Nardello-relazione - Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro

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CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro
Servizio Nazionale per il progetto culturale
Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso
in collaborazione con
Associazione Teologica Italiana (ATI)
Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM)
CONVEGNO NAZIONALE
LA FEDE NEL CREATORE PER ABITARE LA TERRA
ASSISI, 1-2 MARZO 2013
CREDO IN DIO, PADRE ONNIPOTENTE
Prof. Don Massimo Nardello,
Docente di Teologia sistematica,
Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna in Bologna
L'intento di questa relazione1 è quello di offrire alcune considerazioni di taglio teologico sul modo
in cui la fede cristiana nel Dio Creatore può illuminare il nostro rapporto con la natura, anche
quando essa si manifesta con dinamiche tremendamente svantaggiose per la vita o addirittura
distruttive. L'ipotesi da cui prendiamo le mosse è che indagando pazientemente la controversa
questione del rapporto tra la bontà di Dio e il male naturale, cioè la sofferenza che non deriva da atti
umani o dalle loro conseguenze ma piuttosto da dinamiche intrinseche alla natura, sia possibile
cogliere sotto una nuova luce la stretta relazione che ci lega alla creazione e le responsabilità che ci
sono affidate per la sua custodia.
La questione da cui iniziamo il nostro percorso è realmente controversa. La realtà della sofferenza,
infatti, rappresenta da sempre una delle sfide più drammatiche per la visione religiosa del mondo, in
particolare per la fede in un Dio che sia onnipotente, onnisciente e premuroso verso le sue creature.
Il contrasto tra un Creatore che ama ciò che ha portato all'esistenza e la realtà del dolore è qualcosa
di così evidente che è stato colto e descritto con lucidità sin dall'inizio della storia del pensiero
occidentale da Epicuro2. Anche nelle fasi successive possono essere rilevati svariati tentativi di
difendere o di negare la possibilità di un'esperienza religiosa ragionevole, che cioè non comporti la
rinuncia al pensiero critico, a fronte di un mondo radicalmente segnato dalla sofferenza. E' però a
partire dall'illuminismo che questo problema è stato oggetto di più sistematiche e articolate
discussioni grazie al contributo di Gottfried Wilhelm Leibniz che per primo lo ha denominato
“teodicea”3, interpretandolo quindi come “dottrina del diritto e della giustizia di Dio”4.
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La parte centrale del presente contributo è ripresa da M. NARDELLO, Aver fede mentre si soffre. Il problema della
teodicea dal punto di vista di una teologia della creazione, in "Rassegna di teologia" 49 (2008) 2, 277-289.
Cf. il classico testo attribuito da Lattanzio ad Epicuro nel De ira Dei 13, 9: “la divinità o vuole abolire il male e non
può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia
impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente
estraneo all'essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola
cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mail e perché non li abolisce?”: Opere di Epicuro, a cura di
M. Isnardi Parente, UTET, Torino 1983, 400.
G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male, in “Scritti filosofici di
Gottfried Wilhelm Leibniz. Volume terzo. Saggi di teodicea, Ultimi scritti”, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, UTET,
Torino 2000.
G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea, 9.
1
Tra gli studi recenti su questo tema si colloca una pregevole opera di Armin Kreiner 5 che è oggetto
del nostro interesse in quanto in essa l'autore ricostruisce in modo dettagliato le risposte più
rilevanti che sono state date al problema della teodicea, soffermandosi in modo particolare sulla
visione di Leibnitz e ricavando poi da essa un proprio originale contributo.
1. Il problema della teodicea: G. F. Leibnitz e A. Kreiner
L'opera di Kreiner intende giustificare la possibilità e la necessità di una riflessione razionale sulla
teodicea contro una visione che vorrebbe semplicemente confinarla nell'incomprensibilità del
mistero divino6 . Ovviamente tale riflessione non ha affatto la pretesa di spiegare il mistero
dell'agire di Dio nei limiti della pura ragione, ma semplicemente di dimostrare la possibilità di un
atto di fede ragionevole di fronte alla realtà della sofferenza 7. A seguito di queste premesse, Kreiner
prende in esame svariati modelli di teodicea, su cui ci soffermeremo brevemente nella parte finale
del nostro percorso. La rassegna tocca le prospettive dualiste, come quella di Marcione o di Mani, la
visione agostiniana del male come privatio boni, la concezione della sofferenza come pena per il
peccato e il tema del libero arbitrio come causa del male. Non vengono escluse prospettive più
recenti, come la visione della teologia del processo o quella della sofferenza di Dio. La concezione
che però introduce la proposta finale dell'autore è quella di Leibniz8.
Tale visione parte dal presupposto che Dio sia quell'essere di cui non se ne può pensare uno
maggiore o più perfetto, e che dunque egli sia onnipotente, onnisciente e buono. Partendo da tale
principio Leibniz conclude che
quand'anche si riempissero tutti i tempi e tutti luoghi [di enti], resterebbe sempre vero che li si sarebbe
potuti riempire in un'infinità di maniere, e che c'è un'infinità di mondi possibili, dei quali bisogna che Dio
abbia scelto il migliore, poiché egli non fa niente senza agire secondo la suprema ragione 9.
