsa di tutti in tutto il mondo sviluppato a chi taglia meglio e di più la spesa pubblica – certa spesa pubblica, mica tutta… – in America stanno parlando molto, ma cominciano anche ad implementare, da qualche mese, un “piano” nuovo di sanità. Come è noto, gli Stati Uniti d’America vantano, a ragione, il livello di ricerca scientifica, nel campo della salute in specie, più sofisticato e produttivo del mondo (gran parte dei Nobel della medicina degli ultimi decenni vengono di qui), qui si trovano gli ospedali più all’avanguardia del mondo, la qualità più elevata di cure e, anche, la spesa sanitaria più alta del mondo: ben il 13,9% del PIL contro – per fare un paragone – il 6,8% di spesa del sistema italiano. Attenzione, però. Il nostro 6,8% di spesa sanitaria è spesa pubblica – c’è anche quella privata, ovviamente, ma è una percentuale minima extra – mentre del 13,9% americano il 6,5% – quasi quanto da noi dunque – è coperto comunque da fondi pubblici, cioè non è spesa finanziata dai privati. Ma da noi, malgrado i ritardi, le liste d’attesa, i ticket e quant’altro affligge chi si ammala, c’è un livello medio di sanità che, se non ci mettiamo a peggiorarlo di buon impegno – come ha attestato l’anno scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità – è il secondo del mondo. Lì, in America, malgrado quel colossale 14% di PIL che va alla spesa sanitaria, l’accesso all’ospedale resta impossibile per i 40-50 milioni di cittadini – nessuno sa esattamente quanti, ma questo è il calcolo che fanno le autorità sanitarie: tra il 15 e il 20% della popolazione – che il costo privato di quelle cure non possono permetterselo perché non possono permettersi i premi di una copertura assicurativa. In America, infatti, la cura è gratuita solo per i molto anziani (programma Medicare) ed i poverissimi (programma Medicaid): non per i poveri e, tanto meno, per chi un lavoro, comunque, ce l’ha. Non è, certo, che siano tutti ricchi gli americani che un’assicurazione sanitaria ce l’hanno. E che sono coperti dall’indispensabile polizza, da esibire all’ingresso in ospedale, pena – spesso – il non accesso neanche al pronto soccorso41, che in genere è garantita contrattualmente e legata direttamente al lavoro, non alla cittadinanza. Bene. Adesso, informa il New York Times – spiegando perché e come il nuovo piano sanitario aumenterebbe, sostanzialmente, quanto lavoratori e famiglie dovrebbero alla fine pagare di tasca propria42 – molte imprese lo stanno imponendo, nei contratti che firmano. Col risultato, calcola il NYT, che alle famiglie – non pro-capite, ai componenti, complessivamente – spetterà per contratto un bonus iniziale per le spese sanitarie di 2.000-3.000 dollari all’anno. Poi, pagheranno di tasca propria tutto quello che ecceda il bonus fino ad una spesa, diciamo, di altri 5.000 dollari. Dopo di che subentrerà di nuovo il piano che, a quel punto, coprirà il resto della spesa. New York Times, 23.12.2001, G. Morgenson, Chills in the Balance Sheets Shadows— Freddo all’ombra dei bilanci. L’eccezione sono le grandi catastrofi: quando nessuno al Pronto Soccorso – le leggendarie ER della televisione – osa chiedere la tessera dell’assicurazione, per farlo entrare, a nessuno. Ma, poi… In questi giorni, anche ai grandi feriti del massacro alle Torri gemelle, ad esempio, stanno arrivando i conti… 42 New York Times, 5.12.2001, M. Freudenheim, A New Health Plan May Rise Expenses for Sickest Workers–– Un nuovo piano sanitario può aumentare i costi a carico dei lavoratori più malati. 40 41 28 Un articolo interessante del NYT sottolinea le crescenti disuguaglianze di reddito nella società americana. E cita diversi economisti che ne attribuiscono la causa, o le colpe, al mercato 43. Non prende, però, neanche in considerazione l’alternativa possibile che la colpa sia di scelte politiche fatte negli ultimi anni e che hanno deliberatamente favorito anzitutto, o solo, gli alti redditi. Per esempio, la giaculatoria del libero commercio ha abbattuto fior di barriere all’ingresso in America di prodotti manifatturati dai paesi in via di sviluppo. Aiutandoli, certo, ma soprattutto aiutando le multinazionali che operano lì; ma aprendo alla concorrenza sui costi i lavoratori manifatturieri americani. Invece, tutte le Amministrazioni– da Reagan in poi, Clinton incluso – hanno continuato a proteggere i redditi, elevati ($200 mila di media annua) dei medici di casa difendendo con le unghie e coi denti le barriere all’ingresso di dottori stranieri. Ne arrivano molti, sicuro; ma ce ne sarebbero molti di più senza barriere artificiali: non certo quelle di controllo della preparazione dei singoli, ma le difficoltà di ammissione al praticantato. Due pesi, sì, e due misure: da una parte la classe medica, dall’altra i lavoratori del settore manifatturiero44. Ma non solo loro. Perché sempre due sono i pesi, e due le misure, tra infermiere/i e medici, qui. Denunciando la scarsità dell’offerta di personale di assistenza, il Congresso ha passato una legge45 che intende aumentare la formazione professionale necessaria a creare un maggior numero di infermieri. Ora, secondo la teoria economica standard, le “carenze” di una merce sul mercato si verificano solo quando e se il prezzo – in questo caso lo stipendio – è troppo basso e viene impedito di alzarlo. E’ proprio quello che fa adesso il Congresso. Mentre protegge, come s’è visto, assiduamente il reddito della classe medica ($200 mila dollari, in media) restringendo l’accesso alle facoltà di medicina per legge e ostacolando l’ammissione al meccanismo di residenza ospedaliera – il praticantato – dei medici