Heidegger:dall'ideale di vita cristiano-cattolico a Essere e tempo Figlio del modesto mastro bottaio Friedrich, sagrestano cattolico di Messkirch, Martin Heidegger nacque di giovedì, il 26 settembre del 1889; fu educato in strutture ecclesiastiche, studiò dai gesuiti e non divenne membro dell'ordine solo perché sofferente di problemi cardiaci; tuttavia rischiò di diventare ugualmente sacerdote. Frequentò corsi di teologia e compose diversi saggi ed alcune poesie. I testi del giovane teologo sono quasi tutti raccolti negli annali della rivista "Der Akademiker" della Katholischen Deutschen Akademikerverband, "araldo dei nostri elevati ideali cristiani, in tutti gli ambiti della vita studentesca". Il ventunenne Martin Heidegger viveva nella Chiesa, in un ambiente ferocemente ostile alle correnti moderniste e prese posizione secondo quegli ideali. In un articolo intitolato Per mortem ad vitam, apparso sul numero di marzo del 1910, egli parlò della conversione dello scrittore danese Johannes Jörgensen, definito "un moderno Agostino". Una citazione non guasta: «Ai nostri giorni - scriveva lo studente di teologia - si parla molto di personalità e i filosofi trovano nuovi criteri di valore. Accanto a critiche da un punto di vista morale o estetico, essi operano anche "valutazioni di personalità" soprattutto nella letteratura. Viene messa in risalto la personalità dell'artista. Così si sentono molte cose su uomini interessanti. Oscar Wilde "il dandy", Verlaine "il beone geniale", Gorkj "il grande vagabondo", Nietzsche "il superuomo", sono uomini invero interessanti. E quando poi, nell'ora della Grazia divina, un uomo si rende conto della grande falsità della propria vita da zingaro, frantuma gli altari dei falsi dei, e diventa Cristo, allora costui lo chiamano "insipido e disgustoso". Johannes Jörgensen ha fatto il passo. Non lo stimolo delle sensazioni lo spinge alla conversione, ma la sua profonda serietà.» (1) E' uno squillo di tromba quasi apocalittico contro la filosofia menzognera "alla moda". Ancora nel 1911 Heidegger pubblicò una serie di articoli contenenti "consigli" per gli studenti universitari sull'orientamento filosofico da seguire. Ma accanto alla solita retorica cominciavano ad affacciarsi pensieri più originali: «E in questo volteggiare qua e là, in cui si è diventati a poco a poco palati fini sulle questioni filosofiche, un'occupazione quasi ricreativa, malgrado l'intenzionalità e la vanità, emerge inconsapevolmente il desiderio di risposte definitive sulle questioni ultime dell'Essere, che talvolta lanciano lampi repentini e poi per qualche giorno giacciono insolute nell'anima tormentata, priva di direzione e di meta.» (2) Fu la cardiopatia ad allontanarlo da una felice carriera ecclesiastica, ed anche da una specializzazione in teologia. Il cuore, per disfunzioni di natura nervosa, sembrava volerlo condurre da un'altra parte. Per continuare a studiare teologia occorreva molto denaro, ed il padre non era più in grado di sostenere le spese. Dopo un periodo di assoluto riposo, pare che Heidegger si trovò in dubbio se dedicarsi allo studio della matematica o a quello della filosofia. Nel semestre invernale 1911-12 intraprese effettivamente lo studio della matematica, ma il suo destino di filosofo era in parte già deciso: solo la domanda filosofica radicale gli avrebbe messo "il cuore in pace". Dal 1912 Heidegger usufruì di una borsa di studio di 400 marchi che lo liberò dai problemi economici più pressanti. Conobbe Engelbert Krebs, teologo di otto anni più anziano, e ne divenne intimo amico. Il 26 luglio del 1913 Heidegger sostenne l'esame di laurea alla Facoltà di filosofia di Friburgo, strappando "summa cum laude" per una dissertazione intitolata La dottrina del giudizio nello psicologismo, ovviamente con un relatore cattolico, Arthur Schneider. Ma il rapporto tra cattolicesimo ed Heidegger aveva cominciato ad incrinarsi. Il rapporto con Krebs era da un lato stimolante e dall'altro curiosamente conflittuale. Di fatto, entrambi aspiravano alla cattedra di filosofia di Friburgo, e Krebs, apparentemente avvantaggiato dall'età e dal volume delle pubblicazioni, in realtà portava l'handicap di aver giurato fedeltà all'antimodernismo cattolico e questo non poteva che dispiacere alle autorità universitarie del tempo, che allora vi vedevano un pregiudizio alla libertà ed all'indipendenza dello studioso. Nel 1915 Heidegger ottenne la libera docenza con un lavoro avente per oggetto La dottrina delle categorie e del significato di Duns Scoto. E' significativo che in questo scritto egli mise a confronto il sistema di vita dell'uomo contemporaneo "che procede in modo piatto" con l'atteggiamento dell'uomo medioevale volto alla trascendenza. Heidegger non riteneva che la filosofia potesse rinunciare ad interrogare la metafisica e la teologia: "La filosofia non può a lungo rimanere lontano dalla sua vera prospettiva, la metafisica. Ciò comporta nell'ambito della ricerca intorno al concetto di verità il compito di un'ultima interpretazione metafisico-teologica della coscienza. In ciò vive già originariamente il valore di senso, azione che non è neppure lontanamente compresa se viene neutralizzata nel concetto di una realtà biologica cieca." E ancora nel 1915, Heidegger dichiarava di volersi impegnare "per la futura lotta spirituale in nome dell'ideale di vita cristiano-cattolico." (3) Passò poco tempo, ed egli maturò una prima svolta cui non fu estranea l'influenza di pensatori protestanti, in particolare Schleiermacher. Non a caso, nella spesso citata lettera del 9 gennaio 1919 a Engelbert Krebs, Heidegger scrisse: "convinzioni gnoseologiche coinvolgenti la teoria del conoscere storico hanno reso per me problematico ed inaccettabile il sistema del cattolicesimo, non però il cristianesimo e la metafisica (quest'ultima, tuttavia, in un senso nuovo)." (4) Con questa lettera Heidegger abbandonava la teologia per volgersi completamente alla filosofia. E' curioso che questa prima svolta si sia pienamente realizzata dopo aver seguito un corso del teologo cattolico Carl Braig e dopo aver letto molto attentamente una sua opera, Dell'essere - Compendio di ontologia, esperienza che aveva vivamente impressionato il giovane Heidegger. Certo, il fatto filosoficamente più significativo fu l'incontro con Husserl. Heidegger aveva trovato ultrainteressanti le Ricerche logiche e cominciò a cercare soluzione ai problemi che via via vi aveva incontrato. Era sostanzialmente deluso dalla filosofia di Heinrich Rickert. Uno sguardo al rapporto con Rickert aiuta a comprendere meglio il passaggio alla fenomenologia. La stessa tesi di dottorato sostenuta con Schneider nel 1913 era il risultato delle influenze di Rickert. Le prime autentiche ricerche filosofiche di Heidegger si svolsero dunque secondo una linea neokantiana, e rivolgevano una particolare attenzione alla distinzione tra atto psicologico e contenuto logico e alla differenza tra il processo del pensiero e il "senso" ideale, fino a mettere in questione il rapporto tra essere e validità. Spingendosi su tale terreno, egli approvò per un certo periodo la distinzione attuata da Rickert tra ambito della logica pura (ambito della validità) e ambito della matematica. Ma la filosofia di Rickert si era infilata in una sorta di vicolo cieco. In particolare diventava sempre più evidente che, una volta delimitato in modo netto l'ambito della logica pura, diventava problematico connettere logica e mondo reale, intendendo per questo sia il mondo empirico che quello psicologico dei "vissuti" e dei "giudizi". In tale contesto veniva a a cadere proprio l'elemento capace di mediare tra rappresentazione interiore e mondo esteriore. Per superare tale difficoltà, Rickert si impegnò a sviluppare una "psicologia trascendentale". Heidegger non lo seguì per il semplice fatto che una "psicologia trascendentale" esisteva già, ed era la fenomenologia proposta da Husserl. Nell'articolo del 1911, La filosofia come scienza rigorosa, Husserl aveva già spiegato che la fenomenologia non si basa su una psicologia empirica perché cerca di arrivare alle strutture a priori dei fenomeni psicologici. Per questo Heidegger si volse così decisamente in direzione della fenomenologia, la quale guardava invece ai vissuti di coscienza. Nel 1916 fu proprio Husserl a succedere a Rickert a Friburgo, mentre Heidegger svolgeva il servizio militare, anche se in forma ridotta per la cardiopatia. E finalmente, nel 1919, Heidegger potè iniziare a collaborare con Husserl. Heidegger era interessato soprattutto alla V ed alla VI ricerca delle Ricerche logiche. La V trattava tra l'altro del "significato della delimitazione brentaniana dei fenomeni psichici". La VI lo interessava soprattutto per la distinzione tra l'intuizione sensibile e quella categoriale, non disgiunte dal tema dell'intenzionalità e della problematizzazione dell'a-priori. Ben presto, tuttavia, Heidegger prese a seguire un percorso indipendente da Husserl. Nei corsi che tenne a Friburgo dal 1919 al 1923 mise al centro il problema della storicità e della fatticità della vita, e ciò a relativo dispetto al disinteresse di Husserl per la tradizione filosofica. In tale direzione, Heidegger si proponeva di cogliere la vita stessa nei suoi caratteri più propri ed originali,ovvero nella sua storicità. Tale era il programma dell'ermeneutica della fatticità, programma nel quale i riferimenti storici preferiti erano costituiti da Aristotele, Paolo, Agostino, Lutero, Kierkegaard e Dilthey. Tuttavia erano frequenti anche esercitazioni sulle opere di Husserl, e questi era entusiasta di Heidegger al punto di dire: "La fenomenologia siamo io e Heidegger e nessun altro." La fama di Heidegger crebbe rapidamente negli ambienti filosofici. Lo stesso Paul Natorp, neokantiano di Marburgo, ne riconobbe il valore e lo volle professore a Marburgo. Qui Heidegger rimase fino al 1928. Nel frattempo si costruì una baita a Todtnauberg nella Selva Nera, dove era solito soggiornare nei periodi liberi dall'insegnamento. A Marburgo, Heidegger sviluppò stimolanti rapporti con Natorp, Hartmann ed il teologo protestante Rudolf Bultmann; inoltre ebbe come allievi figure destinate ad un'importante carriera filosofica: Karl Löwith, Hans-Georg Gadamer, Hannah Arendt e Hans Jonas. Gli anni di Marburgo culminarono nell'opera Sein und Zeit (Essere e tempo) pubblicata nel 1927. Pur sentendosi ancora interno alla fenomenologia, era evidente ormai che egli la intendeva in modo diverso e nuovo rispetto ad Husserl. In Essere e tempo la definiva come "un lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta così come si manifesta da se stesso." Heidegger, insomma, sollecitava il motore della fenomenologia a ruggire in modo molto più potente, sviluppandonne la dinamica speculativa in maniera più radicale. Ne venne un ripensamento del carattere soggettivotrascendentale della fenomenologia in direzione di quella che Heidegger chiamò ontologia fondamentale. In tal senso modificò il concetto di riduzione, che Husserl aveva inteso come "riconduzione dello sguardo fenomenologico dall'atteggiamento naturale dell'uomo che vive nel mondo delle cose e delle persone alla vita trascendentale della coscienza e dei suoi vissuti noeticonoematici." Heidegger intendeva la "riduzione" in senso ontologico, quindi come "riconduzione dello sguardo fenomenologico dall'ente alla comprensione dell'essere di questo ente". Heidegger proponeva inoltre un'articolazione del metodo fenomenologico capace di integrare la riduzione con due momenti che ad essa si connettono strettamente: distruzione e costruzione. La distruzione comporta un confronto con gli elaborati della tradizione filosofica che non vanno rimossi, ma nemmeno assunti passivamente. Semmai vanno decostruiti. La costruzione significa che riduzione e decostruzione non vanno intesi come fine a se stessi, ma praticate in vista di un momento costruttivo. Un'altra differenza che emerse tra Husserl e Heidegger fu quella dell'ente che si distingue da ogni altro ente per la capacità di cercare le cose stesse, che è la filosofia, cioè l'uomo che filosofa, se non l'uomo in generale. Per Husserl, l'ente della soggettività trascendentale è superiore in virtù di un suo primato nella scala del conoscere. In Heidegger diviene esplicito che questo primato non sta solo nella teoria, ma in tutti gli atteggiamenti fondamentali: quindi anche pòiesis e pràxis, che vanno considerate nella loro radice unitaria. L'uomo non è solo teoria. Se poi si guarda con più attenzione nelle pieghe di Essere e tempo, troviamo motivi di divergenza persino più clamorosi., soprattutto in ordine alle considerazioni attorno al filosofo-chiave della modernità: Descartes. Husserl ha visto in Descartes l'iniziatore di una svolta rivoluzionaria. Heidegger lo valuta all'interno di uno schema prigioniero di un fatale