etica in modelli storici TU 2009
Jonas Rawls
incontro 10
Jonas
Rawls
Etica sulla base del diritto e della responsabilità
1. etica in stretta relazione con il diritto
(i diritti dell’uomo come etica contemporanea (l’etica dei diritti come etica contemporanea)
L’etica contemporanea è fondata sui diritti, come sua base e suo obiettivo, coinvolta e finalizzata
alla loro individuazione, difesa e realizzazione. Si rende dunque necessario definire i termini di un
incontro tra il campo del diritto (la filosofia del diritto e la prassi della definizione giuridica) e il
campo della morale (la filosofia morale e, in generale, la filosofia pratica).
1.1. l’urgenza di un incontro tra etica e diritti nello scenario contemporaneo: il moltiplicarsi dei
crimini contro l’umanità ad opera di sistemi politici per definizione fondati sul diritto, come effetto
di leggi dell’economia definite “scientifiche” che legano la garanzia del profitto commerciale alla
condanna alla miseria e alla fame della parte maggiore dell’umanità, situazioni realizzate con il
conforto e la legittimazione culturale di teorie razziste e fondamentaliste, laiche e religiose. Non
dunque crimini privati (su sui si insiste molto oggi quando si affronta il tema sicurezza, tacendo di
altre e ben più incisive scelte distruttive proprie del sistema produttivo o politico, come livelli di
inquinamento, distruzione irreversibile di risorse, peggioramento della qualità della vita, incremento
del costo medio del vivere, condanna di intere popolazioni alla fame ecc., liquidati magari
sbrigativamente come l’indispensabile prezzo da pagare per il progresso), ma di sistema (quelli su
cui si insisteva nella seconda metà del ‘900, dalla Scuola di Francoforte al ’68, ora ignorate o
lasciate a frange minoritarie e movimentistiche, ancora sbrigativamente definite nemici dell’ordine
pubblico o “terroristi”).
Il problema è posto in questi termini da Francesco Viola nell’articolo: I diritti dell’uomo e l’etica
contemporanea (Convegno ARIFS-Bs, 12.01.2009) «In un’epoca di frammentazione e di
particolarismo qual è la nostra i diritti dell’uomo costituiscono uno dei pochi punti (forse l’unico?)
che gli individui e i popoli sembrano avere in comune, uno dei pochi intorno a cui sembrano
concordare. C’è grande consenso intorno ai diritti dell’uomo, si può dire che mai un accordo aveva
raggiunto un così alto grado di estensione. È un vero e proprio consensus gentium che ormai
riguarda tutta l’umanità. Se è vero che un’etica è tanto più valida quanto più è in grado di esibire
contenuti universali valevoli per tutti gli uomini, allora è ragionevole guardare ai diritti dell’uomo
come all’ultima manifestazione di un’etica universale. Il che è molto sorprendente dato che le
condizioni attuali della vita morale non sembrano più permettere alcun universalismo in campo
etico. Ed allora è naturale chiedersi se non si tratti di una mera illusione, se sotto un’etichetta
comune non si nasconda il tentativo di riunificare in modo puramente nominalistico il pluralismo
morale, oppure se la problematica dei diritti dell’uomo non sia da intendersi come un difficile, ma
necessario, tentativo di intessere un discorso etico fra tribù morali diverse. Probabilmente è vera
l’una e l’altra cosa, probabilmente i diritti dell’uomo sono usati sia dalla retorica etico-politica, sia
dall’esigenza di non rinunciare del tutto ad un’etica universale. In ogni caso ciò significa che
appellarsi all’etica dei diritti dell’uomo non è sufficiente ad indicare ciò che s’intende avvalorare o
accreditare, che bisogna specificare meglio, perché il linguaggio dei diritti dell’uomo è ambiguo e
incompleto (S. Cotta, Attualità e ambiguità dei diritti fondamentali, ora in Diritto, Persona, Mondo
umano, Giappichelli, Torino, 1989, pp. 95-121.). Non basta professare la propria adesione ai diritti
dell’uomo bisogna anche esibire la propria interpretazione di essi. Solo così si vedrà se e fino a che
punto i diritti dell’uomo possano aspirare al ruolo di etica universale.»
1.2. il legame: una definizione dell’etica a partire dal diritto (i diritti dell’uomo come etica
contemporanea o i diritti dell’uomo come pratica etico-sociale)
Sergio Gabbiadini
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Un’etica che assume come proprio vincolo, base e contesto, inizio e obiettivo, i diritti (mai contro i
diritti, mai senza diritti) che definiscono la natura (diritti della natura), l’uomo (diritti umani), la
società (diritti sociali), lo stato (diritti politici), nelle necessarie e naturali differenziazioni.
«“Avere un diritto” significa innanzi tutto che c’è un aspetto dell’essere umano che deve in qualche
modo essere rispettato e tutelato nello svolgimento della vita sociale e politica. Non si dice ancora
in che modo, in quale misura, in quali circostanze, entro quali limiti, a costo di quali sacrifici e,
soprattutto, a preferenza di quali altri valori. C’è qualcosa d’incommensurabile nell’affermazione
dell’inviolabilità di un diritto così inteso, perché si vuole dire che è qualcosa a cui farsi attenti, che
nessuna vita degna di un essere umano potrà farne a meno in qualche misura e che nessuna società
giusta ne potrà mancare. Qui è evidente fino a che punto il bene sia necessario per la definizione del
“giusto”. Ma tutto questo è ancora insufficiente per parlare in senso proprio di un diritto.
Quest’aspirazione deve ancora trovare la sua regola ed è per questo che si presenta come il principio
di una ricerca morale (e giuridica), che è rivolta a dare determinazione e vigore storico-giuridico
alle prerogative del soggetto. Quale sia veramente e in senso stretto il diritto che si ha lo si vede
solo alla fine della ricerca e dell’esplorazione morale. Per questo l’etica dei diritti dell’uomo si può
anche considerare come un metodo per la ricerca dei diritti, un metodo fondato sulla ragionevolezza
e il bilanciamento dei valori.» (Viola art.c.)
1.2.1. l’impostazione del legame: Il tentativo più organico di una fondazione puramente etica della
nozione di «diritti morali», slegata da immediati riferimenti a problemi di natura politica e sociale, è
quello compiuto da A. Gewirth nel volume Reason and Morality del 1978 e in diversi saggi
successivamente raccolti nel volume Human Rights, edito nel 1982. Nella sua fondazione dei diritti,
Gewirth prende le mosse dalla nozione di «moralità», il cui ambito è costituito dalle azioni
interpersonali e il cui problema è dato dal come proteggere, in questi rapporti, gli interessi vitali
degli individui. Se la nozione di «moralità» implica quella di azione, le condizioni necessarie
dell’azione, i requisiti di cui dobbiamo disporre per agire, saranno le condizioni stesse della
moralità. Queste condizioni sono per Gewirth i diritti, e la loro indispensabilità per l’azione è
appunto ciò che li differenzia dalle semplici pretese. L’analisi della nozione di azione ci rivela,
secondo Gewirth, che le condizioni necessarie per l’azione sono un certo grado di libertà e un certo
grado di benessere: in altri termini, che libertà e benessere sono logicamente implicati nella struttura
stessa dell’agire.» Si tratta dunque di definire la base dell’etica attraverso l’individuazione di una
base irrinunciabile dei diritti. «Dai generici diritti alla libertà e al benessere, Gewirth deriva i diritti
umani prima facie, che egli distingue in tre tipi principali cui deve essere garantita la protezione
legale: a) diritti alla sicurezza personale; b) diritti sociali ed economici; c) diritti politici e civili.
Gewirth prospetta pertanto una fondazione non contrattuale di diritti sia negativi che positivi.»
(Fagiani Francesco Etica e teoria dei diritti in Viano Carlo Augusto (a cura di) 1990 Teorie etiche
contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino p.104-105)
1.2.2. i vantaggi dell’impostazione. Si va verso la concretezza di un’etica, storicamente definita e
fondamentalmente condivisa e vincolante, senza i presupposti “ideologici” previsti dalle morali
delle chiese o da moralisti laici, e senza i facili, comodi e abusati alibi morali della “propria
coscienza” o dell’interiorità opposta a ciò che viene disinvoltamente definito esterno e quindi
estraneo. Si tratta di un’etica che ruota attorno ai «problemi di cui ci occupiamo, o dovremmo
occuparci, come cittadini di una società democratica.» (Comanducci Paolo, Il neocontrattualismo
nell’etica contemporanea, in Viano o.c. p.111)
1.2.3. i rischi dell’impostazione. Se il diritto e la norma sono considerati esistenti e validi in quanto
(e solo in quanto) emanati dallo Stato (Stato di diritto come fonte unica del diritto, secondo la linea
del positivismo giuridico [recentemente teorizzata da H. Kelsen]), un’etica fondata sul diritto
diventa un’etica di Stato, unica, totale e totalitaria (come Bene Assoluto, alla Hegel, come Male
Assoluto, nelle dittature totalitarie del ‘900).
1.2.3.1. La consapevolezza di questi rischi porta alla precisazione « Gli studiosi del giusnaturalismo
hanno più volte notato che bisogna distinguere tra la legge naturale e le dottrine della legge naturale
(non si può attribuire alla prima la variabilità delle seconde), allo stesso modo, dunque, dovremo far
Sergio Gabbiadini
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distinzione fra i diritti dell’uomo e le dottrine dei diritti dell’uomo. Quando parlo di “dottrine dei
diritti dell’uomo” non mi riferisco tanto (o in primo luogo) all’eterno problema del loro
fondamento, quanto piuttosto al modo diverso d’intenderli, d’interpretarli e di praticarli. Una
dottrina dei diritti dell’uomo non esibisce soltanto una giustificazione del loro fondamento, ma
fornisce anche un modello di pratica dei diritti dell’uomo stessi, ispirandosi a un certo tipo di
presupposizioni e articolandoli tra loro secondo certe gerarchie di priorità.» (Viola art. c.)
1.2.3.2. La consapevolezza di questi rischi fa riferimento inoltre alla precisazione che «La grande
fortuna dei diritti dell’uomo nell’epoca del pluralismo è data proprio dall’asserita possibilità di
separare l’affermazione di questi diritti dalle particolari dottrine che li sostengono. Il fatto del
pluralismo delle dottrine morali intese nel senso pregnante di stili di vita è cosa indubitabile e,
pertanto, sembra necessario che per salvare l’universalità dei diritti dell’uomo bisogni renderli
indipendenti da ogni dottrina morale particolare. Nessuna cultura può ormai vantare diritti ereditari
nei confronti di un’idea universale come quella dei diritti dell’uomo, così come gli arabi non li
hanno nei confronti della matematica o i greci nei confronti della filosofia (Cfr. J. Moltmann, Diritti
umani, diritti dell’umanità e diritti della natura, in “Concilium”, 26, 1990, 2, p.146.) … Insomma, i
diritti dell’uomo funzionano oggi come legittimazione di un’etica socio-politica e come tali c’è
l’esigenza che siano indipendenti da una dottrina etica particolare che altrimenti assumerebbe il
ruolo di occulta colonizzatrice del pluralismo. (Viola art.c.)
1.2.3.3. La consapevolezza di questi rischi porta infine all’idea liberale centrale dello “stato
minimo” (Smith, Nozick, Foucault, Sen …) «Il criterio di «giusta distribuzione» prospettato da
Nozick è un criterio «negativo», fondato su un principio «storico non modellato», che ripropone la
concezione «classica» negativa della «giustizia». Come i giusnaturalisti, Nozick non ritiene sia
possibile separare la «proprietà» che gli individui hanno sugli oggetti esterni legittimamente
acquisiti da quella che essi hanno sulle loro azioni e sui loro corpi, cosicché i diritti individuali sono
inscindibilmente legati e sono tutti «diritti di proprietà». … La novità più importante della teoria di
Nozick risiede nel metodo che egli adopera per dimostrare l’illegittimità di un’estensione
dell’intervento dello Stato al di là della tutela dei diritti individuali. Nozick, infatti, ci offre una
ricostruzione di come lo Stato (minimo) possa scaturisce dal comportamento di individui razionali
mediante un «processo a mano invisibile» (cioè senza che nessuno si proponga deliberatamente di
fondarlo), a partire da uno «stato di natura» privo di istituzioni politiche e senza violare i diritti
individuali. In tal modo, Nozick evita di ricorrere alla finzione della sottoscrizione di un «contratto
sociale», da parte di tutti i cittadini, poiché egli è perfettamente consapevole che attraverso l’ipotesi
del «contratto sociale» s’instaura una dipendenza reciproca e illimitata dei cittadini, ovvero un
modello di Stato illimitato e illimitabile nelle sue competenze. «Contratto sociale» e «principio
maggioritario» sono gli strumenti di legittimazione della creazione di sempre nuovi diritti (e doveri)
positivi, in numero sostanzialmente indefinito e infinito, che comprimono, fino a un suo almeno
potenziale annullamento, lo spazio disegnato dai diritti individuali negativi. … i diritti proteggono
l’autonomia dell’individuo dalle minacce portate contro di essa dalle interferenze esterne, prima fra
tutte quella dello Stato. … In Anarchy, State and Utopia lo Stato minimo, garante del rispetto dei
diritti negativi, rappresentava la cornice per una pluralità infinita di modelli e stili di vita, cioè per
una molteplicità indefinita di giudizi e valutazioni morali, e Nozick aveva sottolineato come
l’esigenza di una riaffermazione e di una nuova statuizione dei diritti individuali segnalasse
l’illegittimità morale delle forme dello Stato contemporaneo.» (Fagiani, o.c. p.100, 101, 102)
2. quali diritti: un laboratorio aperto sul tema dei diritti e del vincolo diritti – doveri
Una doppia esigenza. «Da una parte abbiamo affermato che, solo esibendo una determinata pratica
dei diritti dell’uomo, si dà la possibilità di sfuggire alla retorica vacua dei diritti, alla loro
insignificanza o ambiguità, e, dall’altra, che i diritti dell’uomo si presentano come indipendenti da
ogni particolare dottrina etico-politica fino al punto da costituire il criterio di legittimazione e di
accreditamento oggi universalmente riconosciuto.» (Viola art. cit.)