Insomma, secondo Leibniz dalle caratteristiche di Dio consegue necessariamente che egli ha creato
il migliore dei mondi possibili, e che
se potessimo intendere la struttura e l'economia dell'universo, troveremmo che è fatto e governato come
i più saggi e i più virtuosi [individui] potrebbero auspicare, dal momento che Dio non può fare a meno di
comportarsi così10.
Per spiegare il perché non sono realizzabili quei mondi migliori dell’attuale che l’immaginazione
umana può facilmente concepire, Leibniz nota che, dal momento che tra gli enti che popolano
l'universo deve esserci una coerenza logica, “tutti i possibili non sono compatibili tra loro in una
medesima serie dell'universo”; per questo
non appena Dio ha decretato di creare qualcosa, c'è una lotta fra tutti i possibili, dal momento che tutti
pretendono di esistere; e quelli che, uniti insieme, producono il massimo di realtà, di perfezione e di
intelligibilità, vi riescono. E' vero che tutta questa lotta non può essere che ideale, vale a dire che può
soltanto essere un conflitto di ragioni nell'intelletto più perfetto di tutti, che non può mancare di agire
nella maniera più perfetta, e di conseguenza di scegliere il meglio 11.
In altre parole, secondo Leibniz non tutti i mondi teoricamente immaginabili sono realmente
possibili perché solo alcuni di essi possono essere effettivamente realizzati in modo coerente ed
intelligibile, cioè in modo che tutti gli elementi che li compongono possano esistere nell'interazione
reciproca e senza contraddizioni12. Poiché Dio è l'essere perfetto, tra questi mondi possibili ha
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A. KREINER, Dio nel dolore. Sulla validità degli argomenti della teodicea, Queriniana, Brescia 2000. L'originale
tedesco è del 1997.
A. KREINER, Dio nel dolore, 50-56.
A. KREINER, Dio nel dolore, 56.
A. KREINER, Dio nel dolore, 282-284.
G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea, 112.
G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea, 258.
G. W. LEIBNIZ, Saggi di teodicea, 258-259.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 283.
2
scelto sicuramente il migliore, quello che contiene la più piccola parte possibile di male13. Chi
dovesse immaginare un universo più perfetto dell'attuale – cioè, con meno sofferenza – dovrebbe
supporre che in realtà esso non è realizzabile perché non sarebbe logicamente coerente al suo
interno.
In realtà, è proprio questa capacità umana di immaginare facilmente un mondo migliore
dell'attuale senza uscire dai limiti della coerenza logica che mette in difficoltà le tesi di Leibniz. E'
questa percezione, in fondo, che sta dietro alle pesanti critiche che sono state rivolte alla sua
teodicea, da quelle sferzanti di Voltaire a quelle più recenti di A. N. Whitehead 14. Lo stesso Kreiner,
riprendendo alcune osservazioni di David Hume e John Stuart Mill, formula in questi termini la
difficoltà principale delle tesi di Leibniz:
Se si suppone che Dio, creando questo mondo, abbia inteso realizzare determinati valori, ad esempio
persone che vivano in libertà, ci si chiede poi se l'attuazione di questi valori non sarebbe stata possibile
anche in un mondo meno carico di sofferenza e di male, quindi di malattie, dolori, catastrofi naturali.
Siccome possiamo agevolmente immaginare un mondo M1 che non si differenzi in nulla dal mondo reale
M, se non per il fatto che in M1, ad esempio, non ci sono né malattie né sofferenze, dovremo proprio
concludere che il creatore del mondo M non può essere né onnipotente né onnisciente, ma tutt'al più – se
giudicato in base alla qualità della sua opera – un artigiano abbastanza sprovveduto che lavora a spanne15.
Anche se fa sue le forti critiche rivolte alla teodicea leibniziana, Kreiner formula una proposta che
in qualche modo prende le mosse da tale visione. Dal suo punto di vista, ci si deve muovere
nell'ipotesi denominata nessun mondo migliore, secondo cui “Dio non avrebbe potuto creare alcun
mondo che sarebbe stato sostanzialmente simile al nostro ma con un carico di mali naturali
decisamente inferiore a quello che conosciamo”16. A prima vista, tale visione sembra contraddire
l'onnipotenza divina, per la quale Dio può creare qualsiasi mondo logicamente possibile, cioè non
contraddittorio al proprio interno sul piano logico. In realtà, nota Kreiner, l'onnipotenza di Dio non
è limitata solamente dal criterio della logica, ma anche da quello della fisica17: non è sufficiente,
infatti, che le formulazioni delle leggi che presiedono al funzionamento della realtà non diano adito
a contraddizioni logiche, ma è pure necessario che tali leggi siano coerenti sul piano fisico, cioè che
l'una non smentisca l'altra sul piano del loro effettivo funzionamento ed interazione reciproca. Dio,
quindi, non è limitato solo dalla logica, ma anche dalla fisica, in quanto – si potrebbe dire – la stessa
fisica deve essere logicamente coerente. Si suppone quindi che
Dio possa creare un universo strutturato secondo leggi di natura soltanto se tale universo risulta poi
descrivibile, senza cadere in contraddizioni, con una teoria unitaria. [...] Non ogni ottimizzazione fisica
'pensabile' dovrebbe risultare anche logicamente coerente 18.