stranieri, interviene sul mercato del lavoro per addestrare gli infermieri ma, aumentandone l’offerta, per continuare a tenerne il prezzo – il salario – a livelli più bassi (cinque volte, in media, sotto quello dei medici). Misteri del libero mercato. Sul fronte della produzione, i produttori di acciaio, segnala un altro servizio giornalistico del NYT assai ben informato, puntano alla fusione, sussidiata proprio da fondi pubblici46. Ma il pezzo che ne discute ignora del tutto – e, francamente, è inspiegabile – il ruolo che sulla non competitività dell’acciaio statunitense gioca da tempo la sopravvalutazione del dollaro scatenata rispetto a tutte le altre valute, tra il ‘97 ed il ’98, sull’onda dell’euforia congiunta di borsa e mercato. Così, le importazioni di acciaio entrano oggi in America a prezzi del 20, del 30% inferiori a quel che sarebbero se il dollaro fosse stato valutato a livelli più realisticamente corrispondenti all’economia reale, appunto, e non a quella di carta. E si levano anche voci che mettono fortemente in dubbio l’opportunità, e la necessità, di salvare con soldi pubblici i produttori. O, almeno, tutti… New York Times, 15.12.2001, A. Stille, Grounded by an Income Gap–– Atterrati da un baratro nei redditi. Di questi temi parlano, o hanno trattato, nel recente passato altri articoli sulla stampa americana: sul New York Times stesso, 15.2.1997, E. Rosenthal, U.S. to Pay Hospitals Not to Train Doctors, Easing Glut–– Gli USA pagano gli ospedali perché non addestrino medici, riducendo l’eccesso; ancora sul New York Times, 1.3.1997, R. Pear, A.M.A. and Colleges Assert There is a Surfeit of Doctors–– Ordine dei medici ed università asseriscono che c’è abbondanza di medici; sul Washington Post, 19.3.1996, L. H. Sun, Caught in the Middle–– Presi in mezzo. La tesi comune è che sono in tanti, i medici, e quindi non c’è bisogno di “importarli”. Ma poi vengono, nei fatti, importati perché in tanti non sono. Il punto è, però, che il governo è impegnato da anni a difenderne con barriere all’ingresso i loro redditi. Non quelli dei lavoratori chimici o dei tessili. 45 Washington Post, 22.12.2001, J. Elperin, Congress Acts to Stem National Nursing Shortage— Il Congresso legifera per tamponare la carenza di personale infermieristico. 46 New York Times, 5.12.2001, L. Wayne, Steel Producers Seek a Merger, with U.S. Help–– I produttori d’acciaio puntano alla fusione, con aiuti di Stato. 43 44 29 E, adesso, hanno appena passato – per ora solo alla Camera, e con un solo voto di margine – una legge procedurale, detta del “libero commercio” che consente a un accordo raggiunto dall’esecutivo di essere solo approvato o respinto dal Congresso e non più emendato47… Ma è una legge, di procedura, che intanto nega il suo nome in radice innalzando, o mantenendo, fior di barriere – su brevetti, patenti, diritti in particolare – e poi – violando e lasciando violare ogni standard e ogni diritto del lavoro – consente esplicitamente ai paesi oggetto dell’interscambio: di fissare l’età minima consentita per lavorare a cinque (diconsi 5) anni, di vietare o non tollerare la presenza del sindacato, di servirsi del lavoro forzato e discriminare, anche ufficialmente, le donne sul lavoro48. Tutte misure che le convenzioni dell’OIL, votate anche dagli USA e poi non ratificate, come si diceva, specificamente dichiarano illegittime. Come si capisce, l’AFL-CIO, il sindacato, ha dichiarato guerra a una simile legislazione. A quanto detto nella parte di Sintesi sulle borse, aggiungiamo qui quanto si apprende dal NYT49 dello strano – e un po’ misterioso – gioco in corso a Wall Street sul fondo chiamato QQQ, regolarmente quotato come tale, e composto dai 100 titoli del Nasdaq – il listino dei tecnologici – considerati più performanti. Un fondo che venne lanciato nel ’99, quasi al massimo del Nasdaq. Poi, come si sa, i titoli del Nasdaq sono crollati, in parallelo con quelli di tutta la borsa… Invece, il QQQ ha ancora aumentato la sua popolarità. Quest’anno, è vero, ha perso il 30% del valore. Ma il numero delle azioni QQQ è aumentato del 41%. In valore, sul massimo raggiunto nel 2000, l’indice è calato del 65%. Ma il numero delle azioni del QQQ si è quintuplicato. “In un giorno tipico – scrive un po’ esterrefatto il NYT – lo scambio di QQQ tocca i 3 miliardi e 100 milioni di dollari, più o meno il doppio del fondo che lo segue…” Secondo il direttore del QQQ, questo succede perché “gli investitori guardano al lungo termine quando ci comprano”. Che è, però, una contraddizione quasi in termini coi comportamenti normali di borsa (tanti o pochi, ma maledetti e subito) e, comunque, proprio col comportamento degli azionisti del titolo QQQ: infatti, “lo scorso mese il volume totale trattato è stato di quasi tre volte superiore al numero delle azioni esistenti–– indicazione che molti azionisti si muovevano rapidissimamente, fuori e dentro” e, di certo, non a lungo termine. Non si tratta, ovviamente, di imbonitori televisivi, o mediatici e neppure informatici. Ma il mistero rimane… E’ scomparsa – ricorderete – la crisi energetica catastrofica che, in primavera e in estate, aveva minacciato di paralizzare la California: ma è scomparsa grazie al controllo dei prezzi ripristinato dal governatore ed a forti misure di conservazione che si sono effettivamente cominciate ad implementare, non certo grazie al mercato… Il risultato è stato quello di congelare, per la crescita delle produzione energetica che ha fatto evaporare la crisi, le misure di welfare sfacciatamente diretto alle imprese con le quali Bush s’accingeva a “salvare” la California ma che non avevano assolutamente niente a che spartire con la natura della crisi stessa50. Ma c’è chi ci riprova. E’ il Texas, dove il governatore promette che non si ripeterà il disastro californiano ma i consumatori incrociano, a ogni buon conto, le dita. Adesso i fornitori competono, qui come era successo lì, anche se l’industria campione della deregulation, il gigante Enron di Houston nel frattempo è fallito e ha chiuso i battenti. New York Times, A Vote for Free Trade–– Un voto per il libero commercio, intitola un editoriale dal titolo falso e un po’ ditirambico. 