pregiudizio. Come ha ben visto Pier Aldo Rovatti: «In Descartes il pregiudizio resta fissato sotto il peso dell'eredità medioevale: in questo senso non è un iniziatore, ma un epigono. "Quello che all'apparenza di un nuovo inizio del filosofare si rivela dunque come l'innesto di un fatale pregiudizio". Con il cogito sum Descartes pretende una riconsiderazione radicale della filosofia: ma Heidegger obietta che si tratta di una falsa radicalità. Resta infatti indeterminata la caratteristica più importante: Descartes radicalizza il cogito ma non si interroga sull'essere, sul senso d'essere della res cogitans, in definitiva sul sum. La filosofia moderna si inaugura su un'omissione decisiva che risulterà fatale per tutto lo svolgimento successivo del pensiero: per Descartes "il senso d'essere dell'ens è quello stabilito dall'ontologia medioevale, che intende l'ens come ens creatum, al di là del quale sta solo l'ens infinitum, il solo increatum, cioè Dio.» (5) Rottura con Husserl Nonostante l'evidente critica alle sue impostazioni, Husserl, dimostrando grande apertura intellettuale, fece ancora del suo meglio perché Heidegger gli succedesse alla cattedra di Friburgo. Nell'inverno 1928-29 questi tornò per assumere l'incarico, mantenuto fino al 1944. Ma la rottura era nell'aria e non solo negli scritti di Heidegger. Nella Postilla del 1930 alle Idee e nella conferenza tenuta a Berlino il 10 giugno del '31, Husserl giunse ad una specie di resa dei conti con Heidegger e con Max Scheler, rei di sviluppi "antropologistici". Heidegger, dal canto suo, proseguiva deciso, e come critica indiretta alla posizione husserliana si può leggere Che cos'è metafisica del 1929, dove viene dato risalto in chiave esistenzialistica all'angoscia come stato d'animo che, sperimentando il niente, motiva l'uomo a convertirsi da un atteggiamento naturale ad uno filosofico. Husserl aveva spiegato tale conversione come finzione attuata dal filosofo per motivi di superiore intellettualità. Ancora nell'ottobre del 1927 Husserl aveva invocato la collaborazione di Heidegger per la stesura della voce "fenomenologia" per l'Enciclopedia Britannica. E gli aveva inviato la bozza da lui stesso compilata. Heidegger mosse diverse obiezioni, tutte centrate sull'idea di "ego puro" che, ormai, gli pareva un'astrattezza. In Heidegger,ormai, la vera questione era diventata quella dell'essere-parte, dell'appartenenza dell'uomo all'essere. (1) citazione tratta da Hugo Ott - Martin Heidegger: sentieri biografici - Sugarco 1990 (2) idem (3) idem (4) idem (5) Pier Aldo Rovatti - La posta in gioco / Heidegger, Husserl, il soggetto - Bompiani 1987 Heidegger: Essere e tempo Essere e tempo rappresenta una specie di Odissea moderna alla ricerca di un "senso" del quale, alla fine, è trovato solo un annuncio: l'essere deve ancora essere analizzato. Finora, sembra dire Heidegger, abbiamo considerato solo l'esserci (il Dasein); manca completamente il "senso" del Sein. C'è un ostacolo sul nostro cammino: tutta la filosofia, meglio ancora, quelle filosofie che hanno allontanato dal vero problema, dal pensiero greco a quello contemporaneo. Accettando come ovvio e già dato il "senso" dell'essere, la tradizione metafisica va considerata nel suo insieme come un pensiero della "presenza". In poche incisive parole, Pier Aldo Rovatti ha reso i termini della questione: tale «presenza è "semplice" perché è il risultato di una semplificazione, di una vera e propria amputazione: sottratto dal suo complesso gioco con l'assenza, l'essere qui e ora del presente si blocca in una dimensione che, a veder bene, non ha tempo, è priva di temporalità. Ma è priva anche di spazio, perché a sua volta lo spazio è intimamente connesso con la temporalizzazione. Eppure questo modo di guardare la realtà, rendendola così povera e vuota mentre produce l'illusione che sia piena e ricca, è il modo "ovvio": esso pervade la quotidianità, e non cessa di dare la sua impronta alla filosofia stessa, la quale, perpetuando un pregiudizio che mina alla base ogni sua affermazione, viene meno proprio al suo compito che sarebbe quello di porsi innanzi tutto il problema di tale ovvietà e di prendere da essa una distanza.» (1) In Essere e tempo viene dunque formulato il problema che terrà occupato Heidegger per tutti i suoi giorni, quello dell'essere. Secondo Heidegger, la tradizione della metafisica ha mancato di riflettere sul problema dell'essere perchè, anche quando compare, non viene pensato in rapporto col tempo, come articolazione di passato, presente e futuro. Nella tradizione della metafisica l'essere è ridotto a ente e quindi viene tematizzato solo in quanto presente. Tale errore viene ricondotto a Platone ed Aristotele. Essi diedero vita ad una metafisica della presenza. Ma il presente, per Heidegger, può essere solo nella dimensione del tempo. Si tratta perciò di ritornare a pensare l'essere anche rispetto a passato e futuro, affinché l'essere non venga più pensato in una sola dimensione, la quale ha un carattere stabile, e solo per questo non può sfuggire al controllo ed al dominio del soggetto. Essere e tempo era quindi il titolo appropriato per l'opera che Heidegger voleva compiere. Il testo doveva includere due parti, ciascuna divisa in tre sezioni. Ma il progetto si interruppe alla seconda sezione della prima parte. Fino al termine, il filo conduttore è fornito dall'analisi della condizione dell'uomo, ente privilegiato che è il Dasein, ovvero l'esserci. L'esserci ha questo privilegio, avendo sempre la possibilità di porsi il problema dell'essere. Secondo Heidegger, tale problema ha portata esistenziale, quindi ontologica, e non esistentiva, quindi ontica. La differenza di significato tra "ontico" ed "ontologico", già adottata da Husserl, è che una conoscenza ontica è di natura empirica, e non arriva alla cosa in sè, all'ente in quanto è. Quest'analisi non può dunque risolversi nell'antropologia o nella psicologia, tanto meno nella biologia. Il carattere ontico della conoscenza è ogni considerazione sull'ente che si ferma senza arrivare a mettere in questione il suo essere. Il carattere fondamentale dell'esserci umano è l'esserenel-mondo, non il suo essere soggetto,anima o pensiero. Essere-nel-mondo non significa starci dentro come una cosa, ma assumere il mondo come orizzonte del progetto. La progettualità umana è definita trascendenza, che non è un comportamento possibile tra i tanti, ma la stessa costituzione fondamentale dell'esserci. D'altro canto, il mondo non è una cosa, ma il campo di possibilità dell'umano trascendere. Dunque l'esserci ek-siste nelo senso etimologico della parola, "sta fuori" ed "oltrepassa" la realtà in direzione della possibilità. Insistendo su tale differenza tra la propria concezione di esistenza e quella tradizionale, Heidegger può dire che l'essenza dell'essere umano è l'esistenza. Tuttavia, i modi d'essere dell'ek-sistere non sono descrivibili mediante categorie. Con esse si determinano le caratteristiche delle cose semplicemente presenti. I modi d'essere dell'esistenza si determinano attraverso esistenziali, nei quali, a differenza che nelle categorie, è custodita la possibilità. I due esistenziali fondamentali sono il sentire situato (Befindlichkeit) e il comprendere (Verstehen), che indicano rispettivamente la passività e la ricettività, determinati secondo discorso. L'unità degli esistenziali è chiamata Sorge, cura. Sorge significa per Heidegger la responsabilità che ci si assume di fronte alle cose, il modo con cui ad esse si risponde. Si può avere cura di esse in modo sia autentico che inautentico; la differenza non è tipo morale. «L'esistenza autentica - scrive Heidegger - non è qualcosa che si liberi al di sopra della quotidianità deiettiva; esistenzialmente essa è solo un afferramento modificato di questa [...] L'interpretazione ontologico esistenziale non ha la pretesa di formulare giudizi ontici sulla "corruzione della natura umana"; e ciò non perché ne manchino le prove, ma perché la sua problematica si pone al di qua di qualsiasi giudizio sulla corruzione o non corruzione degli enti.» (2) Il rapporto tra uomo e cose consiste dunque nel prendersi cura delle cose, mentre quello tra uomo e gli altri consiste nella cura delle persone. La cura è dunque la struttura fondamentale dell'esserci, e si può manifestare in due modi. Il primo consiste nel sottrarre agli altri le loro cure; il secondo consiste nell'aiutare gli altri ad essere liberi di assumere le proprie cure. Nel primo modo non ci si cura degli altri, ma delle cose da procurare loro. Nel secondo si apre agli altri la possibilità di trovare sé stessi e realizzarsi. Potrebbe sembrare la riproposizione della dialettica servo-padrone che apre l'hegeliana Fenomenologia dello spirito, sebbene detta in altro modo, e con altre valenze. Resta che Heidegger considera la prima modalità come forma inautentica della coesistenza: è semplice "essere assieme". Solo la seconda è vero coesistere. In questo scenario si rivela così l'esistenza anonima, cioè la vita di chi ascolta passivamente "il si dice" o "il si fa", rendendosi succube di questa generale anonimia del "così fan tutti". E' il senso della vita? Se sì, tutto è livellato, reso "ufficiale" convenzionale e, ovviamente, insignificante. Il linguaggio che per sua natura sarebbe svelamento dell'essere, diventa chiacchiera inconsistente. Ma un'esistenza così vuota cerca di riempirsi, perciò è morbosamene attratta dalle novità. E' caratteristica della curiosità, non per l'essere delle cose, ma per la loro apparenza visibile. Ciò porta all'equivoco, che nell'esistenza anonima conduce a non sapere nemmeno di che si sta parlando. Ecco dunque la deiezione, cioè la caduta dell'esserci al livello delle cose. Tuttavia, nonostante l'orrore che si può provare di fronte ad un simile condizione che improvvisamente si svela di fronte a noi, tale deiezione non va considerata come un peccato originale e nemmeno come un accidente superabile con il progresso umano e scientifico. Essa fa parte dell'esserci, dipende dal trovarsi gettati nel mondo, in mezzo agli altri, al loro stesso livello esistenziale. Tale condizione viene quindi vissuta nella condizione emotiva in cui l'uomo si sente fondamentalmente abbandonato. La seconda sezione di Essere e tempo prova ad analizzare il senso dell'essere, individuato nella temporalità. A ciò si perviene considerando la contraddizione tra l'essere dell'esserci come possibilità progettuale e la morte, che esprime la più radicale impossibilità dell'esistenza. Tale contraddizione è apparente perché da un lato l'esserci è compiuto quando a tutti i suoi modi d'essere si aggiunge l'esser morto, ovvero si è un ci che non ci è più. Ma la morte è anche tale per cui, col suo arrivo, nulla è più possibile per l'esserci come essere-nel-mondo. Come possibilità "più autentica" e "più propria", lungi dal chiudere l'esserci in un circolo disperato, la morte può aprirlo alle sue possibilità più autentiche, se non viene affrontata come un fatto ineluttabile, ma viene anticipata come ciò che rende possibile la possibilità, cioè la fa apparire veramente come tale. Ciò consente, secondo Heidegger, di evitare di irrigidirsi in una possibilità, assumendo se stessi come eterno poter-essere. Per anticipare la morte occorre una decisione che consente all'esserci di rappresentarsi come puro poter-essere, riconoscendosi così nella sua vera essenza. La morte è una possibilità incondizionata perché appartiene all'uomo considerato come individuo isolato. Tutte le altre possibilità tengono l'uomo in mezzo alle cose del mondo, in mezzo all'umanità; solo la morte isola l'uomo e lo pone solo con se stesso. Essa è l'unica certezza, e qui Heidegger fa a pugni con la logica parlando di "possibilità certa", ma è per esprimere questo doppio carattere della morte, vista insieme come possibilità anticipata e come unica certezza. L'esistenza quotidiana anonima, cioè quella della chiacchiera inconsistente rivolta alle vanità mondane, non è che una fuga di fronte alla morte. L'esserci nasconde la morte, la rimuove. Solo la voce della coscienza richiama l'uomo alla morte, al suo essere-per-la-morte. Ovviamente, vivere per la morte non ha il significato di realizzarla con il suicidio. Vivere per la morte non è nemmeno attesa. Piuttosto, è comprendere l'impossibilità dell'esistenza come tale. Tuttavia è possibile comprendere tale impossibilità: questo è il vero senso del vivere per la morte. C o m p r e n d e r e. Ogni comprensione è accompagnata da uno stato emotivo, l'angoscia. «L'angoscia è la situazione emotiva capace di mantenere aperta la continua e radicale minaccia che sale dall'essere più proprio ed isolato dell'uomo.» (3) L'angoscia pone l'uomo di fronte al nulla e la sola esistenza autentica è quella che comprende chiaramente (e emotivamente) la radicale nullità dell'esistenza. La