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2.1. una chiarificazione linguistica nel campo del diritto si può ottenere richiamando la
teorizzazione dei diritti compiuta dalla tradizione giusnaturalistica moderna (con particolare
riferimento al suo primo «codificatore» Samuel von Pufendorf, De jure naturae et gentium, De
officio hominis et civis 1672)
2.1.1. distinzioni generali per classificare i diritti e definirne la loro forza in termini di doveri e
precetti.
2.1.1.1. Diritti perfetti, negativi, coercibili, creano un dovere assoluto (non-aggressione, noninterferenza);
2.1.1.2. Diritti imperfetti, positivi, generalmente non coercibili, non creano il dovere assoluto del
fare (assistenza, beneficenza…) se non in particolari circostanze.
2.1.2. le relazioni «Nella dimensione disegnata dai precetti assoluti, tutti i diritti perfetti sono
negativi e tutti i diritti negativi sono perfetti; tutti i diritti imperfetti sono positivi e tutti i diritti
positivi sono imperfetti: poiché i primi sono correlativi a obblighi a non fare, a non compiere
determinate azioni, e i secondi invece sono correlativi a obblighi a fare, a compiere determinate
azioni, ciò che il diritto naturale prescrive in modo assoluto è il dovere alla non-aggressione. ….
Soltanto nel caso in cui sia in gioco la sopravvivenza stessa di un essere umano l’obbligazione
imperfetta della beneficenza diviene, per i giusnaturalisti, più cogente di quelle perfette.
2.1.2.1. la possibilità che un diritto positivo perfetto sia fonte di un dovere coercibile: diritti positivi
perfetti possono scaturire da un patto «pretese morali positive possono diventare veri e propri diritti
perfetti ipoteticamente, cioè in seguito a un patto o accordo tra soggetti. … Ne consegue che diritti
positivi perfetti possono sorgere, secondo Pufendorf, sia da accordi parziali e privati fra individui,
sia dalla stipula di un contratto sociale cui tutti i cittadini consentono espressamente, tacitamente o
presuntivamente. In quest’ultimo caso, il legislatore non soltanto dovrà rafforzare con sanzioni
civili la coercibilità dei diritti negativi e quella dei diritti positivi sorti in seguito ai contratti fra
privati, ma potrà legittimamente sanzionare anche i diritti e i doveri discendenti dal contratto sociale
presunto: anzi, alcuni diritti e doveri positivi perfetti sono indispensabili per la stessa costituzione
della società politica, se non altro sotto forma della prestazione tributaria necessaria a far fronte alle
spese del governo.» (Fagiani, in o.c. p. 93)
2.1.2.2. in questo caso si impone, senza ledere la sovranità del diritto, la tesi “liberale” della sobrietà
dello stato. «La «direttiva» pufendorfiana che raccomanda al legislatore di richiedere ai cittadini il
minor sacrificio possibile dei diritti di libertà sulle « cose indifferenti» conferiti dallo ius
permissivum [distinto e opposto allo ius prescrittivum] (ovvero di sanzionare la coercibilità della
«giustizia» e di astenersi, per quanto possibile, dall’interferire nell’esercizio della «beneficenza»)
assume un carattere meramente prudenziale e non configura in alcun modo una negazione in linea
di principio della legittimità morale della creazione giuridico-positiva di diritti e doveri positivi.»
(Fagiani, o.c. p.93)
2.2. a disposizione dalla storia: le tre tradizioni giuridiche irrinunciabili, distinte e in relazione
tra di loro sul tema della sede del diritto e della loro definizione: giusnaturalismo (diritti naturali),
contrattualismo (il patto sociale), positivismo giuridico (lo Stato di diritto). [già nel 2008]
2.3. quali diritti (le tavole dei diritti): Le tre tipologie dei diritti della moderna democrazia, distinti
e legati: naturali, sociali, politici. [già nel 2008]
2.3.1. «I diritti politici sono poteri di azione che riguardano la partecipazione della persona — come
singolo o come membro di un gruppo — alla formazione delle decisioni pubbliche, e più in
generale all’esercizio del potere politico: ad esempio, diritto di voto (elettorato attivo), di candidarsi
a cariche pubbliche (elettorato passivo), di promuovere referendum, di proporre leggi di iniziativa
popolare.
2.3.2. I diritti sociali sono pretese della persona verso lo Stato o più in generale l’organizzazione
pubblica, dirette al godimento di prestazioni rilevanti per la qualità della vita: ad esempio diritto
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all’istruzione, alla cultura, all’assistenza sanitaria, alla previdenza e all’assistenza sociale (beni
primari).
2.3.3. I diritti naturali (civili, dell’uomo, umani, fondamentali, individuali), secondo l’accezione
consolidata, riguardano essenzialmente la sfera delle libertà della persona, in senso sia fisico sia
morale: ad esempio, libertà personale contro le coercizioni arbitrarie; libertà di circolazione,
soggiorno ed emigrazione; inviolabilità del domicilio; libertà e segretezza della corrispondenza e
delle altre forme di comunicazione interpersonale; libertà di riunione e di associazione; libertà di
credo e professione religiosa; libertà di manifestazione del pensiero; garanzia contro l’imposizione
di prestazioni personali; libertà dell’espressione artistica, della ricerca scientifica e del relativo
insegnamento.» (Roppo Vincenzo 1995 I diritti civili, in La politica italiana. Dizionario critico
1945-1995, Laterza, Roma-Bari)
2.3.3.1. Una nota: la necessaria apertura sociale dei diritti individuali. La rivendicazione “liberale”
di diritti individuali, ultimamente esaltati nella forma di rivendicazione identitaria, prende forma e
possibilità, di fatto, all’interno di una dimensione e di una condivisione sociale. «Questo
individualismo etico potrà anche essere ben fondato dal punto di vista filosofico, ma in ogni caso
non corrisponde all’etica dei diritti dell’uomo. Questi oggi pretendono di definire l’identità dell’io.
La pratica dei diritti ci mostra in abbondanza che l’autorealizzazione degli individui ha bisogno
dell’intersoggettività e della comunità ed è ben lungi dal postulare la separatezza degli individui. Si
è consapevoli che gli altri sono necessari per il costituirsi dell’identità di ciascuno di noi. Nessuna
identità e nessun progetto di vita appare buono se non è in qualche misura comunicabile, cioè
accettato dalla comunità, anche se non da tutti condiviso. La pratica dei diritti non fa che
confermare nella sfera politica e giuridica il carattere relazionale e intersoggettivo della persona.
L’etica dei diritti dell’uomo si rivolge all’individuo umano in tutta la concretezza della sua storia di
vita, nei suoi rapporti interpersonali e contestuali. …le opportunità sono legate al riconoscimento.»
(Viola, art.c.). La relazione indispensabile, evidenziata, tra diritti individuali e diritti sociali ha come
effetto di attenuare e quasi annullare la distinzione tra diritti di libertà, concepiti per tradizione
liberale come diritti individuali, e diritti sociali.
2.4. diritti naturali sono diritti storici: «…nascono all’inizio dell’età moderna, insieme con la
concezione individualistica della società … Ancora una prova, se ce ne fosse bisogno, che i diritti
non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono o possono nascere. Nascono quando
l’aumento del potere dell’uomo sull’uomo, che segue inevitabilmente al progresso tecnico, cioè al
progresso della capacità dell’uomo di dominare la natura e gli altri uomini, crea o nuove minacce
alla libertà dell’individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza: minacce cui si
contravviene con richieste di limiti del potere; rimedi cui si provvede con la richiesta allo stesso
potere di interventi protettivi. Alle prime corrispondono i diritti di libertà o a un non fare dello stato,
ai secondi, i diritti sociali o a un fare positivo dello stato. Per quanto le richieste dei diritti possano
essere disposte cronologicamente in diverse fasi, o generazioni, le loro specie sono sempre, rispetto
ai poteri costituiti, soltanto due: o impedirne i malefici o ottenerne i benefici. Nei diritti della terza e
della quarta generazione vi possono essere diritti tanto dell’una quanto dell’altra specie.» XIII-XV.
Bobbio Norberto 1990 L’età dei diritti, Einaudi, Torino
2.4.1. garanzie offerte dalla storicità: La natura storica dei diritti naturali (per quanto ossimorica
possa essere l’affermazione) segnala due garanzie: 1. esistono diritti posti a fondamento delle
relazioni sociali e ambientali (diritti naturali; l’enunciato è formale e non indica contenuti), sono il
risultato storico di riflessioni e scelte che ne hanno permesso il vaglio e l’adozione universale (nella
loro formulazione contenutistica i diritti hanno natura storica). 2. Nella loro veste storica devono
ospitare ed esprimere nuove urgenze e nuove consapevolezze della realtà in divenire. Il timore che
la loro storicità li renda precari non coglie la natura formale del concetto di “diritti naturali”,
trascura la loro necessaria universalizzazione (sono enunciati di inclusione non di esclusione), è
parallela alla sfiducia nei confronti dell’umanità, dimentica che ogni diritto presentato come
naturale e immodificabile è un risultato storico.
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2.4.2. la definizione del diritto come laboratorio etico e giuridico. L’efficacia del diritto è legata alla
sua capacità di fissare, secondo mutevoli sensibilità, urgenze fondamentali universali; se finora
ponevano al centro i diritti umani, ora si interroga sui diritti degli animali, dell’ambiente, del
passato, presente, futuro …. «i cosiddetti «nuovi diritti» e «nuovi soggetti». Infatti si tende da un
lato ad attribuire diritti nuovi, morali e giuridici, a soggetti già riconosciuti: come ad esempio nel
caso del diritto a morire dignitosamente, oppure del diritto a un ambiente naturale non inquinato.
Questi diritti vengono rivendicati per quel soggetto morale e giuridico per eccellenza che è l’uomo.
Ma dall’altro lato si cerca anche di allargare il concetto di soggetto morale e/o giuridico (o di
persona morale e/o giuridica) fino a ricomprendervi esseri o addirittura entità che prima ne erano
esclusi: ad esempio a) gli esseri umani non ancora esistenti, cioè le generazioni future; b) gli esseri
non umani animati e senzienti, vale a dire gli animali; c) gli esseri animati ma non senzienti, cioè le
piante, i vegetali; e infine d) gli esseri inanimati, come la terra, il mare, le montagne, il paesaggio,
gli ecosistemi e simili. Di solito a questi soggetti nuovi vengono attribuiti i diritti, o una parte dei
diritti, che abitualmente sono propri dei soggetti per così dire vecchi, abituali. Ma vi sono anche dei
casi in cui nuovi soggetti e nuovi diritti coincidono: si pensi al diritto all’ambiente delle generazioni
future, oppure a un più generale diritto a morire senza sofferenza per tutti gli esseri senzienti. Le
combinazioni possibili sono numerose e la casistica che si prospetta è molto ampia, tanto più che
occorre tener conto di una ulteriore distinzione: a soggetti già riconosciuti come tali (gli esseri
umani) possono venire attribuiti diritti nuovi, o dimensioni nuove dei vecchi, nell’ambito di certi
loro status soggettivi o condizioni di vita che in precedenza non venivano presi in considerazione: è
il caso tipico dei cosiddetti “diritti del malato”».(Castignone Silvana, La questione animale tra etica
e diritto, inViano, o.c.p.225-226)
2.5. una ipotesi di “ultima” generazione dei diritti (tradizione Sen –Nussbaum); il tema
dell’evoluzione e della specificazione del diritto non tanto nel campo strettamente giuridico, ma
soprattutto in campo etico. (Si ricorda l’impostazione antica, quella di Platone e di Aristotele; la
stretta connessione tra etica e politica a partire dalla giustizia e dalle virtù.)
«Se osserviamo anche solo di sfuggita quest’immensa messe di dati, la constatazione più elementare
e ovvia che facciamo riguarda la crescita, lo sviluppo e l’evoluzione dei diritti dell’uomo. Si tratta
di un corpo che va assumendo proporzioni gigantesche. Sempre “nuovi diritti” si aggiungono ai
precedenti a tutti i livelli e in ogni direzione. Ormai non basta più - come al tempo
dell’indipendenza americana o della rivoluzione francese - sottoscrivere una lista di quattro o
cinque diritti fondamentali per poter essere considerato un sostenitore dei diritti dell’uomo, ma
bisogna impegnarsi a rispettare un mondo molto complesso e articolato di valori.» (Viola art. c.)
Si tratta di un’evoluzione che si attua nel campo della applicazione del diritto. Quando il tema esce
dal campo della definizione, di un codice delle norme, e affronta la prova applicativa, socio-etica,
allora, nel dibattito, nella applicazione e nella sensibilità, cresce, si sviluppa ed evolve la concezione
e la specificazione dei diritti dell’uomo e, in generale, della realtà.
«I filosofi della morale e i teorici del diritto tendono a trascurare l’importanza di questo fenomeno
ai fini della riflessione sulla struttura dell’etica contemporanea. Essi pensano che si tratti di uno
sviluppo fisiologico di derivazione di nuovi diritti da un nucleo originario di carattere generalissimo
in cui si trovano in qualche modo impliciti. D’altronde l’evoluzione storica, gli sviluppi della
scienza e della tecnica, le rigenerazioni del potere politico ed economico rendono possibili nuovi e
sempre più temibili attentati alla dignità umana e rendono necessario la riformulazione e
l’aggiornamento dei “vecchi” diritti. I nuovi diritti sono spesso null’altro che la riproposizione dei
vecchi in termini nuovi, mentre altre volte sono creazioni ingiustificate degli interpreti.
Tutte queste considerazioni sono ragionevoli e spesso corrette, ma ciò che qui interessa non è il
giudizio su questa espansione dei diritti quanto piuttosto il fenomeno in generale. Non vorrei che
sfuggisse l’importanza del fatto che questa crescita di valori interna ad un’etica non s’è mai
verificata in questi termini nelle morali tradizionali e non si verifica neppure oggi nelle dottrine
etiche delle diverse comunità morali che popolano la nostra storia. … Se ci chiediamo ora cosa
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renda l’etica dei diritti dell’uomo così elastica e dinamica, dobbiamo subito notare che essa è come avrebbe detto Fuller (la moralità del diritto) - una morale dell’aspirazione e della
realizzazione personale e non già una morale del dovere o della legge. Ciò significa che all’origine
di questa problematica morale non c’è un modello di vita, una precisa concezione del bene e ben
determinati criteri di azione, cosicché tutta la scelta morale risieda nell’individuare i propri doveri
nelle particolari circostanze o più a monte nel cercare la regola universale della condotta morale….