48 New York Times, 14.12.2001, C. Pier, Defining Labor Rights–– Definire i diritti del lavoro: è una critica, dura e precisa, all’editoriale impropriamente elogiativo di una lettera attenta al direttore. 49 New York Times, 18.12.2001, F. Norris, When Failure Paves the Way for Success–– Quando il fallimento prepara la strada al successo. 50 Cfr. articolo citato qui in Nota12. 47 30 Sarà scetticismo, sarà prudenza, ma dei 4,7 milioni di utenti familiari che potevano cambiare fornitore, si contano sulle dita di una mano quelli che lo hanno fatto nei primi giorni. E adesso tutti stanno a vedere51. Nel terzo trimestre, infine, è sceso a $95 miliardi il deficit delle partite correnti degli USA52: l’unica conseguenza probabilmente buona del rallentamento economico. Germania I tempi realisticamente prevedibili per una concreta ripresa economica qui, non sono ancora chiari a nessuno. Anche se parecchi analisti adesso concordano che ormai il rallentamento ha toccato il suo minimo53, le analisi dei dati rimangono caute. Di fatto, l’indice IFO sulla fiducia delle imprese (indagine mensile che interessa i manager di oltre 7 mila imprese tedesche) sale in novembre, anche se lievemente (+0,2 punti su ottobre), dopo quattro consecutive cadute mensili e, a dicembre, ancora di più, per le aspettative future a medio e lungo, non tanto a breve, termine che scommettono sulla ripresa celere dell’economia americana, con la sequela attesa di una forte ripresa dell’export (che, comunque nel 2001, non è andato male per niente). Il quadro, però, tutto sommato rimane depresso con gli altri indici congiunturali, non quelli dell’economia sperata ma di quella reale, che non accennano ad invertire la tendenza negativa. Sul fronte del mercato del lavoro, la disoccupazione in novembre è all’8%, una posizione di centro nella media dei paesi euro, indice medio 8,4%. Ma sono un ammontare complessivo di 3,8 milioni che, a dicembre, arriva quasi a sfiorare l’“incubo politico” dei 4 milioni di senza lavoro che il cancelliere Schröder aveva detto essere per lui “programmaticamente intollerabili”, specie in un anno anche qui di elezioni. E la tendenza generale è negativa in Germania: mentre in Europa la disoccupazione, nell’arco di dodici mesi, è calata dello 0,2% (è al minimo in Olanda, col 2,2%; al massimo in Spagna, col 12,9; in Italia, ad ottobre, ricordiamolo, era scesa al 9,3: dello 0,7% dal 10% dell’ottobre 2000), qui in Germania è cresciuta dello 0,3%. Per la fine del primo trimestre del 2002, il ministro federale del Lavoro stima che l’ammontare complessivo dei disoccupati tedeschi possa raggiungere 4 milioni e 200 mila unità. E intanto gli industriali dichiarano che quasi il 40% delle aziende54 lamenta carenza di dipendenti nei settori dell’ingegneria e nei lavori specializzati. Insomma, nonostante una disoccupazione che sfiora ormai il massimo, ci sarebbero per il problema dello scarto tra qualificazioni e lavoro, evidentemente non superato anche qui malgrado ogni vulgata – un milione di lavori disponibili e non coperti. Sullo stesso fronte, negando l’assioma che tra livelli salariali e numero di posti di lavoro e tra salari e inflazione ci sia un rapporto diretto, il sindacato di categoria più radicale e tra i più forti, l’IgMetall, parte – parte: è la posizione iniziale…55 – chiedendo, nel rinnovo del contratto collettivo per i metalmeccanici, aumenti salariali tra il 5 e il 7%: sulla carta, il doppio del tasso di inflazione programmato (per il 2001 ritoccato ora, nella previsione ufficiale, al 2,5%; ma in realtà, nell’anno New York Times, 3.1.2002, J. Yardley, Hoping It’s No California, Texas Deregulates Energy— Nella speranza che non sia una California, il Texas deregola l’energia. 52 Dipartimento del Commercio, comunicato del 12.12.2001. 53 E’ il parere, autorevole ed ascoltato, ad esempio, dell’IFW, l’Istituto per la ricerca economica di Kiel, che ha parlato (Ansa, 11.12.2001) di “fondo del barile congiunturale toccato” e di ripresa che potrebbe cominciare a farsi sentire “già nelle prossime settimane”. 54 Secondo i dati pubblicati il 20.12.2001, a Francoforte, di un sondaggio della DIHK, l’Associazione delle camere di commercio industriali, tra 20 mila imprese. 55 Lo fa notare (Die Welt, 11.12.2001) anche il Cancelliere Schröder: “le richieste sono richieste, non il risultato del negoziato”. 