temporalità non è, per Heidegger, il tempo dei calendari e degli orologi che misurano e datano gli eventi. Non è nemmeno il tempo soggettivo della coscienza pura. Piuttosto, la temporalità si manifesta in primo luogo nell'essere-per-il-futuro dell'esserci in senso pratico, che può risultare autentico o inautentico. Nell'esistenza autentica la cura dell'esserci è dispersa nel mondo. Nella vita autentica, al contrario, l'esserci deve scegliere la possibilità più possibile. E proprio nel momento della più autentica libertà, l'esserci viene a trovarsi dipendente, quindi asservito, da possibolità tramandate e ereditate. Quindi l'esserci autentico ha uno sguardo temporale rivolto al passato, oltre che al presente ed al futuro. In tale contesto, l'esserci autentico si può appropriare del proprio destino. L'ostacolo che incontrò Heidegger a chiudere Essere e tempo, secondo le sue ambizioni iniziali, fu di natura linguistica. Avrebbe voluto affrontare il tema del senso dell'essere in generale ma, non trovava le parole per dirlo. La natura della difficoltà venne evidenziata più tardi nella Lettera sull'umanismo del 1947. Qui cercò di spiegare che l'analitica dell'esistenza aveva il il senso di "un pensiero che sta abbandonando la soggettività" per aprirsi "alla luce dell'essere". La III sezione non venne composta perché il suo pensiero si trovò impossibilitato a formulare la "svolta". Il linguaggio di cui disponeva allora Heidegger, quello della tradizionale metafisica della "presenza", era inutilizzabile. «Il linguaggio - spiegherà Heidegger nella Lettera sull'umanismo - non è una manifestazione di un organismo o espressione di un essere vivente. Perciò non è possibile intenderlo, nella sua essenza,in base al carattere di segno e forse neppure in base a quello di significato. Il linguaggio è evento illuminante e proteggente dell'essere.» (4) (1) Pier Aldo Rovatti - La posta in gioco / Heidegger, Husserl, il soggetto - Bompiani 1987 (2) M. H. - Essere e tempo - § 38 (3) M. H. - Essere e tempo - § 53 (4) M. H. - Lettera sull'umanismo Heidegger "realista diretto", dunque contrario alla "rivoluzione copernicana" di Kant (2) Un capitolo cruciale di Essere e tempo è § 8 intitolato Esserci, apertura e verità. In esso Heidegger rigetta esplicitamente la "rivoluzione copernicana" attuata da Kant, pronunciandosi per una concezione direttamente realista della verità. Dopo aver spiegato che "la teoria kantiana della conoscenza del XIX secolo caratterizza frequentemente questa definizione della verità (in quanto accordo con l'oggetto) come un realismo metodologiacamente ingenuo e arretrato, e lo descrisse come incompatibile con il porsi delle questioni sollevate dalla rivoluzione copernicana di Kant", Heidegger spiega la posizione epistemologica prevalente, alla quale intende opporsi. «Secondo l'opinione generale, la veritàè conoscenza, una conoscenza è giudizio,; e nel giudizio dobbiamo distinguere: il giudizio come processo psichico reale e il giudizio come contenuto ideale. E' di quest'ultimo che si dice che è "vero". Il processo psichico reale, per contrasto, è presente o no.» Heidegger si oppone a tale convinzione: «E in riferimento all'effettivo giudicare del giudicato, non è forse ingiustificata la distinzione fra il pronuniciamento reale e il contenuto ideale? La realtà effettiva del conoscere e del giudiciare non ne risulta forse scissa in due modi d'essere, in due "strati", la cui ricomposizione non è più in grado di restituirci il modo d'essere del conoscere? Non avrà forse ragione lo psicologismo quando si oppone a questa scissione, benché anch'esso non chiarisca ontologicamente e addiritture non assuma a problema il modo d'essere del pensiero pensato?» Dopo questa critica, Heidegger spiega il proprio realismo diretto. «E' l'ente in questione a manifestarsi così come esso è in sé stesso, vale a dire che esso in sé stesso è proprio come viene scoperto essere indicato dall'asserzione. Non c'è alcun raffronto di rappresentazioni né fra di loro né rispetto alla cosa reale. Nell'identificazione non è in gioco una concordanza tra conoscenza e oggetto né certamente tra psichico e fisico, ma neppure tra "contenuti di coscienza". Nell'identificazione c'è soltanto lo scoprimento dell'ente stesso, esso nel "come" del suo svelamento. Quest'ultimo [lo svelamento] trova la propria verifica nel fatto che l'asserito, cioè l'ente stesso, si manifesta come il medesimo. [Siffatta] verifica significa: il mostrarsi dell'ente nella sua autoidentità Heidegger dopo Essere e tempo La terza parte di Essere e tempo avrebbe dovuto mostrare la relazione tra tempo ed essere che la metafisica tradizionale, ostinandosi a pensare l'essere come semplice presenza dell'ente, aveva sempre trascurato. Heidegger avvertiva così l'esigenza di un superamento della metafisica e del suo linguaggio. Che cos'è la metafisica? del 1929 rappresentò il tentativo di riflettere sul significato di metafisica e di ripercorrerne la storia. Questo approccio avrebbe potuto consentire l'assunzione effettiva del proprio passato, la propria condizione storica. Il termine metafisica significa "oltre" la fisica: nella stessa parola è già custodito il segreto del pensiero che pone il problema dell'essere oltre l'ente come tale, l'essere dell'ente nell'ambito del quale viene ad essere. Nel 1928, Heidegger era tornato a Friburgo e nell'assumere l'incarico aveva pronunciato una prolusione il cui oggetto era costituito dal rinnovato tentativo di definire la metafisica. Tutte le scienze, osservava Heidegger, vogliono conoscere l'ente e nient'altro. Ma quando diciamo "nient'altro" a cosa alludiamo? Quanta e quale esperienza ne abbiamo per conoscerlo e quindi escluderlo? Pare che tale esperienza del "niente" non ci sia data come "comprensione", ma come "emozione" tipica dell'angoscia. La differenza tra angoscia e paura è che la seconda è sempre motivata da qualcosa di preciso. L'angoscia non teme questo o quello, ma proprio quel "niente" che si fa strada quando la totalità degli enti fugge nell'insignificanza. L'esserci, che non è un ente, quando avverte di non essere un ente del mondo come gli altri, si sente "spaesato". Pertanto, l'angoscia dello spaesamento rivela quel "niente" che è l'essere a cui l'esserci è aperto originariamente. La metafisica tradizionale afferma: ex nihilo nihil fit. Dal niente non viene niente. Ma Heidegger può ora affermare che "dal niente viene ogni ente in quanto ente", anche se non nel senso che il nulla è causa dell'ente, ma nel senso che il nulla è la condizione dello svelamento dell'ente. Ancora nel 1929 uscì Sull'essenza del fondamento, lavoro nel quale Heidegger partì dall'analisi del principio di ragion sufficiente di Leibniz, che in realtà è però presente in tutta la storia della metafisica sotto il nome di causalità. Secondo Heidegger, se gli enti vengono all'essere in quanto si collocano nel mondo aperto dal progetto dell'esserci, la validità del principio di ragion sufficiente dovrà appunto venire cercata nell'esserci. L'esserci è fondamento in quanto apre l'orizzonte in cui si colloca ogni rapporto di fondazione, tuttavia tale apertura è solo un progetto che dischiude una possibilità e non una realtà, mentre è solo la realtà che può fungere da base stabile, da fondamento. L'esserci, allora, più che fondamento (Grund) è assenza di fondamento (Abgrund), meglio ancora "abisso senza fondo". Ogni forma di giustificazione razionale è radicata sull'assenza di fondamento. Anche il saggio Kant e il problema della metafisica, sempre del 1929, perseguiva la stessa direzione. In tale lavoro Heidegger reinterpretava Kant asserendo, in netta contrapposizione ai neokantiani come Natorp, Rickert e Cassirer, che il pensiero del filosofo di Königsberg non era da considerarsi come una teoria della conoscenza e tanto meno una filosofia della scienza. La Critica della ragion pura va intesa come una radicale analisi della struttura ontologica fondamentale della soggettività umana e come tentativo di fondare su tale analisi una metafisica della finitudine. Secondo Heidegger, Kant ha argomentato che la metafisica può soltanto venire fondata su una preliminare analisi della ragione finita dell'uomo. In quanto "finita" la ragione, a differenza del logos divino, dipende necessariamente dall'intuizione sensibile. Inoltre, l'introduzione da parte di Kant dello schematismo trascendentale dell'intelletto comporta la conseguenza di dissolvere sensibilità ed intelletto nella loro "radice comune", ovvero nell'immaginazione trascendentale, la cui base ultima è la temporalità. Ciò, secondo Heidegger, implica che la tradizionale fondazione della metafisica occidentale nel logos e nello spirito viene distrutta una volta per tutte. Tale interpretazione di Kant venne presentata a Davos, in Svizzera, nel corso di un seminario, un "corso universitario internazionale" svoltosi nel periodo 17 marzo - 6 aprile 1929, durante il quale si ebbe un vivace confronto tra Heidegger e Ernst Cassirer, il maggior esponente riconosciuto della tradizione neocritica della scuola di Marburgo. Cassirer aveva allora 55 anni e Heidegger meno di 40. Fu anche uno scontro di generazioni. Per Heidegger costituì un'opportunità decisiva. In contrapposizione alle tendenze razionaliste di gran parte della filosofia, presenti sia nel neocriticismo che nella stessa fenomenologia, oltre che nella scuola che si rifaceva a Frege e Russell, Heidegger presentava pubblicamente un'interpretazione radicalmente diversa, anche se non immediatamente riducibile ad un irrazionalismo. Cassirer replicò alla "strana" interpretazione di Kant dichiarandosi d'accordo con Heidegger a proposito dell'importanza dell'immaginazione trascendentale. Ma poi spiegò come la intendeva. In accordo con la propria filosofia delle forme simboliche, l'immaginazione trascendentale è ciò che mette in evidenza come l'uomo possa venir definito come "animale simbolico". E qui Cassirer si premurò di precisare che "animale simbolico" non significa circoscrivere l'uomo alla sfera "a-razionale" della finitezza. Proprio da Kant abbiamo imparato che l'uomo finito può volgersi all'infinito, penetrando nel regno della verità oggettivamente valida, necessaria ed eterna, sia nella scienza naturale fondata sulla matematica, sia nel sapere morale. Dopo di che, Cassirer chiese a Heidegger se realmente intendeva rinunciare a tale oggettività e sostenere che ogni verità è relativa all'esserci. Heidegger, pur riconoscendo l'importanza di tale domanda, disse di rifiutare qualsiasi "irruzione" in un regno non-finito. La vera missione della filosofia consiste nel rinunciare a queste tradizionali illusioni e nell'attenersi all'essenziale finitezza, che costituisce il nostro "duro destino". Heidegger: "il salto nella svolta" e l'essenza della verità Il saggio Sull'essenza della verità fu pubblicato nel 1943, ben tredici anni dopo la sua stesura iniziale. Tale scritto è importante perché delinea la "svolta" (Kehre) nel penisero di Heidegger, o come scrisse egli stesso a margine, fu qui che avvenne "il salto nella svolta". Alla base della svolta viene in luce una dottrina della verità intesa come svelatezza che può manifestarsi nella radura (Lichtung) dell'essere, e nella quale, di volta in volta, l'esserci si viene a trovare. Il saggio sulla verità contiene affermazioni che potrebbero apparire paradossali., come quella che che segue, persino logicamente, all'affermazione della necessità di aprirsi alla cosa, all'ente, affinchè l'intelletto sia adeguato alla cosa (come veritas est aedequatio intellectus et rei). Aprirsi alla cosa non significa interpretarla con categorie, secondo lo schema trascendentale kantiano, ,od anche la filosofia prima della sostanza aristotelica, ma lasciarla essere come essa è. Tale lasciar essere è la libertà che assume così il significato di essenza della veirtà. Deve essere chiaro che, allora la libertà non vuol dire che l'uomo può scegliere se aprirsi o non aprirsi all'essere, dato che l'esserci umano è già questa apertura originaria. Diventa così possibile affermare che: «Non l'uomo "possiede" la libertà come sua proprietà, bensì è vero proprio il contrario: la libertà, l'esserci ek-sistente e svelante possiede l'uomo, e ciò così originariamente che essa sola permette a un'umanità di entrare in quel rapporto con un ente come tale nella sua totalità, in cui si fonda e disegna la storia.» La verità è, per Heidegger, essenzialmente non-nascondimento. Analizzando l'etimo della parola greca alétheia, afferma che in essa viene in chiaro che esiste comunque un nascondimento sotteso alla manifestazione. Ne La dottrina platonica della verità, pubblicata nel 1942, ma anch'essa risalente al biennio 193031, Heidegger non persegue più il fine di una fondazione della metafisica sulla base dell'analitica dell'esserci. Ripensando il mutamento essenziale