Liberalizzazione dei servizi e rischi (veri e presunti) di dumping sociale nell’Unione Europea. 1. Il principio del mutuo riconoscimento quale strumento di armonizzazione delle regolazioni nazionali del commercio delle merci e (con diversa efficacia) dei servizi. 2. L’originaria proposta di direttiva Bolkestein bocciata dal Parlamento Europeo: il principio del paese di origine. 3. Il compromesso della nuova proposta di direttiva di regolazione dei servizi presentata dalla Commissione: il principio del mutuo riconoscimento “rafforzato”. 4. Le implicazioni dell’esclusione delle materie di cui alla direttiva 96/71 dall’ambito di applicazione della nuova proposta di direttiva sui servizi. 5. Genesi e tramonto dell’immunità del diritto lavoro nazionale dalla libera circolazione dei servizi. 6. Gli incerti termini del bilanciamento tra libertà di circolazione e tutela del lavoro realizzato dalla direttiva 96/71/CE. 7. I recenti orientamenti della Corte di Giustizia circa la legge applicabile ai posted workers. 8. Il rapporto tra la direttiva 96/71 e la Convenzione di Roma. 9. Vi è ancora un rischio di dumping sociale nella nuova proposta di direttiva di liberalizzazione dei servizi ? 1. All’esito di una lunga indagine conclusasi nel 20021, la Commissione ha rilevato che, sebbene oggi la fornitura di servizi abbia un’importanza assolutamente primaria nel mercato europeo (70% GDP), il volume dei servizi scambiati tra i diversi Stati UE è ancora sensibilmente più contenuto di quello dei beni materiali. Il rapporto ha ravvisato nella persistenza di un’ampia differenziazione delle discipline giuridiche nazionali la principale barriera all’effettiva circolazione dei servizi nel mercato unico. La principale causa della ridotta armonizzazione delle discipline giuridiche nazionali della prestazione di servizi deve esser ravvisata nell’interpretazione sensibilmente più restrittiva e prudente del principio di libera circolazione dei servizi (art. 49 TCE) adottata dalla Corte di Giustizia rispetto a quella affermata dalla stessa Corte con riguardo al principio di libera circolazione delle merci (art. 28 TCE). 1 Cfr. Relazione della Commissione la Parlamento europeo e al Consiglio su Lo stato del mercato interno dei servizi, COM (2002) 441 definitivo del 30.7.2002; Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo “Una strategia per il mercato interno dei servizi”, COM (2000) 888 definitivo del 29.12.2000. 1 Sin dalla metà degli anni ’70 la libertà di circolazione delle merci è stata plasmata dalla Corte così da trasformarla in una misura utilizzabile per perseguire non solo l’integrazione dei mercati degli Stati membri, ma anche la “liberalizzazione” di quei settori nazionali che gli Stati intendano proteggere dal libero mercato. In quegli anni, infatti, la Corte di Giustizia ha abbandonato una lettura di questa norma in senso meramente antidiscriminatorio, per adottarne una assai più ampia, capace di travolgere unitamente alle normative nazionali che discriminano in via diretta o indiretta le imprese stabilite in diversi Stati membri, anche quelle norme che comprimono il volume dei traffici e dei commerci interstatuali, pur se applicate con modalità identiche alle imprese nazionali e straniere e destinate a produrre i medesimi effetti nei confronti di quest’ultime2. Come noto la Corte di Giustizia ha elaborato l’orientamento sintetizzato nelle nota formula Dassonville, secondo cui “ogni normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi comunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative”3. Corollario ne è il principio c.d. del mutuo riconoscimento, elaborato dalla Corte nella sentenza Cassis de Dijon4, secondo cui ogni prodotto legittimamente commercializzato in uno Stato membro deve poter essere liberamente commercializzato anche negli altri Stati, salvo che i diversi e/o ulteriori adempimenti imposti dagli ordinamenti di questi rispondano a esigenze imperative (a garanzie dell’imposizione fiscale, della protezione della salute, dei consumatori o dell’ambiente) e non soddisfabili in altro modo parimenti efficace, ma meno restrittivo per gli scambi intrastatali. L’aver ricondotto nell’ambito di applicazione dell’art. 28 TCE ogni normativa nazionale che fosse anche indistintamente applicabile alle merci importate da altri Stati membri e a quelle nazionali e che soprattutto - potesse ritenersi anche soltanto potenzialmente lesiva degli scambi intracomunitari ha permesso, forse oltre l’originaria intenzione della Corte5, una sostanziale trasformazione dei connotati e delle 2 Cfr. P.Oliver, W. Roth, The internal market and the four freedoms, in C. Mkt L. Rev., 2004, 411. 3 Corte giust., sent. 11.7.1974, causa C 8-74, Dassonville, in Racc.1974, I-837 ss. 4 Corte giust., sent. 20.2.1979, causa C 120-78, Cassis de Dijon, in Racc. 1979, I-649 ss. 5 Cfr. M. Poiares Maduro, Never on sunday, in S. Sciarra S.(cur.), Labour Law in the courts, Oxford and Portland Oregon, Hart Publishing, 2001, 281 e s., il quale rileva 2 finalità di questa norma. Essa è divenuta uno strumento per sindacare qualsiasi tipo di regolazione degli Stati membri, giacché – rilevando in via primaria la capacità di produrre un “effetto equivalente” a quello di misure volte alla restrizione degli scambi - risultano relativamente indifferenti sia l’oggetto che le dichiarate finalità della regolazione stessa6. La giurisprudenza della Corte ha progressivamente svalutato il carattere “transfrontaliero” dello scambio quale criterio di individuazione dell’ambito di operatività della libertà circolazione delle merci. La valorizzazione anche della mera potenzialità lesiva sugli scambi intrastatuali quale condizione sufficiente per il realizzarsi di un contrasto tra la norma nazionale e la tutela offerta dal Trattato a detta libertà ha legittimato l’invocazione di quest’ultima anche per la definizione di controversie relative a scambi “intrastatuali”, che vedevano contrapposte imprese stabilite nello stesso Stato membro7. La libertà di circolazione espressamente finalizzata dal disposto letterale dell’art. 28 TCE alla tutela degli scambi “fra gli Stati membri” ha, invece, per questa via acquistato una fondamentale rilevanza anche nella regolazione dei rapporti tra imprese nazionali. L’accertamento dell’inapplicabilità di una norma nazionale nei confronti delle imprese di altri Stati in quanto potenzialmente restrittiva delle loro esportazioni comporta in prima battuta l’inapplicabilità di tale normativa nei loro confronti8, ma ne consegue in via indiretta che l’originaria intenzione della Corte nell’adottare una così ampia interpretazione della portata dell’art.28 TCE non fosse affatto quello di promuovere un riesame di tutta la regolamentazione del mercato adottata dagli ordinamenti nazionali degli Stati membri, ma di evitare che differenziazioni ingiustificate delle discipline nazionali finissero per costituire insuperabili barriere all’accesso dei mercati nazionali per gli operatori di altri Stati membri. 