Tale visione consente a Kreiner di ipotizzare una risposta al problema della teodicea, almeno in
rapporto ai mali naturali, che peraltro rappresentano l'ostacolo più grosso per la visione religiosa19.
In un universo descrivibile sul piano fisico in termini unitari, cioè non contraddittori al proprio
interno, ogni ottimizzazione di una legge di natura, volta ad esempio ad impedire che essa sia causa
di sofferenza, determinerebbe vaste ripercussioni sulle altre leggi di natura, che a loro volta
produrrebbero altre modificazioni in una sorta di reazione a catena. Non si può escludere a priori
che tali modificazioni finirebbero per dare vita ad un universo peggiore di quello in cui viviamo, in
cui ad esempio la vita non sarebbe possibile20. Si può pensare, insomma, che viviamo nel migliore
dei mondi fisicamente possibili: chi immaginasse un universo più perfetto dell'attuale – cioè, con
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Cf. N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. Volume secondo. Filosofia del Rinascimento. La filosofia moderna dei
secoli XVII e XVIII, UTET, Torino 1974, 308.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 284.
A. KREINER, Dio nel dolore, 286.
A. KREINER, Dio nel dolore, 319.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 320.
A. KREINER, Dio nel dolore, 323-324.
I mali che dipendono dalla libera scelta degli esseri umani, infatti, possono essere imputati non a Dio ma alla libertà
umana, a condizione di spiegare come l'azione divina non la elimini, ma anzi la renda possibile.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 324-328.
3
meno sofferenza – potrebbe ritenere che in realtà esso, anche se teoricamente possibile sul piano
logico, non sia di fatto realizzabile su quello fisico, perché le leggi che ne presiederebbero il
funzionamento sarebbero in contraddizione tra di loro.
Tsali considerazioni, ovviamente, non rappresentano una dimostrazione inconfutabile
dell'“innocenza” divina rispetto al male presente nel mondo, ma costituiscono comunque un
possibile modo di interpretare tale presenza in modo tale da non mettere in discussione la visione
religiosa della realtà. Si può continuare a credere in un Dio buono, onnipotente ed onnisciente
nonostante la realtà drammatica della sofferenza, anche se di per sé resta ugualmente ragionevole
una lettura diversa delle cose21.
2. Considerazioni critiche
La teodicea proposta da Kreiner è molto stimolante. Pur muovendosi in una prospettiva
cosmologica, al pari di quella di Leibniz, essa sembra molto più solida rispetto a quest'ultima. E'
facile, infatti, confutare la convinzione leibniziana secondo cui il nostro mondo è il migliore tra
quelli logicamente possibili: la logica è una disciplina di cui si ha una sufficiente padronanza per
poter giudicare la logicità di un'affermazione senza troppi timori di smentite. Al contrario, non è per
nulla agevole dimostrare in modo certo che il nostro universo non è il migliore tra quelli che sono
effettivamente possibili in base a criteri di coerenza fisica: per arrivare a questa conclusione
occorrerebbe conoscere tutte le leggi naturali e dimostrare che quelle che producono effetti
svantaggiosi per gli esseri viventi possono essere ottimizzate pur restando coerenti con le altre.
Poiché anche il solo primo passo è impossibile in linea di principio, visti i limiti intrinseci della
conoscenza scientifica, la tesi di Kreiner sembra poter essere difficilmente smentita.
A ben vedere, tuttavia, essa non è del tutto esente da difficoltà. Non si può escludere che col
progredire delle conoscenze scientifiche non si possa considerare come altamente probabile la
possibilità di un mondo fisicamente coerente al proprio interno ma migliore del nostro, anche solo
in minima parte. Sarebbe sufficiente poter dimostrare come probabilmente possibile che le leggi
fisiche che determinano una piccola forma di sofferenza potrebbero essere ottimizzate senza
compromettere la loro coerenza con le altre leggi per riproporre la domanda: perché Dio non ha
impostato le cose in questo modo fin dall'inizio? Questo riproporrebbe le tradizionali domande della
teodicea.