nell'essenza della verità che avviene in Platone, Heidegger riflette sul destino metafisico, evidenziando le sua "erranza", che appartiene alla storia dell'essere, e in tale ripensamento si prepara a un oltrepassamento (Überwindung) della metafisica. In Platone si posero le basi per le quali la verità non tanto un carattere dell'essere stesso, ma la correttezza (orthotes) dello sguardo che coglie l'essere nel suo essere presente. Questo mutamento annuncia il sorgere del tratto determinante della metafisica, definito soggettività, che sta ad indicare il primato dell'uomo in mezzo agli enti e la contemporanea dimenticanza dell'essere. Sieg Heil, Kamerad Heidegger! Heidelberg, maggio del 1933: il capo dell'associazione studentesca nazista da il benvenuto al "camerata Heidegger" nell'aula magna dell'università. Saluta col braccio levato. Heidegger, nel suo completo da contadino della domenica, risponde goffamente levando anch'egli il braccio. Poi prende la parola. Tra i presenti c'è il filosofo Karl Jaspers, il quale ricorderà: «Nella forma si trattava di un discorso magistrale ma nel contenuto costituiva un vero e proprio programma nazista di rinnovamento universitario. Heidegger chiedeva un cambiamento totale dello spirito. Disse che i professori ancora in carica erano, nella maggioranza, incapaci di affrontare il nuovo compito. Fra dieci anni però sarebbe stata pronta una nuova generazione di docenti capaci. Allora avremmo lasciato i nostri incarichi. Fino a quel momento il periodo sarebbe stato di transizione.» E' possibile che Heidegger intendesse l'inadeguatezza dei professori tedeschi come un rozzo disfattismo dello spirito? Probabilmente non solo, ma è certo che così fu inteso dalla maggioranza degli studenti e dalla esigua minoranza degli insegnanti presenti. Però è certo che in questa nostra indagine l'episodio ha la sua rilevanza perché non si possono fare discorsi contro il "disfattismo" senza ricorrere all'argomento che esso sia la negazione dello spirito umano ed in ultima istanza di un'essenza umana, da vedersi comunque come radicata nella terra e nella patria. C'è già in queste considerazioni il preludio all'intima contraddizione del pensiero heideggeriano. Nell'esistenzialismo radicale, insegna Emanuele Severino, è proprio l'essenza umana che viene negata. Ogni esistenza è un problema a sé stante. Quando Jaspers obiettò privatamente a Heidegger che non si poteva lasciare un uomo come Hitler, così privo di cultura, alla guida della Germania, Heidegger diede, a sentire Jaspers, una risposta sconcertante ed enigmatica: "La cultura non c'entra, guardi invece le sue meravigliose mani!" Era troppo per Jaspers, il quale finì per allontanarsi dall'uomo e dall'amico Heidegger, pur continuando a rispettarlo come filosofo. Questa questione del filosofo che sarebbe diverso dall'uomo, di un pensiero che mantiene la sua validità indipendentemente dalla tempra morale di chi lo esprime, è una tesi che gode oggi molto credito tra gli studiosi di filosofia, ma la verità è che nello sterminato elenco dei filosofi i nomi con una biografia discutibile sotto il profilo umano non sono poi molti. Bacone fu un mezzo furfante, ladro di stato alla corte d'Inghilterra; Rousseau fu sempre un mantenuto, con un senso della propria dignità piuttosto relativo; Max Scheler fu un rubacuori dotato di bella presenza ed un fascino irresistibile. Il che gli procurò un mare di guai. Altri, se si esclude ancora Peirce, discutibile per l'odio che era capace di nutrire per i suoi avversari intellettuali e personali, non ce ne sono venuti in mente. A fronte dei filosofi compromessi con i regimi totalitari del Novecento, quelle citate sono piccolezze: persino la disonestà di Bacone diventa una questione risibile. Molti filosofi potrebbero inoltre essere accusati di presunzione ed arroganza intellettuale, ma questo non è un reato da codice penale e nemmeno un vero codice morale potrebbe dire molto in proposito. Possono persino non piacere i cosiddetti fallibilisti perché sbandierano la falsa modestia dell'I may be wrong, but I'm sure...ma che colpa potremmo addossar loro? Ciò che colpisce nella storia della filosofia è piuttosto l'elenco dei perseguitati dai tiranni, di coloro che dovettero fuggire per non finire impiccati o messi a tacere nelle patrie galere. Ed anche l'elenco di chi fu processato, perseguitato ed ucciso per le proprie idee, o per aver reso testimonianza alla propria verità è abbastanza lungo e penoso. Per tutti si potrebbero citare Socrate e Galileo, Giordano Bruno e Michele Serveto. Pertanto, l'idea che tra uomo e lo stesso uomo filosofo sia possibile ed ammissibile uno scarto, e quindi sia legittima una doppia valutazione, finisce col cozzare contro il fatto che il pensiero è quasi sempre stato sostenuto con la coerenza tra vita e pensiero. Anche Platone ed Aristotele pagarono il fio. Se poi si guarda al massimi esponente del pensiero negativo, a Nietzsche, al quale, in molti sensi, sarebbe stato possibile, per coerenza, vivere in modi trasgressivi, si scopre, tutto sommato, una biografia piatta e priva di sussulti vitalistici davvero esplosivi. A chi cerca eroi dai comportamenti estremi, la filosofia riserva solo delusioni. Il filosofo è un animale da scrivania che passa la maggior parte del suo tempo a riflettere sulla vita degli altri. Il paradosso della vicenda Heidegger è doppiamente curioso, perché proprio lui rivendicò in prima istanza, contro l'insegnamento di Husserl che privilegiava la theoria, e contro i sistemi neokantiani ancora più slegati dalla vita quotidiana, l'inscindibilità di poiesis e praxis dalla theoria. Non solo, la cosa più sconcertante è che il pensiero di Heidegger, proprio quando questi viene coinvolto nel nazismo e nella sua politica culturale, è già delineato come una filosofia del lasciar essere le cose come sono, lasciar fiorire gli enti sullo sfondo dell'essere. E' l'esatto contrario della politica aggressiva e violenta del nazismo, che rappresenterebbe l'estrema degenerazione della metafisica occidentale, secondo quanto postulato dallo stesso Heidegger. Di questo se ne accorsero anche alcuni nazisti, tra i quali la "spia" Erich Jaensch, informatore culturale di Rosenberg e della Gestapo. Ne parleremo in fondo. Per capire la vicenda di Heidegger, ci i si potrebbe appellare al fatto che il fondo della filosofia heideggeriana è reazionario ed in quanto tale dominato da un radicale pessimismo antropologico, ma a questa visione Heidegger non ha mai fatto seguire inviti alla sopraffazione delle masse ed alla soppressione della democrazia. I nemici costanti della filosofia di Heidegger erano la metafisica antica, il modernismo soggettivista, l'illuminismo, la scienza e la tecnica che hanno obliato il senso dell'essere. Il nazismo, per ragioni ideologiche, se la prese con la scienza "ebraica" di Einstein, ma sviluppò al massimo la scienza e la tecnica "ariana" dei propri scienziati e ricercatori, con le mostruosità che poi vennero alla luce. Il bucolico conservatorismo di Heidegger non avrebbe avuto dunque nulla da spartire con la dottrina ariana. Eppure egli accettò di fare il rettore a Friburgo in quelle tristi condizioni, e credette persino di poter cavalcare la tigre, almeno fino ad un certo punto. E' noto che egli accettò anche per l'insistenza dei colleghi, che in lui vedevano l'unico professore non inviso al partito ed allo stesso tempo dotato di autonomia e prestigio in grado di salvare la capra, se non anche i cavoli. Se ciò non fu è perché il nazionalsocialismo si rivelò ben presto molto peggio del previsto, ed Heidegger non si distinse né per cieca fedeltà e nemmeno per zelo. Come rettore ebbe il coraggio di proibire la propaganda antisemita nell'Università e questo non è poco. I suoi maestri (Husserl, in primo luogo) furono in parte ebrei, e tra i suoi allievi più promettenti e consistenti il numero di ebrei era rilevantissimo, da Hannah Arendt a Herbert Marcuse. Tuttavia non può sfuggire che il vero motivo per cui Heidegger non era inviso ai capi del partito non era legato alla sua filosofia "ufficiale", ma all'interpretazione della sua filosofia che egli lasciava colpevolmente circolare, una filosofia che, opponendosi in modo frontale alla tradizione razionalista dell'Occidente, prestava il fianco all'irrazionalismo vero e proprio. Heidegger era in rapporto con i capi dell'ideologia nazionalsocialista ben prima che il partito prendesse il potere. Heidegger fu a lungo convinto che Hitler avrebbe svolto un ruolo positivo e "destinale" per la Germania, elevandosi da capo di un partito a Führer della nazione. Secondo molte testimonianze, egli fu anche segretamente e intimamente antisemita, mentre sua moglie Elfrida lo fu anche apertamente. In più di una circostanza egl favorì la carriera di professori vicini al regime e lavorò contro i democratici. Vide cadere in disgrazia Husserl, Krebs, la crema dell'intellettualità e della scienza tedesca senza battere ciglio, anzi tagliando con loro ogni rapporto. Non fu mai veramente capace di una genuina "ritrattazione". Indubbiamente consapevole del gigantesco errore commesso, specialmente quando fu noto quello che molti sospettavano, ma nessuno osava dire, cioè che esistevano "forni crematori", si rifugiò in una singolarissima forma di difesa per la quale: «Chi pensa in modo elevato deve sbagliare in modo abissale.» Non precisò se lo sbaglio era stato di ordine teoretico o pratico. La tendenza attuale è quella di considerarlo un errore politico ed è noto che Heidegger, proprio per il tipo di riflessione che si era scelto, non capiva granché di politica e di affari, come vivesse davvero in un altro mondo, come non fosse altro che l'eremita di Todtnauberg, fieramente isolato a contemplare l'essere e destinato a diventare guida spirituale lanciando lampi dalla montagna e "ungendo" capi alla maniera del profeta Samuele.. Tuttavia, anche questa interpretazione pare vacillare di fronte alla consistenza dei discorsi "politici" di Heidegger in quanto rettore. Egli coltivò davvero l'ambizioso progetto di rifondare l'Università e la cultura tedesca sulle basi della sua filosofia. Egli pensò davvero di pensionare i professori protestanti, ebrei, positivisti vecchi e nuovi, per sostituirli con "heideggeriani", iniziando così un nuovo corso. Non c'è altra spiegazione. L'idea centrale che ispira la prolusione pronunciata a Friburgo è che si deve ricominciare. L'inizio non è alle nostre spalle, ma là, davanti a noi. Heidegger prova a far passare una nuova idea di filosofia prima senza nominare l'ebreo Husserl, ma solo citando sé stesso. Egli vuole riaffermarla come nuovo fondamento. Epistemologicamente parlando, diceva Heidegger, non abbiamo più alcun principio. Dobbiamo rintracciarlo e il primo punto è l'autoaffermazione delle facoltà e dei politecnici. Occorre che questi istituti custodi del sapere "riprendano sulle loro spalle le questioni essenziali e semplici della scienza da cui traggono origine." Ciò impone che il programma teorico non sia disgiunto dal programma politico. Professori e studenti devono essere al servizio del popolo e della nazione. Tra i compiti fondamentali - dice Heidegger - noi individuiamo "il servizio del sapere, il servizio delle armi e il servizio del lavoro". Tali compiti sono strettamente connessi e solo se raccolti in un'unica forza, il Reich ed il popolo tedesco, essi verranno assolti pienamente. Così concludeva Heidegger: "Noi vogliamo noi stessi. Così ha già deciso la giovane e giovanissima forza del popolo che si muove e che si è posta in cammino al di sopra di ognuno di noi." Si può equivocare? Il fallimento delle ambizioni di Heidegger si consumò in un brevissimo lasso di tempo. Il 23 aprile del 1934 egli rassegnava la dimissioni da rettore. Martin Ott suggerisce che «invece di riconoscerlo [l'errore, ndc] Heidegger si cercò dei capri espiatori a cui poter addossare il fallimento e prendersela con chi non aveva capito l'"inesorabilità di quel compito spirituale che il destino del popolo tedesco lo obbliga a imprimere nella storia".» (1) Il rettorato di Heidegger, prosegue Ott, non solo rispetto all'ambiente di Friburgo, ma nei confronti di tutta l'università tedesca. Dovevano sorgere una nuova scienza filosofica, nuovi insegnanti "pastori dell'essere" e "sentinelle del nulla", e non avvenne nulla di tutto ciò. «Così Heidegger fu abbandonato a se stesso, tagliato fuori dalla creazione dello Stato dei tedeschi, messo al margine del grande fiume della storia. Egli trovò le risposte in Friedrich Hölderlin, e da allora il suo pensiero fu del tutto affine al poetare. I pensatori che ascoltano la parola del poeta, anche quando essa sia "ancora inascoltata, custodita nella lingua occidentale dei tedeschi", sanno che la storia è "rara": il kairos, l'evento storico in senso proprio, è raro perché "storia è solo quando