6 Cfr. G. Tesauro, Diritto Comunitario, Padova, Cedam, 2001, 376; Idem, Conclusioni del 27.10.1993 nella causa C-292/2, Huenermund, in Racc. 1993, I-6787; M. Poiares Maduro, We the Court: the European Court of Justice and the European Economic Constitution, Oxford, Hart Publishing, 1998; R. Rawlings, The Eurolaw game: deductions from a saga, in Journal of Law and Society, 1993, 309. 7 Cfr. P. Oliver, W. Roth, op.cit., 430 e ss.; v. in particolare Corte giust., sent. 9.8.1994, causa C-363/93, Lacry, in Racc. 1994, I-3957; Corte giust., sent.7.5.1997, causa C-321, 322, 323, 324/94, Pistre, in Racc. 1997, I-2343, punti 43-48; Corte giust., sent. 6.6.2002, causa C-159/00, Sapod Audic, in Racc. 2002, I-5031. 8 Cfr. Corte giust., sent. 16.1.2003, causa C-14/00, Commissione c. Italia, in Foro it., 2003, IV, 72; Corte giust., sent. 16.6.1994, causa C-132/93, Volker Steen c. Deutsche 3 l’inapplicabilità della stessa anche nei confronti delle imprese nazionali se non si vuole realizzare una “discriminazione a rovescio” a danno di quest’ultime9. In questo modo ogni pronuncia relativa alla libera circolazione dei beni si traduce indirettamente in una “abrogazione” materiale della norma nazionale operante non solo nei confronti delle imprese straniere, naturali beneficiarie di quelle libertà, ma anche nei confronti delle imprese nazionali. Invero nella prima metà degli anni ’90 la Corte – dopo esser stata chiamata nella c.d. sunday trading saga a confrontarsi apertamente con le potenzialità demolitorie della regolazione sociale nazionale che la lettura finalistica della libertà di circolazione è in grado di esprimere10 ha operato un self restraintment cercando di depotenziare l’art 28 TCE col delimitarne il campo di applicazione alle sole normative nazionali che regolamentino le caratteristiche “materiali” dei prodotti da commercializzare, escludendo a contrario quelle che – pur potenzialmente restrittive delle importazioni - disciplinino le modalità di produzione e/o di offerta ai consumatori 11. Tuttavia, dopo qualche anno dall’affermazione di questa più circoscritta portata del principio di libera circolazione delle merci, la Corte ha dato un’applicazione progressivamente sempre meno rigorosa alla netta distinzione tra Bundespost, in Racc. 1994, 2715 e ss.; Corte giust., sent. 8.11.1979, causa C-15/79, P.B. Groenveld B.V.v. Produktschap voor Vee en Vlees, in Racc. 1979, 3409. 9 Cfr. F. Salmoni, La Corte Costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità Europee, in Dir. pubbl., 2002, 551 e ss. 10 Si riferisce ai noti casi in cui la Corte giust. si è pronunciata sulla compatibilità con la libera circolazione delle merci delle leggi nazionali che imponevano la chiusura domenicale degli esercizi commerciali: Corte giust., sent. 23.11.1989, causa C145/88, Torfaen Borough Council v. B & Q Plc., in Racc. 1989, 3851; Corte giust., sent. 28.2.1991, causa C-312/89, Conforama, in Racc. 1991, I-997; Corte giust., sent. 28.2.1991, causa C-332/89, Marchandise, in Racc. 1991, I-1027; Corte giust., sent. 16.12.1992, causa C-169/91, Council of the City of Stoke on Trent v. B & Q Plc, in Racc. 1992, I-6635. In dottrina v. M. Roccella, La Corte di Giustizia e il diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1997, 85 e ss; Idem, Tutela della concorrenza e diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Dir. lav. rel. ind., 1993, 1; A. Arnull, What shall we do on sunday?, in Eur. L. Rev., 1996, 112; M. Poiares Maduro, Never on sunday, cit., 281 e ss. 11 Cfr. Corte giust., sent. 24.11.1993, causa C-267/91 e C-268/91, Keck et Mithouard, in Racc. 1993, I-6097; Corte giust., sent. 15.12.1993, causa C-292/92, Hunermund, in Racc. 1993, I-6787; Corte giust., sent. 2.6.1994, causa C-69/93 e C-258/93, Punto Casa, in Racc. 1994,I-2355; Corte giust., sent. 2.6.1994, causa C-401/92 e C-402/92, Huekske, in Racc. 1994, I-2199; cfr. G. Tesauro, op.cit., 379. 4 disciplina del prodotto e quella delle modalità di vendita dettata dalla c.d. dottrina Keck al fine di segnare gli ambiti di applicazione dell’art. 28 TCE. Nei casi in cui norme di quest’ultimo tipo minacciavano concretamente e significativamente l’accesso al mercato, la Corte è da ultimo tornata a far disinvoltamente ricorso all’applicazione dei dettami della libertà di circolazione delle merci senza assolvere l’onere di dar conto degli effetti direttamente o indirettamente discriminatori delle norme nazionali censurate12. La dottrina Dassonville ha prodotto una progressiva armonizzazione in senso deregolativo degli ordinamenti nazionali, in quanto la libertà di circolazione delle merci, atteggiandosi quale norma immediatamente precettiva ma con efficacia soltanto demolitoria, è strutturalmente incline a operare un’armonizzazione in senso “negativo”13. La Corte di Giustizia per lungo tempo si è invece trattenuta dall’estendere l’applicazione di queste potenzialità del principio del mutuo riconoscimento dalla libera di circolazione delle merci a quella dei servizi. Tale orientamento è stato indotto dal timore del rischio, segnalato con particolare insistenza e incisività dagli avvocati generali Jacobs e Tesauro, che la libertà di circolazione dei servizi, se reinterpretata in modo estensivo in forza del principio del “mutuo riconoscimento”, sarebbe inevitabilmente entrata in collisione con le tutele approntate dagli ordinamenti degli Stati membri ai diritti della persona tout court, sia nella sua dimensione sociale sia in quella individuale quale prestatore di lavoro in favore di terzi. A differenza della circolazione delle merci, infatti, la libera circolazione implica in una gran quantità di casi l’effettuazione del servizio in loco con 12 Cfr. Corte giust., sent. 4.11.1997, causa C-337/95, Parfums Chistan Dior, in Racc. 1997, I-6013, in cui si è ritenuto che rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art.28 TCE una norma nazionale che consentiva ai titolari di marchi o di diritti d’autore di impedire agli importatori in parallelo di pubblicizzare la rivendita dei loro prodotti; Corte giust., sent. 9.7.1997, causa C-34, 35, 36/95, De Agostini, in Racc. 1997, I3843, in cui si è parimenti ritenuto che rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art.28 TCE una norma nazionale che imponeva un divieto totale di pubblicità televisiva rivolta ai bambini. Rileva la mancanza di rigore della Corte nell’applicazione della dottrina Keck lo stesso avv.gen. Fennelly nelle conclusioni del 16.9.1999 della causa C-190/98, Graf, in Racc. 2000, I-493, punto 20. 