A - Marco Sgarbi

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A. Ferrarin (a cura di), Congedarsi da Kant? Interventi sul Goodbye Kant di Ferraris, ETS, Pisa,
2006, p. 162, € 13,00, ISBN 88-467-1502-0.
Negli ultimi tempi pochi libri hanno suscitato tanto scalpore e tante polemiche fra gli
studiosi kantiani quanto Goodbye Kant! di Maurizio Ferraris. In meno di due anni il libro ha
raggiunto la sua quinta ristampa. Se l’obiettivo dell’autore era determinare che cosa resta oggi della
Kritik der reinen Vernunft, la conclusione desolante a cui Ferraris arrivava per il tramite di
argomenti semplici e lineari sarebbe che della prima critica oggi rimarrebbe poco o nulla. La
risoluta presa di posizione di Ferraris ha scatenato critiche, elogi e dissensi. Il volume Congedarsi
da Kant? Interventi sul Goodbye Kant di Ferraris, curato da Alfredo Ferrarin, è la raccolta di
alcune critiche elaborate dai massimi studiosi kantiani italiani al libro di Ferraris. Il libro trae
origine da una giornata di discussione svolta a Pisa il 7 dicembre 2004. In tale occasione, come
ricorda il curatore nella prefazione (p. 11), stemperare toni accesi e moderare gli interventi era stato
compito del compianto Silvestro Marcucci, scomparso il 26 dicembre 2005 subito dopo aver
realizzato il sogno di poter organizzare a Pisa nel 2010 il decimo congresso internazionale kantiano.
Per questa e per altre ragioni, dunque, il volume è stato dedicato alla memoria di Marcucci.
Il primo intervento critico al libro di Ferraris viene proposto da Alfredo Ferrarin. In
“Goodbye is too Good a Word”, sulle difficoltà del congedo di Ferraris. Ferrarin concorda con
alcune conclusioni a cui giunge Ferraris: 1) l’insoddisfazione per un’universalità e una necessità
conferite dalla mente e assenti dal mondo; 2) la tendenza, a cui Kant a volte soccombe, di assimilare
esperienza e scienza; 3) l’occasionale errore dello stimolo per cui Kant a volte non si accorge di
ricondurre l’osservato al misurato (p. 14). Eppure Ferrarin, con tutta la buona volontà, non sa
riconoscere nel Goodbye Kant! di Ferraris il Kant che ha studiato (p. 15); critica la scelta di Ferraris
di avvicinarsi a grandi interpreti kantiani, come Heidegger e Strawson, che limitavano la propria
interpretazione solamente sull’Estetica e l’Analitica trascendentale; e lamenta la mancanza di
un’analisi positiva della Dialettica trascendentale, nella quale invece Kant avrebbe realmente risolto
il problema dell’autonomia della ragione e delle idee trascendentali come guida della nostra
esperienza (p. 18). La critica di Ferrarin in questo caso appare più che mai giustificata. È infatti
impossibile comprendere la totalità del pensiero kantiano senza rivolgere attenzione alla Dialettica
trascendentale, che fa da ponte di collegamento fra le tre critiche e da luogo risolutivo delle
questioni kantiane. Ferrarin poi critica il fatto che Ferraris trovi la verità dell’intuizione nella sua
assoluta passività e dipendenza dal concetto, sicché l’essenza dell’intuizione sarebbe quella di
essere cieca, e basta (p. 22). Ferrarin afferma che se è vero che senza concetti le intuizioni sono
cieche, ciò non significa che esse non si diano o siano impossibili — sono solo non comprese (p.
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22). Ferraris non distingue tra puro e empirico e inoltre riduce tutte le intuizioni ad un’intuizione
sensibile pura. Ferrarin ritiene invece che il famoso passo “le intuizioni senza concetti sono cieche e
i concetti senza intuizioni sono vuote” conduca alle seguenti conclusioni: 1) non è vero che tutte le
rappresentazioni sono consce; 2) l’immaginazione sta dalla parte della sensibilità ed è produttiva e
fornisce un esempio ulteriore di funzione attiva non intellettuale; 3) l’intuizione non è interamente
passiva ma è una forma di organizzazione del tutto indipendente dal concetto (p. 23). Dalle quali
secondo Ferrarin segue che: 1) le intuizioni e categorie possono essere due momenti indipendenti e
irrelati (p. 23); 2) l’intuizione spaziale è attiva e non passiva (p. 24); 3) le intuizioni sono
perfettamente possibili senza concetti (p. 26); 4) le tre sintesi della Deduzione A possono essere
prese separatamente (p. 26); 5) l’intuizione può essere normativa senza le categorie (p. 28); 6) è
perfettamente possibile avere un’esperienza senza scienza, senza sapere concettuale (p. 28).
