IMMAGINI DELLA CITTÀ

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IMMAGINI DELLA CITTÀ
LORENZA SANDRIN A.S. 2001-2002
TESINA PER L’ESAME DI STATO
LA CITTÀ NELLA STORIA
La città in periodo dittatoriale
Hitler fu uno studente mediocre e non portò mai a termine le
scuole secondarie. Dopo aver tentato invano di essere ammesso
all'Accademia di belle arti di Vienna, lavorò in questa città
come decoratore e pittore, si dice che avesse concepito fin da
questi anni spensierati i primi progetti per una nuova Berlino
imperiale, ma incominciò a esercitarsi per lo più nella
progettazione di giganteschi edifici di rappresentanza solo
all’inizio degli anni Venti. La battuta d’arresto che dovette
subire nel novembre del ’23 a causa del fallimento del colpo di
Stato in Baviera non lo aveva minimamente distolto dai suoi
grandiosi sogni di cambiare faccia al mondo, e vi si era anzi più che mai rifugiato dopo la cocente
delusione. Già allora, come dimostrano un quaderno di appunti e i numerosi disegni che si sono
conservati, aveva progettato non solo scenari di parate militari, scenografie a base di bandiere e
fortificazioni, ma anche tribune, colonnati e singoli edifici per Norimberga, Berlino o Monaco di
Baviera. In carcere o poco tempo dopo aveva fissato su una cartolina postale anche l’idea di un
grande padiglione con annesso un arco di trionfo, cartolina che consegnò a Speer, dopo averlo
nominato capo degli urbanisti della capitale del Reich, con queste parole: “Ho abbozzato questi
disegni dieci anni fa. Li ho conservati perché non ho mai dubitato che un giorno avrei costruito
questi edifici. E noi li faremo così”. Giunto al potere, non tardò molto a manifestare l’intenzione di
distruggere la “pseudoarte” moderna, di cui egli non era riuscito a diventare un protagonista e che
definiva nei suoi discorsi pubblici “la beffa culturale ebreo-bolscevica”. Hitler sapeva di potere
contare sul consenso del popolo e della buona borghesia, che ritenevano l’arte d’avanguardia una
colossale truffa organizzata da trafficanti. Nei suoi discorsi accusava il Cubismo, il Dadaismo, il
Futurismo e anche l’Impressionismo, perché alla base di questi movimenti nati sul suolo straniero
stava una concezione della vita antieroica, che sminuiva l’originario vitalismo germanico. Vi furono
perplessità da parte di alcuni gerarchi riguardo all’Espressionismo, frutto tipicamente tedesco: molti
suoi protagonisti erano morti eroicamente in guerra e altri facevano professione di nazismo. Ma
Hitler fu irremovibile: a parer suo l’arte doveva rappresentare un tipo fisico ariano, rigettando ogni
deformità e ogni sperimentalismo tecnico per rendere le immagini più comprensibili alla massa.
A partire dal 1933 tutti i maggiori architetti abbandonarono la Germania avendo ormai la chiara
consapevolezza che per lungo tempo non avrebbero potuto operare liberamente, così lasciarono il
loro paese per recarsi in Unione Sovietica e negli Stati Uniti.
Negli anni dell’impaziente attesa e di preparazione alla lotta,
l’architettura era rimasta uno degli argomenti prediletti da Hitler.
Goebbels, un esponente facente parte della cerchia più ristretta del
Führer, aveva annotato nel suo diario “parla del futuro aspetto
architettonico del paese, e sotto questo profilo mi è parso proprio
un costruttore nato”.