13 Cfr. G. Tesauro, op.cit., 328; S. Deakin, Labour law as market regulation, in P. Davies, A. Lyon Caen, S. Sciarra, S. Simitis (cur.), European Community labour law, Oxford, Clarendon Press, 1996, 71 e s.; C.D. Ehlermann, The contribution of the EC competition policy to single market, in C. Mkt L. Rev., 1992, 258 e ss. 5 l’utilizzo diretto da parte dell’impresa prestatrice di forza lavoro all’interno del territorio dello Stato ospitante14. Soltanto agli inizi degli anni ’90 15 la Corte ha timidamente iniziato a proporre, ma mai in modo inequivoco o con un esplicito riferimento al principio del mutuo riconoscimento, una lettura “finalistica” dell’art.49 TCE, qualificandolo come norma non solo di garanzia del diritto all’accesso nel mercato nazionale delle imprese stabilite in altri Stati membri, ma anch’essa ostativa di qualsivoglia normativa capace di produrre effetti restrittivi persino della quantità dell’offerta di servizi sul mercato nazionale, salvo che siano giustificati da imprescindibili esigenze di ordine pubblico16. Ciò nonostante la Corte di Giustizia ha continuato a esser assai più prudente nell’utilizzare le potenzialità di questa lettura con riguardo all’art.49 TCE rispetto a quanto avesse originariamente fatto con riguardo alla libertà di circolazione delle merci17. E infatti la Corte ha in concreto limitato in modo rigoroso il ricorso a questa dottrina soltanto nelle ipotesi di servizi propriamente “transfrontalieri”18, servizi cioè prestati da imprese stabilite in uno Stato membro in favore di Cfr. A. Lo Faro, “Turisti e vagabondi”: riflessioni sulla mobilità internazionale dei lavoratori nell’impresa senza confini, in Lav. e dir., 2005, 456. 15 Il leading case dell’applicazione della dottrina Dassonville alla libera circolazione dei servizi è univocamente ritenuto Corte giust., sent. 25.7.1991, causa C-76/90, Sager v. Dennemeyer & co Ltd, in Racc. 1991, I-4221; v. successivamente Corte giust., sent. 24.3.1994, causa C-275/92, Customs e Exicse v. Schindler, in Racc. 1994, I-1039; Corte giust., sent. 10.5.1995, causa C-348/93, Alpine Investments, in Racc. 1995, I-1141; Corte giust., sent.12.12.1996, causa C-3/95, Reisebuero v.Sandker, in Racc. 1996, I-6511. 16 Cfr. G. Tesauro, op.cit., 376; conclusioni del 26.1.1995 dell’avv. gen. Jacobs nella causa C-348/93, Alpine investments,in Racc. 1995, I-1141, punti 43-45. 17 Cfr. C.D. Ehlermann, op.cit., 270 e s., il quale sottolinea come la Corte ogni volta che ha potuto ha evitato di far ricorso all’art. 49, utilizzando piuttosto gli artt. 30 e 82 TCE. Ad es. nei casi Corte giust., sent. 23.4.1991, causa C-41/90, Hoefner, in Racc. 1991, I-1979; Corte giust., sent. 10.12.1991, causa C-179/90, Merci convenzionali Porto di Genova, in Foro it., 1992, IV, 225; Corte giust., sent. 12.2.1998, causa C 163/96, Raso, in Foro it., 1998, IV, 196; Corte giust., sent. 11.12.1997, causa C-5596, Job Centre coop, in Foro it., 1998, IV, 41, la Corte ha evitato di affrontare il problema della compatibilità del monopolio dei servizi dettato dalla legge nazionale con l’art.49 TCE, pur espressamente sollevato dalle parti, ritenendolo assorbito dagli altri motivi del ricorso. 18 In tal caso quindi “si spostano” da uno stato all’altro soltanto i servizi; v. al riguardo Corte giust., sent. 25.7.1991, causa C-276/90, Sager, cit. 14 6 clienti residenti in un diverso Stato o servizi che richiedano l’esercizio in modo strettamente temporaneo e occasionale di un’attività operativa nello Stato membro del destinatario della prestazione19. Di recente, sollecitata in tal senso dalla continua pressione della Commissione, la Corte è sembrata abbandonare l’atteggiamento prudente che l’ha caratterizzata nell’interpretazione dell’art.49 TCE in tutti questi anni. E’ così giunta a svalutare in una decisione del 2002 il requisito dell’incidenza diretta e attuale sugli scambi tra Stati membri diversi, ritenendo sufficiente per l’applicazione delle previsioni del Trattato la mera potenzialità di una restrizione di questi, così come aveva già sostenuto per la libertà di circolazione delle merci20. 2. Questi ultimi approdi della giurisprudenza comunitaria non hanno però rassicurato la Commissione circa la capacità della mera applicazione del principio del mutuo riconoscimento di costituire un efficace e celere strumento di armonizzazione delle legislazioni nazionali e di liberalizzazione dei mercati nazionali dei servizi, risultati che – secondo le conclusioni del rapporto del 2002 – dovrebbero al più presto essere conseguiti per assicurare una nuova fase di consistente sviluppo economico in tutti gli Stati membri. La Commissione ha così pensato nel 2004 di riproporre in una proposta di direttiva una soluzione regolativa già avanzata nel suo libro bianco del 198521, secondo la quale il diritto delle imprese all’applicazione della sola regolazione giuridica dettata dal proprio paese di origine anche per i servizi prestati negli altri Stati membri avrebbe dovuto divenire il principio fondamentale a tutela dell’effettività della libertà di circolazione dei servizi. Questa proposta di direttiva, denominata “direttiva Bolkestein”22, dal nome del commissario per il “Mercato Interno” della precedente Commissione, è stata subito fatta propria anche dalla Commissione presieduta da Barroso, che l’ha sottoposta al voto del Parlamento europeo. 19 Cfr. G. Tesauro, op.cit., 470 e ss. Cfr. Corte giust., sent. 11.7.2002, causa C-60/00, Mary Carpenter, in Racc. 2002, I6279; in q.senso v. P. Oliver, W. Roth, op.cit., 432 e s. 21 Cfr. il libro bianco della Commissione sul completamento del mercato interno COM 310 definitivo del 14 giugno 1985. 22 COM (2004) 2 definitivo/2, Bruxelles 25.2.2004, Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno, consultabile all’indirizzo www.europa.eu.int . 