Sia detto per inciso, tuttavia, che l’operazione compiuta da Ferrarin pare in verità simile a
quella per la quale egli stesso critica Ferraris: estremizzare nel senso opposto la posizione kantiana
finendo così per presentare una filosofia che si discosta da quella di Kant. L’immaginazione
produttiva in Kant non è dalla parte della sensibilità. L’immaginazione è una funzione mediatrice
attiva fra la sensibilità e l’intelletto che differisce da entrambe e non garantisce l’attività del senso.
Per quanto riguarda la forma di organizzazione pre-categoriale dell’intuizione non è chiaro se
Ferrarin voglia riferirsi al fatto che ogni esperienza è possibile mediante le condizioni trascendentali
pure a priori dello spazio e del tempo o alla sinossi del senso. Riguardo il primo punto è corretto
parlare di organizzazione nella ricezione degli oggetti esterni da parte del senso esterno attraverso lo
spazio, e da parte del senso interno attraverso il tempo se e solo se questo coordinamento è qualcosa
di passivo. Se la forma di organizzazione dell’intuizione è quella attiva della sinossi del senso
occorre rilevare, anche se è una pedanteria storiografica, che essa scompare nella seconda edizione
della Kritik der reinen Vernunft proprio perché essa con tutta la sua problematicità aggravava la
comprensione delle modalità delle principali funzioni cognitive. Scartate queste due ipotesi non si
trova alcun riferimento nelle opere pubblicate da Kant su una supposta attività dell’intuizione. Non
siamo noi che vogliamo vedere o non vedere un oggetto che ci sta di fronte; se un oggetto ci sta di
fronte lo vediamo e non possiamo inibire alcuna attività perché nessuna attività è presente,
riceviamo meramente in modo passivo l’oggetto. Che poi le intuizioni e categorie siano due
momenti indipendenti e irrelati è cosa logicamente possibile ma non lo è realmente. Kant stesso alla
fine dell’Analitica trascendentale, nell’Anfibolia dei concetti puri della riflessione, analizza lo
statuto ontologico delle intuizioni separate dai concetti e viceversa. La conclusione di Kant è che
l’una priva dell’altra sono nulla. Più precisamente il concetto vuoto senza oggetto è un ens rationis
ovvero quel concetto al quale non corrisponde alcuna intuizione. Un’intuizione senza concetto
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invece può essere considerata secondo due aspetti: 1) ens imaginarium ovvero intuizioni vuote
senza oggetto che sono essenzialmente lo spazio e il tempo trascendentali; 2) nihil negativum
ovvero un oggetto vuoto senza concetto che contraddice se stesso. Nel primo caso non si può
parlare propriamente di intuizione in quanto è scevra di ogni contenuto ed è semplicemente la
condizione di possibilità di poter sentire l’oggetto e senza il quale essa non sarebbe. Nel secondo
caso si tratta di un oggetto che se è anche dato dalla sensibilità non è concepibile in quanto senza i
concetti nulla può essere compreso.
L’affermazione di Ferrarin che sostiene la possibilità di considerare separatamente le tre
sintesi presenti nella prima edizione della Deduzione dei concetti puri dell’intelletto non trova
riscontri con la seconda versione della Deduzione in quanto la triplice distinzione logica e non reale
è eliminata a favore di una sola attività sintetica. Posso avere un’apprensione nell’intuizione senza
riproduzione nell’immaginazione? Certo! Ma con la sola apprensione non è possibile comprendere,
o avere esperienza di qualche cosa. Con l’apprensione nell’intuizione è necessario avere la
riproduzione nell’immaginazione e la ricognizione nel concetto. Per esemplificare sarebbe come
voler trovare il risultato della seguente addizione 1+2+3+5 addizionando in questo modo: 1+2=3 e
poi gli altri. Addizionando i primi due numeri ottengo un risultato che può essere equiparato a
quello dell’apprensione nell’intuizione. Ma il mio risultato è un 3, non un 11, il risultato richiesto
dall’addizione completa. Nella somma 1+2=3 ho trovato sicuramente qualcosa, ma qualcosa ancora
di privo di significato rispetto alla scopo di trovare la somma dei primi quattro numeri primi.