Nel dinamismo dell’azione etico-giuridica i diritti vanno progressivamente prendendo corpo e
ritrovando la loro regola interna, che consente loro di essere praticabili e praticati nei contesti di
vita.» (Viola a.c.) Un’evoluzione che può sconcertare la teoria del diritto, che risulta valido se
formalmente definito con rigore e garantito nell’attuazione, ma la prospettiva adottata è quella di
considerare il diritto nel suo contesto naturale di definizione e evoluzione. Si può prendere in
considerazione «non …il concetto giuridico di “diritti”, ma la sua valenza etica. Sul piano etico è
indubitabile che i moral rights - come li chiamano gli anglosassoni - appartengono a tutti gli effetti
alla vita etica del nostro tempo.» (Viola art.c.)
2.5.1. Per una società a sostegno delle capacità (capabilities)
Fonti e note terminologiche: Martha Nussbaum (riassunto dalle pp. 92-95 e 409-419) [qui presenti
Amartya Sen, John Rawls e Martha Nussbaum) Nussbaum Martha C. 2006 Le nuove frontiere della
giustizia, il Mulino, Bologna 2007. Sul tema dei diritti, il mutamento di prospettiva: L’approccio
basato sulle capacità (cap. 1 § 7). Capacità traduce capability (alcuni traducono con
“capacitazioni”) il concetto intende indicare non solo diritti ma effettive realizzazioni di capacità, e
non solo capacità in termini di potenzialità, ma esercizio e usufrutto di capacità.
2.5.2. la lista delle (dieci) capacità fondamentali:
1) vita, cioè la capacità di condurre una vita di durata normale;
2) salute fisica, cioè la capacità di essere in buona salute e ben nutriti;
3) integrità fisica, cioè la capacità di disporre del proprio corpo;
4) sensi, immaginazione e pensiero, cioè la capacità di far uso dei sensi, dell'immaginazione e del
pensiero, usufruendo di una istruzione adeguata, ecc.;
5) emozioni, cioè la capacità di provare emozioni, affetto, amore;
6) ragione pratica, cioè la capacità di compiere scelte etiche consapevoli;
7) appartenenza, cioè la capacità di vivere in comune con altri e di godere delle basi sociali del
rispetto di sé;
8) altre specie, cioè la capacità di vivere in relazione con le altre specie;
9) gioco, cioè la capacità di ridere e giocare;
10) controllo del proprio ambiente politico e materiale, cioè la capacità di partecipare alle scelte
politiche, di avere proprietà e lavoro.
2.5.3. L’evoluzione del diritto è da far risalire ad una triplice attenzione: 1. il passaggio da una
considerazione statica dell’uomo e della natura a una considerazione dei suoi differenti modi
naturali 2. il passaggio dalle libertà alle capacità; 3. il passaggio dall’uomo all’intera realtà (di cui
l’uomo è componente con un “mandato” [inteso come afferma Bonhoeffer] specifico nella forma
del compito dell’uso nella responsabilità “vicaria”, nel rispetto e nella cura). Nel caso dell’uomo.
«L’essere umano è osservato nella specificità delle sue diverse maniere d’essere: come fanciullo,
come adulto, come donna, come anziano, come malato, come handicappato, come lavoratore, come
consumatore... Questa è la grande novità dell’evoluzione dei diritti dell’uomo rispetto al loro primo
sorgere segnato dall’universalismo di una natura umana astratta dai contesti sociali. Dal punto di
vista fenomenologico la vita umana attraversa stadi diversi, che sono spesso indipendenti dalla
volontà e dalla libertà. Non è in nostro potere invecchiare o meno, o essere sani. Al contempo questi
stati di vita sono comuni non solo nel senso che accomunano le persone che li condividono (i
giovani, le donne, gli anziani, gli handicappati...), ma anche nel senso che ognuno di noi sa che
potrebbe trovarsi nella situazione degli altri e che in alcuni casi ciò avverrà in futuro. Se sono
giovane, so che probabilmente diverrò anziano. Se sono sano, so che posso ammalarmi. Voglio dire
che questo è il modo in cui si pone l’universalismo degli stati della vita umana e che li rende ben
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diversi dagli status della tradizione giuridica. Non si è eguali a prescindere dalle situazioni e dai
contesti di vita in cui ci si trova, come si affermava alle origini dei diritti dell’uomo, ma proprio in
ragione delle differenze. Come si può notare, l’etica dei diritti è in grado di correggere se stessa fino
a questo punto. Non più uguali nonostante le differenze, ma proprio in ragione di queste.» (Viola
art.c.)
2.5.4. I tipi di capacità, evidenziati da Nussbaum, sono ritenuti fondamentali in quanto definiscono
cosa costituisce una vita autenticamente umana: «alcune funzioni sono particolarmente essenziali
per la vita umana, nel senso che la loro presenza o assenza è contrassegno caratteristico della
presenza o dell'assenza della vita umana». Esse sono poi tutte capacità individuali: ogni persona è
infatti ritenuta portatrice di un valore in se stessa, e non come membro di un gruppo, di una società,
di una istituzione. Nussbaum formula, anzi, il cosiddetto «principio delle capacità individuali: le
capacità perseguite sono perseguite per ciascuna persona individualmente, non principalmente per
gruppi o famiglie o stati o altre corporazioni», principio che è a sua volta collegato al
riconoscimento del «principio di ogni persona come fine». « L’idea di base è che una vita priva di
una di queste capacità non è una vita umanamente dignitosa. La tesi in ogni caso è basata sull’idea
di una forma di vita; è intuitiva e discorsiva. Ciononostante, credo che le procedure, e la lista,
possano generare un ampio accordo trasversale alle culture, simile agli accordi internazionali che
sono stati raggiunti riguardo ai diritti umani fondamentali. Invero, l’approccio delle capacità è, dal
mio punto di vista, una specie di approccio dei diritti umani, e i diritti umani sono stati spesso
collegati in modo analogo all’idea di dignità umana.» (Nussbaum, o.c. p. 92-95) [già nel 2008]
2.5.5. Più in generale e come metodo. La rilevanza della evoluzione del diritto per la conoscenza
della natura umana e natura in generale è chiarita dal rapporto corretto che deve essere evidenziato
tra diritto e natura: «Non si va dalla natura umana ai diritti, ma dai diritti come sono concepiti al
modo d’intendere l’essere umano e l’uguaglianza tra gli uomini. È osservando la pratica dei diritti
che posso dire qualcosa sulla natura umana. Ora a me sembra che ciò che possiamo dire non è poca
cosa e che la pratica dei diritti, nonostante le intemperanze e le deviazioni che sono un rischio da
correre, vada mettendo a fuoco un’antropologia significativa. Nella storia l’uomo prende posizione
nei confronti di se stesso e si autocomprende, correggendo progressivamente se stesso. Non c’è
dunque una legge suprema che lo ammaestra dall’alto con timore e tremore, ma un’autocorrezione
forse non meno dolorosa a causa delle lacrime e del sangue di cui la storia è piena, e tuttavia più
incisiva ed istruttiva.» (Viola art.c.)
2.6. una consapevolezza e un’avvertenza: il teorema dell’impossibilità
2.6.1. riguarda il tema della possibilità di costruire una «funzione del benessere sociale» partendo
dalle scelte e dalle preferenze individuali (consapevolezza che incide sul modo di intendere e
impostare la dinamica che presiede alla evoluzione del diritto e dei diritti).
2.6.2. il teorema dell’impossibilità, formulato da K.J.Arrow (1951 Equilibrio, incertezza, scelta
sociale, il Mulino, Bologna 1987) nega questa possibilità: «La via tentata da Arrow corrispondeva
in buona sostanza all’adozione del principio di votazione a maggioranza senza limitazioni di
«competenza» e il teorema dimostrava l’impossibilità che da quest’ultima scaturissero decisioni
collettive capaci di rispettare contemporaneamente, sempre e sicuramente, i requisiti di razionalità
della scelta e alcune elementari condizioni intuitive. … il teorema di Arrow sollevava seri dubbi sul
« principio maggioritario» come procedura atta a massimizzare il «benessere collettivo», e avrebbe
ispirato, nel tempo, una vasta mole di studi che ponevano in discussione la stessa attendibilità etica
delle procedure democratiche e dell’obiettivo di massimizzare il benessere sociale.» (Fagiani, o.c.
p.97)
3. due proposte etiche sulla base delle nuove urgenze e dei nuovi diritti
3.1. diritti della natura e, nella natura, dell’uomo di fronte al potere della tecnica: Hans Jonas
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3.2. diritti all’interno di una società segnata dal moltiplicarsi del numero e delle relazioni di
dottrine “comprensive” tra di loro divergenti o opposte. John Rawls
Hans Jonas: etica nell’età dell’autonomia della tecnica
1. il problema: l’autonomia e l’onnipotenza della tecnica
(ripreso dall’intervento 2008 sviluppo e decrescita: al punto 1.2.)
La prospettiva etica e il problema in essenziale sintesi: « La società tecnologica si regge su due miti
potenti: il progresso ininterrotto delle tecniche e il “ritardo” etico degli uomini rispetto alle
tecniche.» Baudrillard Jean 1968 Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2003, p. 160
1.1. Il problema attuale legato alla potenza della tecnica (il nuovo contesto di deinòs)
Seguendo la logica della sua affermazione, la tecnica non può fare solo ciò che non riesce a fare;
non conosce cioè limiti al proprio intervento se non quelli che derivano dal campo delle sue
possibilità e vede come ostacoli inammissibili per sé, e conseguentemente per il progresso e per la
libertà, ogni limite esterno. In nome di tali valori, nessun settore della realtà può essere precluso a
priori all’intervento e all’azione della tecnica; sciolta (solutus ab) da ogni limite e vincolo si afferma
come un Assoluto. Il contesto nel quale il problema posto dalla assenza di limiti coerenti per la
tecnica si delinea nella sua drammaticità è ancora la separazione, di stampo metafisico, tra tecnica e
natura; uno dei tanti dualismi culturali ancora non composti, propri della visione “occidentale” del
mondo. Ma la situazione nuova, sempre più evidente e fonte di interrogativi, è che quel dualismo,
che sembrava culturale, di carattere linguistico e filosofico, si manifesta nella produzione attuale
affidata ad una tecnica che sembra seguire e rivendicare una autonomia sempre maggiore.
1.1.1. La tecnica e la soppressione di tutti i fini nell’universo dei mezzi.
«Tra le categorie che siamo soliti impiegare per orientarci nel mondo, l’unica che ci pone all’altezza
dello scenario dischiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto. “Assoluto” significa sciolto da ogni
legame (solutus ab), quindi da ogni orizzonte di fini, da ogni produzione di senso, da ogni limite e
condizionamento. Questa prerogativa, che l’uomo ha attribuito prima alla natura e poi a Dio, ora si
trova a riferirla non a se stesso, come lasciavano presagire la promessa prometeica e la promessa
biblica quando alludevano al progressivo dominio dell’uomo sulla natura, ma al mondo delle sue
macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta nell’automatismo del loro potenziamento,
l’uomo, come scrive G. Anders, risulta decisamente inferiore e inconsapevole della sua inferiorità.
Per effetto di questa inconsapevolezza, chi aziona l’apparato tecnico o chi vi è semplicemente
inserito, senza poter più distinguere se è attivo o è a sua volta azionato, più non si pone la domanda
se lo scopo per cui l’apparato tecnico è messo in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un
senso, perché questo significherebbe dubitare della tecnica, senza di cui nessun senso e nessuno
scopo sarebbero raggiungibili, e allora la “responsabilità” viene affidata al “responso” tecnico, dove
è sotteso l’imperativo che si “deve” fare tutto ciò che si “può” fare.
Ma quando il positivo è iscritto per intero nell’esercizio della potenza tecnica e il negativo è
circoscritto all’errore tecnico, al guasto tecnicamente riparabile, la tecnica guadagna quel livello di
autoreferenzialità che, sottraendola ad ogni condizionamento, la pone come assoluto. Un assoluto
che si presenta come un universo di mezzi, il quale, siccome non ha in vista veri fini ma solo effetti,
traduce i presunti fini in ulteriori mezzi per l’incremento infinito della sua funzionalità e della sua
efficienza. In questa “cattiva infinità”, come la chiamerebbe Hegel, qualcosa ha valore solo se è
“buono per qualcos’altro”, per cui proprio gli obbiettivi finali, gli scopi, che nell’età pre-tecnologica
regolavano le azioni degli uomini e ad esse conferivano “senso”, nell’età della tecnica appaiono
assolutamente “insensati”.» Galimberti Umberto 1999 Psiche e techne. L’uomo nell’età della
tecnica, Feltrinelli, Milano p. 40-41
1.1.2. «Perturbazione dell’equilibrio simbiotico con la natura da parte dell’uomo.»
«Soltanto con il dominio del pensiero e con il potere della civiltà tecnica che ne conseguì, una
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forma di vita, «l’uomo», è stata messa in grado di minacciare tutte le altre (e quindi anche se
stessa). «La natura» non poteva correre un rischio maggiore di quello di far nascere l’uomo e ogni
concezione aristotelica della teleologia autopropulsiva e globalizzante della natura nella sua totalità
(physis) è confutata da ciò che neppure Aristotele poteva presagire. Per lui era la ragione teoretica
nell’uomo a emergere sulla natura, sicuramente però senza esserle di danno, dato il suo carattere
contemplativo. L’intelletto pratico emancipato, che ha generato la «scienza», un’erede di
quell’intelletto teoretico, contrappone invece alla natura non soltanto il suo pensiero, ma anche il
suo agire, in un modo che non è più compatibile con il funzionamento inconsapevole del tutto.