Ovviamente chi si muove in una visione religiosa potrebbe rispondere che, in realtà, tale
ottimizzazione non è affatto possibile, rifugiandosi in quel margine di incertezza che è implicato nel
carattere probabilistico di ogni affermazione scientifica. In effetti, di per sé non è scorretto ritenere
falsa un'affermazione che sul piano scientifico può essere affermata come vera solo in termini di
probabilità. Al di là del rigore della logica, tuttavia, qualora fosse effettivamente dimostrabile, pur
in termini probabilistici, che ci potrebbe essere una causa naturale di sofferenza in meno senza per
questo compromettere la coerenza fisica delle leggi dell'universo, l'argomentazione proposta da
Kreiner non reggerebbe più. Siamo infatti abituati a dare piena fiducia alla scienza sebbene essa sia
in grado di formulare affermazioni che sono solo probabilmente vere, e non possiamo pensare di
considerarla diversamente nel momento in cui una sua conclusione dovesse mettere indirettamente
in discussione la visione religiosa della realtà.
In ogni caso, la tesi di Kreiner può essere considerata uno degli approcci più convincenti al
problema della teodicea, almeno se ci si muove rigorosamente all'interno di una teologia filosofica.
Tuttavia occorre rilevare che l'approccio filosofico non è in grado di esprimere tutta la potenzialità
della risposta cristiana al problema della sofferenza. La mia ipotesi è che sia possibile reinterpretare
la tesi di Kreiner alla luce di alcune acquisizioni della teologia della creazione per dare vita ad una
teodicea ben più convincente.
21
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 331.
4
3. La teodicea nell'ottica di una teologia della creazione
Una convinzione che ha caratterizzato sin dagli inizi la visione cristiana della creazione è che essa
non può essere compresa indipendentemente dall'evento cristologico: secondo tale visione, essa “è
stata portata a termine con la mediazione di Cristo, [...] sussiste in lui e cammina verso di lui”22. La
finalizzazione cristologica della creazione, cioè il suo dover essere raccolta sotto la sua sovranità 23,
si esprime nel suo essere destinata alla risurrezione: lo stesso corpo risorto di Gesù, parte della
creazione stessa, ne rappresenta la primizia che ha già raggiunto la sua meta finale. Dunque si può
affermare che in una visione cristiana la creazione non ha ancora raggiunto il suo compimento.
Se, ovviamente, la destinazione cristologica della creazione è un dato tipico del NT e della
successiva riflessione teologica, anche l'AT conosce l'idea di una natura non compiuta sulla quale
Dio non esercita ancora pienamente il suo potere benefico:
il male c'è, semplicemente, a volte come conseguenza del peccato umano, a volte come un dato e
occasionalmente dovuto a Dio. [...] Nel mondo c'è in libertà, secondo i testi dell'Antico Testamento,
qualcosa di selvaggio e distruttivo che non è ancora stato posto sotto il dominio di Yahweh. Anche se c'è
la promessa che Yahweh prevarrà su questi contro-poteri, è chiaro che Yahweh non ha ancora raggiunto
questa signoria e ora non prevale!24
Più in dettaglio, in diverse tradizioni dell'AT sembra di cogliere un certo dualismo: a fianco di Dio
esiste un potere oscuro che – per quanto inferiore a lui – minaccia l'esistenza non solo di Israele ma
della stessa creazione, cercando di ricondurla al caos originario:
Israele rende testimonianza alla consapevolezza che nel mondo è viva una forza che è contraria al
mondo di Yahweh, una forza che tenta di negare e annientare il mondo come luogo sicuro di benedizione.
[...] Israele rende testimonianza, come fecero i suoi antecedenti, a una forza persistente di caos nella sua
vita25.
Tale concezione suppone l'idea che Dio, pur essendo superiore a tale forza negativa, abbia scelto
per ragioni misteriose di non eliminarla completamente ma di tollerare la sua azione nel mondo,
anche se essa costituisce una minaccia permanente della creazione:
E' possibile concludere, con alcuni testi israelitici, che questo potere del Nulla è ancora sparso nel
mondo e ancora si oppone attivamente a Yahweh. Cioè, nell'atto sovrano della creazione, con cui Yahweh
diede ordine al caos, Yahweh sconfisse temporaneamente il potere del Nulla ma non lo distrusse, né
eliminò la minaccia del caos. Per conseguenza, questo potere del Nulla, di tanto in tanto, raccoglie la sua
forza e conduce incursioni nella creazione per operare confusione, perché non è ancora sotto il dominio di
Yahweh. Così è posto un dualismo primordiale in cui Yahweh ha il sopravvento ma non il pieno controllo,
e, perciò, di tanto in tanto la creazione è minacciata 26.
Vi sono poi altre tradizioni veterotestamentarie che non si riconoscono in questo dualismo ma
preferiscono interpretare la forza negativa che minaccia la creazione come qualcosa che è al
servizio di Dio: egli “liberamente e sovranamente può, di fatto, destabilizzare il mondo, quando la
[sua] sovranità [...] è eccessivamente schernita e sufficientemente provocata”27. Egli tuttavia non
distrugge totalmente la creazione, ma pone dei limiti alla sua azione di devastazione, maturando alla
22
23
24
25
26
27
L. F. LADARIA, Antropologia teologica, Piemme, Casale Monferrato 1995, 41. Cf J. L. RUIZ DE LA PEÑA, Teologia
della creazione, Borla, Roma 1988, 77-79. F. G. BRAMBILLA, Antropologia teologica. Chi è l'uomo perché te ne
curi?, Queriniana, Brescia 2005, 214-216.