L’apprensione nell’intuizione, la riproduzione nell’immaginazione e la ricognizione nel concetto
sono tre momenti di uno stesso procedimento sintetico ed essi non hanno alcun significato se non
sono presi nella loro successione reale. Ciò, suppongo semplificando, ha spinto Kant nella seconda
edizione della Kritik der reinen Vernunft a ridurre i tre momenti ad uno solo perché alla fine è solo
una l’attività sintetica importante ovvero quella fra le due componenti eterogenee della sensibilità e
dell’intelletto.
Il secondo articolo del volume Lontano da dove. Congedarsi da Kant? è di Claudio La
Rocca, l’attuale presidente della Società Italiana di Studi Kantiani. La Rocca è convinto che per
comprendere realmente la portata rivoluzionaria del pensiero di Kant sia necessario riferirsi
costantemente al concetto di critica. Solo tenendo fermo al criticismo kantiano in quanto rottura con
la tradizione sarebbe possibile risolvere gli annosi dualismi quali quelli tra realismo-idealismo,
fenomeno-noumeno e concetti e intuizioni. La posizione filosofica kantiana, afferma La Rocca, non
è volta a fondare una filosofia soggettivista o prospettica, ma a determinare quel punto di vista che
ogni essere vivente può assumere nell’atto di conoscere il mondo esterno. Kant non nega la
possibilità di una conoscenza, ma l’impossibilità di assumere uno sguardo da nessun luogo e da
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nessun soggetto possibile, tipico della filosofia pre-kantiana (p. 41). Le cose in sé non sono altre
cose dietro quelle manifeste ma un altro punto di vista sulle cose ovvero quello che esclude le cose
da qualsiasi modo di accedere ad esse. Kant, secondo La Rocca e in polemica con Ferraris, non
sottoscriverebbe mai le tesi che “ciò che non si conosce, non esiste” o che “le cose esistono solo in
quanto è possibile averne una rappresentazione cosciente” o la tesi che “vediamo solo ciò che
conosciamo”, ma sarebbe senz’altro d’accordo che “possiamo incontrare cose senza conoscerle”. La
Rocca mette in luce come l’esistenza delle cose per Kant sia possibile se e solo noi si abbia
consapevolezza di un tessuto di regole condivise che ci consentono di non confonderle con
rappresentazioni private (p. 44). La Rocca polemizza anche sul fatto che troppo spesso si vuol far
dire a Kant che le categorie limitino e selezionino l’accesso al mondo noumenico. I concetti puri
dell’intelletto non sono occhiali o filtri ma condizioni significazionali per mezzo delle quali un
oggetto può essere compreso.
Un’altra critica di La Rocca rivolta a Ferraris, fatta propria anche da Parrini e da Barale, è la
lettura della frase “l’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni” senza il verbo
modale können trasformandola in: “l’io penso deve poter accompagnare tutte le mie
rappresentazioni”. Questo, secondo La Rocca, sarebbe l’errore che impedisce a Ferraris di
ammettere l’esistenza di rappresentazioni inconsce nella filosofia kantiana. Infatti se tutte le
rappresentazioni fossero riferite all’Io penso, sarebbero tutte coscienti; ma Kant non afferma questo
e ritiene invece possibile che esistano rappresentazioni e operazioni non coscienti proprio perché
quel können esprime solo la possibilità, non la necessità, dell’accompagnamento. D’altra parte mi
sembra di notare che questo sia un falso problema. L’Io penso in Kant non è un’attività della
coscienza intesa in senso ordinario ma è più, come direbbero gli anglosassoni, una awareness
ovvero una consapevolezza che ogni rappresentazione è connessa ad una soggettività invariante
(identità). Senza tale unità e identità del soggetto non sarebbe possibile alcuna rappresentazione sia
che essa sia cosciente, che essa sia incosciente. Nel suo intervento conclusivo, tuttavia, Ferraris
ribadisce che considerare la frase “l’io penso deve poter accompagnare tutte le mie
rappresentazioni” con o senza il können sarebbe affatto indifferente. Deve esserci un soggetto al
quale vengono riferite delle rappresentazioni, se tale soggetto non sussistesse non potrebbero
nemmeno sussistere rappresentazioni. Ovviamente ciò non significa che la mancanza del soggetto
porti alla negazione degli oggetti dai quali le rappresentazioni scaturiscono.