Nell’uomo la natura ha distrutto se stessa e soltanto nella disposizione morale di quest’ultimo (che
noi, al pari di ogni altra cosa, le possiamo ancora attribuire) ha lasciato aperta un’incerta possibilità
di controbilanciare la sicurezza sconvolta dell’autoregolazione. È di per sé spaventoso il fatto che su
questo terreno debba ora poggiare la sua causa o, più sobriamente, quanto della sua causa risulta
visibile all’uomo. In rapporto alle dimensioni temporali dell’evoluzione e persino a quelle molto più
ridotte della storia umana si tratta di una svolta quasi improvvisa nel destino della natura. Le sue
potenzialità erano insite nell’essenza ultramondana di quel sapere e volere, che con l’uomo ha fatto
la sua irruzione nel mondo, ma la sua realtà maturava lentamente e si è poi manifestata
all’improvviso. In questo secolo è stato raggiunto il punto, da tempo in incubazione, in cui il
pericolo diventa palese e la situazione si fa critica. Il potere congiunto alla ragione implica di per sé
responsabilità. Da tempi immemorabili questo è stato scontato nell’ambito delle relazioni
interumane. Il fatto che, varcando questi confini, la responsabilità si sia di recente estesa anche alla
condizione della biosfera e alla sopravvivenza futura della specie umana, è semplicemente la
conseguenza dell’ampliamento del relativo potere, che è in primo luogo un potere di distruzione.
Potere e pericolo rendono evidente un dovere che mediante la solidarietà senza alternative nei
confronti dell’ambiente si estende, prescindendo da ogni particolare consenso, dalla nostra specie
alla totalità dell’essere.»
Jonas Hans Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, ed. Einaudi, Torino
1993, pp.175-177.
1.1.2.1. una situazione essenziale: una tecnica senza limiti ai limiti della vita: « I due eventi che
dominano la nostra intera vita, l’alfa e l’omega delle nostre esistenze individuali, erano fino a poco
fa al di fuori del nostro controllo. Ma ora non è più così poiché la tecnica se ne è impadronita: ha
creato strumenti che consentono di determinare la nascita non solo secondo natura ma anche in
laboratorio ed ha prolungato la vita anche oltre i limiti posti dalla natura.» La presenza della tecnica
sui momenti estremi del vivere ha comportato la sottrazione dei due momenti principali del vivere
alla libertà degli individui. « Si è arrivati al punto di far votare dagli elettori e dal loro
rappresentanti parlamentari questioni di estrema privatezza, con tutte le torsioni politiche ed etiche
che queste intrusioni comportano nelle coscienze e nella libertà individuale. La privatezza della
morte è diventata argomento pubblico non solo come indirizzo generale ma perfino nei casi
specifici di questo e di quello. Di conseguenza, mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali
degli individui, anche la magistratura è stata chiamata in campo. … La vita e la morte sono
argomenti non decidibili o almeno così dovrebbe essere. Esperienze che segnano il carattere e la
coscienza di ciascuno. Il nostro destino. La nostra dignità. La nostra libertà.» (Scalfari, Eugenio, in
la Repubblica 03.08.2008).
1.1.2.2. ripensare eticamente l’uomo oggi: « Non è una novità che il concetto di «uomo», il modo in
cui pensiamo noi stessi (e da cui facciamo derivare anche questioni più complesse come le scelte
etiche, la visione politica o la giurisprudenza), sia culturalmente determinato. Questo significa,
banalmente, che il più delle volte il modo in cui immaginiamo noi stessi, e ciò che è giusto o
sbagliato, dipende dall’ambiente che abitiamo con i nostri simili e dal modo in cui siamo capaci di
riconoscerlo. Storicamente il ruolo degli «strumenti» che abbiamo avuto a disposizione ha sempre
influito moltissimo sul nostro modo di essere umani. Pensiamo al fuoco… […] La realtà, per citare
Fabris, è spesso «più avanti del pensiero che la può pensare». Negli ultimi anni, con i network
digitali, siamo entrati definitivamente dentro lo strumento. Abbiamo spostato una parte significativa
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delle nostre vite all’interno di uno spazio sociale, culturale e politico non più caratterizzato
geograficamente, non più vincolato alla nostra stessa presenza fisica.», ma all’interno di mondi
virtuali tecnicamente costruiti e universalmente disponibili. Granieri Giuseppe 2009 Umanità
accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Laterza, Roma Bari p. 19, 24
«Ma il punto vero non è tanto dare verità alle cose che accadono in Rete o attraverso delle
tecnologie (esattamente come il punto non è mai stato «aggiungere» realtà alla voce della zia mai
incontrata che ci telefonava dall’America). Non è più convincerci che le cose stanno cambiando e
che stiamo entrando in un modello completamente nuovo. Il punto è capire come si stanno
ridisegnando i nostri comportamenti e come funzionano quegli aspetti della nostra vita sociale e
culturale che stiamo aggiungendo a quelli tradizionali. Cominciando, magari, dalla domanda più
importante, quella che intuitivamente un migrante si pone per prima: perché dovrei spostare parte
del mio tempo vitale online? Perché lo fanno gli altri?» (Granieri, o.c.p. 80)
2. una nuova etica: l’etica della responsabilità
2.1. «La responsabilità oggi: il futuro minacciato e l’idea di progresso. Il futuro dell’umanità e il
futuro della natura. La solidarietà di interesse con il mondo organico.»
«Il futuro dell’umanità costituisce il primo dovere del comportamento umano collettivo nell’era
della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, «onnipotente». In esso è evidentemente incluso il
futuro della natura in quanto condizione sine-qua-non; ma, anche indipendentemente da ciò, si tratta
di una responsabilità metafisica in sé e per sé, dal momento in cui l’uomo è diventato un pericolo
non soltanto per se stesso, una per l’intera biosfera. Persino se i due aspetti fossero separabili, ossia
anche se in un ambiente di vita devastato (e in gran parte ricostruito artificialmente) fosse possibile
per i nostri discendenti una vita nominalmente umana, la pienezza vitale della terra, prodottasi nel
corso di un lungo processo creativo della natura e adesso affidata a noi, avrebbe di per se stessa
diritto alla nostra tutela. Ma poiché i due aspetti non sono in effetti separabili, se non a prezzo di
una caricatura dell’immagine dell’uomo, - poiché nel punto decisivo e cioè davanti all’alternativa:
«conservazione oppure distruzione», l’interesse dell’uomo coincide nel senso più sublime con
quello del resto della vita in quanto sua dimora cosmica, - possiamo trattare entrambi i doveri come
se fossero uno solo, ricorrendo al concetto guida di dovere verso l’uomo, senza per questo cadere in
una visione riduttiva antropocentrica. L’esclusiva fissazione sull’uomo in quanto diverso dal resto
della natura può significare solo immiserimento, anzi disumanizzazione dell’uomo stesso, atrofia
del suo essere anche nel caso fortunato della conservazione biologica, il che dunque contraddice il
suo fine dichiarato, sanzionato proprio dalla dignità del suo essere, in un’ottica veramente umana
rimane alla natura la sua dignità propria, che si contrappone all’arbitrio del nostro potere. In quanto
da lei generati, siamo debitori, verso la totalità a noi prossima delle sue creature, di una dedizione di
cui quella verso il nostro essere costituisce soltanto la punta più elevata. Ma questa, correttamente
intesa, comprende in sé tutto il resto.» Jonas Hans Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà
tecnologica, ed. Einaudi, Torino 1993, pp.175.
2.2. le componenti (in forma analitica) dell’etica della responsabilità
2.2.1. due dati irrinunciabili e due conseguenti coordinate della riflessione etica contemporanea: 1.
la centralità della tecnica e il suo potere totalizzante; 2. occorre agire nella contemporaneità (senza
rimpianti, nostalgie, volontà rifondative o neofondative in nuove filosofie dei valori di cui esaltare
la natura perenne: «L’errore sul quale tali speranze sono fondate è paragonabile a quello del nobile
cavaliere che vede un riconoscimento del suo cavallo e un’assicurazione della sua esistenza
cavalleresca nel fatto che la tecnica moderna calcola l’energia in cavalli vapore.» Carl Schmitt,
1967 La tirannia dei valori, citato da F.Volpi, in Viano o.c.p.145)
2.2.2. l’etica della responsabilità. Se l’etica passata poneva il proprio accento e la propria centralità
sull’intenzionalità presente (intentio condizione di moralità dell’atto), l’etica contemporanea sposta
il proprio centro di valore in termini di tempo e di spazio in nuove sedi: impone una assunzione di
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responsabilità nei confronti del futuro, nei confronti della natura e, all’interno, nei confronti
dell’uomo; quindi un radicale mutamento di prospettiva e di azione.
2.2.3. si impone un primo compito: superare un’etica a base antropologica, o che isola l’uomo dal
suo contesto naturale, o che parte dal presupposto acritico (culturale, politico, economico,
religioso…) del diritto dell’uomo al dominio della natura e dalla conseguente catalogazione: uomo
= fine, natura = mezzo. Occorre passare da un’etica antropocentrica a un’etica della biosfera nella
quale l’etica si definisce non solo con riferimento all’uomo e ai suoi diritti ma all’intera natura,
secondo livelli specifici di analisi e di decisione; e quindi delinea un ampio spettro dei diritti (vedi
Nussbaum) e conseguenti doveri (precetti) la cui osservanza è anche, utilitaristicamente, garanzia di
realizzazione e di vita piacevole per l’uomo.
2.2.3.1. in questo campo il sentire comune (promosso e sostenuto da una strema varietà di
movimenti specifici e mirati) avanza e sollecita la produzione giuridica. « … una protezione
giuridica quasi inesistente e ormai largamente insufficiente anche nei confronti della coscienza etica
comune, la quale si va rapidamente evolvendo, e da una iniziale cerchia ristretta e rigidamente
antropocentrica tende ad allargarsi fino ad abbracciare tutte le specie viventi.» (S. Castignone, o.c.
p. 233)
2.2.4. si impone un secondo compito (contestuale al primo): quello di ripensare le categorie
dell’etica (i termini, i principi e le regole, ma anche i luoghi comuni, gli stili di vita individuali e
sociali) a partire proprio dal principio responsabilità: potere, progresso e sviluppo, utopia, limite,
paura, sofferenza, uguaglianza e disuguaglianza, piacere, scommessa, corpo, nascita e morte …
2.2.5. responsabilità etica su una base plurima: la logica dell’evoluzione del vivente come suo tratto
essenziale, la logica del raffinarsi della tecnologia e i suoi nuovi ambiti, la logica delle relazioni
sociali e delle potenzialità umane in inesorabile mutamento.
« “La genialità di un sistema evolutivo consiste nel fatto che si tratta di un meccanismo per generare
un cambiamento perpetuo. Cambiamento perpetuo non significa cambiamento ricorrente, come il
caleidoscopio dei movimenti dei pedoni all’angolo di una strada si può definire come qualcosa che
tollera il cambiamento ricorrente. Si tratta effettivamente di dinamismo perpetuo. Cambiamento
perpetuo significa squilibrio persistente, lo stato persistente di quasi caduta. Significa cambiamento
che subisce a sua volta il cambiamento. Il risultato sarà un sistema che è sempre sull’orlo di
cambiare se stesso” (Kelly, Out of control cit, p.443)
Come sempre accade, poi qualcuno lo dice meglio. Sterling, in un libro sul futuro che, pur essendo
di qualche anno fa, non è ancora per nulla datato, riassumeva così il concetto: “Uno «squilibrio
permanente»: il sistema che stiamo esaminando non possiede una condizione ideale. Non verrà mai
il momento d’oro in cui, gongolando di soddisfazione, potremo dare l’annuncio che «il mondo è
stato computerizzato» o che «il mondo è stato genetificato». Il processo del mutamento tecnosociale
continua semplicemente a ricomplicarsi, senza mai potersi definire «risolto» o «messo a punto».
Non prevede un traguardo né una vittoria finale.” (B. Sterling, Tomorrow now. Come vivremo nei
prossimi cinquant’anni, Mondadori, Milano 2004, pp. 51-52.) 142
A questo punto, assunto e interiorizzato il fatto di essere in un meccanismo che «si ricomplica» e
che ci cambia, possiamo scegliere tra due strade. La prima è quella del rifiuto o dell’accettazione,
che possiamo motivare intellettualmente in maniera più o meno colta, ma che è ininfluente ai fini
del risultato: difficilmente ci libereremo dei network o ne rallenteremo il processo. Questo non
perché siano le tecnologie a comandare e a decidere per noi, ma semplicemente perché una massa
critica di persone, enti e società le sta accettando, utilizzando, sviluppando. E ricomplicando.
La seconda strada è quella di ragionare su alcuni fondamentali e cercare di comprendere meglio la
nostra posizione di esseri umani, individui connessi. C’è molta letteratura sul significato della
parola «progresso» e sappiamo tutti che il progresso non è necessariamente una cosa «buona di per
sé». Deve essere sostenibile, deve avere dei costi controllabili (pensiamo al grande problema
ambientale che stiamo cercando di affrontare in questi anni), deve avere — se possibile — una linea
di sviluppo che non ci faccia venire i brividi pensando al domani. Ma se guardiamo indietro, nelle
nostre vite personali, dobbiamo riconoscere che la diffusione dei network ci ha portato una serie di
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benefici e di opportunità che abbiamo felicemente integrato nel presente e nel nostro quotidiano o
che, se ancora non conosciamo, possiamo imparare a conoscere ed integrare nella nostra vita. 143
Conoscere è la nostra prima, rinnovata, responsabilità. 147
Anche in questo caso, dunque, è un problema di educazione su cui noi per primi abbiamo la
responsabilità. E lo stesso ragionamento potrebbe estendersi al modo in cui ci informiamo,
quotidianamente, per leggere il mondo e decidere come orientarci al suo interno. La responsabilità
della mediazione, quella che prima delegavamo completamente ai media di massa (giornali, radio,
televisione), oggi è tornata su di noi. Non abbiamo perso i vecchi media 150 e i nostri abituali
mediatori, ma abbiamo molte altre possibilità per costruirci un’informazione più mirata,
personalizzata e cucita su misura sui nostri interessi. Ma farlo, riuscirci in maniera efficace, richiede
una nuova alfabetizzazione, un nuovo approccio — anche critico — al modo in cui ci rapportiamo
con quanto leggiamo, vediamo o scriviamo. Ancora una volta il medium è neutro rispetto a ciò che
facciamo: ci offre delle possibilità che possiamo sfruttare, A patto di saperlo fare, di governare le
logiche fino a trasformare un’opportunità in un risultato positivo e non in una complicazione
ulteriore. p. 151» Granieri Giuseppe 2009 Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta
cambiando, Laterza, Roma Bari pp. 142,143,147,150-151.