Hitler era fermamente deciso a conferire al paese, dopo la
conquista del potere, un traguardo di cui non dubitò mai, un nuovo
volto che si sarebbe espresso nell’aspetto della città. In un discorso
del 1929 fornì anche una motivazione politico-psicologica di
quest’intenzione: “Il paese sopravviverà solo se sarà reimpostato in tutto il suo modo di pensare e
di sentire, nelle idee e nella concezione dello Stato”, affermò: “ Noi non possiamo figurarci un
Terzo Reich fatto solo di grandi magazzini e di fabbriche […] , di grattacieli e di alberghi, e
affermiamo invece apertamente che il Terzo Reich dovrà poter esibire al mondo anche
testimonianze d’arte e di cultura che sopravvivranno nei millenni. […] Si affacciano alla nostra
mente le città dell’antichità, l’Acropoli, il Partenone, il Colosseo, i nuclei urbani del medioevo con
le loro grandiose cattedrali […] e sappiamo che la gente ha bisogno di questi centrali punti di
riferimento se non vuole correre il rischio del decadimento”.
Della futura articolazione della città di Berlino aveva però un’ idea limitata a poche grandiose
costruzioni. Il sovrintendente Speer ebbe l’occasione di inventare per i problemi di Berlino una
soluzione urbanistica in linea con i tempi. Il piano urbanistico generale che presentò non mirava
soltanto a ristrutturare le zone di rappresentanza che stavano tanto a cuore a
Hitler, ma a riordinare radicalmente anche i quartieri commerciali e
residenziali comprese la rete viaria e il traffico. Quando Speer cominciò a
lavorare sul progetto Berlino, Hitler se n’era già fatta un’immagine
approssimativa, che i due svilupparono in perfetta armonia.
Chini sui tavoli da disegno, circondati lungo le pareti dai prospetti e dagli
innumerevoli schizzi (spesso disegnati dallo stesso Hitler), i due si
perdevano per ore e ore nell’immagine della futura Berlino.
Nell’arco di un anno e mezzo lo staff tecnico del GBI (acronimo di GeneralBau-Inspektor, ovvero Sovrintendente generale all’urbanistica) crebbe sino a
contare 87 persone, e altrettante ne occupava il cosiddetto ufficio operativo.
Alla guida delle tre sezioni principali in cui articolò l’ufficio, Speer chiamò
tecnici in egual misura qualificati e affidabili, fuse persone giovani e molto dotate, con e senza la
tessera del partito , in un gruppo compatto e ambizioso: capo della sezione centrale, quella che
amministrava il bilancio, divenne l’esperto di questioni finanziarie Hettlage; la direzione generale
dei lavori fu assunta da Brugmann, un ingeniere che Speer aveva avuto occasione di conoscere a
Norimberga; l’ufficio di pianificazione infine, quello al quale Speer attribuiva maggiore
importanza, fu messo nelle mani oltre che di Stephan, anche di Wolters e Schelkes, suoi amici di
lunga data, legati al Sovrintendente fin dagli anni degli studi universitari.
I piani previdero la costruzione di una Strada Grande che fungesse da asse centrale lunga più di
cinque chilometri. Quali spettacolari point de vue Hitler aveva disposto all’inizio e alle fine della
Strada Grande il grande padiglione sormontato da una cupola e l’arco di trionfo di cui si sono
conservati i suoi schizzi.Volle che il padiglione, coperto da una volta alta 220 metri e in cui si
sarebbero potute radunare 180 mila persone, fosse circondato su tre lati dall’acqua per accentuare
con l’effetto dei rispecchiamenti l’impressione della grandiosità e della favolosità. Il piazzale
antistante doveva poter accogliere un milione di persone e fungere da luogo per celebrare le
ricorrenze nazionali e le future vittorie. A mo’ di contraltare rispetto al padiglione a cupola doveva
essere eretto un arco di trionfo alto 120 metri. Il volume complessivo era di quasi due milioni e
mezzo di metri cubi e superava quindi di quasi cinquanta volte l’Arc de Triomphe parigino, contro
cui era stato progettato. Vicino all’arco di trionfo sarebbe dovuto sorgere il Padiglione dei soldati di
proporzioni gigantesche, infine un’ulteriore esasperazione dei rapporti di grandezza era costituita
dal Palazzo del Führer, un edificio simile ad una fortezza. Il palazzo comprendeva sale per
ricevimenti, un salone per le feste, inoltre otto stanze con una superficie complessiva di 15 mila
metri quadrati e un teatro per quasi mille spettatori. La via che portava allo studio di Hitler era
lunga 500 metri.