20 7 L’aspetto centrale sul piano sistematico della proposta originaria era appunto quello di far evolvere il principio del muto riconoscimento nel “principio del paese d’origine”, secondo il quale ogni impresa deve ritenersi sottoposta – non solo per tutte le condizioni di accesso a un’attività ma anche per quelle di esercizio - unicamente alla legislazione del paese in cui è stabilita e gli altri Stati membri ospitanti non possono imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore stabilito in un altro Stato membro (art.16). Si sarebbe così realizzata una rivoluzione copernicana per cui non avrebbe più trovato applicazione in via generale la legge dello Stato in cui viene concretamente prestato il servizio, salvo che non si rilevi che questa produce effetti discriminatori e restrittivi della libera circolazione, ma al contrario la legge dello Stato di stabilimento dell’impresa23. Sarebbero stati i Paesi ospitanti gravati dell’onere di provare che le norme nazionali non producono tali effetti ovvero – qualora non riuscissero a dimostrarlo – che le stesse rispondono a criteri di necessità e proporzionalità. La deroga all’applicazione del principio del paese di origine, infatti, era prevista in via generale esclusivamente per quei servizi che nello Stato ospitante sono oggetto di un “divieto totale” o sono condizionati al possesso di “requisiti specifici” giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di salute pubblica (art.17). L’idea di coltivare l’armonizzazione attraverso l’induzione di una competizione tra ordinamenti non nasce da un’intuizione originale della Commissione ma viene da lontano ed è forte di una ricca elaborazione del pensiero economico. Si fonda sulla teorica del competitive federalism elaborata dalla scuola statunitense di law and economics di ispirazione neoconservatrice e neoliberale per rispondere alle insoddisfazioni e inefficienze che le politiche tradizionali della spesa pubblica del New Deal e il crescente peso dello Stato federale nella regolamentazione del sistema economico avevano generato24. Cfr. M. Bersani, Bolkestein o Frankestein? Dall’UE una direttiva contro lo Stato sociale e i diritti del lavoro, 2004, in www.attac.it; R.M. Jennar, Direttiva Bolkestein, welfare sotto scacco, 2004, in www.attac.it 2004; entrambi sottolineano criticamente come la proposta di direttiva adotti i medesimi principi e linee guida dell’accordo generale sul commercio dei servizi (GATS) adottato in sede di Organizzazione mondiale del Commercio (WTO). 24 Cfr. S. Lombardo, La concorrenza tra ordinamenti nella prospettiva dell’analisi eonomica del diritto, in A. Zoppini (cur.), La concorrenza tra gli ordinamenti giuridici, Bari, Laterza, 2004, 195; L. Becchuk, A. Cohen, A. Ferrell, Does the 23 8 Edmund Kitch, uno degli studiosi della scuola di Chicago che ha maggiormente sostenuto la teoria della concorrenza tra regolazioni in seno al sistema federale americano25, propose agli inizi degli anni ’80 di sperimentare un approccio simile anche nella Comunità europea, in alternativa alla integrazione attraverso l’armonizzazione coatta e centralizzata del diritto comunitario26. La proposta suscitò subito sia entusiastiche adesioni27, sia critiche radicali28. Secondo la relazione della Commissione di presentazione della proposta di direttiva Bolkestein la sovranità nazionale degli Stati membri circa la regolazione delle prestazioni di lavoro effettuate nei loro territori sarebbe stata comunque integralmente salvaguardata giacché la proposta prevedeva espressamente sia nei “considerando” che nel testo dell’art. 16 che le “materie disciplinate dalla direttiva 96/71/CE” in caso di distacco temporaneo di lavoratori in un diverso Stato membro fossero espressamente sottratte dall’ambito di applicazione del principio del paese di origine. Questa esclusione non ha tranquillizzato la CES e le principali federazioni sindacali europee, in particolare quelle rappresentative dei lavoratori del settore edile e dei servizi pubblici locali in Francia, Germania, Italia, Svezia, Danimarca e Finlandia, che si sono mobilitate in forza per fermare il cammino di approvazione della direttiva accusandola di innescare - nel nuovo contesto di un’Europa con 25 Stati membri, caratterizzati da radicali differenze negli standard protettivi garantiti dai propri ordinamenti - un processo di progressiva e evidence favor State competition in corporate law?, in California L. Rev., 2002, XC, 1775; F.H. Easterbrook, Antitrust and the economy of federalism, in Journal of Law and Economics, 1983, XXVI, 23; W.L. Cary, Federalism and corporate law: reflections upon Delaware, in Yale L. J., 1974, 663; C.M. Tiebout, A pure theory of local expenditure, in Journal of Political Economy, 1956, LXIV, 416. 25 Cfr. E. Kitch, Regulation and the American common market, in A. Dan Tarlock (cur.), Regulation, federalism and interstate commerce, Oelgeschlager, Gunn & Hain, 1981. 26 Cfr. E. Kitch, Business organization law: state or federal?, in R. Buxbaum, G. Hertig, A. Hirsch, K. Hopt (cur.), European business law – Legal and Economic analyses on integration and harmonization, Berlin/New York, De Gruyter, 1991. 27 In questo senso v. H. Schmidt H. (1996), Economic analyses of the allocation of regulatory competence in the EC, in M. Buxbaum, H. Hertig, A. Hirsch, K. Hopt (cur.), European Business Law, Berlin/New York, De Gruyter, 1996, 51. 28 In questo senso v. R. Buxbaum, K. Hopt, Legal harmonization and the business enterprise, Berlin/New York, De Gruyter, 1988, 274 e s.; N. Reich, Competition between legal orders: a new paradigm of EC law?, in C. Mkt L. Rev., 1992,865 e ss. 9 sostanziale concorrenza al ribasso tra gli ordinamenti nazionali in relazione ai sistemi nazionali di protezione sociale e alle condizioni di lavoro29. Le critiche più severe sono state indirizzate al sistema di controlli proposto dalla direttiva, il quale – esonerando le aziende distaccanti dall’onere di predisporre e conservare presso lo Stato ospitante documenti comprovanti il rispetto delle condizioni di lavoro da applicarsi ai lavoratori distaccati secondo il disposto della direttiva 96/71, nonché inibendo a questo stesso Stato qualsiasi procedura di autorizzazione o verifica preventiva - rimetteva di fatto al solo Paese di origine dell’impresa distaccante la facoltà di verificare la regolarità delle condizioni di impiego praticate da quest’ultima (cfr. artt. 24 e 25). La proposta originaria non eliminava il diritto dello Stato ospitante di determinare e controllare le condizioni applicate ai rapporti di lavoro del personale distaccato nel suo territorio; le forme di controllo però sarebbero state esercitabili dallo Stato ospitante solo ex post e non ex ante. 3. L’opposizione alla direttiva Bolkestein e il paventato pericolo che questa avrebbe legittimato l’invasione di orde di “idraulici