51 31 fino a dicembre, ben inferiore, l’1,7%; e, per il 2002, programmato ora all’1,5% ma atteso un qualche po’ superiore). E solleva le rimostranze immediate non solo di industriali e ambienti finanziarti ma anche del Commissario europeo, Pedro Solbes, per il quale è scontato che i salari debbano restare sempre in linea coi prezzi. Osservazione, di per sé, ragionevole e diremmo comunemente accettata, se quando qualcuno dall’altra parte, da parte industriale, rifiuta poi di onorarla, il Commissario Solbes facesse ugualmente, e coerentemente, sentire la sua autorevole voce. In novembre l’attività produttiva nel settore industriale ha segnato una variazione negativa del 2,1% su base mensile e, su base annua, una caduta del 4%. Dati della realtà, di molto superiori alle attese degli analisti: -0,8% per la variazione mensile e -2,1% per quella annuale. L’euro in arrivo, che scatena le nostalgie di non pochi tedeschi per il loro marco 56, vista la sua esagerata debolezza fa comodo ora all’industria: a dicembre, ed alla faccia di ogni rallentamento, l’avanzo della bilancia commerciale del 2001 – con 88 miliardi di marchi (44,9 miliardi di euro) contro un surplus del 2000 che s’era fermato a 59 miliardi di marchi – sarà avanzo record57. Anche qui, soprattutto per la frenata delle importazioni al +3% sul 2000 contro un aumento più che doppio dell’export, al +7%. Ma si tratta senza alcun dubbio di un attestato straordinario di fiducia nei prodotti tedeschi e di un incremento straordinario, di oltre il 40%, in un anno che ha visto in crisi gli scambi mondiali. La situazione economica, col forte rallentamento della crescita, mette poi seriamente in difficoltà il processo di equilibrio delle finanze pubbliche. Il governo prevede di dover ormai posticipare dal 2004 al 2005-2006 l’obiettivo del pareggio di bilancio, anche in vista di attendibili scenari di previsione sulla crescita del PIL per i prossimi anni. Scenari piuttosto foschi, di crescita del PIL nel 2002 a +0,75% invece che alla stima precedente dell’1,25%, che non lasciano davvero molto spazio né per manovre ulteriori di riequilibrio finanziario, né per le spese pubbliche pure necessarie a far fonte alla disoccupazione montante. Così che molti analisti prevedono oggi per il 2002 un rapporto deficit/PIL non inferiore al 2%: il doppio dell’obiettivo ufficiale di un disavanzo all’1%. Francia Degrada anche qui, nel paese europeo che aveva meglio difeso il rapporto tra i livelli di crescita e di mantenimento degli equilibri sociali, la situazione congiunturale. Comunque, la crescita del 2001 prevista sopra il 3% è di oltre un punto sotto i pronostici ufficiali, al 2,1%. Secondo l’INSEE58, l’economia inizia in netto rallentamento l’inverno, coi dati previsionali sull’ultimo trimestre vicini allo zero di crescita (la Banca di Francia, un po’ più ottimista, li dà allo 0,2%) che salirà appena nei primi tre mesi del 2002 e dello 0,4 nel secondo trimestre. Tagespiegel, 15.12.2001, M. Ohm, Die Euro-Gegner geben keine Ruhe–– Gli avversari dell’euro non danno tregua. Contro ogni speranza – tra l’altro qui, secondo dettato costituzionale, l’euro ha rimpiazzato il marco in un solo secondo: il primo dopo la mezzanotte di Capodanno, senza alcun periodo di doppia circolazione consentita – un gruppo di economisti da sempre ferocemente contrari alla moneta unica ha tentato, senza successo, di contestare il principio, “una nazione un voto”, con cui venne presa a suo tempo la decisione che, essi asseriscono, avrebbe invece dovuto essere assunta calibrandone il peso proporzionalmente alla potenza economica di ogni paese. E’ un reclamo inane, anche perché dopotutto la Germania di Kohl fu tra i paesi che con più convinzione presero quella decisione. Ma, al di là del pretesto, la critica di questo gruppo non è, di per sé, infondata: è la nostra. Deplorano la mancanza, dietro l’unità monetaria, di un’unità politica, economica e sociale. Ma mentre noi – noi della CISL, noi italiani in grande maggioranza, il sindacato europeo – diciamo che adesso quelle carenze vanno d’urgenza riempite anche per assicurare il necessario supporto alla moneta unica, questi “prominenteste Kritiker” sperano – e dichiarano – che salti anche la moneta unica… 57 Comunicato dell’Ufficio federale di Statistica del 28.12.2001. 58 Comunicato dell’INSEE, 20.12.2001. 56 32 Tornano in questione, così, le previsioni ufficiali di un bilancio 2002 che puntava su una crescita minima del 2,25, forse del 2,50% che ora, secondo le previsioni INSEE – però limitate a sei mesi – “difficilmente sarà molto elevata”. L’OCSE la prevede, con un po’ di ottimismo, all’1,6%. E crescono, dunque, anche qui, preoccupazioni non marginali sulle finanze pubbliche: il governo insiste nel ritenere – o, comunque, nell’annunciare di ritenere – assolutamente sotto controllo le spese pubbliche, ma la minore crescita comporterà problemi inferiori a quelli tedeschi ma superiori a quelli italiani ai piani di rientro del deficit. In particolare, il governo sembra ora intenzionato a rimandare a non prima del 2005, data alla quale ormai ha rimandato il raggiungimento dell’obiettivo di equilibrio della finanza pubblica, il piano, in precedenza approvato anche in Parlamento e solennemente annunciato, di tagli alle tasse mirati, nelle intenzioni e nelle speranze, a sostegno della ripresa. Il governo intende ridurre anche così lo squilibrio fiscale per trovare, insieme ai minori interessi sul debito, le risorse necessarie ad affrontare sia diverse riforme di struttura – “quando e come si potrà”, ha specificato però il ministro del Lavoro, Elisabeth Guigou 59 – sia il tema che cresce della disoccupazione. Si fa, infatti, più critica la situazione sul mercato del lavoro dove continuano a “perdersi” molti posti. Novembre ha segnato un incremento della disoccupazione dell’1,4%: il sesto aumento consecutivo che porta il monte dei senza lavoro ufficiali a 2 milioni e 200 mila disoccupati e ad un tasso del 9%. Rispetto ad un anno fa (9,1%), la disoccupazione, comunque, qui è ancora in calo. Tornano le diatribe sulle 35 ore, che hanno creato 350 mila posti, non proprio tantissimi, ma hanno consentito pure una maggiore flessibilità (concordata) e, dunque, una maggiore produttività nell’organizzazione del lavoro. Col 1° gennaio, diventano