Hitler gli fece notare che le costruzione del Führer sarebbero state un’ ”espressione essenziale del
movimento (nazionalsocialista) nell’arco di millenni” ed erano quindi destinate a diventare
testimonianze uniche di una grande epoca.
Questo sogno sfrenato di Hitler e Speer era basato su concezioni assolutamente estranee al volto
della città e non rispettava minimamente l’immagine storica di Berlino. Il primo passo per
realizzarlo prevedeva la demolizione di numerose abitazioni e
locali commerciali del centro della città. Alla base di quelle
grandiose costruzioni edilizie e a quella esaltazione per il
colossale c’era la concezione intimidatoria del dittatore che
arrivò a una ripianificazione dell’intera Berlino che combinò la
plausibilità con la pura follia. E non ci si limitò a ideare soluzioni per problemi di circolazione che
sarebbero stati posti da una città che si immaginò abitata da 10 milioni di persone. Si pensò anche al
risanamento dei rioni residenziali nati frettolosamente nel periodo dell’industrializzazione e nel
frattempo spesso degradati, all’inserimento di aree verdi fra i settori edificati, alla creazione di
quartieri completamente nuovi, come la città universitaria, il rione sanitario con ospedali, istituti,
cliniche e laboratori e la costruzione di autostrade e vaste zone destinate alla ricreazione. Berlino
“diverrà un giorno la capitale del mondo”, usava dire Hitler. Solo con quelle costruzioni, solo con
quei palazzi, quei colonnati e quelle piazze, dichiarò, la nuova Berlino avrebbe potuto “superare
l’unica rivale al mondo, Roma”.
Il dittatore credeva fermamente nell’impatto psicologicamente travolgente delle grandi costruzioni e
pensava che l’Arco di Trionfo avrebbe “finalmente e per sempre tolto di testa alla gente l’idea
perversa che la Germania avesse perduto la guerra mondiale”, nel mettere piede nel palazzo del
Führer, il visitatore doveva “provare la sensazione […] di esser venuto a vedere il padrone del
mondo”. Hitler voleva lasciare di sé gigantesche testimonianze architettoniche: l’antica ambizione
dei faraoni, per esempio, che gli suggerì di tentare di ovviare alla caducità di un dominio basato
sulla sua sola persona con edifici destinati a durare nel tempo.
Tutta l’ideologia architettonica del dittatore si riduceva al gigantesco, al mai visto al mondo. Altre
gli erano estranee e non aveva preferenze per qualche stile particolare. Contrariamente a quanto è
stato diffusamente sostenuto, la sua simpatia non andava neppure al classicismo, ingiustamente
definito da alcuni lo stile architettonico totalitario per antonomasia. Le simpatie di Hitler andavano
semmai, coerentemente con le sue origini asburgiche, al barocco imperiale e al neobarocco. La
semplicità quasi ascetica del classicismo gli era estranea. Il Führer usava mastodontici elementi
classicisti come colonne, frontoni, geometria assiale e travature per esprimere la sua fantasia di
onnipotenza e la volontà di intimidazione e di sottomissione. Questo stile era immediatamente
comprensibile alle masse e poteva essere interpretato sia come
testimonianza di uno Stato democratico sia di uno autoritario. Era
facile ricondurlo al ricordo della grandezza dell’antica Roma.
Erano però estranei l’equilibrio, l’armonia e la semplicità delle
proporzioni, leggi fondamentali dell’architettura classicista. I
progetti di Berlino svelano una tendenza all’arabesco, un
sovraccarico ornamentale e un compiacimento per le dorature,
questo stile venne nominato da Speer “neo-impero” .