Secondo alcuni autori, questo sarebbe il senso del verbo “ricapitolare” in Ef 1, 10; Cristo è la chiave di volta del
creato, la chiave di lettura della realtà che sarà fatta rientrare sotto la sua sovranità: cf. R. PENNA, Lettera agli
Efesini, EDB, Bologna 2001, 100. Secondo altri, invece, il verbo indicherebbe che in Cristo tutte le creature
vengono riunificate, superando la dispersione e la mutua opposizione: cf. E. BEST, Lettera agli Efesini, Paideia,
Brescia 2001, 184.
W. BRUEGGEMANN, Teologia dell'Antico Testamento. Testimonianza, dibattito, perorazione, Queriniana, Brescia
2002, 215-216.
W. BRUEGGEMANN, Teologia dell'Antico Testamento, 694. Cf anche R. RENDTORFF, Teologia dell'Antico Testamento.
Volume 2: i temi, Claudiana, Torino 2003, 26.
W. BRUEGGEMANN, Teologia dell'Antico Testamento, 694.
W. BRUEGGEMANN, Teologia dell'Antico Testamento, 699.
5
fine nuove intenzioni di benedizione28.
In ambedue queste serie di tradizioni l'azione con cui Dio ha ordinato il caos iniziale e lo ha reso
luogo di vita è continuamente minacciata da una forza oscura che, pur diversamente sottoposta al
suo controllo, tende a far regredire la creazione verso la sua condizione originaria. Anche nell'AT,
dunque, la creazione non è compiuta, nel senso che non ha ancora raggiunto una condizione di
stabilità e di libertà dalla minaccia del male.
Che la creazione non permanga automaticamente nella condizione di ordine in cui Dio l'ha creata
lo si evince anche dal ruolo che l'uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza di Dio, devono
giocare al suo interno: posti in essa come rappresentanti di Dio, hanno il potere e la responsabilità di
custodirla secondo il disegno divino29. Al di là del fatto che il tema dell'immagine sia
semplicemente funzionale a tale compito30 o che quest'ultimo sia una conseguenza di tale dono31,
resta il fatto che
Essenziale della somiglianza divina dell'uomo è la sua funzione nei confronti del mondo extraumano:
grazie ad essa la creazione é posta con Dio, dal quale trae origine, in un particolare rapporto finalistico di
subordinazione32.
Creato in una condizione di singolare relazione con Dio, l'essere umano – uomo e donna – è
chiamato a governare la creazione in suo nome come un sapiente sovrano che usa saggiamente il
suo potere per il bene dei suoi sudditi. Tale rapporto tra la relazione singolare dell'essere umano con
il Creatore e il suo legame con la creazione fa sì che il suo libero opporsi a Dio comporti
conseguenze devastanti per l'intera creazione:
[In Gen 1] si esprime [...] una vera e propria aporia ontologica che fonda l'uomo nella sua essenza di
essere libero, al quale spetta il compito ambivalente di poter "dominare" la creazione (Gen 1,28-30; 2, 1920), cioè di partecipare in modo subordinato al "dominio" su di essa, come luogotenente di Dio, oppure di
provocarne la distruzione e di riaprire la strada al caos33.
Insomma, è l'opposizione a Dio da parte della libertà umana a provocare la regressione della
creazione verso il caos originario. Sembra quindi di poter concludere che non solo l'essere umano è
il luogotenente di Dio nella creazione, ma è pure il rappresentante della creazione davanti a Dio.
Dal suo accettare liberamente la relazione con Dio dipende la sua capacità di custodire la creazione
e, se non di eliminare la forza oscura che la fa regredire verso il caos originario, almeno di non
incrementarne l'azione.
4. Un'ipotesi teologica: in attesa del mondo migliore
Le osservazioni fatte fin qui, al di là del loro carattere comprensibilmente frammentario,
suggeriscono l’idea che secondo le tradizioni bibliche la creazione è incompiuta in quanto ancora
sottomessa ad una forza regressiva che il peccato ha la capacità di scatenare e che la positiva
risposta a Dio degli esseri umani – da cui dipende la loro capacità di governare bene la creazione –
ha invece il potere di arginare. Tale condizione, tuttavia, non è che provvisoria, in quanto la
creazione è destinata a compiersi in Cristo, in quella risurrezione finale che il peccato umano non ha
la capacità di vanificare.
Reinterpretando queste osservazioni in una prospettiva teologica, potremmo pensare che il Dio
trinitario, avendo creato il mondo per amore, non può condurlo alla pienezza della sua esistenza
nella risurrezione se non entrando in relazione con esso attraverso quelle creature libere – gli esseri
28
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31
32
33
Il testo più significativo al riguardo è quello del diluvio in Gen 6-8.