legge anche per le imprese con meno di 20 dipendenti— ma il periodo di transizione copre ancora quasi quattro anni. Il problema è che, adesso, il Consiglio costituzionale ha bocciato parte del meccanismo di finanziamento escogitato dal governo Jospin, bloccando il trasferimento dei 2,7 miliardi di euro che avrebbero dovuto affluirvi dalle casse della previdenza sociale. Sul piano politico, la decisione ha rappresentato, obiettivamente, una mano all’opposizione di centro-destra e al MEDEF, l’associazione degli industriali. Ma quello del governo era stato – e si sapeva, lo sapeva pure il governo – un azzardo rischioso: stornare i fondi della sicurezza sociale per legge era per lo meno dubbio che fosse legittimo; arrivare a modificarne in parte la destinazione col dialogo e la concertazione con le parti sociali – imprenditori compresi – avrebbe voluto dire correre meno rischi. E, adesso, l’azzardo – usuale per ogni governo d’oltralpe, dove tutto si tende a fare per legge marginalizzando il ruolo delle parti sociali secondo consuetudine napoleonica, poi gaullista e oggi di tutti – si paga, sotto forma di smacco politico e con le elezioni alle porte, anche qui (maggio o giugno), in una situazione economica che, proprio sul piano occupazionale, il più delicato, sembra un po’ più in degrado. Anche la destra, però, sbaglia mosse attaccando il governo che, dice, cede alle rivendicazioni del pubblico impiego, cominciano da quelle della Gendarmerie nationale60. E’ un errore, perché qui ricordano tutti come il governo di Alan Juppé, l’ultimo primo ministro di destra prima di Jospin, con Chiraq già presidente, si calasse letteralmente le braghe di fronte ai camionisti e ai trasporti in agitazione. 59 Afp, 20.12.2001. Le Monde, 11.12.2001, La droite reproche à M. Jospin de provoquer une “décomposition” de l’Etat–– La destra rimprovera al sig. Jospin [qui in Francia non ci sono dottori, se non i medici, nè commendatori, cavalieri e onorevoli: sono tutti Messieurs: semplicemente signori] di provocare una “decomposizione” dello Stato. 60 33 L’altro elemento fortemente negativo è la frenata degli investimenti che tuttavia, controbilanciata com’è dalla tenuta dei consumi, non dovrebbe mettere in pericolo, per l’anno che sta per concludersi, una crescita tra il 2 e il 2,1%, con stime ragionevolmente affidabili per il 2002 che puntano ad un tasso annualizzato del 3% che verrà raggiunto nella seconda metà dell’anno. Non mancano elementi positivi nel quadro economico, come la flessione dello 0,3% dei prezzi a novembre che porta l’inflazione annuale all’1,2% (era l’1,8% in ottobre), con un indice annuale armonizzato che non si discosta di molto, all’1,3% e prezzi alla produzione che, nei dodici mesi fino a novembre, scendono del 2,3%. Notizie meno preoccupanti di quanto si potesse temere riguardano consumi e fiducia delle famiglie. I consumi delle famiglie francesi sono aumentati, a novembre, dello 0,2% su ottobre, la stessa percentuale di ottobre sul precedente settembre. E l’indice di fiducia, che pure rimane su livelli negativi, migliora riportandosi ai valori di luglio. Risale anche, ed è la prima volta da 19 mesi, l’indice di fiducia delle aziende. Gran Bretagna I dati congiunturali caratterizzano una situazione sempre positiva del quadro economico con crescita dello 0,5% nel terzo trimestre, e tasso tendenziale annuo al 2,2%61: reggono bene le spese per i consumi, +1,1%: che, poi, da novembre a novembre, crescono in volume del 7,1%, la percentuale maggiore dal 1988 e regge il settore edile. Le stime ufficiali prevedono, ancora, un ritmo di crescita tra il 2 e il 2,5% per il nuovo anno e tra il 2,75% e il 3,25 per il 2003. Ma emergono dubbi sul futuro dell’economia britannica, a partire dal declino ribadito del settore manifatturiero che vede la produzione nel trimestre calare dell’1,1% e la bilancia commerciale che continua ad essere in rosso (per 3,4 miliardi di dollari fino ad ottobre), in aumento specie nei confronti degli altri paesi dell’Unione europea. Qualche problema viene anche dal mercato del lavoro, dove cresce il numero dei disoccupati che, ad ottobre, raggiungono le 959 mila unità e continuano a crescere anche a novembre, per la prima volta dal ’92 per due mesi consecutivi. Ed è una cifra che aumenta comunque sia calcolata: coi canoni estremamente ritrosi delle statistiche nazionali (tasso di disoccupazione al 3,2%), o con quelli armonizzati – più o meno – agli altri paesi europei scanditi dal metro dell’OIL (1 milione e 520 mila disoccupati e il 5,5%, su ottobre addirittura +0,4%). L’incremento dei salari, del 4,4% annuo, è più o meno in linea con l’obiettivo fissato dalla Banca d’Inghilterra e non dovrebbe comportare problemi dal punto di vista dell’inflazione che, a novembre, rimane ben sotto controllo al tasso annuale dell’1,8%. Qui la partenza dell’euro, che a livello popolare non attira affatto una popolazione molto blasée ma anche, e non poco, sciovinista come quella britannica, ha comunque procurato uno shock da sano realismo: perché molti qui, come moltissimi americani – il più illustre, forse, Milton Friedman, l’ultraliberista premio Nobel dell’Economia che ci ha perso sopra una piccola fortuna – scommettevano sulla mancata partenza effettiva dell’euro. E adesso ci devono fare i conti, lacerati tra la voglia di essere una voce decisiva e, magari, anche di far da guida all’Europa – corre voce, autorevolmente che Blair si candiderebbe a successore di Prodi: ma non può farlo senza, prima, far entrare il paese nell’euro e spera, pare, che questo sarebbe un incentivo per tanti – e l’euroscetticismo che ancora dilaga62. Comunicato dell’Office of National Statistics, 20.12.2001. Il Sun, tabloid popolare che vende milioni e milioni d copie, tra mezzi nudi e titoli sparati – dopo aver predicato per mesi che, appunto, l’euro non sarebbe partito – senza fare una piega ha titolato “Alba di un nuovo errore” l’1.1.2002 la partenza dell’euro; scrivendo l’iniziale di euro con la e tagliata del simbolo della moneta unica. 