l'essenza della verità è colta nel modo originario". L'evento si era verificato nel 1933, ma i tedeschi non lo avevano riconosciuto e non ne avevano capito l'interprete.» (2) Tali osservazioni potrebbero essere discusse all'infinito. Noi le abbiamo trovate "utili" al fine di mettere a fuoco un percorso che infondo ci pare realisticamente rispondente al carattere di Heidegger, alle sue ambizioni filosofiche, al suo sogno di rigenerare un nuovo aurorale rapporto tra l'uomo e l'essere. Quando si parla dell'adesione di Heidegger al nazismo, tuttavia, in genere si omette o si trascura la seconda parte della storia. Ott ha rispolverato documenti importanti, dai quali traspare non solo che in un primo tempo Heidegger fu ben considerato da "alcuni" capi nazisti ma, che in un secondo tempo egli fu messo sotto stretta osservazione. Una "nota informativa" di Erich Jaensch e destinata al potente gerarca Alfred Rosenberg diventa essenziale alla comprensione. Secondo Jaensch, Heidegger, durante il periodo di Marburgo, sarebbe stato il capo di una cricca giudaica. A conferma, egli aveva abilitato all'insegnamento Karl Löwith, mezzo ebreo. Uomo di smisurate ambizioni, secondo Jaensch, Heidegger sarebbe in ciò stato supportato ed istigato dalla moglie per "il desiderio di mettersi in luce". «Il pensiero di Heidegger proseguiva la nota - ha esattamente il carattere del pensiero talmudico-sofistico. Esso attrae ebrei, discendenti di ebrei e individui simili a loro nella struttura psicologica, che è sempre stata la loro grande forza di attrazione. Se Heidegger potrà esercitare un'influenza determinante sulla formazione e sulla selezione della nuova generazione ciò significherà, senza dubbio, che la selezione nelle università e nella vita spirituale sarà a favore della stirpe giudaica che ancora è rimasta fra noi.» (3) Secondo la "spia" Jaensch, dunque, se Heidegger avesse continuato a insegnare ed operare nell'università, data la sua innata abilità psicologica, avrebbe provocato "una patologia spirituale" se non una vera e propria "psicosi di massa". Ciò evidenziato, un'altra domanda si pone infine con grande evidenza: una volta levata la maschera al falso Heidegger, perché il regime non lo pensionò anticipatamente? Perché non lo mise a tacere? Per ora, in attesa che valenti storici scoperchino tutti gli archivi, non resta che credere che i capi nazisti preferirono non toccare Heidegger perché troppo famoso all'estero. note: (1) citazione tratta da Hugo Ott - Martin Heidegger: sentieri biografici - Sugarco 1990 (2) idem (3) idem Heidegger: Introduzione alla metafisica Perché esiste l'ente e non piuttosto il nulla? Questa è la domanda fondamentale, a cui non si è mai data completa risposta. Se spostiamo l'attenzione dalla prima parte della domanda a quell'aggiunta, comprendiamo il senso profondo della domanda. Se ci fermiamo alla prima parte, saremo tentati dalla via effettivamente seguita, dall'odos della metafisica, cioè dalla risposta di tipo causale. Esiste questo ente e quell'altro, quell'altro ancora, perché ci fu questa situazione, poi quest'altra. Dal nulla non può venire qualcosa, e così via. La tradizionale ricerca di cause, da Platone mostrate con il mito verosimile del demiurgo creatore, e da Aristotele spiegate con la metafisica e l'asserzione del mondo eterno, esistente da sempre, nasce comunque la scienza moderna. Non poteva non nascere. Le basi erano già poste: causalità; per Platone il demiurgo ha fatto il mondo, per Aristotele Dio muove il mondo, stando fermo e attraendo, quindi provocando il movimento. Con tali spiegazioni, che hanno comunque un carattere mitico e indimostrabile, troviamo una causa, un'origine, e tutto si spiega. La scienza contemporanea è arrivata al big bang. E' arrivata a riconoscere che oltre alla "causa", devono esistere "condizioni", che all'origine delle condizioni esistono cause delle condizioni, alla fine ci ritroviamo a scienziati che si chiedono cosa fosse fosse prima del big bang, e non si sa. Orbene, Heidegger trascura tutto ciò, per arrivare a quello che per lui è il vero problema: cioè la seconda parte della domanda, la quale, detto per inciso, smonta anche la troppo facile logica hegeliana che ha come cominciamento "l'essere che trapassa nel nulla ed il nulla che trapassa nell'essere", come non fosse mai esistito un Anassimandro che ha parlato dell'apeiron, cioè dell'infinito ed indeterminato (che non è il nulla) come origine di tutti gli enti. L'infinito di Anassimandro non è il nulla, ma essere senza particolari determinazioni. Neanche Anassimandro, dunque, è arrivato alla domanda heideggeriana nella sua radicalità. Nemmeno Parmenide. L'affermazione che l'essere è, il non essere non è, non giunge a chiedersi il perché esiste l'ente e non il nulla. Del resto, al di fuori della domanda filosofica, non si trova altra risposta che quella delle religioni rivelate: tutto è perché Dio lo ha voluto. Esse non spiegano il perché esiste Dio. Si limitano a suppore dei "perché abbia voluto il mondo"che non brillano per il loro particolare acume. Perché Dio si sentiva solo, si legge; per amore della sua creatura. Sono spiegazioni psicologistiche. Resta che anche Dio, qualora esistesse, sarebbe parte dell'essere e non al di fuori dell'essere, e questa è pura intuizione heideggeriana. Tutto questo per dire che l'attenzione di noi interroganti, semplicemente aprendosi al senso originario del nostro domandare, giunge a comprendere che quel "e non piuttosto il nulla" non è un chiarimento superfluo alla domanda, ma parte essenziale della domanda stessa. L'ente è perché non è nulla. In quanto non-nulla, cioè negazione di una negazione radicale, esso è. Proprio perché l'uomo di fronte all'assentarsi dell'ente, al suo sparire nella morte, avverte il nulla, egli si apre, può aprirsi, alla comprensione dell'essere dell'ente. Ovviamente, l'uomo in questione, non è quello della ragione calcolante preoccupato esclusivamente di mettere a frutto le risorse della terra e della natura, ma l'uomo aperto alla totalità, quindi anche al nulla. Come si deve pensare il nulla, quel ni-ente, che si palesa con la scomparsa dell'ente? Heidegger conduce all'impensato ancora da pensare. Che è il senso della domanda filosofica. Ma la filosofia, fin dal suo sorgere, si è fatta dominare e fuorviare da una logica rivolta solo all'ente presente. E' ancora tutto da pensare l'essere come identità col niente. Per intendere tale identità occorre allora distinguere ciò che l'ente è da ciò che lo fa essere ente piuttosto che non-ente. Ora, tale distinzione, secondo Heidegger, era già presente nel pensiero greco alle origini della filosofia. Ma essa si è obliata. Noi oggi possiamo tornare al punto e riformulare la domanda in altri termini: che ne è dell'essere dell'ente? Secondo Heidegger, la logica oggettivante della metafisica non è in grado di rispondere proprio perché l'essere non può venir ridotto a concetto e quindi a oggetto. Anzi, di fronte all'apparire dell'ente, l'essere sembra dileguarsi e cercare di prenderlo, afferrarlo, comprenderlo, è come stringere l'aria. L'essere non è un ente, è ni-ente, cioè nulla di particolare, pur non essendo il nulla come non-essere assoluto. Pertanto l'identità di essere e ni-ente può essere intesa solo da un pensiero che non confonde ni-ente e nulla, ma riesce a riportare detta identità a quel significato estensivo per il quale ogni ente è anche ciò che lo fa essere. Tale significato estensivo è la trascendenza. Ma non confondiamo di nuovo: la trascendenza di cui parla Heidegger non è quella dell'ente sommo, Dio, ovvero onnipotenza capace di fondare l'esistenza sul nulla, e di crearla dal nulla. Quella indicata da Heidegger è la trascendenza dell'essere che, procedendo "oltre" l'ente, non è ente a sua volta. Ed è proprio perché è ni-ente di ente, tale "oltre" consente all'ente di apparire come esso è. Non essendo stata in grado di mettere a fuoco il problema del nulla e, soprattutto tale conseguente differenza tra nulla e ni-ente, la metafisica ci ha portato all'oblio dell'essere. Tuttavia, per Heidegger, ciò non è un'imperdonabile dimenticanza umana, una svista fatale. L'oblio dell'essere va inteso come tratto costitutivo della nostra storia. Esso «non è qualcosa di estraneo, davanti al quale ci troviamo e che ci è dato unicamente accettare nella sua esistenza, come qualcosa di accidentale. Esso, invece, è la situazione stessa in cui ci troviamo. E' uno stato della nostra esistenza, ma non certo nel senso di una proprietà accertabile psicologicamente. Per "stato" intendiamo qui designare l'intera nostra costituzione, il modo in cui noi stessi siamo costituiti in rapporto all'essere.» "Nietzsche" Gli scritti pubblicati nel 1961 sotto il titolo Nietzsche contengono il testo delle lezioni tenute da Heidegger tra il 1936 ed il 1940 insieme a molti scritti ad esse relativi composti nel decennio 19361946. Tali scritti affrontano la relazione tra storia e metafisica, constatano la fine di quest'ultima e vorrebbero mostrare la necessità del suo superamento. Per Heidegger non si deve pensare la storia come semplice successione di epoche "quasi un nastro o filo che annoda le epoche" per dedurle l'una dall'altra. La vera storia è quella dell'epoché, termine da intendersi in modo diverso da Husserl, quindi non come sospensione del giudizio, ma come assentarsi dell'essere. In realtà, ogni epoca, dopo un inizio segnato da un massimo di rivelazione dell'essere, e quindi da un minimo di occultamento, si è sempre conclusa con un massimo di occultamento ed un minimo di rivelazione. C'è un epoca propria della metafisica, iniziata nel mondo greco con la massima rivelazione dell'essere nella physis. Essa si è conclusa al tempo del soggettivismo moderno nel massimo occultamento della stessa physis, che ha raggiunto il proprio culmine con la filosofia di Nietzsche. Per comprendere veramente Heidegger, occorre dunque intendere come egli vede l'assentarsi dell'essere: «Ciò che propriamente accade è la solitudine dell'essere dell'ente; accade ciè che l'essere abbandona l'ente a sé stesso e in ciò si rifiuta.» Ma questo nascondersi-rifiutarsi, ancora secondo Heidegger, consente all'ente stesso di emergere. Quindi il rifiuto dell'essere è l'avvenire dell'essere dell'ente. Ne viene che ciò che va pensato rispetto alle varie epoche è proprio ciò che non viene mai pensato, perché nascosto nell'epoché dell'essere, cioè nel suo nascondersi-rifiutarsi. Proprio Nietzsche concepì l'essere dell'ente come volontà di potenza, la quale vuole sé stessa, e non ha altro termine da raggiungere che non sia la pura e semplice esplicazione di se medesisma. Il telòs di Aristotele, la ricerca del sommo bene di Platone e di Socrate sono quindi destinati, fin dall'inizio, a naufragare nel nichilismo. Grecità, mondo romano, pensiero medioevale, modernità e illuminismo segnano le tappe di questo progressivo occultamento dell'essere. Col mutamento essenziale verificatosi con il mito della caverna di Platone, l'essere ha cominciato a ritrarsi, e nello spazio lasciato vacante dalla sua pienezza si è instaurato il primato dell'ente. In questo senso, la storia della metafisica non è altro che vicenda della dimenticanza dell'essere, quindi nichilismo, visto che "l'essenza del nichilismo è la storia nella quale dell'essere non ne è più niente." Anche il cristianesimo è complice della dimenticanza. «Con [esso] la domanda che chiede che cosa sia l'ente sembra nel frattempo aver trovato una risposta definitiva ed essere stata accantonata in quanto domanda. [...] La rivelazione biblica, che secondo la sua stessa indicazione poggia su un'ispirazione divina, insegna che l'ente è stato creato da un Dio creatore personale e da lui viene retto e governato. Con la verità rivelata, proclamata dalla dottrina della Chiesa come assolutamente vincolante, la domanda che chiede cosa sia l'ente è diventata superflua. L'essere dell'ente consiste nel suo essere creato da Dio (omne ens est ens creatum) [...] Coloro che trattano in questo modo di ciò che l'ente nel suo insieme è sono "teologi". La loro "filosofia" è tale solo di nome, perché una "filosofia cristiana" è ancora più assurda di un cerchio quadrato. [...] A ben guardare, però, la doctrina christiana non vuole trasmettere un sapere sull'ente,, su ciò che esso è, ma la sua verità è senz'altro verità di salvezza. Si tratta di assicurare la salvezza dell'anima individuale immortale. Tutte le conoscenze sono riferite all'ordine della salvezza e stanno al servizio dell'assicurazione e della promozione della salvezza.» Nell'età moderna la centralità dell'uomo assume la massima evidenza: si sostituisce all'essere per assicurarsi il possesso incondizionato dell'ente. Così l'umanism, sorto con Platone, si libera della soggezione alla teologia e si presenta come l'incondizionato che condiziona i caratteri di