3. note di metodo: il ritorno della “saggezza”
3.1..la logica della razionalità etica della responsabilità, nel contesto della plenipotenza delle
tecnica e del ribaltamento tra mezzi e fini, è definita dal recupero della phrònesis; la virtù
aristotelica della “prudentia” come arte di scegliere con saggezza il mezzo giusto in vista di un fine.
«Ciò che manca al mondo moderno, in tutta la sua «im-prudenza», non sono certo i mezzi, che la
scienza mette a disposizione in misura sempre maggiore, ma piuttosto i fini.» (Volpi Franco, Tra
Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla «riabilitazione della filosofia
pratica», in Viano, o.c. p. 146).
3.2. il recupero della razionalità pratica incarnata nella phrònesis, virtù dianoetica presentata da
Aristotele ha le proprie radici nelle condizioni storiche della cultura contemporanea così come si
delineano nelle riflessioni sul sapere in generale e sull’etica in particolare a partire dalla filosofia
del linguaggio e dall’ermeneutica. « Con la sua attualizzazione della filosofia pratica aristotelica
l’ermeneutica [il richiamo specifico è all’opera di H.G. Gadamer] propone dunque un correttivo
della divaricazione tipicamente moderna tra la razionalità universalistica dei principi dell’agire e la
contestualità storica delle abitualità, delle consuetudini e delle istituzioni concrete nelle quali l’agire
trova attuazione. In tal modo essa insiste sulla propria convinzione di fondo, portata avanti sin dagli
inizi, secondo la quale la spontaneità non è mai data senza ricettività, l’attività mai senza passività,
la progettualità mai senza orizzonte, la ragione universale mai se non nelle scorie di un linguaggio
particolare. Così non vi è mai il senso oggettivo, ideale di un testo, ma ogni senso è calato sempre in
un contesto che lo rende possibile; altresì il detto non è mai esplicitato in una trasparenza perfetta,
ma è sempre legato alla prospetticità e alla parzialità del dire nel quale è reso disponibile; insomma,
la ragione umana non si presenta mai allo stato puro, universale, ma è sempre incarnata nelle
impurità di un linguaggio particolare, dalle quali può liberasi solo traducendosi in quelle di un altro.
Per questo, l’accentuazione della compenetrazione di ragione e linguaggio è diventata un motivo
centrale e determinante nell’ermeneutica gadameriana, ed è stata ribadita ogniqualvolta si è trattato
di richiamare l’attenzione sull’insopprimibile accompagnarsi della con-testualità e della
prospetticità a ogni possibile attingimento di senso. (Volpi, in o.c.p. 140-141)
3.3. La saggezza dell’etica dei diritti e dei nuovi diritti. Il laboratorio dei nuovi diritti è la sede nella
quale prende forma e articolazione la virtù etica della saggezza (nell’accezione di Aristotele e nella
ripresa di Jonas, Gadamer) e in cui si definisce, di conseguenza, la responsabilità morale nei
confronti del presente e della sua specifica, continuamente mutevole, complessità. La saggezza,
infatti (come definita nella concezione di Aristotele), è l’abilità (la virtù dianoetica) di saper
declinare concetti universali per situazioni particolari. L’evoluzione del diritto e la sua capacità
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plastica di sostenere l’uomo e, nella sua responsabilità, l’intera realtà nella attuazione di capacità
(capabilities) è legata a questa capacità razionale, teorica e pratica, di definire l’universale nel
particolare. Riprendendo un’osservazione già utilizzata (2.5.3.), applicata al campo dei diritti
dell’uomo: «L’essere umano è osservato nella specificità delle sue diverse maniere d’essere: come
fanciullo, come adulto, come donna, come anziano, come malato, come handicappato, come
lavoratore, come consumatore... Questa è la grande novità dell’evoluzione dei diritti dell’uomo
rispetto al loro primo sorgere segnato dall’universalismo di una natura umana astratta dai contesti
sociali.» (Viola, art.c.)
3.3.1. Si tratta di un dibattito denso di richiami storici. La distinzione tra virtù etiche e dianoetiche
formulata da Aristotele e il ruolo da lui attribuito alla virtù etica della phrònesis (saggezza) di
gestire il vasto e imprevedibile campo della virtù etiche, emergenti nel sociale, distinzione qui
richiamata, rimanda a sua volta alla discussione tra Socrate e Sofisti rappresentata da Platone nel
dialogo Menone: si discute se l’attenzione debba essere rivolta alla virtù, per coglierne il concetto,
la forma, l’essenza (Socrate), o alle molte virtù, per coglierne l’adeguatezza nel sostenere capacità
specifiche (la virtù dell’uomo, della donna, del fanciullo, del retore, del politico…).
Rawls: etica nell’età della moltiplicazione e comunicazione di opposte
dottrine comprensive
Alla «pubblicazione, avvenuta nel 1971, di A Theory of Justice [Una teoria della giustizia,
Feltrinelli, Milano 1983] di John Rawls …possiamo far risalire la rinascita delle teorie dei diritti. In
verità, la teoria rawlsiana non verte immediatamente sui diritti, né dedica a essi molto spazio.
L’oggetto principale dell’opera di Rawls è costituito dal problema di come individuare i principi
fondamentali della « società giusta » che, secondo il filosofo americano, sono quelli che verrebbero
scelti da individui razionali, mutuamente disinteressati e sottoposti a opportune restrizioni
informazionali, in una situazione di eguaglianza. Secondo Rawls, posti in una tale condizione, gli
individui sceglierebbero come principi per distribuire quelli che egli chiama i «beni principali», il
principio della massima eguale libertà per tutti i cittadini e il cosiddetto «principio della differenza»
che consente soltanto quelle diseguaglianze distributive (negli altri beni principali eccetto la libertà)
che tornano a vantaggio dell’individuo più sfavorito. … anziché distribuire un bene finale
formalmente unico, cioè il benessere complessivo, la società rawlsiana distribuisce «beni
principali», cioè beni strumentali essenziali ai cittadini per conseguire i loro fini, quali che essi
siano (purché compatibili con la concezione di giustizia che informa le istituzioni sociali): a
differenza dei cittadini della società «utilitaristica », tutti vincolati al solo fine della promozione del
massimo benessere collettivo, i cittadini «rawlsiani» possono quindi perseguire fini, valori, progetti
di vita e concezioni del bene diversi e disparati. Il fondamento teorico della posizione etico-politica
di Rawls è costituito dall’adozione di una prospettiva deontologica, secondo la quale un’azione è
moralmente giusta se conforme a una norma giusta (in Rawls i «due principi»), in contrapposizione
a quella teleologica, che sottende l’utilitarismo, secondo cui un’azione è moralmente giusta se
massimizza un valore o un fine non morale (l’utilità o il benessere sociale) identificato con il
«bene».» (Fagiani, o.c. p.98,99)
1. il problema del pluralismo e l’obiettivo della democrazia liberale
«Ora, il problema grave è questo: una società democratica moderna non è caratterizzata soltanto da
un pluralismo di dottrine religiose, filosofiche e morali comprensive, ma da un pluralismo di
dottrine comprensive incompatibili e tuttavia ragionevoli. Nessuna di queste dottrine è
universalmente accettata dai cittadini; né c’è da attendersi che in un futuro prevedibile una di esse,
oppure qualche altra dottrina ragionevole, sia mai affermata da tutti i cittadini, o da quasi tutti. Il
liberalismo politico assume che, ai fini della politica, una pluralità di dottrine comprensive
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ragionevoli ma incompatibili sia il risultato normale dell’esercizio della ragione umana entro le
libere istituzioni di un regime democratico costituzionale; e assume anche che una dottrina
comprensiva ragionevole non respinga gli aspetti essenziali di un regime democratico.
Naturalmente una società può avere in sé anche dottrine comprensive irragionevoli e irrazionali, o
perfino folli; e in questo caso il problema è quello del contenimento, del fare in modo che tali
dottrine non minino l’unità e la giustizia della società. (Rawls John 1993 Liberalesimo politico, ed.
di Comunità, Torino 1999, p. 5)
1.1. il problema di una società stabile e giusta ma pluralistica. «La principale conclusione - sulla
quale tornerò fra breve - ricavabile da queste osservazioni è che il problema del liberalismo politico
si pone in questi termini: come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di
cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili
benché ragionevoli? Detto in altro modo: come è possibile che dottrine comprensive profondamente
contrapposte, benché ragionevoli, convivano e sostengano tutte la concezione politica di un regime
costituzionale? Quali sono la struttura e il contenuto di una concezione politica capace di
conquistarsi il sostegno di un simile consenso per intersezione? Sono queste (insieme ad altre) le
domande cui cerca di rispondere il liberalismo politico. … Il problema del liberalismo politico è
quello di costruire una concezione della giustizia politica (per un regime democratico
costituzionale) che la pluralità delle dottrine ragionevoli - e questa pluralità è sempre un aspetto
della cultura di un regime libero e democratico - possa far propria. L’intenzione non è né quella di
sostituire tali visioni comprensive né quella di dar loro un fondamento vero.» (Rawls, Liberalesimo
politico, p.7)
1.1.1. l’irrinunciabilità del pluralismo. «Tale pluralismo non è visto come un disastro, ma come
l’esito naturale delle attività della ragione umana entro libere istituzioni durature; vedere il
pluralismo come un disastro significa vedere come un disastro l’esercizio della ragione in
condizioni di libertà. … La cultura politica di una società democratica è sempre contraddistinta da
una molteplicità di dottrine religiose, filosofiche e morali opposte e inconciliabili; alcune di esse
sono del tutto ragionevoli, e il liberalismo politico vede questa diversità fra dottrine ragionevoli
come l’inevitabile risultato a lungo termine dei poteri della ragione umana, quando operano sullo
sfondo di istituzioni libere e durature.» (Rawls Liberalesimo politico, p.12, 23)
1.1.2. l’irrinunciabilità dell’armonia (sociale, politica): «Il successo del costituzionalismo liberale
ha rappresentato, in effetti, la scoperta di una nuova possibilità sociale: quella di una società
pluralistica ragionevolmente armonica e stabile. Prima della pratica vittoriosa e pacifica della
tolleranza in società dotate di istituzioni liberali non c’era modo di conoscere questa possibilità; era
più naturale credere - e la secolare pratica dell’intolleranza sembrava confermarlo - che l’unità e la
concordia sociali richiedessero il consenso intorno a una dottrina, religiosa, filosofica o morale,
generale e comprensiva. L’intolleranza era accettata come condizione dell’ordine e della stabilità
sociale, e l’indebolimento di questa credenza ha aiutato ad aprire la via alle istituzioni liberali. E
forse la dottrina della libertà di fede è nata perché è difficile, se non impossibile, credere nella
dannazione di coloro con i quali abbiamo collaborato a lungo, in fiducia e sicurezza, per la
conservazione di una società giusta. (Rawls Liberalesimo politico, p.12-13 passim)
1.2. ragione e ragionevolezza: come porre «vincoli ragionevoli alle loro ragioni». Le varie dottrine
comprensive sono al loro interno razionali (hanno una propria coerenza, non sono irrazionali o
contraddittorie), devono politicamente essere ragionevoli, cioè riconoscere l’urgenza del problema
sociale, in cui e di cui vivono, e rispettare le regole che rendono possibile la democrazia e la
convivenza sociale nel pluralismo («una chiesa, per esempio, può scomunicare gli eretici, ma non
bruciarli» (Rawls John 2001 Giustizia come equità, Feltrinelli, Milano 2002 p.13) «… il liberalismo
politico non parla di verità, ma solo di ragionevolezza della propria concezione politica della
giustizia; e questa non è solo una questione verbale, ma ha due conseguenze. Innanzitutto, così
facendo si mette in chiaro che la concezione politica ha un punto di vista più limitato, definisce i
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valori politici e non tutti i valori, e nello stesso tempo assicura una base pubblica di giustificazione;
in secondo luogo, si mette in luce il fatto che i principi e gli ideali della concezione politica stessa si
basano sui principi della ragione pratica, uniti a certe concezioni della società e della persona che
però appartengono a loro volta alla ragione pratica stessa (tali concezioni specificano la cornice
entro la quale i principi di quest’ultima hanno applicazione).» (Rawls Liberalesimo politico, p.9)
1.2.1. la ragione. Alla base del “liberalesimo democratico” l’affermazione della autonomia della
ragione in campo etico.
«Quindi il problema del liberalismo, come ho già detto, è: come può esistere continuativamente nel
tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine
religiose, filosofiche e morali ragionevoli? È un problema di giustizia politica, non un problema che
riguardi il sommo bene. […] A tale scopo studiarono alcuni problemi fondamentali di
epistemologia e psicologia morale, quali: a) la conoscenza o consapevolezza di come dobbiamo
agire è direttamente accessibile solo ad alcuni, ovvero a pochi (per esempio ai preti), oppure è
accessibile a ogni persona normalmente ragionevole e coscienziosa?
b) ancora: l’ordine morale che ci si richiede deriva da una fonte esterna, per esempio da un ordine
dei valori nell’intelletto divino, o nasce in qualche modo dalla natura umana (dalla ragione, dal
sentimento o dall’unione di entrambi) insieme ai requisiti della nostra vita in comune nella società?
c) dobbiamo, infine, essere convinti o costretti a conformarci a ciò che ci chiedono i nostri doveri e
obblighi da una motivazione esterna, per esempio dalla sanzione di Dio o dello stato, o siamo
formati in modo tale che nella nostra natura esistono motivazioni sufficienti a portarci ad agire
come dovremmo, senza bisogno di minacce o stimoli esterni?
Ciascuna di queste domande fu posta, innanzitutto, in teologia. Fra gli autori più studiati oggi,
Hume e Kant, ciascuno a suo modo, scelgono entrambi la seconda alternativa in ciascuna delle tre;
secondo loro l’ordine morale nasce in qualche modo, come ragione o sentimento, dalla stessa natura
umana e dalle condizioni della vita associata. Essi ritengono inoltre che la conoscenza o
consapevolezza del modo in cui si deve agire sia direttamente accessibile a ogni persona
normalmente ragionevole e coscienziosa; e ritengono, infine, che noi siamo formati in modo tale
che nella nostra natura esistono motivazioni sufficienti a portarci ad agire come dovremmo senza
che siano necessarie sanzioni esterne, almeno sotto forma di premi e pene imposti da Dio o dallo
stato. Sia Hume sia Kant sono in effetti lontani, quanto si può esserlo, dall’idea che solo pochi
possano avere una conoscenza morale, e che tutti o quasi tutti debbano essere portati a fare ciò che è
giusto per mezzo di simili sanzioni. Da questo punto di vista le loro convinzioni appartengono a
quello che chiamo liberalismo comprensivo, ben distinto dal liberalismo politico.