61 62 34 Per di più, il big bang dell’euro ha reso anche evidente che la maggior parte dei partners dell’UEM vedono l’esperienza come il sentire popolare qui non la vuole: come un passo importante verso una maggiore integrazione europea. Ma, se Buckingham Palace – la famiglia reale – non accetta di farsi pagare in euro i biglietti che vende ai turisti (però neanche in dollari, a dire la verità), altre istituzioni quasi altrettanto sacrali (i grandi magazzini, Harrods e Marks & Spencer) lo fanno. Anche qui, contro c’è l’argomento della Banca d’Inghilterra che rifacendosi alle lentezze della BCE preferirebbe conservare il potere di decidere i tassi senza doverlo delegare a Francoforte63 – come avrebbero preferito, del resto, tutte le banche centrali, Bankitalia compresa – e ci sono argomenti più spuri, come quello di una “sovranità” nazionale che non va sacrificata sull’altare europeo quando è da tempo che, in realtà, come per ogni paese, non esiste già più e nei contenuti potrebbe essere, forse, recuperata solo a livello sovrannazionale europeo. Più seriamente, ci si rende conto gradualmente anche qui che, una volta passato, l’euro finirà col dominare, anche restandone fuori, la vita economica dell’isola: se non altro perché tutti i pagamenti che fanno a Bruxelles e quelli che ne ricevono, anche gli inglesi (e i danesi e gli svedesi) devono ormai farli in euro e perché adesso, andando all’estero, i turisti britannici si accorgeranno di essere i soli in Europa a dover fare ancora a botte col cambio. Giappone E’ ufficiale che più non si può: l’economia giapponese è in recessione. La crescita del terzo trimestre è ancora in calo netto, del 2,2%, dopo il catastrofico -4,8% del secondo. E’ la terza recessione ufficiale del paese in otto anni. E anche il superindice dell’attività economica è sceso in ottobre da 27,3 a 14,3, in ribasso per il quinto mese consecutivo sotto la soglia considerata normale di 50. E’ in atto una specie di processo di “svuotamento” delle imprese che, in molte tra le maggiori, trasferiscono all’estero parti importanti della produzione, come si dice, offshore, e con benefici che calano “consolidano”, cioè riducono, in patria produzione e lavoro. In effetti, la produzione industriale cala a novembre dell’1,8% su ottobre e del 13,1% nei primi undici mesi dell’anno e disoccupazione e deflazione in aumento riflettono una spesa per i consumi delle famiglie che resta debole. L’OCSE prevede, per l’anno in corso, ancora una flessione netta di PIL dello 0,7%, che dovrebbe addirittura accentuarsi nel 2002 a un -1% per una più forte caduta dei consumi privati e, soprattutto, degli investimenti (rispettivamente -0,2 e -5,9). Col contrarsi dell’economia sale, come abbiamo accennato, la disoccupazione che, a novembre, raggiunge il 5,5% della forza lavoro (3,5 milioni di giapponesi, +410 mila e +13% rispetto a un anno prima; percentuale di disoccupazione, poi, più alta per gli uomini, 5,8% – molti capifamiglia e quasi tutti tra i 45 e i 54 anni – e meno per le donne, 4,9: entrambi i dati in crescita)64. E’ un record storico per questo paese che, da otto mesi consecutivi, vede aumentare il numero dei senza lavoro ufficiali, calcolati cioè col conteggio consueto e, deliberatamente, assai ritroso a contare i disoccupati reali. Le previsioni dicono che a fine primo trimestre 2002, la disoccupazione salirà al 6% 65, avendo molte imprese annunciato altri licenziamenti a fronte di una produzione industriale che ha raggiunto Sir Edward George, governatore della BoE, ha detto che ci sarebbero rischi per l’economia a delegare questo potere cruciale: lui ha tagliato i tassi nell’ultimo anno per sette volte e con buon tempismo, la BCE è stata molto più avara e più lenta... 64 Comunicato del ministro dell’Economia, 28.12.2001. 65 Questo è anche il parere, riferito dallo Yomiuri Shinbun del 2.1.2002, dell’80% dei massimi dirigenti delle maggiori imprese giapponesi (inclusi i presidenti di Sony e Toyota) consultati in un sondaggio. E un altro sondaggio della 63 35 il livello più basso da 14-15 anni a questa parte. E’ un problema che si fa serio anche perché sembra tramontata l’era della spesa facile, finanziata a debito, dei tanti lavori pubblici utilizzati, al di là spesso del loro effettivo bisogno e valore, come valvola di sfogo della pressione sociale. Ulteriore indicatore di difficoltà dell’economia è l’ennesima flessione dei prezzi al consumo che, a novembre, calano ancora dell’1% su base annua: per il ventisettesimo mese di seguito. Il 2001 dovrebbe chiudersi con un tasso negativo del -1,6, forse -1,8% e anche il 2002 segnerà una deflazione vicina a questo valore. Non è un buon segnale, per niente: significa continua contrazione di produzione, ricchezza, consumi, tenore di vita e, naturalmente, profitti al cui calo molti fanno risalire la colpa dei fallimenti che colpiscono l’economia giapponese (aumentati del 10% da novembre 2000 a novembre 2001: 1.851 imprese, contando solo quelle medio-grandi, fallite66 quando le banche hanno rifiutato di rinnovare tratte, cambiali e credito ai loro debiti). Qualche (timidissimo) segnale positivo proviene, forse, dall’indicatore che misura la fiducia degli