ogni ente. anzi, l'ente diventa oggetto, e la verità consiste nel rappresentare (vor-stellen) l'oggetto nel senso di porselo davanti. Conoscere diventa "rappresentare", e l'uomo diventa "luogo della verità", abbandonando da un lato il realismo dell'aedequatio (ossia la corrispondenza dell'intelletto con la cosa), per assumere l'atteggiamento della certezza (Gewissenheit). La forma della certezza corrisponde a come il mondo viene formato (gebildet) dall'immagine. "Immagine del mondo" significa perciò che il mondo è così come noi lo vediamo. Rifacendosi all'etimo della parola matema (anticipazione), Heidegger definisce matematico il vedere anticipante. Ed è così, attraverso la visione matematica, che l'uomo si presenta l'ente come oggetto del soggetto. L'uomo è al centro, è il "centro", e da qui dispiega tutta la sua potenza scientifica e tecnica attraverso il calcolo e la pianificazione. Ecco che la scienza occidentale, avviata da Platone con la separazione dell'ente dall'essere, può disporre dell'ente come oggetto a volontà. La lettera sull'umanismo La lettera sull'umanismo, originariamente inviata a Jean Beauffret, chiarisce in maniera decisiva che il pensiero di Heidegger non è più riconducibile al soggettivismo ed all'esistenzialismo. Nel 1946, Jean Paul Sartre aveva pubblicato L'esistenzialismo è un'umanismo, testo nel quale veniva enunciata la tesi del necessario sbocco politico della linea elaborata con L'essere e il nulla. Se l'esistenza viene prima dell'essenza, questa era la posizione di Sartre, allora occorre partire dalla soggettività. L'uomo è in ogni circostanza costretto ad inventare l'uomo; su di lui cade la responsabilità totale dell'esistenza. Egli deve cercare uno scopo fuori di sé, solo così si realizzerà come essere umano. Heidegger risponde a Sartre, sia pure in maniera indiretta. «Il pensiero non è solo l'engagement dans l'action per e mediante l'ente, nel senso del reale della situazione presente. Il pensiero è l'engagement per e attraverso la verità dell'essere [...] quel che conta è l'essere, non l'uomo.» L'uomo giunge al centro di ogni discorso solo dopo aver spodestato l'essere dalla sua centralità. Questa forma mentis è immodificabile se ci si mantiene all'interno della metafisica che concepisce l'essenza dell'uomo a partire dalla sua natura animale. Anche se poi, la stessa metafisica rintraccia all'interno del suo modo di pensare la differenza specifica che fa dell'uomo un animale diverso dagli altri. Trovata la diversità nel linguaggio e nel pensiero razionale, questi aspetti particolari furono ridotti a strumento dagli antichi metafisici, strumenti al servizio della vita animale da cui si era partiti per definire l'uomo. Ma proprio ciò ha precluso la via nella direzione dell'humanitas. Secondo Heidegger, avendo per scopo solo quello di vivere e conservarsi il più a lungo possibile, il meglio possibile, l'uomo sarà diverso dagli animali solo perché impiega linguaggio e ragione in luogo dell'istinto. In questa mentalità biologista la situazione non può essere corretta neppure considerando che l'uomo ha un'anima, uno "spirito" ed una "coscienza". Tutto ciò, infatti, non fa altro che sviluppare le funzioni del biologismo. Quindi, anche la coscienza non prescinderà mai dal considerare l'ente solo in vista della sua utilizzazione, senza mettere in chiaro che la coscienza comprende non perché spinta dall'istinto biologico, ma perché fondata su quell'originaria apertura all'essere in cui consiste l'uomo. L'uomo è cosciente degli enti perché aperto all'essere. Ma l'uomo, come esserci, non può decidere dell'essere, come invece pretendono la scienza e la tecnica moderna. E' l'esserci dell'uomo a essere deciso dall'essere. Giocando, come suo solito sul significato di alcune parole e forzandone in buona misura il senso Heidegger insiste in particolare sui concetti di "destino" e "soggiorno". Ribadendo che la storia occidentale è tempo dell'oblio dell'essere, Heidegger riafferma che in essa non può che prodursi lo smarrimento dell'uomo. Questo è il suo destino. Eppure l'uomo dimora e soggiorna nell'essere. Non può scegliersi altra dimora, se vuole essere uomo. Ma questo soggiornare nella massima vicinanza all'essere si è smarrita nella speculazione filosofica occidentale, avendo essa un'esclusiva attenzione per l'ente. Solo l'essere può porsi come autentico nómos, non solo legge, ma l'indicazione nascosta che proviene dalla "ventura dell'essere". Secondo Heidegger tale acquisizione sarebbe importante, anzi, decisiva, in quanto solo la ventura dell'essere che riempie l'apertura originaria all'essere, quell'esserci in cui consiste l'uomo, può contenere indicazioni aventi per l'uomo carattere di obbligatorietà. Altrimenti ogni legge rimarrà un fatto imposto dall'umana ragione. «Più essenziale di ogni istituzione di regole è che l'uomo si trovi ad abitare nella verità dell'essere.» L'uomo, come manifestazione dell'essere, da un lato è grande proprio per questa sua caratteristica, dall'altro, per la sua finitezza, è condannato ad essere solo spettatore della manifestazione dell'essere. La finitezza dell'uomo, la sua non-potenza sull'ente, custodisce la sua superpotenza espressa dalla libertà a proposito di ciò che nell'apertura si manifesta. Heidegger e la questione della tecnica «E tuttavia, proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. E' l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso.» a Ciò che contraddistingue l'umanismo nella modernità è che l'uomo come soggetto considera l'ente come ente solo se è oggetto, ovvero solo se l'ente vien posto-di-contro (ob-jectus, Gegen-stand) a un soggetto, la cui attività consiste nel rappresentare (vor-stellen) davanti (vor). Essenza della modernità umanista è la ricerca scientifica la quale a, sua volta, è essenzialmente rappresentazione. Essa consiste nell'anticipazione mentale delle condizioni che rendono possibile a qualcosa di rivelarsi per quello che è. Condizione per il manifestarsi dell'ente non è più l'essere, ma il progetto matematico dell'uomo. In questo modo il soggetto non solo diventa condizione del presentarsi dell'ente, inteso come oggetto posto-di-contro, ma se ne assicura l'accadimento con la rappresentazione anticipata delle condizioni che ne garantiscono l'essere. Si realizza così il dominio dell'ente a opera dell'uomo. L'oggetto-ente viene in chiaro nei modi in cui era stato progettato, come ad esempio quando ci facciamo un cd, viene esattamente come l'avevamo sperato e progettato grazie alla tecnologia. Ciò che l'uomo vuole diviene il valore, come valutato degno di essere. Ma, percorrendo questa via, l'uomo diventa l'unico luogo della verità, la quale non è più alétheia, nel senso di non-nascosto, e nemmeno la sua successiva versione ridotta di adaequatio - cioè corrispondenza dell'intelletto alla cosa - ma assume il carattere cartesiano di certezza soggettiva (Gewissenheit). Essa esprime nella forma più estrema l'assorbimento dell'ente nella soggettività umanista. A questo punto, scrive Heidegger, il fatto decisivo «non è la liberazione dell'uomo dai legami precedenti, ma la trasformazione che avviene nella sua stessa essenza quando l'uomo si pone come il soggetto. Dobbiamo senz'altro intendere questa parola subjectum come la traduzione del greco hypokeìmenon. La parola indica ciò che-sta-prima, ciò che raccoglie tutto in sé come fondamento. Questo significato metafisico del concetto di soggetto non ha originariamente alcun particolare riferimento all'uomo, o meno ancora all'Io. Ma il costituirsi dell'uomo a primo e autentico subjectum porta con sé quanto segue: l'uomo diviene quell'ente in cui ogni ente si fonda nel modo del suo essere e della sua verità. L'uomo diviene il centro di riferimento dell'ente in quanto tale. Dove si rivela questo mutamento? Qual è, in conseguenza di ciò, l'essenza del mondo moderno?» (1) Che cos'è la tecnica? Nel saggio La questione della tecnica (da una conferenza del 18 novembre 1953), Heidegger risponde alla domanda sulla tecnica cominciando col dire che «Tutti conoscono le due risposte che si danno alla nostra domanda. La prima dice: la tecnica è un mezzo in vista dei fini. L'altra dice: la tecnica è un'attività dell'uomo. Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un'attività dell'uomo. All'essenza della tecnica appartiene l'apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo, o in latino, un instrumentum. La rappresentazione comune della tecnica, per cui essa è un mezzo e un'attività dell'uomo, può perciò denominarsi la definizione strumentale e antropologica della tecnica. Chi vorrà negare che sia esatta? Essa si conforma chiaramente a ciò che si ha davanti gli occhi quando si parla di tecnica. La definizione strumentale di tecnica è così straordinariamente esatta che vale anche per la tecnica moderna, la quale peraltro viene generalmente considerata, e con una certa ragione, qualcosa di completamente diverso dalla tecnica artigianale del passato. Anche una centrale elettrica, con le sue turbine ed i suoi generatori, è un mezzo apprestato dall'uomo per uno scopo posto dall'uomo...» (2) La rappresentazione strumentale della tecnica condiziona ogni sforzo di condurre l'uomo ad un giusto rapporto con la tecnica. La tecnica deve servire lo spirito. Si vuole così dominare la tecnica, ma essa può sfuggire al controllo. «Ma nell'ipotesi che la tecnica non sia un puro mezzo - si chiede Heidegger - che ne sarà della volontà di dominarla?» (3) La definizione data è certamente esatta, ma non è detto che sia vera. Solo il vero ci può condurre a svelare l'essenza della tecnica. La definizione strumentale non ci mostra l'essenza della tecnica. Dobbiamo domandarci cosa sia la strumentalità. A cosa ci fanno pensare elementi come mezzo e fine. Heidegger a questo punto evidenzia il rapporto di causalità esistente tra mezzo e fine. Analizza il concetto di causa così come è stato posto dalla metafisica. E, dopo essersi chiesto "in base a che cosa il carattere di causa delle quattro cause si definisce così unitariamente da far sì che esse siano reciprocamente connesse", afferma: «Fino a che non ci dedicheremo a questi problemi, la causalità, e con essa la strumentalità, e insieme con questa la definizione corrente della tecnica, resteranno qualcosa di oscuro e nonfondato.» (3) Le cause La dottrina delle cause risale ad Aristotele. La causa è ciò che opera per produrre degli effetti. Ma ciò che tutto il pensiero ha cercato "presso i greci sotto la rappresentazione e il nome della 'causalità' non ha assolutamente nulla a che fare con l'operare e l'effettuare". "Le quattro cause sono i modi, tra loro connessi, dell'esser-responsabile." Heidegger fa un esempio che vorrebbe essere illuminante. Lo riprendiamo per intero: «L'argento è ciò di cui il calice è fatto. In quanto materia di esso, è corresponsabile del calice. Questo deve all'argento ciò in cui consiste. Ma l'oggetto sacrificale non rimane debitore solo dell'argento. In quanto calice, ciò che è debitore dell'argento appare nell'aspetto di calice e non di fibbia o di anello. L'oggetto sacrificale è quindi anche debitore dell'aspetto di calice. L'argento, in cui l'aspetto di calice è fatto entrare, e l'aspetto in cui l'rgento appare, sono entrambi corresponsabili dell'oggetto sacrificale. Responsabile di esso rimane però, anzitutto un terzo. Questo è ciò che preliminarmente racchiude il calice nel dominio della consacrazione dell'offerta. Da questo esso è circoscritto come oggetto sacrificale. Ciò che circoscrive de-finisce la cosa. Ma con tale fine la cosa non cessa, anzi a partire da essa comincia ad essere ciò che sarà dopo la produzione. Ciò che de-finisce e compie, in questo senso, si chiama in greco telos, termine che troppo spesso si traduce con "fine" o "scopo" travisandone il senso. Il telos risponde di ciò che, come materia e come aspetto, è corresponsabile dell'oggetto sacrificale. C'è infine un quarto corresponsabile della presenza e dell'esser disponibile dell'oggetto sacrificale compiuto: è l'orafo, ma non in quanto egli operando, causi il calice compiuto come effetto di un fare, cioè non in quanto causa efficiens. La dottrina di Aristotele non conosce né la causa che si indica con un tal nome, né usa un termine greco corrispondente. L'orafo considera e raccoglie i tre modi menzionati dell'esser-responsabile. Riflettere, considerare, in greco si dice legein, lògos. Questo si fonda sull'hypokeìmenon, il far apparire. L'orafo è corresponsabile come ciò da cui la produzione e il sussistere del calice sacrificale ricevono la loro prima emergenza e la conservano. I tre modi dell'esser-responsabile menzionati prima devono alla considerazione dell'orafo il fatto ed il modo del loro apparire ed entrare in gioco nella produzione del calice sacrificale. Nell'oggetto sacrificale presente e disponibile si dispiegano quindi