polacchi” pronti a sbaragliare la concorrenza con l’offerta delle loro prestazioni a prezzi bassissimi ha avuto in Francia un ruolo, se non decisivo, certamente rilevante nel dibattito sul Trattato costituzionale europeo, che come è noto si è chiuso con la bocciatura referendaria da parte dell’elettorato francese. Il clima di ostilità diffusosi in Germania, Francia, Italia e nei paesi del nord Europa sembrava condurre la direttiva verso un radicale rigetto da parte del Parlamento europeo o un suo stravolgimento nei termini della proposta di modifica (ben 216 emendamenti) approntata dalla relatrice Gebhardt e approvata dalla Commissione per il Mercato Interno del Parlamento Europeo (IMCO)30. Cfr. mozione al Senato dell’11 novembre 2004 presentata dai senatori G.Malabarba, C.Salvi, N.Dalla Chiesa, A.Falomi, P.Brutti, T.Sodano, L.De Pretis, G.Cancan, F.Martone, F.Cortina, L.Togni, in www.attac.it; comunicato FIOM, UE, FIOM: fermare direttive Bolkestein e orari, in www.attac.it; comunicato Federazione europea dei lavoratori edili e del legno (FETBB) del 25.11.2004, La FELTBB si mobilita contro la direttiva Bolkestein, in www.attac.it; M. Bersani, op.cit.; R.M. Jennar, op.cit.; P. Khalfa P., Progetto di direttiva Bolkestein: una macchina da guerra contro i popoli d’Europa, in www.attac.it, 2004. 30 IMCO - Rapporto finale del 15.12.2005 A6-0409/2005. 29 10 Appena qualche giorno prima della seduta plenaria del Parlamento del 16 febbraio 2006, Popolari e Socialisti Europei hanno raggiunto un accordo di compromesso su un diverso testo, che secondo gli intenti dichiarati dai protagonisti avrebbe dovuto comportare la cancellazione del principio del paese di origine e l’integrale applicazione del diritto del lavoro dello Stato dove viene effettuata la prestazione di servizio, anche in materia di controlli. In realtà il testo adottato è estremamente ambiguo e non appare sicuramente in grado di garantire ai diritti del lavoro nazionali quella piena immunità dalla libera circolazione dei servizi che le componenti del Parlamento che lo hanno votato intendevano (o quantomeno avevano dichiarato di intendere) assicurare. Per quanto attiene al principio di regolazione della circolazione dei servizi nel mercato unico la formulazione votata é estremamente vago tanto da prestarsi a due letture diametralmente divergenti: una secondo cui vi sarebbe una mera riaffermazione del principio del mutuo riconoscimento; un’altra secondo cui si detterebbe un principio imperativo nei confronti di ogni Stato di liberalizzare i settori non armonizzati e rimuovere tutte le normative che comprimano i vantaggi dei prestatori di servizi di altri Stati membri31. Per quanto attiene alla regolazione dei rapporti di lavoro da applicarsi dalle imprese che prestano servizi in Stati diversi da quello di stabilimento, si operava nuovamente solo un rinvio alla direttiva 96/71, seppur cancellando tutte le previsioni in materia di controlli dettate dalla proposta originaria. Quando sembrava che il testo adottato dal Parlamento fosse destinato a un perenne stato di quiescenza poiché era manifesto che non avrebbe incontrato il favore del Consiglio se sottoposto al suo voto, la Commissione ha inaspettatamente ripreso l’iniziativa presentando il 4 aprile 2006 una nuova proposta di direttiva e riattivando ex novo la procedura di codecisione a norma dell’art. 251 TCE32. La nuova proposta della Commissione recepisce in gran parte le modifiche apportate dal Parlamento Europeo, anche riguardo ai profili giuslavoristi. 31 Le due letture sono state già (plausibilmente) proposte, ad esempio, rispettivamente da Il Sole 24 ore (9.2.2006 A.Cerretelli) e da Liberazione (9.2.2006 A.Milluzzi). 32 Proposta modificata di direttiva del Paralamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno, Bruxelles 4.4.2006, COM (2006) 160, 2004/0001 (COD), consultabile in www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ. 11 La proposta si divide in due parti: la prima riguarda il diritto di stabilimento in ogni Stato membro delle imprese che esercitano attività di servizi; la seconda la libertà di circolazione di queste stesse imprese per prestare i loro servizi in Stati diversi da quello di stabilimento. Per quanto attiene il pieno godimento del diritto di stabilimento delle imprese fornitrici di servizi si prevedono delle misure di semplificazione delle procedure e adempimenti amministrativi relativi all’accesso e all’esercizio delle attività di servizi in ciascun Stato membro. Regimi di autorizzazione (art. 9 e ss.) e di selezione (art. 12 e ss.) per accedere a un’attività di servizi potranno essere legittimamente previsti dagli ordinamenti nazionali solo a condizione che rispondano a criteri non discriminatori, siano giustificati da un “motivo imperativo di interesse generale”, siano proporzionati rispetto all’effettiva capacità di perseguire tale obiettivo di interesse generale (cfr. artt. 10 e 15). Al riguardo vi è una differenza sostanziale rispetto al testo approvato dal Parlamento. Mentre quest’ultimo escludeva in toto da questo regime sia i servizi di interesse generale (SIG) sia i servizi economici di interesse generale (SIEG), la nuova proposta della Commissione esclude di diritto solo i primi, mentre prevede che tale regime non trovi applicazione ai servizi di interesse economico generale “... solo in quanto la loro applicazione non ostacoli, de iure o de facto, la funzione particolare di tali servizi”33. Nella proposta di direttiva non viene offerta alcuna qualificazione o criterio qualificatorio dei servizi di interesse economico generale, problema che arrovella ormai da decenni il diritto e la giurisprudenza comunitaria e che non avrebbe potuto trovare sede più appropriata per essere risolto se non una direttivaquadro sulla regolazione dei servizi. La Commissione può indubbiamente invocare a sua giustificazione l’impraticabilità per palese contrasto con il disposto del Trattato della soluzione adottata nel testo approvato dal Parlamento che rimetteva alla discrezionalità di cascun Stato membro la possibilità di dettare i criteri di qualificazione dei servizi di interesse generale sottratti alle regole della concorrenza di mercato nel proprio ordinamento. In tal modo ogni Stato sarebbe stato legittimato ad attrarre a suo piacimento nella sfera dei servizi di interesse generale qualsivoglia servizio, costruendo un mercato comunitario in cui le regole della concorrenza avrebbe trovato applicazione in modo non uniforme e in balia delle scelte protezionistiche degli Stati membri. 