Cf. W. BRUEGGEMANN, Genesi, Claudiana, 2002, 52.
R. RENDTORFF, Teologia dell'Antico Testamento, 27.
Cf. G. VON RAD, Genesi, Paideia, Brescia 1978, 70. C. WESTERMANN, Teologia dell'Antico Testamento, Paideia,
Brescia 1983, 130, 179.
G. VON RAD, Teologia dell'Antico Testamento. Volume I. Teologia delle tradizioni storiche d'Israele, Paideia, Brescia
1972, 176-177.
M. NOBILE, Teologia dell'Antico Testamento, LDC, Leumann 1998, 203.
6
umani – che lo rappresentano davanti a lui. In effetti, se Dio conducesse la creazione al suo
compimento prescindendo da tale interazione con essa34, cioè con la sua componente umana,
difficilmente il suo atto creativo potrebbe essere interpretato come espressione di amore, visto che
una relazione amorevole presuppone la risposta libera del partner. Se dunque Dio ha creato il
mondo senza il consenso di quelle creature umane che lo rappresentano davanti a lui, non lo può
portare a compimento introducendolo nella pienezza della sua vita senza che tale suo disegno sia da
esse liberamente e amorevolmente accolto. Così la creazione si trova in una sorta di “stato
intermedio” tra il caos originario e la condizione escatologica affinché sia possibile il
raggiungimento del suo compimento attraverso la libera accoglienza del progetto divino da parte
degli esseri umani. In tale prospettiva la sofferenza, sia quella dovuta alle cause naturali che quella
determinata dall'uso fuorviato della libertà umana, possono essere intese come la conseguenza,
temporanea ma tristemente ineludibile, di un mondo non ancora compiutamente creato.
Questa ipotesi sembra evitare i limiti della soluzione proposta da Kreiner. Quest'ultima si fonda sul
fatto che non si possa dimostrare che sia possibile un mondo migliore del nostro e che parimenti
funzioni secondo leggi fisiche logicamente coerenti tra loro. Al contrario, secondo l'ipotesi qui
suggerita potrebbe essere possibile un mondo migliore del nostro fisicamente coerente al suo
interno senza che questo confligga necessariamente con un esperienza religiosa ragionevole. Se la
creazione nella quale viviamo non è ancora compiuta e se può arrivare al suo compimento solo
attraverso il lungo percorso della libera accettazione umana del disegno di Dio, non ci si deve
stupire che essa abbia ancora caratteristiche che non collimano con l'onnipotenza e l'onniscienza del
Creatore e che non sono piena espressione della sua bontà.
Questa prospettiva, tuttavia, pone almeno una difficoltà. Essa vincola il compimento escatologico
della creazione alla libera adesione del disegno di Dio da parte degli esseri umani, in quanto
rappresentanti del mondo davanti al suo Creatore. Poiché però tale risposta positiva non è garantita
per principio, vista la possibilità di un uso deviato della libertà umana, ci si può chiedere come
comporre l'incertezza di tale adesione a Dio con la certezza del compimento escatologico del suo
progetto, solidamente attestata dal NT. Tale problema può trovare soluzione nella cristologia se si
pensa che Gesù di Nazareth abbia svolto un ruolo di rappresentanza non solo nei confronti
dell'umanità ma, più in generale, nei confronti dell'intera creazione. Se è corretto interpretare
l'evento della salvezza nei termini della rappresentanza di Cristo verso il genere umano 35, per cui
egli è la risposta perfetta a Dio nella quale gli esseri umani vengono liberati, si può pensare che
nell'obbedienza di Cristo al Padre si sia realizzato anche quell'assenso umano decisivo che
consentirà al Creatore di portare a compimento la sua creazione. In altre parole, l'adesione di Gesù
al Padre ha la capacità di garantire che la creazione possa essere liberamente condotta verso la sua
pienezza escatologica. In attesa che questo avvenga, gli esseri umani potranno muoversi nella linea
dell’obbedienza di Cristo o in quella del peccato, con l'esito di affrettare 36 o rallentare il
compimento della creazione. Essi, però, non avranno la capacità di vanificare il compimento del
progetto di Dio – se non a proprio riguardo – perché l'adesione data dal Cristo al Padre a nome
dell'umanità e della creazione intera ha un valore rappresentativo decisivo, superiore ad ogni
dinamica ad esso contraria. Del resto, se la dedizione di Gesù al Padre non avesse tale valore
fondamentale per l'intera creazione, difficilmente potrebbe averlo in rapporto alla salvezza degli
esseri umani: in questo caso, la stessa soteriologia fondata sulla rappresentanza dovrebbe essere
ripensata.