Berlino non fu affatto l’unico, ma solo il più vasto e nello stesso
tempo il più temerario e presuntuoso progetto di ristrutturazione
urbanistica del regime. Hitler in un discorso del ’33 aveva fatto
capire che in futuro anche Amburgo, Brema, Lipsia, Colonia,
Essen e Chemnitz avrebbero assunto un’immagine avveniristica.
Gli interventi non miravano solo ad una modernizzazione dei sistemi di trasporto e delle
infrastrutture in genere, ma volevano anche creare centri totalizzanti di vita sociale mediante il
concentramento attorno ai fori di padiglioni per le riunioni, piazzali per le manifestazioni di massa e
palazzi destinati ad accogliere istituzioni culturali. Speer accettò inizialmente l’invito a procedere a
uno di questi interventi venutogli dalla città di Heidelberg, ma revocò in seguito l’assenso con la
significativa motivazione che non se la sarebbe sentita di far demolire parzialmente e poi cambiare
profondamente la città della sua giovinezza, con le sue stradine, i locali studenteschi e le venerande
case della borghesia.Nel 1940 Hitler gli affidò la progettazione della ricostruzione di Linz e al
contrario dell’architetto, illustrò l’intenzione di ritrasformare la sonnolenta cittadina da cui
proveniva, la città della sua giovinezza e della sua vecchiaia, in una metropoli con giganteschi
padiglioni, torri e giardini.
Più cresceva il potere di Hitler più era evidente che voleva fare di Berlino il centro e il vanto del
nuovo impero mondiale. Implicita era anche l’intenzione di elevarla a luogo di culto calato in una
scenografia capace di suscitare sentimenti di religiosa venerazione. La strada Grande sarebbe stata il
percorso delle processioni, l’arco di trionfo con i nomi dei caduti incisi sulle pareti, doveva
sollecitare una specie di devozione per i santi; e la cupola del grande padiglione non era stata
casualmente modellata sull’esempio delle chiese di Roma. In realtà ricercava solo gli aspetti
esteriori e celebrativi della religione, infatti, ad esempio, su alcune colonne capeggiava l’Angelo
dorato che non stava certo a rappresentare la concordia e la pace ma simboleggiava la Vittoria,
l’emblema dell’autocelebrazione per antonomasia. Per di più, sostengono alcuni, lo sguardo è
orientato nella direzione di Parigi, a sottolineare la rivalità con la Francia.
La componente ideologica, posta alla base di ogni concetto edilizio, conferì tuttavia ai progetti
della nuova Berlino un’impronta di opprimente monotonia. Il fatto stesso che dovessero così
scopertamente testimoniare la volontà di sottomissine li guastò anche sotto il profilo architettonico.
Era un’architettura da despoti che, nonostante tutte le intenzioni volte alla ricerca di effetti
maggiori, non andava al di là dell’ostentazione del nudo potere:
fredda, smorta, lontana dalla sensibilità umana, ma anche frutto di
una vistosa povertà di fantasia.Tutto un ripetersi di strade grandi,
costruzioni a cupola, pilastri e cornicioni. Guardando quelle
costruzioni si constata che potevano fare a meno della presenza
umana, risultando gli esseri umani ridotti a linee o a punti.
Quell’architettura ignorava la vita, e in ogni caso le anteponeva di
gran lunga la morte. Le strutture templari, gli atri, le colonne, i
pilastri sormontati da fiaccole, i frontoni, le statue evocano
inevitabilmente un mondo su cui incombe l’ombra della morte.
Soltanto pochi dei progetti di Speer furono realizzati; quello più noto fu senza dubbio la nuova
Cancelleria (1938-39), che andò distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale.
Durante gli anni della guerra l’architetto venne nominato ministro degli
armamenti del Reich; e, come tale, sarà poi condannato, insieme ad altri
esponenti del regime nazionalsocialista, nel corso del processo di Norimberga.
Ironia della sorte, proprio Speer, una delle pochissime persone cui il dittatore
nazista faceva confidenze riservate e personale, fu l’unico nazista a dichiararsi
colpevole.
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