Il terzo intervento su Ferraris è di Paolo Parrini, che pur elogiando il tentativo di Ferraris di
decostruire la rivoluzione copernicana compiuta da Kant nella Kritik der reinen Vernunft individua
anche alcuni limiti della sua esegesi. La prima accusa rivolta da Parrini a Ferraris è metodologica:
servirsi solamente di letteratura critica che sostiene la propria tesi e ignorare le interpretazioni che
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invece potrebbero confutare le proprie argomentazioni. Ciò che non è seguito da Ferraris, secondo
Parrini, è il cosiddetto principio di carità facendo sostenere a Kant ciò che in realtà il filosofo di
Königsberg non avrebbe mai sostenuto. Parrini contesta inoltre l’identificazione kantiana affermata
da Ferraris tra epistemologia e ontologia e l’implicazione che la certezza dell’esperienza sarebbe
fondata a priori dalla scienza. La critica più veemente Parrini però la rivolge al passo sull’Io penso
già preso in considerazione da La Rocca. Parrini riconduce la propria analisi alla monumentale
opera di Pietro Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, secondo il quale non è possibile concepire
che ogni dato sensibile sia immediatamente e necessariamente sussunto sotto le categorie. Se così
fosse, afferma Chiodi, l’uomo sarebbe sempre uno scienziato, così come Ferraris vorrebbe far
credere. Parrini sostiene quindi che per Kant si può vedere qualcosa senza sapere esattamente che
cosa sia, infatti ciò che afferma l’Io penso è solo l’identità della soggettività e non la necessità della
sintesi. La critica di Parrini è giusta, ma non esaurisce completamente il pensiero kantiano. La
sintesi fra le rappresentazioni e i concetti puri dell’intelletto (o categorie) in Kant non è garanzia di
scientificità bensì di oggettività. Le categorie, come anche lo schematismo, sono le condizioni
trascendentali per l’instaurazione di un tessuto connettivo intersoggettivo entro il quale le
rappresentazioni soggettive vengono dotate di un significato oggettivo. Ogni volta che si ha una
rappresentazione di una cosa, anche se di questa cosa non si ha una conoscenza perfetta, ovvero di
essa non se ne ha un concetto, la sintesi dell’immaginazione produttiva garantisce che ad essa venga
assegnato un significato oggettivo condiviso. Solo per mezzo di una conoscenza perfetta, ovvero
mediante i concetti, intesi come universali e non come concetti puri dell’intelletto, è possibile avere
una scienza. Pertanto, per Kant ogni rappresentazione viene associata ai concetti puri dell’intelletto
attraverso i processi sintetici al fine di determinare una vera conoscenza. La sintesi è sempre
necessaria al soggetto esperente al fine di assegnare un significato, seppur provvisorio, al fenomeno,
ma non garantisce la fondazione di una scienza.
L’ultimo intervento, Rileggere Kant, è di Massimo Barale, che è fra tutti i critici di Ferraris è
quello che più lo accusa di errori metodologici. Anche Barale in verità sostiene la necessità di
congedarsi da Kant. Ma da quale Kant? Non dal filosofo nella sua pienezza e complessità, ma solo
dalla visione prevalentemente adottata nel mondo anglosassone che Ferraris fornisce. Barale
rimprovera Ferraris di volersi congedare da Kant solo prendendo in considerazione le prime
trecentocinquanta pagine della Kritik der reinen Vernunft, tralasciando tutto l’impianto sistematico
elaborato sin dagli anni Settanta del XVIII secolo e suggellato dalla pubblicazione delle tre grandi
critiche.