33 Cfr. art. 15 co.4 della nuova proposta di direttiva. 12 Neppure la scelta “astensionistica” ora proposta dalla Commissione può soddisfare in quanto il problema rimane irrisolto sul piano normativo e lo si rimette totalmente agli orientamenti (sinora non certo chiari e univoci) della Corte di giustizia. Il grado di apertura e chiusura dei servizi nazionali al libero mercato, salvo i (numerosi) casi di esclusioni espresse previste nella proposta, sarà governato dalla nozione di “motivi di interesse generale” che andrà adottando il Giudice comunitario. La proposta di direttiva d’altronde non ne fa certo mistero affermando esplicitamente che “la nozione di motivi imperativi di interesse generale cui fanno riferimento alcune disposizioni della presente direttiva è stata progressivamente elaborata dalla Corte di giustizia nella propria giurisprudenza relativa agli articoli 43 e 49 del trattato, e potrebbe continuare ad evolvere” (considerando 20 bis). Rischiano pertanto di risultare delle vuote enunciazioni le previsioni dell’art.1 della proposta secondo cui la direttiva “non riguarda la liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale riservati a enti pubblici o privati, né la privatizzazione di enti pubblici che forniscono servizi”. Queste rassicurazioni, infatti, sono contraddette dalla scelta sistematica di rimettere alla Corte il potere di decidere in ultima istanza – forgiando le nozioni di servizi di interesse generale e di interesse economico generale - quali attività di servizi possano essere legittimamente sottratti al libero mercato dagli ordinamenti degli Stati membri. Tale problematica della potenziale portata liberalizzatrice della proposta della direttiva non è, però, destinata a incidere (se non in modo del tutto indiretto) sulla sovranità nazionale delle condizioni di lavoro che debbono essere osservate dalle imprese che esercitano stabilmente un’attività di servizi nel territorio dello Stato. Nei considerando e nell’art.1, infatti, viene solennemente affermato più volte che la direttiva (in tutte le sue parti) non incide su “la legislazione del lavoro, segnatamente le disposizioni giuridiche o contrattuali che disciplinano le condizioni occupazionali, le condizioni di lavoro, compresa la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, e il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori, che gli Stati membri applicano in conformità del diritto comunitario”, né sulla normativa degli Stati membri in materia di sicurezza sociale. Inoltre la direttiva non può recare pregiudizio – precisazione di grande rilievo – “ ... all’esercizio dei diritti fondamentali quali riconosciuti dagli Stati membri e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, incluso il diritto di negoziare, concludere ed eseguire accordi collettivi e di intraprendere 13 un’azione sindacale”34. I servizi offerti dalle agenzie di lavoro interinale sono esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva35. Al diritto del lavoro nazionale viene quindi offerto – almeno sul piano della sovranità giuridica nazionale - uno scudo in grado di proteggerlo dalle pressioni deregolative che la liberalizzazione delle attività di servizi potrebbe esercitare sulla legislazione nazionale applicabile ai lavoratori che – indipendentemente dalla cittadinanza – prestano stabilmente la loro attività di lavoro in uno Stato membro a norma dell’art.39 TCE. Nelle formulazioni degli articoli e dei considerando della direttiva risuona l’eco del caso Laval-Vaxholm che è stato più volte evocato nella discussione parlamentare. La Corte di Stoccolma in questa controversia ha rimesso alla Corte di giustizia una questione interpretativa in merito alla compatibilità con la libertà di circolazione dei servizi di una legge nazionale che garantisca l’esercizio a oltranza del diritto di sciopero e di azioni sindacali offensive di solidarietà avverso un’impresa straniera al fine di costringerla ad applicare ai propri dipendenti distaccati per realizzare un appalto contratti collettivi di lavoro stipulati tra le parti sociali nello Stato ospitante, ma comunque privi di efficacia erga omnes nel suo ordinamento36. Le previsioni della proposta di direttiva sembrerebbero esser specificamente finalizzate a impedire che a tale o a simili interrogativi la Corte di giustizia possa dare in futuro una risposta negativa. Cfr. art. 1 co. 7. Il considerando 6 nonies ribadisce che: “La presente direttiva deve essere interpretata in modo da riconciliare l’esercizio dei diritti fondamentali, quali riconosciuti dagli Stati membri e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e le libertà fondamentali di cui agli articoli 43 e 49 del trattato. Tali diritti fondamentali includono, fra l’altro, il diritto a intraprendere un’azione sindacale. La presente direttiva deve essere interpretata in modo da garantire pienamente tali diritti e libertà fondamentali”. L’art.16 co.3 afferma ulteriormente a scanso di ogni equivoco che “Allo Stato membro in cui il prestatore del servizio si trasferisce ... non può essere impedito di applicare, conformemente al diritto comunitario, le proprie norme in materia di condizioni dell’occupazione, comprese le norme che figurano negli accordi collettivi”. 35 Cfr. considerando 6 octies e art. 2 co.2 lett. c ter. 36 Cfr. Corte di lavoro di Stoccolma, ord. 15 settembre 2005, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 2, con mia nota, Il caso Laval-Vaxholm: il diritto del lavoro ha già la sua Bolkestein?; C. Woolfson, J. Sommers, Labour mobility in construction: european implications of the Laval un Partneri dispute with swedish labour, in European Journal of Industrial Relations, 2006, 49. 