quattro modi dell'esser responsabile. Sono distinti fra loro e tuttavia connessi. Che cos'è che li tiene preliminarmante uniti? A che livello si costituisce la connessione dei quattro modi dell'essere responsabile? Donde proviene l'unità delle quattro cause? Che cosa significa, insomma, pensato in modo greco, questo esser responsabile? Noi moderni siamo troppo facilmente inclini a intendere l'esser responsabile in senso morale, come una mancanza, oppure a interpretarlo come un operare. In entrambi i casi ci precludiamo la via a capire il senso originario di ciò che più tardi è stato chiamato causalità. Finché questa via non è aperta, neppure potremo scorgere che cosa sia propriamente la strumentalità che si fonda sulla causalità. Per difenderci da tali fraintendimenti dell'esser-responsabile, cerchiamo di chiarire i suoi quattro modi a partire da ciò di cui essi rispondono. Nel nostro esempio, essi rispondono dell'esser dinanzi a noi e disponibile del calice d'argento come oggetto sacrificale. L'esser dinnanzi a noi e l'esser disponibile caratterizzano la presenza di una cosa-presente. I quattro modi dell'esser-responsabile portano qualcosa all'apparire. Fanno sì che questo qualcosa si avanzi nella presenza. Essi lo liberano per questo suo avanzare, cioè per il suo compiuto avvento. L'esser responsabile ha il carattere fondamentale di questo lasciar-avanzare nell'avvento. Nel senso di questo lasciar avanzare l'esserresponsabile è il far avvenire. Sulla base del senso che i greci annettevano all'esser-responsabile, alla aitia, noi diamo ora all'espressione far-avvenire un significato più ampio, in modo che esso indichi l'essenza della causalità nel senso greco. Il significato comune e ristretto del termine "cagionare" esprime invece solo qualcosa come una spinta od un impulso iniziale, e indica una specie secondaria di causa nell'insieme di causalità. In che ambito si dispiega la connessione dei quattro modi del far-avvenire? Essi fanno avvenire nella presenza ciò che non è ancora presente. Essi sono dunque tutti egualmente dominati da un portare, quello che porta ciò che è presente all'apparire. Che cosa sia questo portare, ce lo dice Platone in un passo del Simposio: "Ogni far-avvenire di ciò che -qualunque cosa sia - dalla non presenza passa e si avanza nella presenza è pro-duzione".» (4) La tecnica come dis-velamento Anche la natura è produzione, anzi lo è "nel senso più alto", come ad esempio "lo schiudersi del fiore nella fioritura". Ma differenza è che ciò che è prodotto dall'arte e dal lavoro manuale, non ha "il movimento iniziale della pro-duzione in sé stesso, ma in un altro, nell'artigiano e nell'artista". E che cos'è, allora, la pro-duzione, se non quel far-avvenire che "conduce fuori del nascondimento nella disvelatezza? "Pro-duzione si da solo in quanto un nascosto viene nella disvelatezza". Che è poi il senso greco della parola verità, dell'aletheia. "Ma dove siamo andati a perderci? - sbotta Heidegger - Il nostro problema è quello della tecnica, e ora siamo arrivati all' aletheia, al disvelamento. Che ha da fare l'essenza della tecnica con il disvelamento? Rispondiamo: tutto". Nel disvelamento si fonda ogni produzione. Questa riunisce in sé i quattro modi del far-avvenire, la causalità, e li regge. Fine, mezzo e strumentalità sono in quest'ambito. "Se poniamo con ordine il problema di che cosa sia veramente la tecnica concepita come mezzo, arriviamo passo a passo al disvelamento. In esso si fonda la possibilità di ogni azione producente." La tecnica è un modo del disvelamento. Anche la tecnica moderna è tale. Essa si fonda sul motore e sulle scienze esatte. "Intanto però ci si è resi conto più chiaramente che è vero anche l'opposto, e cioè che la fisica moderna, in quanto sperimentale, dipende a sua volta da apparecchiature tecniche e dal progresso nella costruzione degli apparecchi." Questo legame reciproco però non dice nulla circa la radice su cui questo legame si fonda. Rimane aperta la questione decisiva della tecnica. «Ch ecos'è la tecnica moderna? Anch'essa è disvelamento. Solo quando fermiamo il nostro sguardo su questo tratto fondamentale ci si manifesta quel che vi è di nuovo nella tecnica moderna. Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un pro-durre nel senso della poiesis. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è una pro-vocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata.» (5) E' in atto un richiedere che pro-voca le energie della natura, che un pro-muovere in un duplice senso. «Esso promuove in quanto apre e mette fuori. Questo promuovere, tuttavia, rimane fin da principio orientato a promuovere, cioè a spingere avanti, qualcosa d'altro verso la massima utilizzazione ed il minimo costo. Il carbone estratto nel bacino carbonifero non è richiesto solo affinché sia in generale e da quache parte disponibile. Esso è immagazzinato, cioè "messo a posto" in vista dell'impiego del calore solare in esso accumulato. Quest'ultimo viene provocato a riscaldare, e il riscaldamento prodotto è impiagato per fornire vapore la cui pressione muove il meccanismo mediante il quale una fabbrica resta in attività.» (6) Anche il fiume Reno è impiegato in tal modo, "incorporato in una centrale" e di esso rimane solo l'oggetto impiegabile da una società di viaggi che vi ha messo su un'industria delle vacanze. Questa è la modernità. L'energia nascosta nella natura viene dis-velata e la tecnica non è altro che un continuo richiedere nel senso della provocazione. Ciò che così è impiegato è il "fondo". La natura è un "fondo" a disposizione. L'uomo è parte del "fondo", appartiene al "fondo" ma, non mai puro "fondo" «La parola "fondo" prende qui il significato di un termine-chiave. Esso caratterizza nientemeno che il modo in cui è presente tutto ciò che ha rapporto al disvelamento pro-vocante. Ciò che sta nel senso del "fondo", non ci sta più di fronte come oggetto. Eppure un aereo da trasporto che sta sulla sua pista di decollo è ben un oggetto. Sicuro. Possiamo rappresentarci la macchina in questi termini. Ma in tal caso essa si nasconde nel che cosa e nel come del suo essere. Si disvela, sulla sua pista, solo in quanto "fondo", nella misura in cui è impiegata per assicurare la possibilità del trasporto. In vista di ciò bisogna che essa, in tutta la sua struttura, in ognuna delle sue parti costitutive, sia pronta all'impiego, cioè pronta a partire. (Qui sarebbe il luogo di discutere la definizione hegeliana della macchina come strumento indipendente.) Confrontata con lo strumento del lavoro artigianale, questa caratterizzazione è giusta. Solo che, appunto, la macchina viene in tal modo pensata in base all'essenza della tecnica, alla quale invece appartiene. Vista dal punto di vista del "fondo", la macchina è il puro e semplice contrario dell'indipendenza; essa ha infatti la sua posizione solo in base all'impiego dell'impiegabile. Il fatto che, in questo nostro sforzo di mostrare la tecnica moderna come disvelamento pro-vocante, si facciano avanti termini come "richiedere", "impiegare", "fondo", e si accumulino in un modo scarno, uniforme e perciò anche noioso - tutto questo- ha la sua ragion d'essere in ciò che qui viene in questione. Chi compie il richiedere provocante mediante il quale ciò che si chiama il reale viene disvelato come "fondo"? Evidentemente l'uomo. In che misura egli è capace di un tale disvelamento? L'uomo può bensì rappresentarsi questa o quella cosa in un modo o in un altro, e così pure in vari modi foggiarla e operare con essa. Ma nella disvelatezza entro la quale di volta in volta il reale si mostra o si sottrae, l'uomo non ha alcun potere. Il fatto che a partire da Platone il reale si mostri alla luce di idee non è qualcosa che sia stato prodotto da Platone. Il pensatore ha solo risposto a ciò che gli ha parlato. Solo nella misura in cui l'uomo è già, da parte sua, pro-vocato a mettere allo scoperto le energie della natura, questo disvelamento impiegante può verificarsi. Se però l'uomo è in tal modo provocato e impiegato, non farà parte anche lui, in modo ancora più originario che la natura, del "fondo"? Il parlare comune di "materiale umano", di "contingente di malati" di una clinica, lo fa pensare. La guardia forestale che nel bosco misura il legname degli alberi abbattuti e che apparentemente segue nello stesso modo di suo nonno gli stessi sentieri è oggi impiegata dall'industria del legname, che lo sappia o no. » (7) Tuttavia, proprio perché provocato, l'uomo non diventa mai puro "fondo". Infatti, in quanto esercita la tecnica, l'uomo è parte dell'impiegare come disvelamento, il quale non è semplicemente opera dell'uomo. Per capire questo, basta percepire in modo non prevenuto "quello che già sempre ha reclamato l'uomo, e in modo talmente decisivo che questi solo in quanto è colui che è così reclamato può di volta in volta essere uomo". L'uomo è catturato dallo studio della natura proprio quando egli intende catturare. La tecnica moderna "non è un operare puramente umano" se intesa "come il disvelare impiegante". Per questo dobbiamo rispondere alla provocazione del richiamo ad impiegare il reale come fondo, nell'imposizione, altro termine-chiave del gergo heideggeriano. Ge-stell, scheletro, scaffale, struttura che regge, è imposizione nel senso che indica "la riunione di quel ri-chiedere che richiede, cioè provoca l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego... Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico." Alla tecnica appartiene l'intelaiatura, il pistone, l'armatura che sono parti di un montaggio, il quale risponde sempre ad una pro-vocazione, ma non la costituisce. «Nell'imposizione accade la disvelatezza conformemente alla quale il lavoro della tecnica moderna disvela il reale come "fondo". Essa non è dunque soltanto un'attività dell'uomo, né un puro e semplice mezzo all'interno di tale attività. La concezione puramente strumentale, puramente antropologica, della tecnica, diventa caduca nel suo principio; né si può completarla mediante la semplice aggiunta di una spiegazione religiosa o metafisica. Resta vero, comunque che l'uomo dell'età della tecnica è pro-vocato al disvelamento in un modo particolarmente rilevante. Tale disvelamento concerne anzitutto la natura come principale deposito di riserve di energia.» (8) L'im-posizione e la libertà, tra le possibilità sta per l'uomo il pericolo supremo La nascita della fisica moderna è solo un annuncio del tempo dell'imposizione. Ma tutto ciò che è essenziale si mantiene nascosto il più a lungo possibile e all'uomo questa origine si manifesta solo all'ultimo. «Se la fisica moderna deve sempre più rassegnarsi al fatto che il suo tempo di rappresentazione rimane inaccessibile all'intuizione, questa rinuncia non è certo dettata da una qualche commissione di scienziati. Essa è provocata dal dominio dell'imposizione, che esige l'impiegabilità della natura in quanto fondo.» (9) La fisica può rinunciare a conoscere gli oggetti, ma non potrà mai rinunciare al fatto che la natura si sia (sich meldet) in un qualche modo definibile in base al calcolo e rimanga come sistema di informazioni. Rimane anche la causalità, che però non si mostra più far-avvenire, causa efficiens o formalis. La causalità è ristretta "al pro-vocato annunciarsi di fondi da mettere al sicuro". E' perché l'essenza della tecnica moderna sta nell'im-posizione che essa deve adoperare le scienze esatte. Ma l'idea che la tecnica sia scienza applicata è falsa apparenza. Essa può sembrare vera fino a quando non verrà in chiaro l'origine essenziale della tecnica. L'imposizione non è nulla di tecnico. E' solo il modo in cui il reale si disvela come fondo. In quanto è la pro-vocazione all'impiegare l'impiegabile invia al disvelamento e l'uomo è governato dal destino del disvelamento. "Ma non si tratta mai della fatalità di una costrizione". Questa precisazione heideggeriana conosce uno sviluppo singolare: l'essenza della libertà - dice Heidegger - non è originariamente connessa alla volontà o meno ancora soltanto alla causalità del volere umano. Ciò significa che la libertà custodisce ciò che è libero, e che è libero ciò che è illuminato-aperto. «E l'accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò con cui la libertà ha la parentela più stretta e più profonda.» (10) Quindi, quando consideriamo l'essenza della tecnica, esperiamo l'im-posizione come destino del disvelamento. Siamo così nella libertà del destino. Esso non ci chiude in un'ottusa costrizione. Non siamo costretti alla tecnica in modo cieco. Nemmeno dobbiamo "rivoltarci vanamente contro di essa e condannarla come opera del demonio. All'opposto: se ci apriamo autenticamente all'essenza della tecnica, ci troviamo insperatamente richiamati da un appello liberatore." Ovvero, seguendo il cammino, siamo sempre "sull'orlo della possibilità" di coltivare