Il liberalismo politico non è un liberalismo comprensivo. Non assume una posizione generale circa
le tre domande che abbiamo posto ma lascia che vi rispondano visioni comprensive diverse,
ciascuna a suo modo. Il liberalismo politico sceglie però, in tutti e tre i casi, la seconda alternativa
per quanto riguarda una concezione politica della giustizia adatta a un regime democratico
costituzionale; l’affermare tali alternative in questo caso fondamentale rientra nel costruttivismo
politico. I problemi generali della filosofia morale non interessano il liberalismo politico, se non in
quanto influiscono sul modo in cui la cultura di fondo e le sue dottrine comprensive tendono a
sostenere un regime costituzionale.» (Rawls Liberalesimo politico, p.12-15 passim)
1.2.2. la ragionevolezza. L’armonia delle autonomie nel “contratto” sociale e perciò la condivisione
e il consenso su punti fermi, indispensabili per la comune convivenza e per l’universale esercizio
della ragione (non verità, ma ragionevolezza). « Noi raccogliamo queste convinzioni ormai
acquisite, come l’accettazione della tolleranza religiosa e il rifiuto della schiavitù, e cerchiamo di
organizzare le idee e i principi fondamentali in esse impliciti in una concezione politica coerente
della giustizia; simili convinzioni sono punti fermi provvisori di cui qualsiasi concezione
ragionevole deve rendere conto. […]Perciò il liberalismo politico è alla ricerca di una concezione
politica della giustizia che possa - questa è la nostra speranza - conquistare, in una società di cui è
regola, il consenso per intersezione di dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli. La
conquista di questo sostegno da parte di dottrine ragionevoli ci fornirà la base della risposta alla
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nostra seconda domanda fondamentale: in che modo cittadini che restano profondamente divisi per
quanto riguarda le loro dottrine religiose morali e filosofiche possono, ciononostante, mantenere
una società democratica stabile e giusta? A tale scopo è desiderabile, normalmente, che le posizioni
filosofiche e morali comprensive alle quali usiamo ricorrere quando dibattiamo questioni politiche
fondamentali siano messe da parte nella vita pubblica. La migliore guida della ragione pubblica del ragionare dei cittadini, condotto nel foro pubblico, sugli elementi costituzionali essenziali e sui
problemi fondamentali della giustizia - è una concezione politica tale che tutti i cittadini possano far
propri i suoi principi e valori; una concezione che dovrà essere, per così dire, politica e non
metafisica.» (Rawls Liberalesimo politico, p. 26, 28)
«Molti cittadini, se non la maggioranza, potrebbero voler dare alla concezione politica un
fondamento metafisico rientrante nella loro dottrina comprensiva; e questa dottrina può
comprendere una concezione della verità dei giudizi morali. Diciamo quindi che, quando parliamo
della verità morale di una concezione politica, la valutiamo dal punto di vista della nostra dottrina
comprensiva. Anche se pensiamo che il costruttivismo politico fornisca una base pubblica per la
giustificazione sufficiente rispetto alle questioni politiche, possiamo non pensare, quando vediamo
le cose come individui o come membri di un’associazione, religiosa o d’altro genere, che dica tutto
quello che c’è da dire circa la verità dei suoi principi e giudizi [meglio: possiamo pensare che non
dica…]. Questo «di più» il costruttivismo politico né lo riconosce né lo nega; qui, come ho già
detto, non si pronuncia. Quello che dice è soltanto che una concezione politica ragionevole e
praticabile ha bisogno esclusivamente di una base pubblica costituita dai principi della ragione
pratica e dalle concezioni della società e della persona. … Il costruttivismo politico, dunque, non
critica le teorie religiose, filosofiche o metafisiche della verità e validità dei giudizi morali. Il suo
criterio di correttezza è la ragionevolezza, e, dati quelli che sono i suoi scopi politici, non ha
bisogno di andare più in là. … Questi valori, presi congiuntamente, esprimono quell’ideale politico
liberale secondo il quale il potere politico, essendo un potere coercitivo di cittadini liberi e uguali in
quanto corpo associato, quando sono in gioco elementi costituzionali essenziali e questioni di
giustizia fondamentale, dovrebbe essere esercitato solo in un modo tale che ci si possa
ragionevolmente aspettare che tutti i cittadini l’accettino alla luce della loro comune ragione
umana.» (Rawls Liberalesimo politico, p. 118, 119, 128)
1.2.2.1. nella ragionevolezza: il ritorno della phrònesis come virtù etica e come metodo dell’etica.
«…non verità, ma ragionevolezza» o una forma di verità etica definita come nella virtù della
saggezza – phrònesis.
1.3. politica e morale. La giustizia dello stato non è morale, ma politica. Allo stato (alla società
come corpo collettivo) non compete la definizione di bene, che resta compito, diritto, fine e risultato
della libertà individuale, ma la definizione di quelle regole che, condivise, permettono al cittadino la
libertà e quindi il pieno esercizio del proprio agire morale. «Innanzitutto i cittadini sono liberi in
quanto riconoscono a se stessi, e si riconoscono reciprocamente, il potere morale di concepire il
bene. Ciò non significa che faccia parte della loro concezione politica il considerarsi
inevitabilmente vincolati al perseguimento di quella particolare concezione del bene che, in un
qualsiasi momento dato, sostengono; significa piuttosto che, in quanto cittadini, sono considerati
capaci di rivedere e modificare questa concezione per motivi ragionevoli e razionali, e possono
farlo se lo desiderano. In quanto persone libere, i cittadini rivendicano il diritto di considerare la
propria persona indipendente da ognuna di queste concezioni particolari, col suo sistema di fini
ultimi, e non identificabile con essa. Poiché possiedono il potere morale di formare, rivedere e
perseguire razionalmente una concezione del bene, la loro identità pubblica di persone libere non
risente del fatto che la loro particolare concezione del bene cambi nel tempo. … i cittadini si
considerano liberi sta nel vedere se stessi come fonti autoautenticanti di rivendicazioni valide … i
cittadini sono considerati liberi [perché] sono considerati capaci di assumersi la responsabilità dei
propri fini.» (Rawls Liberalesimo politico, p. 42-43, 44,45) L’ipotetico spazio politico per l’idea di
bene: «le idee del bene possono essere introdotte liberamente, se necessario, per integrare la
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concezione politica della giustizia: ma solo finché sono idee politiche, vale a dire finché
appartengono a una concezione politica ragionevole della giustizia (per un regime costituzionale).»
(Rawls Liberalesimo politico, p.170)
1.4. il consenso per intersezione: quel riconoscimento (delle regole comuni) perché si presenti in
forma stabile e duratura, quindi con solido fondamento, deve avvenire “per intersezione”: cioè è
accettato e (ri)formulato dall’interno delle loro dottrine, pur comprensive, pur diverse e contrastanti
nei confronti di altre; quindi deve avvenire razionalmente e per ragionevolezza.
1.4.1. il concetto politico (non etico) di giustizia e delle altre categorie. « Poiché non esiste una
dottrina religiosa, filosofica o morale ragionevole affermata da tutti i cittadini, la concezione della
giustizia affermata in una società democratica bene ordinata deve essere limitata a quello che
chiamerò «ambito del politico» e ai suoi valori; e l’idea di società democratica bene ordinata va
costruita tenendo conto di questo.» (Rawls Liberalesimo politico, p. 23)
1.4.2. il nuovo patto / contratto sociale: partecipare attraverso il consenso per intersezione. «Ciò
posto osservo brevemente che una società democratica bene ordinata soddisfa una condizione
necessaria (ma di sicuro non sufficiente) di realismo e stabilità. Una simile società può essere bene
ordinata da una concezione politica della giustizia purché: primo, quei cittadini che sostengono
dottrine comprensive ragionevoli ma opposte partecipino a un consenso per intersezione (cioè
purché facciano in generale propria quella concezione della giustizia, in quanto corrisponde al
contenuto dei loro giudizi politici sulle istituzioni di base); secondo, le dottrine comprensive
irragionevoli (che assumiamo esistere sempre) non si diffondano al punto di minare l’essenziale
giustizia della società. Queste condizioni non ci impongono l’irrealistico (per non dire utopistico)
requisito che tutti i cittadini sostengano la stessa dottrina comprensiva, ma solo che accettino la
stessa concezione pubblica della giustizia, come appunto nel liberalismo politico.» (Rawls
Liberalesimo politico, p. 23)
1.4.3. una via morale al consenso per intersezione espresso nei confronti di una giustizia “non
morale” ma politica. «L’idea di consenso per intersezione. L’idea di consenso per intersezione
viene introdotta per rendere più realistica e adeguare alle condizioni storiche e sociali delle società
democratiche, che comprendono il fatto del pluralismo ragionevole, la nozione di società bene
ordinata. In una società bene ordinata tutti i cittadini sostengono la stessa concezione politica della
giustizia: tuttavia noi non supponiamo che lo facciano per ragioni identiche dall’inizio alla fine. I
cittadini hanno idee religiose, filosofiche e morali contrastanti, per cui giungono a sostenere tale
concezione politica partendo da dottrine comprensive diverse e addirittura incompatibili e quindi,
almeno in parte, per ragioni diverse: ma ciò non impedisce alla concezione politica stessa di
costituire un punto di vista comune utilizzabile per risolvere tutti insieme i problemi relativi agli
elementi costituzionali essenziali. … Se un cittadino ha una dottrina comprensiva ben strutturata e
altamente sistematica arriverà alla concezione politica della giustizia dal suo interno (cioè partendo
dalle sue assunzioni di base). I concetti, i principi e le virtù fondamentali della concezione politica
saranno, per così dire, teoremi della sua visione comprensiva.» (Rawls Giustizia come equità, o.c.p.
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1.4.3.1. consenso per intersezione e la tradizione (socratica) di un’etica del dialogo. In Rawls, come
in Jonas, Habermas, Apel, Levinas, Ricoeur ritorna l’etica del confronto, del dialogo, della
comunicazione, del riconoscimento.
1.4.4. i limiti “giusti” del liberalesimo democratico. «Il problema del liberalismo politico è quello di
costruire una concezione della giustizia politica (per un regime democratico costituzionale) che la
pluralità delle dottrine ragionevoli - e questa pluralità è sempre un aspetto della cultura di un
regime libero e democratico - possa far propria. L’intenzione non è né quella di sostituire tali
visioni comprensive né quella di dar loro un fondamento vero.» «“dobbiamo vedere l’unità sociale
come il risultato di un consenso per intersezione intorno a una concezione politica della giustizia”
fondata sull’idea di una struttura di base, cioè il complesso di istituzioni “politiche, sociali ed
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economiche di una società e il modo in cui esse si combinano in un sistema unificato di
cooperazione sociale esteso da una generazione all’altra… quindi stabile”.»
2. una società stabile e giusta
2.01. (Platone) La prima filosofia della storia dell’Europa che si presenta con l’ampiezza di una
riflessione allargata alla varietà dei temi nei quali poi storicamente si vedrà impegnata è quella di
Platone. Proprio per sostenere con continuità un simile vasto impegno culturale Platone delinea un
modello ideale di società e di stato sede della giustizia e fondato quindi sulla virtù. Si tratta di uno
stato che pone le virtù a trama della propria struttura, ma che non si configura affatto come uno
stato etico: è contesto di realizzazione delle virtù e delle libertà personali in un sistema di giustizia,
ma non è fonte di quelle virtù il cui compito è esprimere la natura propria di ciascuno e,
conseguentemente, il ruolo sociale cui più piacevolmente e con profitto ognuno può e deve
attendere. Fin da questa prima costruzione ideale dello stato compare l’esigenza di comporre due
coordinate tra loro antitetiche: l’armonia e l’unità del sistema con la pluralità delle funzioni e delle
nature. Nella teoria politica di Platone il bene compare certo come fine dell’agire individuale e
sociale, ma è privo di definizione, anzi Platone esplicitamente abbandona ogni tentativo di definire
il bene, ne dichiara l’indefinibilità servendosi del noto paragone con il sole: come il sole è
condizione del vedere ma non oggetto di visione, accecherebbe, così il bene è condizione dell’agire,
suo scopo o suo fine, ma non oggetto specifico di scelta, annullerebbe ogni libertà e con ciò la
stessa possibilità della morale. Lo stesso accade per la virtù della giustizia. Si presenta come tema e
quesito dell’opera platonica, “Repubblica” (Politeia) ma non trova mai una definizione specifica,
essa compare invece come la caratteristica dell’intera costruzione: lo stato giusto come armonia di
funzioni essenziali nella quali ognuno realizza se stesso partecipando, secondo la propria natura e la
conseguente abilità (virtù) al bene collettivo. La giustizia è dunque la virtù dello stato ma in quanto
ne rappresenta l’armonia interna e non in quanto viene definita in sé o a priori; siamo in presenza di
una concezione politica, formale, della giustizia.
Bene e giustizia definiti in contesto politico fanno rimarcare la distanza tra politica ed etica e
scongiurano, di conseguenza, l’idea di uno stato etico, l’idea che uno stato possa essere fonte
dell’etica dando vita ad etiche eteronome e autoritarie. Proprio la natura politica delle due
definizioni ha tuttavia una rilevanza etica fondamentale: definite politicamente bene e giustizia si
configurano come condizione di uno stato ideale, stabile e garantito, ambiente perché il bene e
l’intera concezione della morale possano diventare espressione della libertà personale dei cittadini.