Nel saggio che chiude il volume, Kant fuori dagli schemi, Ferraris risponde ai suoi critici
dividendo le obiezioni che gli sono state mosse in due gruppi. Nel primo mette le critiche di Barale
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e Parrini, che lo rimproverano di aver frainteso Kant non tenendo conto o dell’intero suo sistema o
delle discussioni successive a lui, nel secondo quelle di Ferrarin e La Rocca, che lo accusano di aver
radicalizzato Kant sino all’inverosimile (p. 142). La difesa di Ferraris è acuta e puntigliosa e ribatte
ai propri critici esaustivamente, ammettendo laddove fosse necessario i propri errori. A Barale
obietta che il famigerato sistema kantiano non sarebbe qualcosa che il filosofo di Königsberg
avrebbe pianificato. Un progetto sistematico in Kant, e qui ha ragione Ferraris, non è rintracciabile e
se si è imposto successivamente, è stato solo per mettere pezze a qualcosa che non funzionava (p.
145). Ferraris volge poi la sua attenzione al più volte citato passo sull’Io penso. Barale sostiene,
confortato anche dalle analisi di Parrini e La Rocca, che il fatto che l’Io penso deve poter
accompagnare tutte le rappresentazioni del soggetto non significa né che le accompagna e né che
non le accompagna, ma che deve poterle semplicemente accompagnare. Ferraris con ironia
socratica replica: “Eh, no, qui non ci siamo. Come dobbiamo intendere questa frase? Come ‘vorrei
ma non posso’ o ‘potrei ma non voglio’? Se uno deve poter accompagnare le rappresentazioni, vuol
dire che le accompagna (di sicuro non vuol dire che non le accompagna, sennò siamo all’operetta).
E poi, anche ammesso che Kant avesse sottoscritto una frase così desolante: ‘l’Io penso, magari,
forse, un domani, chissà mai, ma guardi, non è certo, dipende da come si sente, dovrebbe poter
accompagnare le mie rappresentazioni’, avrebbe detto, per l’appunto, che se le cose andassero
come devono, e se l’Io penso non fosse quel rammollito che è, dovrebbe accompagnarle, quelle
rappresentazioni. E se non le accompagna, peggio per loro e per lui” (p. 146s.). La risposta di
Ferraris non lascia dubbi, mi sembra che questa sia la giusta interpretazione del passo kantiano.
Sempre rispetto al tema dell’Io penso, Ferraris ammette l’errore di aver affermato che in Kant tutte
le rappresentazioni sono coscienti: “Non è vero ce ne sono di inconsce, e i miei obiettori hanno
mille volte ragione a ricordarmelo. Tuttavia, come spiegavo o cercavo di spiegare a proposito
dell’Io penso che ‘deve poter’ accompagnare tutte le mie rappresentazioni, mi pare che alla luce di
quel ‘deve poter’ tutte le rappresentazioni, in linea di principio, posso diventare consce, e dunque
sono in cosce solo pro tempore” (p. 159). Anche in questo caso la posizione di Ferraris è
ineceppibile. Tuttavia come ho già ribadito in altri punti, è sbagliato attribuire all’Io penso una
forma di coscienza. L’Io penso è un qualcosa di semplicemente posto, che è trascendentalmente e
originariamente. Se l’Io penso fosse cosciente di sé o delle rappresentazioni ad esso inerenti
diverrebbe un Io empirico incapace di essere la condizione di ogni esperienza possibile.
Il volume Congedarsi da Kant? Reientra sicuramente tra i più interessanti, acuti e
illuminanti apparsi negli ultimi anni sul filosofo di Königsberg. Tratta di alcuni dei temi
fondamentali della filosofia kantiana affrontati da diversi specialisti del settore. I lettori entusiasti di
Goodbye Kant! sicuramente non possono mancare l’occasione di considerare le critiche qui
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presentate. Infine, Ferraris ha ragione o torto? La risposta è che Ferraris ha torto sicuramente in un
punto: che da Kant non ci si può congedare perché continua a suscitare grandissimo interesse,
discussioni accese, interpretazioni contrastanti, e questo volume ne è la prova.
Marco Sgarbi, Università degli Studi di Verona
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