34 14 Una equivalente immunità non viene però offerta al diritto del lavoro nazionale nella ipotesi di lavoratori distaccati in uno Stato ospitante da imprese stabilite in un diverso Stato membro. Invero l’aspetto più problematico della proposta della Commissione è ancora una volta quello della regolazione delle libertà di circolazione delle attività di servizi. La Commissione ha recepito letteralmente il testo votato dal Parlamento a seguito dell’accordo di compromesso tra PPE e PSE, importandone nella nuova proposta anche tutte le ambiguità di quel testo. Si abbandona il “principio del paese di origine” quale regola per selezionare il diritto applicabile alle imprese fornitrici di servizi in un diverso Stato membro; si propone al suo posto un diverso principio più soft, ma la cui valenza non può certo essere circoscritta a una norma antidiscriminatoria delle imprese straniere rispetto a quelle nazionali ai fini dell’accesso alle attività di servizi nel territorio di uno Stato membro. Il nuovo testo dell’art. 16 della proposta della Commissione, infatti, prevede che “Lo Stato membro in cui il servizio viene prestato assicura il libero accesso a un’attività di servizi e il libero esercizio della medesima sul proprio territorio. Gli Stati membri non possono subordinare l’accesso a un’attività di servizi o l’esercizio della medesima sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i seguenti principi: a) non discriminazione: i requisiti non possono essere direttamente o indirettamente discriminatori sulla base della nazionalità o, nel caso di persone giuridiche, della sede, b) necessità: i requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente, c) proporzionalità: i requisiti sono tali da garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito e non vanno al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo”. Si tratta quindi dell’affermazione espressa dell’applicabilità alla libertà di circolazione dei servizi del “principio del mutuo riconoscimento” nella sua interezza con le medesime modalità praticate da tempo per la libera circolazione delle merci e, dunque, in una versione rafforzata rispetto a quella affermata dai più recenti orientamenti della Corte di giustizia nelle ipotesi di prestazione di servizi transfrontalieri. Non si può pertanto considerare l’affermazione di questo principio un’innovazione eversiva, si tratta piuttosto di un’evoluzione in rapporto di assoluta continuità con la nozione di libertà di circolazione dei servizi che si rinviene nella più recente giurisprudenza dei giudici di 15 Lussemburgo. E’ però indebitamente riduttivo e fuorviante affermare – come si è stato spesso ripetuto da parte di alcuni Parlamentari europei dopo il voto del 16 febbraio 2006 – che questa norma sia destinata a garantire la condizione di parità tra imprese nazionali e straniere nell’accesso ai mercati dei servizi in ogni Stato membro. La norma reca in sé tutte le potenzialità deregolatrici delle discipline nazionali delle condizioni di esercizio delle attività di servizi che il principio del mutuo riconoscimento ha già mostrato di poter esprimere nella giurisprudenza in cui ha trovato applicazione quale principio regolatore della libera circolazione delle merci. Rispetto al principio del paese di origine proposto nella originaria stesura della direttiva Bolkestein questa formulazione del principio del mutuo riconoscimento comporta sostanzialmente un’inversione della presunzione relativa della legittimazione dell’impresa stabilita in uno Stato membro di offrire i propri servizi negli altri Stati membri alle medesime condizioni previste dalla legge dello Stato di stabilimento. Secondo il principio del paese di origine questa legittimazione sarebbe stata sempre presunta a favore dell’impresa salvo che lo Stato ospitante non avesse dimostrato che la sua legge nazionale rispondesse alle finalità d’interesse pubblico per cui è preservata una sovranità statale esclusiva. Ora, invece, la piena operatività del principio di mutuo riconoscimento comporterebbe una presunzione di legittimità dell’imposizione della legge nazionale dello Stato ospitante salvo che l’impresa lesa dimostri l’insussistenza dei requisiti che possono giustificare tale imposizione. L’inversione della presunzione relativa e dell’onere della prova non è certo una differenza di poca rilevanza, tuttavia in entrambe le proposte l’obbligo di rispetto della legge dello Stato ospitante è rigorosamente condizionato ai medesimi requisiti sostanziali: la necessità per la tutela degli interessi pubblici di cui all’art.46 TCE, la proporzionalità e l’adeguatezza delle misure normative imposte rispetto a tale fine. Il principio di mutuo riconoscimento – come dimostra l’esperienza ormai trentennale in materia di circolazione delle merci - è di per sé uno strumento strutturalmente idoneo a coltivare un’armonizzazione soltanto in senso “negativo” degli ordinamenti degli Stati membri, seppur in modo meno radicale e repentino di quella che avrebbe potuto essere operare il principio del paese di origine. Si può far affidamento – come sembrerebbe negli auspici della Commissione – sulla possibilità che proprio il timore di una non governata armonizzazione negativa si trasformi nel migliore incentivo per gli Stati membri per addivenire 16 all’adozione di regolazioni comunitarie di armonizzazione “positiva”. La situazione di stallo dei processi di armonizzazione hard in cui l’Europa si trova da lungo tempo, in particolare nel campo della protezione sociale, e l’attuale interesse di alcuni (nuovi e vecchi) Stati membri di sfruttare il vantaggio competitivo che offre loro una regolazione nazionale “leggera”, però, inducono a ritenere eccessivamente ottimistica la fiducia in una tale reazione cooperativa all’implementazione del nuovo regime di liberalizzazione dei servizi37. Anche in questo caso, dunque, sarebbe la Corte di giustizia a operare (di diritto) una funzione di supplenza delle incapacità decisionali degli organi politici comunitari. La Corte, infatti, è sostanzialmente investita della funzione di governare il grado effettivo di liberalizzazione e di deregolazione dei mercati dei servizi negli Stati membri attraverso il sindacato sulla rispondenza delle norme nazionali ai requisiti di non discriminazione, necessità e proporzionalità. I caratteri sostanziali di questi requisiti, infatti, sono totalmente rimessi anche dalla nuova proposta di direttiva all’insindacabile enucleazione ad opera della Corte stessa38. La proposta di direttiva prevede espressamente che tale principio di mutuo riconoscimento “rafforzato” non si applichi alle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori distaccati per prestare un servizio nel territorio di un altro Stato membro. Viene infatti fatta salva la disciplina dettata dalla direttiva 96/71. Nel considerando 41 bis viene persino enunciata una sorta di summa del dettato della direttiva come risultante dagli orientamenti della Corte di giustizia39. L’art.3 co.1 della 37 Cfr. M. Houwerzijl, Posting of workers: background, content and implementation of directive 96/71/EC, in CLR News, 2005, 36, paragona la condizione in cui vengono a trovarsi gli Stati membri a quella del dilemma del prigioniero. 38 Sulla funzione “paranormativa” delle decisioni della Corte di giustizia v. le ancora attuali riflessioni di J.H. Weiler, A quiet revolution. The European Court of Justice and its interlocutors, in Comparative Political Studies, 1994, 514; M. Cartabia, Principi inviolabili e integrazione comunitaria, Milano, Giuffré, 1995, 229. 