34
35
36
Come nota W. Brueggemann, “Yahweh, com'è presentato nella testimonianza di Israele, non appare mai 'solo', ma è
sempre Yahweh-in-relazione”: W. BRUEGGEMANN, Teologia dell'Antico Testamento. Testimonianza, dibattito,
perorazione, Queriniana, Brescia 2002, 536. Secondo l'esegeta, nella narrazione biblica Dio agisce sulle persone con
cui entra in rapporto, ma nello stesso tempo esse hanno una qualche influenza su di lui, cioè lo spingono a cambiare
il suo comportamento.
Cf. F. G. BRAMBILLA, Redenti nella sua croce. Soddisfazione vicaria o rappresentanza solidale?, in “La redenzione
nella morte di Gesù. In dialogo con Franco Giulio Brambilla” a cura di G. Manca, San Paolo, Cinisello Balsamo
2001, 76-80.
Cf. 2Pt 3, 12.
7
5. Confronto con le tesi tradizionali
Per chiarire ulteriormente i termini dell'ipotesi qui presentata cerchiamo ora di confrontarla
sinteticamente con alcune delle proposte di teodicea studiate da Kreiner.
In primo luogo, essa si differenzia profondamente dalla visione della teologia del processo, almeno
nella sua versione più nota37. Secondo tale visione, Dio non può togliere il male dal mondo perché
egli non lo ha propriamente creato dal nulla, non ne è quindi il fondamento ultimo, ma ha
semplicemente ordinato una materia caotica preesistente. Ciò che egli può fare è semplicemente
interagire pazientemente con le creature – che comunque non dipendono ontologicamente da lui –
per cercare di “persuaderle” ad autorganizzarsi in modo sempre più perfetto, in modo che ogni ente
possa esprimere il meglio del suo potenziale ontologico. In questo modo si ritiene di tutelare meglio
rispetto alla prospettiva tradizionale la libertà delle creature e la loro capacità di essere protagoniste
del loro sviluppo. Nella visione qui proposta, al contrario, Dio è considerato come il fondamento
ultimo della realtà in quanto ne è il creatore dal nulla; il suo amore per le sue creature e il suo
rispetto della libertà degli esseri umani viene tutelato dal fatto che la loro libera accettazione del
disegno divino è la condizione perché esso sia portato a compimento, anche se sotto il profilo
cristologico tale accettazione è già avvenuta.
Anche le teodicee che hanno identificato nel peccato38 o, in generale, nell'uso scorretto della
libertà39 la causa della sofferenza sono molto lontane dalla proposta in esame. Non è più sostenibile
la visione secondo cui l’esperienza individuale del dolore è la conseguenza diretta di un atto
peccaminoso personale; essa è piuttosto il prodotto delle cause naturali o di un uso deviato della
libertà umana. L'ipotesi qui formulata ritiene che tutto questo possa avvenire semplicemente perché
la creazione non è compiuta. Nello stesso tempo, il peccato umano, in quanto opposizione a Dio da
parte di chi rappresenta la creazione davanti a lui, ha effettivamente la capacità di rallentarne il
compimento e di dare temporaneo vigore alle forze distruttive del male, anche se l'assenso di Cristo
al Padre l'ha orientata definitivamente e inesorabilmente verso il suo positivo esito escatologico.
Anche nei confronti della visione agostiniana la tesi qui proposta presenta alcune diversità
significative. Per quest'ultima il male non è che una carenza di bene: esso non ha una consistenza
ontologica propria, ma è piuttosto l'espressione di una maggiore o minore lontananza dalla
perfezione divina40. Per la proposta qui indicata, al contrario, la sofferenza è colta nella sua effettiva
realtà: il dolore prodotto dalle leggi naturali o dall'impiego fuorviato della libertà umana non è
un'assenza, una mancanza, ma è qualcosa che esiste nella sua oggettività41, ben rilevabile sul piano
fisiologico. Tale oggettività, tuttavia, non conduce necessariamente al rifiuto della visione religiosa
della realtà: se si accetta l'idea che la creazione si trova in una sorta di “stato intermedio” – che cioè
non è ancora pienamente conforme al disegno di Dio – e parimenti che il suo compimento dipenda
anche dalla libera risposta umana, si può accettare l'esistenza di un male reale, effettivo,
prendendone sul serio la drammaticità, ma credendo parimenti nella prossimità dei cieli nuovi e
della terra nuova42. In tale ottica, la riflessione sul problema della teodicea si trasforma
nell'invocazione accorata, da sempre attestata nella tradizione cristiana, perché la parusia finalmente
si compia e Dio porti a compimento il suo disegno di salvezza.
La proposta qui abbozzata ha ovviamente un carattere ipotetico; essa, tuttavia, sembra poter
agevolare meglio di altre un'esperienza di fede ragionevole in un Dio onnipotente, onnisciente e
premuroso verso le sue creature pur di fronte alla realtà della sofferenza. Occorre tuttavia precisare
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Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 88-108. J. B. COBB – D. R. GRIFFIN, Process Theology. An Introductory Exposition,
Westminster John Knox Press, Louiseville 1976, 52-54. C. R. MESLE, Process Theology. A Basic Introduction,
Chalice Press, St. Luise 1993, 58-64. Si noti però che la teologia del processo è estremamente più complessa di
come viene presentata in questo contributo, e che sono in corso diversi tentativi di reinterpretazione che la
potrebbero avvicinare alle tesi qui espresse.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 123-143.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 181-240.