ciò che si disvela. "In tal modo si preclude all'uomo l'altra possibilità, quella di orientarsu piuttosto, in misura maggiore e in modo sempre più originario, verso l'essenza del disvelato e della sua disvelatezza, esperendo la adoperatasalvaguardata appartenenza al disvelamento come la propria essenza." Ma proprio perché posto tra queste possibilità, l'uomo è in pericolo. "Il destino del disvelamento è in sé stesso non un pericolo qualunque, ma il pericolo." "Il pericolo supremo". Esso ci appare in due modi. L'uomo cammina sul precipizio quando è in assenza di oggetti ed impiega il "fondo" perché si trova là dove "può essere preso solo più come un 'fondo'." «E tuttavia proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. E' l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso.» (11) Così l'im-posizione non si limita a nascondere la produzione ma il disvelare come tale, mascherando il risplendere della verità. Il pericolo non è dunque la tecnica, l'apparato anche mortale che si può originare con la tecnica. "La minaccia vera ha già raggiunto l'uomo nella sua essenza." L'imposizione infatti impedisce all'uomo di raccogliersi ritornando in un disvelamento originario, "esperendo l'appello di una verità più principale". Ma là dove c'è il pericolo, cresce Anche ciò che salva Citando questi versi di Hölderlin, Heidegger indica una via, che implica tuttavia una certa passività come atteggiamento di fondo. Nell'estremo pericolo dell'imposizione, il suo dominio potrà esaurirsi nel "semplice fatto di mascherare ogni illuminazione". La tecnica può persino aiutarci a guardare più a fondo in ciò che è l'imposizione, facendo apparire nel suo sorgere ciò che salva. In modo immediato e senza alcuna preparazione. L'im-posizione, infatti, non è l'essenza della tecnica nel senso di un genere. E' un modo destinale del disvelamento. Se pensiamo con attenzione, "siamo colpiti da qualcosa di sorprendente: è proprio la tecnica ad esigere da noi che pensiamo in un senso diverso ciò che si intende generalmente con il termine 'essenza'. Heidegger non parla di "essenza di genere", ma di ciò che fa essere un ente in quanto sviluppo del suo essere originario. "Tutto ciò che è, dura. Ma ciò che dura è solo ciò che perdura? L'essenza della tecnica dura forse nel senso del perdurare di una idea che si libra al di sopra di tutto ciò che è tecnico, in modo da originare l'apparenza che il termine 'la tecnica' designi un'astrazione mitica? Il modo in cui la tecnica dispiega il suo essere si può capire solo riferendosi a quel perdurare nel quale l'im-posizione accade come un destino del disvelamento." Lavorando su un termine insolito usato da Goethe nel romanzo Le affinità elettive, Heidegger realizza un ardito accostamento tra "durata" e "concessione". L'oreccho del letterato sente qui l'intima assonanza tra währen e gewähren, rispettivamente durare e concedere. "Se però noi consideriamo in una maniera più attenta di quanto abbiamo fatto finora che cosa sia ciò che davvero, e forse unicamente, dura, potremmo dire: Solo ciò che è concesso dura. Ciò che principalmente, dall'origine, dura è quello che concede (das Gewährende). L'im-posizione è il durevole. Ma cosa concede? Nulla, apparentemente, fino a quando non pensiamo che anche "il provocare all'impiego del reale come 'fondo' rimane sempre un mandare, che mette l'uomo su una certa via del disvelamento." L'essere della tecnica porta l'uomo "verso qualcosa che egli non avrebbe potuto inventare né tanto meno produrre da se stesso; giacché un uomo che sia solo un uomo unicamente da se stesso è qualcosa che non esiste". Sono parole enegmatiche, queste, in cui sembra che a concedere non siano né la tecnica, né l'imposizione, ma l'essere stesso. Durano, perché è concesso che durino. Ma ciò non toglie che l'uomo sia sempre in pericolo. Questo invio del mandare potrà ancora chiamarsi concedere "nel caso che in questo destino abbia a crescere ciò che salva. Ogni destino di un disvelamento accade a partire dal concedere e in quanto concedere. Solo questo infatti porta all'uomo quell'avere parte al disvelamento che l'accadere del disvelamento adopera e salvaguarda". "Ciò che concede, quello che invia nel disvelamento in questo o quel modo, è come tale ciò che salva". Questo consente all'uomo di guardare e tornare alla sua dignità suprema. Essa consiste nel custodire la disvelatezza e l'essere nascosto di ogni essenza su questa terra. Per questo, nell'estremo pericolo, si può dare ciò che salva. «Così - contrariamente a ogni nostra aspettativa - ciò che costituisce l'essere della tecnica alberga in sé il possibile sorgere di ciò che salva. Per questo, ciò che importa è che noi meditiamo su questo sorgere e lo custodiamo rimemorandolo. In che modo? Anzitutto, bisogna che cogliamo nella tecnica ciò che ne costituisce l'essere, invece di restare affascinati semplicemente dalle cose tecniche. Fino a che pensiamo la tecnica come strumento, restiamo anche legati alla volontà di dominarla. E in tal caso, passiamo semplicemente accanto all'essenza della tecnica. Se però ci domandiamo come ciò che è strumentale dispiega il suo essere in quanto specie particolare della causalità, allora potremo cogliere questo essere come il destino di un disvelamento. Se infine consideriamo che ciò che costituisce l'essere dell'essenza accade in ciò che concede, il quale adopera e salvaguarda l'uomo per farlo partecipare al disvelamento, vediamo che: L'essenza della tecnica è in alto grado ambigua. Tale ambiguità richiama all'arcano di ogni disvelamento, cioè della verità. Da un lato, l'imposizione pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell'impiegare, che impedisce ogni visione dell'evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l'essenza della verità. D'altro lato, l'im-posizione accade da parte sua in quel concedere il quale fa sì che l'uomo - finora senza rendersene conto, ma forse in modo più consapevole in futuro - duri nel suo essere l'adoperato-salavaguardato per la custodia dell'essenza della verità. Così appare l'aurora di ciò che salva.» (12) In questo testo, Heidegger sembra affidare un ruolo decisivo all'arte, che in fondo non è che l'antico nome della tecnica. «Poiché l'essenza della tecnica non è nulla di tecnico, bisogna che la meditazione essenziale sulla tecnica e il confronto decisivo con essa avvenga in un ambito che da un lato è affine all'essenza della tecnica e, dall'altro, né è tuttavia fondamentalmente distinto. Tale ambito è l'arte. S'intende solo quando la meditazione dell'artista, dal canto suo, non si chiude davanti alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo l nostra domanda.» (13) Perché il domandare è la pietà del pensiero. note: (1) M. Heidegger - L'epoca dell'immagine del mondo (1938) in Sentieri interrotti - La Nuova Italia 1968 (2) M.Heidegger - La questione della tecnica - in Saggi e discorsi - Mursia 1976 (3) idem (4) idem (5) idem (6) idem (7) idem (8) idem (9) idem (10) idem (11) idem (12) idem (13) idem Martin Heidegger, la tecnica moderna e la questione ambientale Le riflessioni di Martin Heidegger sull’essenza della tecnica moderna risalgono a prima del 1953. La crisi ambientale che sta cominciando a manifestarsi oggi su scala planetaria, può essere compresa nelle sue radici profonde riallacciandosi a quelle riflessioni. Infatti, le insidie latenti e le ricorrenti catastrofi provocate dalla tecnica moderna, e quelle ben più minacciose previste “con scientificità” in un prossimo futuro, stanno ponendo davanti agli occhi di tutti - per la prima volta nella storia - la prospettiva non immaginaria, non religiosa, né bellica, di una fine probabile di ogni tipo di civiltà umana come conseguenza diretta dell’espandersi della tecnica moderna. Di quella tecnica moderna, la cui essenza è stata indicata da Heidegger in quel processo instauratosi nel nostro secolo come “impianto di richiesta” che provoca e costringe l’uomo a “disvelare” il reale come “fondo da impiegare” . Cioè, con la tecnica moderna, secondo Heidegger, il vecchio ideale artigiano del “saper fare” si è capovolto nella coazione a “dover fare” della produzione industriale; e conseguentemente il “mondo naturale” viene conosciuto ormai soltanto come “fondo per l’impiego” e non più come semplice “fúsis” . Queste riflessioni - nate in un clima diverso da quello della crisi ambientale rappresentano la più radicale messa in guardia del nostro tempo nei confronti della tecnica moderna e, in particolare, nei confronti di quegli “esercizi di ammirazione” verso le tecnologie avanzate e l’innovazione tecnologica, che accompagnano oggi lo sviluppo dell’economia mondiale, ancora solo agli inizi. In questo senso, le riflessioni del filosofo tedesco anticipano e integrano il pensiero ambientalista, che in genere ancora ignora Heidegger. Esse ci portano alle radici di un incombente destino, e dischiudono il significato reale della nostra crisi attuale, tanto più minacciosa quanto più incompresa nelle origini e rimossa nelle conseguenze ultime. Il pensiero di Heidegger è cupo e anche oscuro. Ma se ci aiuta a comprendere il perché del “problema dei problemi difficilmente sopravvalutabile” vale forse la pena di avvicinarlo. Heidegger ha affrontato il problema che qui discutiamo ad esempio nella sua conferenza sulla questione della tecnica, tenuta a Monaco di Baviera nel 1953: in questo testo, sebbene vi sia un riferimento costante all’incipiente crisi ambientale, non vengono mai nominati gli aspetti specifici attraverso cui tale crisi si manifesta. Per Heidegger “il modo di pensare della filosofia moderna non offre più alcuna possibilità di fare esperienza - col pensiero - dei lineamenti fondamentali dell’età della tecnica che è soltanto al suo inizio”. Al pensiero si presenta così un compito inaudito, perché “al segreto della strapotenza planetaria dell’essenza della tecnica, corrisponde il non apparire del pensiero che tenta di pensare questo impensabile”. D’altra parte sarebbe vano chiedere aiuto alla scienza perché, per Heidegger, “la scienza non pensa”. E non pensa non perché non usi il pensiero; ma perché, in conseguenza del suo modo di procedere e dei suoi strumenti, non può pensare nel modo in cui pensa il pensiero meditativo. Che la scienza non sia in grado di pensare, del resto, non è per nulla un difetto precisa Heidegger - ma un vantaggio. Solo in virtù del suo “non pensare”, la scienza può dedicarsi alla ricerca su singoli ambiti e stabilirsi in essa. La preoccupazione filosofica di Heidegger è dunque fondata: “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un dominio completo della tecnica. Più inquientante è che l’uomo non sia preparato a questo radicale mutamento. Ed ancora più inquietante è che non siamo capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditativo, un adeguato confronto con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca”. A questo compito Heidegger si è ripetutamente dedicato - nel più ampio orizzonte del suo pensiero che però converge sul tema dell’impensabilità dell’età della tecnica moderna - in un periodo che va dalla metà degli anni ‘30 al 1953. Dal 1953 fino al ‘68, Heidegger è tornato più volte su questo tema, ma soprattutto per ribadire l’incalzare della preoccupazione filosofica per l’impreparazione del pensiero di fronte all’era della tecnica planetaria. Egli avvertiva che, pur essendosi incamminato. sul sentiero giusto, non riusciva ad andare più avanti e doveva limitarsi soltanto ad indicare una direzione di marcia. Del resto la famosa invocazione di Heidegger, dalla quale è stato ripreso il titolo dell’intervista del 1968 “Ormai solo un dio ci può salvare”, è l’invocazione a un dio sconosciuto e contumace, particolarmente amara ed enigmatica se si tiene conto che proviene da chi rimpiange con Holderlin la sparizione degli dei dell’Olimpo greco, e da chi ha dedicato parte delle sue riflessioni al commento della sentenza di Nietzsche, “Dio è morto”. La constatazione heideggeriana dell’impensabilità dell’età della tecnica moderna provoca l’insorgere della questione filosofica del nostro tempo. La domanda è questa: se non riusciamo a comprendere nulla di ciò che sta accadendo di immensamente vicino a noi e che ci coinvolge totalmente, non vuol dire forse che il rischio supremo per l’uomo di cui parlava Heidegger - cioè l’avvento del nichilismo nella forma di dominio onniperversivo della tecnica moderna - è ormai diventato un destino compiuto? E da questa impensabilità del presente non è forse decretata anche l’impossibilità di stabilire un rapporto “significativo” del pensiero col passato e col futuro - con tutte le implicazioni che ciò comporta sul piano della conoscenza e dei valori? E nel quadro di tali domande che assumono enorme rilievo le riflessioni di Heidegger sull’essenza della tecnica moderna. Fausto Borrelli, filosofo e sociologo