imprenditori, il Tankan della Banca centrale: che cala anch’esso, sia chiaro, però meno di quanto si attendessero in molti e preannunciassero gli aruspici finanziari. Così come la borsa di Tokyo riesce a chiudere l’ultima seduta dell’anno con un leggero incremento dell’indice Nikei che, in questo contesto, è sorprendente. Poi ce lo yen, il cui progressivo e anche pesante indebolimento nei confronti del dollaro ha raggiunto il minimo da tre anni67. C’è una scuola di pensiero, che monta, a indicare proprio questa però come la strada in fondo più indolore per sfuggire alla deflazione e rilanciare, insieme, anche le esportazioni (preoccupando, però, tutti gli altri paesi dell’area asiatica sud-orientale che, per difendere le proprie esportazioni, adesso minacciano una cascata di svalutazioni a catena). La bilancia commerciale resta naturalmente in attivo, dato il largo surplus accumulato (sui 4,3 miliardi di euro), ma la flessione di novembre è stata per il 17° mese consecutivo, su base annua del 5% verso gli Stati Uniti e verso l’Unione europea ancora più accentuata con -35,65% di attivo (il dato complessivo è a -16,3%). A svalutare lo yen ufficialmente restano, al momento, sempre duramente contrarie le autorità monetarie che, tuttavia, con un tasso di sconto già allo 0,1% non possono offrire altro dal lato monetario–– se non, forse, la creazione di inflazione attraverso un forte aumento della liquidità e la creazione cercata, così – stampando moneta – di un po’ di inflazione. Opzione eretica – ma poi non tanto di più della svalutazione – ma comunque ormai anche forse possibile e di cui, con grande disdoro della Banca del Giappone, si comincia a discutere anche dentro il governo. Su questo depresso, e deprimente, quadro macroeconomico l’agenzia di rating Moody’s ha declinato, già a dicembre, da Aa2 ad Aa3 il debito interno in yen e, dunque, i titoli pubblici giapponesi68. Nel pentolone nipponico stanno ribollendo insieme tre crisi: • quella bancaria: matura – marcita, anzi, quasi ormai decomposta – da anni; • quella politica, delle riforme che non arrivano mai: ma diversamente che altrove, ad esempio in Europa, vede la crescita non rallentata ma drasticamente abbattuta; • e quella, legata alle prime due, del mercato giapponese dei buoni del Tesoro e delle obbligazioni. Agenzia Kyodo, di cui parla il New York Times nella stessa data, 70 managers su 100 dicono che quest’anno taglieranno i salari dei dipendenti. 78 affermano, poi, di non credere che l’economia del paese accennerà a riprendersi almeno fino a novembre. 66 Cfr., The Economist, 24.12.2001. 67 Reuters, 14.12.2001, Yen Slides to 3-Year Low Against Dollar— Lo yen scivola al minimo da tre anni sul dollaro. 68 Segnalava già il mese scorso questa Nota congiunturale 12-2001, a p. 37, che tra i G-7 si tratta della valutazione più bassa, con quella assegnata al debito pubblico italiano. Del resto, sono gli unici due debitori che superano il 100% del PIL. Con la differenza che quello nipponico è in continua crescita e, in parte non irrilevante, in possesso di creditori stranieri, quello nostrano lo andiamo riducendo ed è quasi tutto in mani italiane. 36 Il rischio, che molti danno già per scontato, è che il 2002 sarà l’anno in cui questi nodi, uno o due o – chi sa – tutti e tre, verranno al pettine, con implicazioni profonde e dirette – questa è la seconda economia del pianeta e detiene un gran mucchio di crediti a far valere sulla prima, se la crisi la mettesse alle strette… – sull’economia globale. La crisi bancaria si riassume in tre altri nodi, suoi propri: • le molte, troppe, imprese sull’orlo della bancarotta, che ormai non fanno profitti sufficienti a onorare i debiti, e il servizio del debito, contratti verso le banche; • la mancanza di capitale accusata da molte banche e che non consente loro, così, di procedere alla cancellazione di molti, tanti, debiti andati a male; • e il fatto che il prossimo aprile scompare – una volta per tutte? – l’assicurazione statale, illimitata, sui depositi bancari grazie alla quale qui, più profondamente di quanto avverrebbe in ogni altro paese comunque, così intimamente nei guai delle banche s’è trovato coinvolto lo Stato. Era questo, far fronte alla crisi bancaria, il compito che il primo ministro Koizumi aveva assunto come prioritario in campagna elettorale e nel programma di governo e con cui aveva, poi, stravinto le elezioni. Ma nulla si è mosso e il ritmo con cui le banche procedono ala cancellazione dai libri dei debiti inesigibili è lumachesco, del tutto inidoneo a ridurne la montagna con qualche effetto. Il fatto è che, secondo gli osservatori, lo slancio riformatore che ha portato J’unichiro Koizumi alla premiership e alla vittoria sembra essersi molto annacquato, sotto l’impatto della crisi crescente e del freno del suo partito, la “balena bianca”, il partito liberaldemocratico dei cacicchi locali69. Un osservatore impietoso ma realista come Krugman70 – che pure continua a sostenere le colpe precipue della Banca del Giappone nella recessione per il rifiuto a creare un po’ di inflazione stampando moneta: che qui sarebbe la cura migliore alla deflazione rampante da anni, non un disastro come neri casi in cui la minaccia reale siano i prezzi che crescono – ha scritto che il primo ministro “somiglia ogni giorno di meno a Franklin Roosevelt e di più a Herbert Hoover”: il grande presidente che, col New Deal, riformò l’America dopo il crollo del ’29 e il suo predecessore, conservatore a 24 carati, che l’affossò col suo lasciar fare al mercato… E’ un problema grave per un paese che, nell’apprezzamento di parecchi