Cf. A. KREINER, Dio nel dolore, 109-122.
Cf. le giusti critiche di A. Kreiner alla tesi agostiniana in A. KREINER, Dio nel dolore, 116-118.
Cf. Ap 21.
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che la visione qui proposta non spiega come mai alcune persone soffrano più di altre, né consente di
comprendere i tempi e le modalità dell'azione divina nella loro vita. Mi pare però che non sia
possibile trovare la risposta a questi interrogativi, e che in fondo questo sia un bene. Proprio perché
l'agire di Dio nell'esperienza della sofferenza resta un mistero, è possibile per il credente vivere
questa situazione come prova, cioè come occasione decisiva per imparare a scegliere –
progressivamente e dolorosamente – di fidarsi di lui anche se i fatti sembrano smentire
drasticamente il suo amore. L'obbedienza di Gesù al Padre fino alla morte rappresenta il modello e
la causa di questo affidamento umano al Creatore e al suo modo imperscrutabile di condurci alla
risurrezione e alla vita.
6. Il rapporto con la natura: la differenza cristiana
A questo punto dobbiamo ritornare alla domanda iniziale per chiederci se effettivamente la
proposta qui esposta può aiutarci a ripensare il nostro rapporto con la natura.
Questo tema viene solitamente affrontato a partire da Gen 1-2 e dal ruolo che questi testi biblici
assegnano alla persona umana all'interno della creazione. Tale approccio, essendo relativo
all'ambito naturale (in senso teologico), ha il vantaggio di approdare a conclusioni che possono
essere condivise anche da chi non si riconosce nell'alveo dell'ebraismo o del cristianesimo, perché
possono trovare conferma in un'osservazione intelligente della realtà. Tuttavia in questo modo di
affrontare la questione la dimensione centrale del cristianesimo, quella cristologica-trinitaria, viene
sostanzialmente marginalizzata, come se la fede in Gesù non potesse apportare alcuna connotazione
specifica al rapporto dell'essere umano con la natura.
Al contrario, la proposta teologica suggerita fin qui può offrire una visione di tale rapporto che
pone al centro la dimensione cristologica e trinitaria. Secondo quanto emerso, infatti, il modo
tipicamente cristiano di vivere nella creazione e di prendersene cura non è soltanto quello di
custodirla nella sua condizione di incompiutezza e di limite, ma soprattutto quello di affrettare il suo
compimento escatologico restando nella prova della fede: mantenendo, cioè, la propria fiducia in
Dio con il sostegno dello Spirito di Cristo in ogni situazione in cui il suo amore per ciò egli ha
chiamato alla vita sembra essere smentito dai fatti. Dunque il rapporto dell'essere umano con il
creato e la responsabilità per la sua tutela si gioca indirettamente in tutti i campi della vita
(familiare, civile, ecclesiale, ecc.), perché in tutti questi contesti la fede viene messa alla prova, e
quindi al loro interno si può contribuire o meno ad affrettare il compimento escatologico della
salvezza. Così il tema della creazione e della sua tutela viene chiaramente connotato dall'esperienza
cristiana, e anzi collocato nel suo centro, divenendo parte integrante della relazione filiale che il
credente vive con il Padre nello Spirito del Signore.
Questo approccio non vanifica affatto quello fondato su Gen 1-2, ma evidenzia più chiaramente la
peculiarità della visione cristiana sul rapporto dell'essere umano con la natura e la sua differenza
con altre prospettive. Ad esempio, per quanto detto fin qui, invitare le persone a “pensare alla terra
più che al cielo” per stimolarle a prendersi le loro responsabilità in questo mondo significherebbe
semplicemente disorientarle da quella logica di fede che invece può farlo evolvere verso il suo
compimento. Per questo i temi ecologici non possono diventare troppo sbrigativamente una sorta di
minimo comune denominatore tra i vari orientamenti culturali di una società, come se su una
questione così concreta non vi possa che essere un sostanziale accordo tra tutte le sue componenti:
in realtà, anche su questo tema esiste una differenza cristiana, che non necessariamente contraddice
le altre visioni ma che sicuramente mantiene una sua profonda originalità.
Ovviamente tale differenza non pregiudica affatto il dialogo, ma anzi lo rende possibile. I temi
relativi al creato e alla sua custodia possono e devono diventare fruttuosi ambiti di dialogo tra
credenti di varie appartenenze e non credenti, in cui ciascuno propone all'attenzione degli altri la
propria visione delle cose, che deriva ultimamente dalla propria identità. Da parte cristiana, non
perderemo di vista il nostro specifico contributo in questo terreno di confronto se non
marginalizzeremo la luce originale che la fede in Gesù getta sul rapporto dell'essere umano con la
natura.
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