2.02. (Kant) Rawls delinea il modello liberale democratico della società e dello stato come
condizione necessaria di moralità fondandolo sull’idea centrale di giustizia come equità. È la
definizione di una società e di uno stato quale si configurano se si pongono a loro fondamento
criteri ideali invocati come: un pluralismo ragionevole delle posizioni che convergono con consenso
per intersezione alle regole della convivenza; e poi, una giustizia come equità che garantisce la
stabilità sociale e l’armonia in quanto annovera tra i diritti (“naturali”) l’accesso a beni primari
individuati sul fondamento delle capacità di base riconosciute e rese realizzabili; il rispetto dei due
principi della giustizia, l’uguaglianza e le differenze, quando questo non devastano la stabilità e
l’armonia sociale ma la sostengono e promuovono ecc. Non è il disegno di un’utopia (come non lo
era l’opera di Platone). Il disegno teorico costruito è da ricondurre al genere del “Sommo bene”
quale compare con chiarezza nella morale kantiana: si tratta della verifica oggettiva della
funzionalità dei principi di base e delle regole etiche evidenziate messe alla prova della loro
efficacia attraverso la realizzazione oggettiva di una concezione ideale (è “l’oggetto di un concetto”,
che può essere paragonato all’esperimento ideale realizzato nelle scienze naturali; è condotto in
condizioni ideali, non quelle “reali” del vivere quotidiano, ma verifica una ipotesi e permette la
scoperta di leggi e la costruzione di modelli teorici del mondo, tecnicamente fecondi). Come il
concetto di Sommo bene in Kant ha come postulato e fondamento la libertà, così il modello di
società (liberale e democratica) tratteggiato ha lo spessore di un programma insieme politico ed
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etico basato sulla valorizzazione dell’azione morale individuale e collettiva, e sulla conseguente
assunzione di responsabilità in nuove direzioni.
2.03. nota per chiarire il senso del termine democrazia per Rawls e oggi generale: « Quando oggi
parliamo di democrazia, usiamo un termine che è sinonimo di liberaldemocrazia o democrazia
liberale. Infatti la democrazia diretta dell’Atene del V secolo a.C. e quella a cui in tempi moderni si
è tentato di dar vita prima nell’effimera Comune di Parigi del 1871 e poi nella Russia bolscevica tra
il 1918 e l’inizio degli anni ‘20 non sono modelli ed esperienze attivi nella nostra società: l’una
perché espressione di una realtà troppo arcaica, l’altra non foss’altro perché soffocata dalle sue
contraddizioni interne e da quelle stesse forze che, dopo averla proposta e agitata come modello
universale, hanno rapidamente costruito una dittatura di partito sfociata nel totalitarismo. La
democrazia di cui parliamo e a cui facciamo riferimento è dunque il sistema politico e istituzionale
che si è formato dal connubio con il liberalismo: un connubio non facile e segnato da molte tensioni
…» (Salvadori Massimo 2009 Democrazie senza democrazia, Laterza, Roma-Bari, introduzione)
2.1. la stabilità sociale sulla base della giustizia (e non di sistemi repressivi), giustizia come
equità.
2.1.01. Premetti: natura e funzione di una concezione politica della giustizia. «La giustizia come
equità è una concezione politica della giustizia, non una concezione generale; vale in prima istanza
per la struttura di base e affida questi altri problemi, di giustizia locale ma anche di giustizia globale
(quello che io chiamo diritto dei popoli) a considerazioni separate e specifiche. Dunque si tratta di
una definizione politica, non morale, di giustizia (formale: non impone fini, pone limiti; diritti
perfetti, cioè negativi), presupposto indispensabile per un agire moralmente giusto.
2.1.02. Premetti: la giustizia come condizione di stabilità.
2.1.1. Una definizione di giustizia come equità si fonda su due idee fondamentali:
2.1.1.1. “struttura di base” «Per struttura di base intendo il complesso delle principali istituzioni
politiche, sociali ed economiche di una società e il modo in cui esse si combinano in un sistema
unificato di cooperazione sociale esteso da una generazione all’altra. Inizialmente, dunque, il punto
focale di una concezione politica della giustizia è dato dalla cornice delle istituzioni di base e dai
principi, criteri e precetti validi per essa, nonché dal modo in cui queste norme si devono esprimere
nel carattere e negli atteggiamenti dei membri della società che realizzano i suoi ideali.» (Rawls
Liberalesimo politico, p. 29)
2.1.1.2. “posizione originaria” e “velo di ignoranza”: situazione delineata come necessaria perché
possa sorgere in modo credibile un contratto sociale realmente paritetico e quindi garanzia di uguali
opportunità per tutti (si tratta di una ipotesi di teoria, di un «artificio espositivo, l’idea di posizione
originaria è uno strumento di riflessione e autochiarificazione»; Rawls Liberalesimo politico, p. 40)
«La giustizia come equità riprende e modifica la dottrina del contratto sociale, adottando una
variante dell’ultima risposta: gli equi termini della cooperazione sociale sono concepiti come frutto
di un accordo fra le persone impegnate nella cooperazione stessa, cioè fra cittadini liberi e uguali
nati nella società nella quale vivono le loro vite. Ma il loro accordo, come qualsiasi accordo valido,
deve essere concluso in condizioni appropriate, e tali condizioni devono, in particolare, mettere
persone libere e uguali in una posizione equa, e non devono concedere ad alcune di esse un
vantaggio negoziale sulle altre. Vanno inoltre esclusi la minaccia della forza e della coercizione
l’inganno, la frode e simili. […] La difficoltà è questa: dobbiamo trovare un punto di vista che si
distanzi dagli aspetti particolari del quadro di fondo onnicomprensivo, che non sia distorto da tali
aspetti, e a partire dal quale si possa raggiungere un accordo equo fra persone considerate libere e
uguali. È la posizione originaria, con quelle sue caratteristiche che ho chiamato «velo d’ignoranza»,
a darci questo punto di vista. La ragione per cui la posizione originaria deve fare astrazione dagli
aspetti contingenti del mondo sociale e non deve esserne influenzata è che le condizioni di un
accordo equo sui principi della giustizia politica fra persone libere e uguali devono togliere di
mezzo quei vantaggi negoziali che nascono, inevitabilmente, entro le istituzioni di fondo di
qualsiasi società per l’accumularsi di tendenze sociali, storiche e naturali. Questi vantaggi
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contingenti e influssi accidentali provenienti dal passato non devono avere a che fare con un
accordo sui principi destinati a regolare, nel presente e nel futuro, le istituzioni della struttura di
base. (Rawls Liberalesimo politico, p. 38)
2.2. le garanzie e le direzioni della giustizia come equità: beni primari e capacità di base
2.2.1. i beni primari. «Una concezione politica efficace della giustizia comprenderà dunque
un’intesa politica su ciò che deve essere pubblicamente riconosciuto come bisogno dei cittadini,
quindi come vantaggioso per tutti. … Anche se i cittadini non sostengono tutti la stessa concezione
(permissibile), completa di finalità e lealtà ultime, perché ci sia un’idea condivisa di vantaggio
razionale bastano due cose: primo, che i cittadini abbiano tutti la stessa concezione politica di se
stessi, come persone libere e uguali; secondo, che la promozione delle loro concezioni (permissibili)
del bene, per quanto lontane nel contenuto e per le dottrine religiose e filosofiche a esse associate,
richieda grosso modo gli stessi beni primari, cioè gli stessi diritti e le stesse libertà e opportunità
fondamentali, e inoltre gli stessi mezzi onnivalenti, come il reddito e la ricchezza, nonché, a
sostegno di tutto ciò, le stesse basi sociali del rispetto di sé. Noi diciamo che questi beni sono cose
di cui i cittadini hanno bisogno in quanto persone libere e uguali, e che chi li rivendica li rivendica
correttamente. L’elenco di base dei beni primari (che potremmo allungare, se fosse necessario)
consta di queste cinque voci:
a. diritti e libertà fondamentali, specificati a loro volta da un elenco [vedi il dibattito sui diritti];
b. libertà di movimento e libera scelta dell’occupazione in un contesto di occasioni diversificate;
c. poteri e prerogative delle cariche e delle posizioni di responsabilità nelle istituzioni politiche ed
economiche della struttura di base;
d. reddito e ricchezza; e, per finire,
e. le basi sociali del rispetto di sé. (Rawls Liberalesimo politico, p. 159-160)
2.2.2. capacitazioni, capacità di base. I beni primari non possono essere definiti in assoluto e in
astratto o astoricamente, vanno posti in relazione alle opportunità, alle capacità (capacitazioni) che
sono in grado di garantire all’interno delle relazioni che la persona intesse nel sociale; è necessario
allora unire la riflessione sui «beni primari» con quella che individua le «capacità di base».
2.2.2.1. Ragionando sul concetto e sul destino delle sviluppo, Amartya Sen, nell’opera Lo sviluppo
è libertà (1999, Mondadori, Milano 2001), conduce la riflessione sul tema delle capacitazioni.
«Se abbiamo delle ragioni per voler essere più ricchi, dobbiamo chiederci quali siano esattamente
queste ragioni, come si esplichino, da che cosa dipendano e quali siano le cose che possiamo «fare»
essendo più ricchi. In generale abbiamo ottime ragioni per desiderare un reddito o una ricchezza
maggiore; e non perché ricchezza e reddito siano in sé desiderabili, ma perché normalmente sono un
ammirevole strumento per essere più liberi di condurre il tipo di vita che, per una ragione o per
l’altra, apprezziamo.
L’utilità della ricchezza sta nelle cose che ci permette di fare, nelle libertà sostanziali che ci aiuta a
conseguire; ma questa correlazione non è né esclusiva (infatti esistono altri fattori, oltre alla
ricchezza, che influiscono in modo significativo sulla nostra vita) né uniforme (poiché l’effetto della
ricchezza sulla vita varia a seconda di questi altri fattori). Due cose sono ugualmente importanti:
riconoscere il ruolo cruciale della ricchezza nel determinare le condizioni e la qualità della vita e
rendersi conto di quanto sia condizionata e contingente questa correlazione. Una concezione
adeguata dello sviluppo deve andare ben oltre l’accumulazione della ricchezza e la crescita del
prodotto nazionale lordo o di altre variabili legate al reddito; senza ignorare l’importanza della
crescita economica, dobbiamo però guardare molto più in là.
Dobbiamo considerare ed esaminare sia i fini sia i mezzi dello sviluppo se vogliamo capire più a
fondo lo sviluppo stesso; prendere come obiettivo principale la massimizzazione del reddito o della
ricchezza — che secondo Aristotele sono «soltanto utili per qualcosa d’altro» — è una scelta che si
può definire inadeguata. … il mio è soprattutto un tentativo di vedere lo sviluppo come un processo
di espansione delle libertà reali di cui godono gli esseri umani. In questo approccio l’espansione
della libertà è considerata sia scopo primario sia principale mezzo dello sviluppo; possiamo
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chiamare i due aspetti, rispettivamente, «ruolo costitutivo» e «ruolo strumentale» della libertà nello
sviluppo. Il ruolo costitutivo attiene all’importanza delle libertà sostanziali per l’arricchimento della
vita umana; le libertà sostanziali comprendono capacitazioni elementari, come l’essere in grado di
sfuggire a certe privazioni - fame acuta, denutrizione, malattie evitabili, morte prematura - nonché
tutte le libertà associate al saper leggere, scrivere e far di conto, al diritto di partecipazione politica e
di parola (non soggetta a censura), e così via. Da un punto di vista costitutivo lo sviluppo comporta
l’espansione di queste e altre libertà di base; anzi lo sviluppo, così inteso, è il processo di
espansione delle libertà umane, ed è a questa considerazione che occorre ispirarsi nel valutarlo.»
Sen Amartya 1999 Lo sviluppo è libertà, Mondadori, Milano 2001, p. 20, 41
2.2.2.2. Rawls riprende le riflessioni e chiarisce le proprie tesi «…secondo Sen l’utilitarismo sbaglia
quando vede i beni solo come cose che soddisfano desideri e preferenze individuali. Secondo lui è
essenziale anche la loro relazione con le capacità di base: i beni ci rendono possibile fare certe cose
basilari come procurarci il vitto e il vestiario, cambiare luogo coi nostri soli mezzi, detenere una
posizione o praticare un mestiere, partecipare alle scelte politiche e alla vita pubblica della nostra
comunità. Secondo Sen astrarre dalla relazione dei beni con le capacità di base e mettere in primo
piano i beni primari significa imperniare l’indice di questi ultimi sulla cosa sbagliata. Vorrei
rispondere sottolineando, innanzitutto, che in realtà il nostro resoconto dei beni primari non astrae
affatto dalle capacità di base — quelle che i cittadini hanno in quanto persone libere e uguali e in
virtù dei due poteri morali — anzi ne tiene pienamente conto: sono i poteri morali a permettere ai
cittadini di essere membri normali e pienamente cooperanti della società per tutta la vita e di
mantenersi liberi e uguali. Noi ci basiamo proprio su una concezione delle capacità e dei bisogni
fondamentali del cittadino, e gli uguali diritti, come le uguali libertà, vengono specificati tenendo
presenti i poteri morali. … Se esaminiamo questo impianto, possiamo vedere che riconosce in pieno
la relazione fondamentale fra beni primari e capacità di base degli individui, tanto che l’indice dei
beni primari viene preparato chiedendosi quali siano, date le capacità di base comprese nella
concezione (normativa) dei cittadini come persone libere e uguali, le cose di cui essi hanno bisogno
per conservarsi tali e per essere membri normali e pienamente cooperanti della società.» (Rawls
Giustizia come equità, o.c.p.188-189)
2.3. due principi di giustizia come equità
2.3.1. il principio dell’uguaglianza delle libertà di base: «Ogni persona ha lo stesso titolo
indefettibile a uno schema pienamente adeguato di uguali libertà di base compatibile con un
identico schema di libertà per tutti gli altri (principio di uguaglianza).