osservatori 71 sembra ormai in un declino senza possibili freni. Ma che dieci anni fa era al top e stava seppellendo, ricordate?, gli Stati Uniti. E che fra dieci anni, chi sa? Certo che, se la cura dei mali economici del Sol Levante è quella, sagace, scientifica, predicata dal ministro super dell’Economia, Heizo Takenaka (che “la gente si deve dare una smossa, spendere di più, prendere coraggio dalla nascita della principessa (sic!) come segno di buon augurio e rimboccarsi le maniche72”, le speranze di ripresa per il Giappone si fanno fugaci. CALENDARIO 1/2002 • Nelle tasche della gente, in tutta Europa (o quasi: in 12 paesi su 15 dell’Unione), arriva l’euro: nell’immediato, le tasche le appesantisce nel senso proprio del termine (tutte queste monete e monetine…), ma la speranza – e le ragionevoli aspettative, se i governi riescono a dare un seguito Ha dichiarato il segretario generale del PLD, Taku Yamasaki, all’Asahi Shinbun del 26.12.2001 che la crisi bancaria potrebbe scoppiare già a febbraio o marzo e che, dunque, si fa “imperativo” l’intervento di salvataggio del governo verso le banche con fondi pubblici. Solo qualche giorno prima, il 21 dicembre, sempre l’Asahi , edizione inglese, Big Cuts in 2002 Budget— Tagli pesanti al bilancio del 2001, aveva lungamente illustrato i tagli di spesa pubblica proposti per il 2,3% dal ministero delle Finanze rispetto al 2001. Bilancio di austerità che, a questo punto, va a farsi però benedire. 70 Cfr., ancora, l’ articolo citato in Nota12. 71 Uno, serio, per tutti: le Monde, che titola una corrispondenza del 18 dicembre Le Japon en voie de devenir une puissance moyenne?— Il Giapppne si avvia a diventare una media potenza?, che per la seconda potenza economica del mondo è un vaticinio pesante. 72 Yomiuri Shinbun, 7.12.2001 69 37 economico, sociale e politico a quello monetario – è che serva ad appesantirne anche, non troppo in là, il potere d’acquisto. • La Spagna assume la presidenza semestrale dell’UE. • A New York, eccezionalmente invece che in Svizzera – tra misure di sicurezza che come stavolta di certo mai s’erano viste – si riunisce l’annuale Forum economico mondiale di Davos: ci saranno tutti i potentati economici e finanziari del mondo, a scambiarsi chiacchiere e – forse – qualche idea e anche – forse – uno o due leaders sindacali. • A Porto Alegre, in Brasile, si riunisce in contemporanea il Forum sociale mondiale , alternativo e dichiaratamente rivale: anche qui, qualche dirigente sindacale sarà sicuramente presente. • Trentesimo anniversario di regno per Margareta di Danimarca. • Jaime José Matos de Gama, ministro degli esteri portoghese, assume la presidenza dell’OSCE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea. Nata verso il ’75 dagli accordi di Helsinki tra Ovest ed Est – prima con l’obiezione e poi con l’adesione anche degli americani – ha fornito e fornisce quel poco di trama di ricerca di sicurezza comune che, al di là dell’impotenza – voluta – dell’ONU e dell’unilateralità della NATO, esiste ancor oggi tra Est ed Ovest in Europa. • Entrano a far parte per due anni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Messico, Camerun, Guinea, Bulgaria e Siria. • Elezioni parlamentari in Lesotho ed in Gambia. 38 INDICATORI ECONOMICI E FINANZIARI A CONFRONTO % PIL PRODUZIONE VENDITE AL DISOCCUPAZ. INDUSTRIALE DETTAGLIO % di variazione su base annua 1° trim 1 anno 1 anno (volume) 1 anno Ultimo dato INFLAZIONE 1 anno Ultimo dato fa 1 anno fa SALARI Ultimo dato 1 anno fa RENDIMENTI TITOLI DECENNALI DI STATO RENDIMENTI DI MERCATO DEI TITOLI TRIMESTRALI al 31.12.00 [al 2. 1. 2002] ITALIA BORSA: % DI CAMBIAMENTO in val. loc. in $ - 25,3 -28,1 0,6 1,9 0,9 Ott -0,3 Ott 9,4 Lug 10,5 2,4 Nov 2,7 2,8 Nov 1,8 STATI UNITI -1,1 0,6 - 5,9 Nov 5,4 Nov 5,7 Nov 4,0 1,9 Nov 3,4 3,9 Nov 4,2 5,16 1,77 GERMANIA -0,6 0,3 - 4,0 Ott 1,1 Ott 9,5 Nov 9,3 1,7 Dic 2,2 2,2 Ott 2,2 - 19,7 -22,6 FRANCIA 1,9 2,0 - 0,3 Ott -1,3 Ott 9,0 Nov 9,1 1,2 Nov 2,2 4,1 5,3 - 21,5 -24,4 GRAN BRETAGNA 1,7 2,2 - 4,2 Ott 7,1 Nov 5,1 Ott 5,5 0,9 Nov 3,2 4,4 Ott 4,2 4,99 4,00 - 16,1 -18,8 GIAPPONE -2,2 -0,5 -13,1 Nov -2,1 Set 5,5 Nov 4,8 -1,0 Nov -0,8 - 0,8 Nov - 1,35 0,02 - 23,5 -33,9 SPAGNA 1,1 2,8 3,0 Ott EURO-12 0,4 1,3 - 2,7 Ott nd 1,8 Set - 6,6 - 19,9 12,9 Ott 13,6 2,7 Nov 4,1 3,6 n.d. - 6,5 -10,0 8,4 Ott 8,5 2,1 Nov 2,9 3,0 2,3 4,89 3,28 - 21,0 -24,0 39 PAESI BILANCIA COMMERCIALE ($ miliardi) CONTI CORRENTI $ mldi in % del PIL ultimi previsioni 12 mesi 2001 ultimi 12 mesi ITALIA STATI UNITI 4,9 - 4,6 Set - 0,2 - 1,4 2.142 - 4,1 0,6 – 69,4 Ott - 6,8 Ott - 0,7 - 2,5 0,9 Ott 22,8 Ott 1,4 47,2 Ott - 17,7 - 1,7 74,9 Ott 89,2 Ott 2,7 38,4 Set - 15,1 Set - 2,5 24,9 Ott - 31,2 Ott - 0,3 - - ( per euro) al 2.1.2002 1 anno fa -430,7 GIAPPONE EURO-12 ( per $) 2001 Ott FRANCIA SPAGNA VALORE DEL CAMBIO In valuta locale - 438,9 GERMANIA GRAN BRETAGNA Ott RAPPORTO DEFICIT PIL 2.048 1.936 – 0,90 2,16 2,07 1,96 - 1,5 7,26 6,94 6,56 1,1 0,69 0,66 0,63 - 6,4 132 114 119 - 184 176 166 1,11 1,06 – - 1,2 [Dove non indicata con -, la percentuale di cambiamento è +] 3° trimestre 2001 2° trimestre 2000 dal gennaio 1999, tra i paesi dell’euro e dell’Unione monetaria governata dalla Bce, non ci sono più differenti “prime rates” né tassi diversi sui titoli pubblici sia a breve che a lungo. Quelli qui riportati per l’Euro-11 valgono, infatti, dal 4 gennaio 1999, per tutti i paesi europei della nostra lista consueta eccetto la Gran Bretagna che è restata fuori (cioè per Germania, Francia, Spagna e Italia) Indice Dow Jones Indice Nasdaq FONTE: The Economist, 5.1.2002 Economic and Financial Indicators 40