2.3.2. il principio della differenza: «Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due
condizioni: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa
uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno
avvantaggiati della società (principio di differenza).» (Rawls Giustizia come equità,o.c. p. p.49)
2.3.2.1. una difesa “anomala” della differenza: occorre mettere in guardia da una negazione delle
differenze (da un concetto di uguaglianza come negazione delle individualità) che annulla la
ricchezza del pluralismo e i benefici del confronto negli svariati campi sociali dell’economia, della
politica, della cultura ecc. La de-differenziazione, con la negazione della differenza, diventa la
negazione del confronto, del mutamento, del controllo democratico. (È bene richiamare le tesi
espresse da Alexis de Tocqueville in La democrazia in America)
2.3.2.2. quale differenza: «Una concezione politica della giustizia deve prendere in considerazione
le esigenze dell’organizzazione sociale e dell’efficienza economica, e le parti sarebbero
dispostissime ad accettare le disuguaglianze di reddito e ricchezza purché contribuiscano
efficacemente a migliorare la situazione di ognuno rispetto al punto di partenza della divisione
paritaria. Ora, questo fa pensare proprio al principio di differenza: se prendiamo come termine di
paragone la divisione in parti uguali, chi guadagna di più dovrà farlo a condizioni accettabili per chi
guadagna di meno, e in particolare per chi ha il reddito più basso. […] Ricapitolando, il principio
di differenza esprime l’idea che, prendendo come punto di partenza la divisione paritaria, in nessun
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momento i più avvantaggiati devono stare meglio a detrimento di chi sta peggio. Ma poiché questo
principio vale anche per la struttura di base, in esso è implicita un’idea di reciprocità più profonda:
che le istituzioni sociali non devono utilizzare fattori contingenti come le dotazioni naturali iniziali,
la posizione sociale di partenza e la buona o cattiva fortuna nel corso della vita se non in modi che
vadano a beneficio di ognuno, compresi i meno favoriti. E questo è un modo equo in cui i cittadini,
in quanto persone libere e uguali, possono confrontarsi con tali inevitabili fattori contingenti.
Ricordiamo quello che abbiamo detto nel § 21: i più dotati (quelli che nella distribuzione delle
dotazioni naturali hanno un posto che non si sono meritati moralmente) sono incoraggiati a cercare
benefici ancora più grandi — loro che già sono favoriti da una posizione più fortunata nella
distribuzione — a patto di affinare e usare le proprie doti in modo da contribuire al bene di tutti e in
particolare dei meno dotati (quelli che nella distribuzione hanno un posto — neanche questo
meritato moralmente — meno fortunato). D’altronde una simile nozione di reciprocità è implicita
nell’idea che la distribuzione delle dotazioni naturali iniziali sia da considerare un patrimonio
comune. Per fattori contingenti come la posizione sociale e la buona o cattiva fortuna valgono
considerazioni parallele, benché non identiche.» (Rawls Giustizia come equità, o.c. p. 137, 138139)
2.4. dal principio della differenza (o meglio dalla sintesi capace di salvaguardare i due principi,
dell’uguaglianza e della differenza) l’etica di un nuovo stile di vita (etica e tipologie di vita).
2.4.1. l’ipotesi sociopolitica etica dell’arresto (già in sviluppo e decrescita 4.2, 4.3)
«Un’altra caratteristica del principio di differenza è che esso non impone una crescita economica
ininterrotta, generazione dopo generazione, che spinga indefinitamente verso l’alto le aspettative dei
meno avvantaggiati (misurate in termini di reddito e ricchezza). Questa non sarebbe una concezione
della giustizia ragionevole; non dobbiamo escludere l’idea di Mill di una società in uno stato
stazionario giusto nella quale l’accumulazione (reale) di capitale possa cessare, e una società bene
ordinata è definita in modo da ammettere anche questa possibilità. Quello che il principio richiede,
caso mai, è che (nel corso di un intervallo temporale adeguato) le variazioni del reddito e della
ricchezza guadagnati creando il prodotto sociale siano tali che le aspettative legittime del gruppo
meno avvantaggiato sono minori, siano minori anche quelle del gruppo più avvantaggiato… La
stessa questione può essere vista anche sotto un altro aspetto: il principio di differenza esige che,
per grandi che siano i dislivelli di ricchezza e reddito, e per quanto le persone siano disposte a
lavorare per guadagnarsi una quota di prodotto maggiore, le disuguaglianze esistenti contribuiscano
efficacemente al bene dei meno avvantaggiati; in caso contrario sono inammissibili. Il livello
generale di ricchezza della società, ivi compreso il benessere dei meno avvantaggiati, dipende da
come le persone decidono di vivere, e la priorità della libertà implica che nessuno può essere
costretto a fare un lavoro caratterizzato da un’alta produttività materiale. Spetta a ogni singola
persona decidere, alla luce degli incentivi offerti dalla società, che genere di lavoro fare e quanto
impegnarcisi; e quello che il principio di differenza è che, qualunque sia - alto o basso - il livello
generale di ricchezza, le disuguaglianze esistenti soddisfino la condizione di andare a beneficio
anche di altri, e non solo di noi stessi. È una condizione che chiarisce come il principio di
differenza, pur usando l’idea di massimizzazione delle aspettative dei meno avvantaggiati, sia
essenzialmente un principio di reciprocità.» (Rawls Giustizia come equità, o.c.p.72-73)
L’idea e la prassi di uno sviluppo senza fine (cioè senza scopo e arresto), moltiplica le differenze
senza vantaggi sociali, è fonte di insicurezza e di instabilità individuale e sociale, è alla radice di
spinte populiste all’insegna del risentimento, annulla la responsabilità nei confronti del futuro. (E si
tratta di uno stile che, adottando i criteri espressi da Kant, non possono dirsi morali: lo stile di vita
occidentale non può essere universalmente esteso senza gravi e irreversibili distruzioni degli attuali
equilibri ambientali.)
2.4.1.1. Osserva Tomelleri Stefano 2009 Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento,
Carocci, Roma « Proprio perché si agisce in situazioni concorrenziali, ma con vistose
disuguaglianze di opportunità, nessuno può avere la certezza di realizzare i propri desideri presenti
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e futuri. Coloro che vivono in situazioni privilegiate in virtù dei loro “vantaggi differenziali” si
trovano a misurarsi con le sfide della concorrenza, e coloro che vivono in situazioni di svantaggio si
scontrano anche con le difficoltà di accesso al mercato delle offerte.
Il permanere di disuguaglianze sociali, l’istituzionalizzazione progressiva della concorrenza, ma in
parte anche l’eccessiva enfasi sul valore dell’autoaffermazione e dell’autorealizzazione individuale,
che nega la dimensione relazionale dell’agire e che genera perciò situazioni non di rado frustranti,
alimentano un malessere esistenziale crescente, che va accumulando negli individui senso di
frustrazione e risentimento.» 82
2.4.1.2. E, più in generale, sulla “spinta disgregante della competizione estrema” (Tomelleri),
afferma Holmes S. 1993 Anatomia dell’antiliberalismo, Edizioni di Comunità, Milano 1995:
«La responsabilità della crisi attuale grava pesantemente sulla crescita economica e sulla scienza
naturale. Noi abbiamo trascinato la nostra società sull’orlo di un precipizio, perché abbiamo fatto
nostro l’obiettivo meschino di un’abbondanza illimitata e della “prosperità per tutti”. I seguaci di
Adam Smith e quelli di Karl Marx litigano fra loro sulla tattica, ma, quando si tratta di indicare il
fine ultimo dell’umanità, sono in perfetto accordo: si tratta di creare una società cosmopolita in cui
la tecnologia venga messa liberamente a frutto per soddisfare i bisogni umani.» p. 182
Prosegue Tomelleri: «Le situazioni strutturali di rischio portano con sé inoltre una serie di gravi
“effetti collaterali” di ordine ecologico. La crescente fiducia nella competenza tecnico-scientifica
produce un circolo vizioso in forza del quale i risentimenti individualistici e competitivi cui essa
vorrebbe trovare soluzione vengono al contrario alimentati e moltiplicati: elevando il livello delle
aspettative sociali fino a lambire l’utopia della risolvibilità di ogni problema e il superamento di
ogni limite, incluso quello della mortalità. Essa alimenta profonde delusioni e frustrazioni, destinate
a riversarsi nella qualità delle interazioni quotidiane (Magatti, M. Libertà e potenza. Critica al
capitalismo tecno-nichilista potere, Feltrinelli, Milano 2009). (Tomelleri, o.c. p. 93)
2.4.2. Una regola generale: la regola del maximin. «La regola del maximin può essere formulata
così: dobbiamo individuare l’esito peggiore di ogni alternativa possibile e adottare poi
quell’alternativa il cui esito peggiore è migliore degli esiti peggiori di tutte le altre.»
(Rawls Giustizia come equità, o.c.p. 109)
2.4.3. Avvertire e controllare le pulsioni “democratiche” contro la democrazia. La combinazione del
principio di uguaglianza con il principio della differenza, nel garantire la giustizia come equità,
permette di bloccare le spinte demagogiche che mettono a rischio la democrazia; spinte istintive
populiste dettate dal risentimento individuale e collettivo (o corporativo) nei confronti di un
presunto mancato riconoscimento della propria (presunta ed esaltata) singolarità, differenza o,
anche, indiscussa superiorità.
2.4.3.1. Le radici lontane del risentimento nell’analisi di Nietzsche. «L’amore cristiano, che ha
nobilitato gli ultimi, e il conseguente appello all’amore per il nemico sarebbero un’idealizzazione
del desiderio di vendetta dei più deboli verso i più forti. I tipi d’uomo servile avrebbero covato a
lungo una voglia di rivalsa per le molteplici offese subite. Ma solo dopo, con la rivelazione
evangelica, si sarebbero convertiti al cristianesimo per riscattare le umiliazioni subite e avviare un
processo di trasfigurazione dei valori (Antonio, 1995). La voglia di rivalsa dapprima si sarebbe
travestita da spirito di autosacrificio, mascherando l’egoismo degli uomini sotto un apparente
altruismo, e in seguito si sarebbe trasformata in umanitarismo, in solidarietà, nei diritti universali.»
Tomelleri Stefano 2009 Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma,
24. L’autosacrificio (presunto) alla radice della democrazia genera all’interno della stessa
democrazia quel risentimento pronto ad esplodere nelle forme “democratiche”, populistiche, di
negazione della democrazia.
2.4.3.2. Il richiamo della descrizione di Tocqueville. «L’analisi nietzschiana del nesso tra principi
democratici e risentimento ha avuto indubbiamente il merito di mettere in luce i limiti di ogni
democrazia, una forma di convivenza che, proclamando l’eguaglianza tra i cittadini, rischia di
alimentarne le rivalità. Caratteristica tipica dei sistemi democratici, che aveva sorpreso anche Alexis
de Tocqueville (1990) nel suo Viaggio negli Stati Uniti, il quale scrisse, riferendosi allo stile di vita
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dei nordamericani negli anni Trenta dell’Ottocento: «Qui essendo la via del potere e della ricchezza
aperta a tutti, qualunque sia il punto di partenza, ne deriva un’irrequietezza di spirito, un’avidità per
il successo che fareste fatica a comprendere. Pensate che qui tutti vogliono arricchirsi e raggiungere
gradi elevati e che nessuno pensa di non poterlo fare. Di qui ha origine un’attività frenetica, un
intrecciarsi di maneggi, una continua agitazione, uno smodato desiderio di superarsi
reciprocamente» (ivi, pp. 62-3).
Per Nietzsche, la frenesia competitiva descritta da Tocqueville sarebbe il male della società
moderna, un modo per costruire una società di individui uguali dove tutti possono accedere a tutto.
Le trasformazioni in corso nell’era moderna, più in generale, in quanto forme secolarizzate del
cristianesimo, sarebbero una trasmutazione dei valori di uomini mediocri, una sublimazione del loro
desiderio di vendetta.» (Tomelleri o.c. p.24)
2.4.3.3. Una via di uscita etica. Responsabilità nella direzione dei diritti (non solo umani) (Jonas)
resi operativi attraverso un consenso per intersezione (Rawls).
Può valere come conclusione la riflessione di Francesco Viola (articolo citato): «Ritornando ora al
nostro tema iniziale, che è stato quello della coesistenza tra dottrine etiche differenti, e quindi tra
comunità morali diverse, all’interno della pratica comune dei diritti dell’uomo, c’è da dire che essa
si presenta come lo spazio in cui deve aver luogo il discorso etico-politico del nostro tempo, il
tessuto comune della diversità. Ma ciò implica - come abbiamo cercato di mostrare - che per
interagire adeguatamente queste diverse culture etiche debbono rivedere la loro strutturazione
interna, non già i loro valori dominanti ma le modalità del ragionamento e della scelta morale. Se
esse si presentano nella piazza della città come concezioni rigide, già definite e compatte, allora non
possono partecipare al dibattito pubblico e potranno solo aspirare ad ottenere concessioni per i loro
seguaci. Ma in questo caso si precludono la possibilità di comunicarsi agli altri e di partecipare in
modo costruttivo al discorso comune.
La prassi dei diritti dell’uomo richiede, dunque, una trasformazione delle culture morali
preesistenti. Anche se questo può rappresentare un pericolo per la loro identità, tuttavia le culture
morali sono vitali solo se si mostrano capaci d’inglobare in loro stesse le nuove esigenze, se sono
capaci in una certa misura di trasformarsi e di parlare all’uomo del nostro tempo. L’universalità è la
capacità comunicativa che una cultura possiede, cioè la capacità di farsi intendere da coloro che ad
essa non appartengono, pur continuando a parlare la propria lingua. Soltanto un orientamento
universalistico può essere in grado di sussumere dentro di sé l’idea di una pluralità di punti di vista
particolaristici.
L’universalità è pertanto un obiettivo da raggiungere piuttosto che un principio di partenza. È
qualcosa da realizzare e da conquistare piuttosto che una condizione preliminare di validità. Non si
tratta, dunque, di prendere le mosse dalla cultura più universale (foss’anche quella occidentale dei
diritti dell’uomo) per uniformare ad essa le culture particolari. Quest’operazione ha occultato spesso
un imperialismo culturale che ha calpestato in modo più o meno sanguinoso le identità personali e
collettive. Ma, se si ammette che culture particolari possano comunicare, allora necessariamente si
deve ammettere qualcosa di universale già intercorrente tra loro. Il “cattivo” universalismo è basato
sulla deduzione dell'universale da un particolare; il “buon” universalismo è l’orizzonte d’intesa di
almeno due particolari. Quest’orizzonte oggi ha assunto una sua concretezza e praticabilità ed è
rappresentato dalla pratica dei diritti dell’uomo quand’essa è osservata dall’interno nella sua
effettiva realtà senza le ipoteche e le presupposizioni provenienti da una dottrina morale ad essa
esterna.»
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