39 Il considerando 41 bis significativamente recita: “La presente direttiva non concerne le condizioni di lavoro e di occupazione che, in conformità della direttiva 96/71/CE, si applicano ai lavoratori distaccati per prestare un servizio nel territorio di un altro Stato membro. In tali casi, la direttiva 96/71/CE prevede che i prestatori dei servizi debbano conformarsi alle condizioni di lavoro e di occupazione applicabili, in alcuni settori elencati, nello Stato membro in cui viene prestato il servizio. Tali condizioni sono: periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo, durata minima delle ferie annuali retribuite, tariffe minime salariali, comprese le tariffe per lavoro straordinario, condizioni di cessione temporanea dei lavoratori, in 17 proposta di direttiva poi chiarisce che in caso di contrasto del suo disposto con la disciplina specifica del distacco di lavoratori di cui alla direttiva 96/71 è quest’ultima a prevalere e a trovare integrale applicazione. 4. La nuova proposta di direttiva, conformemente al testo votato dal Parlamento, cancella quelle limitazioni dei controlli esercitabili dallo Stato ospitante al fine di verificare la correttezza delle condizioni di lavoro applicate dalle imprese straniere ai dipendenti distaccati che erano dettata dall’originaria formulazione della direttiva Bolkestein. Nella relazione di presentazione della nuova proposta però la Commissione ritiene che tale soppressione sia giustificata soltanto “come parte di un compromesso globale” e rimanga comunque una priorità l’eliminazione degli oneri amministrativi che costituiscono soltanto degli inutili o protezionistici impedimenti alla libera circolazione dei servizi. A tal fine preannuncia l’impegno a fornire agli Stati membri degli orientamenti chiarificatori delle tipologie di controlli che possono esser legittimamente operati sulle imprese straniere e delle forme di cooperazione amministrativa che possono instaurarsi con le competenti autorità degli Stati di origine. La Commissione ha tenuto fede al suo impegno con incredibile tempestività pubblicando esattamente lo stesso giorno della nuova proposta di direttiva, il 4 aprile 2006, anche una comunicazione in merito alla disciplina del distacco dei lavoratori nel quadro della libera circolazione di servizi40. particolare la tutela dei lavoratori ceduti da imprese di lavoro interinale, salute, sicurezza e igiene sul lavoro, provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti, puerpere, bambini e giovani, parità di trattamento tra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione. Ciò riguarda non solo le condizioni di lavoro e occupazione stabilite per legge, ma anche quelle stabilite in contratti collettivi o sentenze arbitrali, che siano ufficialmente dichiarati o siano di fatto universalmente applicabili ai sensi della direttiva 96/71/CE. La presente direttiva, inoltre, non dovrebbe impedire agli Stati membri di applicare condizioni di lavoro e di occupazione a materie diverse da quelle elencate nell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 96/71/CE per motivi di ordine pubblico” (ndr). 40 Comunicazione della Commissione su “Orientamenti relativi al distacco dei lavoratori nell’ambito della prestazione di servizi” del 4.4.2006 COM (2006) 159 definitivo,in www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2006. 18 La Commissione tenta in modo quasi spregiudicato di reintrodurre per via interpretativa esattamente le stesse limitazioni ai controlli e alle autorizzazioni preventive che venivano dettate dagli artt. 24 e 25 dell’originaria proposta di direttiva Bolkestein e che sono state bocciate dal Parlamento, accreditandole quali conseguenze necessitate di un puntuale rispetto del disposto dell’art. 49 TCE come risultante dagli orientamenti della Corte di giustizia. A sostegno delle sue indicazioni interpretative, infatti, la Commissione opera nella comunicazione un continuo (e invero assolutamente puntuale) rinvio a pronunce della Corte in cui viene affermata ogni determinata limitazione della potestà di controllo da parte dello Stato ospitante. E dunque, secondo la comunicazione della Commissione, gli Stati ospitanti possono imporre alle imprese che distaccano lavoratori nel loro territorio delle limitazione alla loro libertà di circolazione soltanto qualora queste siano rispondenti alle finalità di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica consentiti dall’art.46 e le stesse risultino non discriminatorie e strettamente proporzionate all’interesse pubblico tutelato. Costituisce una misura sproporzionata imporre all’impresa distaccante di avere un legale rappresentante domiciliato nello Stato ospitante, giacché per operare i controlli sulle condizioni di lavoro applicate ai lavoratori distaccati sarebbe sufficiente incaricare tra questi un caposquadra per cooperare con l’ispettorato del lavoro dello Stato ospitante41. Allo stesso modo deve ritenersi incompatibile con il disposto dell’art. 49 TCE l’adozione da parte di uno Stato ospitante di un sistema generale di autorizzazione o registrazione preventiva dell’impresa distaccante42. Mentre, sempre ad avviso della Commissione, gli Stati ospitanti possono legittimamente imporre che le imprese distaccanti debbano preventivamente comunicare la tipologia, l’inizio, la durata e il luogo del servizio da prestarsi, nonché informazioni circa il numero di lavoratori distaccati a tal fine e le condizioni di lavoro a quest’ultimi applicate43. Gli Stati ospitanti possono richiedere alle imprese distaccanti di conservare nella sede dove viene prestato il servizio soltanto quei documenti che per la loro 41 Si fa rinvio a Corte giust., sent., 23.11.1999, causa C-369/96, Arblade, in Racc., 1999, I-8453, e in Mass. Giur. Lav., 2000, 221 e ss.; Corte giust., sent. 7.2.2002, causa C-279/00, Commissione c. Repubblica Italiana, in Racc. 2002, I-1425. 42 Si fa rinvio a Corte giust., sent. 9.8.1994, causa C-43/93, Vander Elst, in Racc. 1994, I-3803. 43 Cfr. Corte giust., sent. 21.10.2004, causa C-445/03, Commissione c. Lussemburgo, cit.. 19 natura non possono che essere redatti in loco: ad esempio i libri presenze dei lavoratori o i documenti di protezione e sicurezza44. Infine gli Stati ospitanti non possono imporre adempimenti e condizioni amministrative aggiuntive per il distacco nel loro territorio di lavoratori cittadini di paesi extracomunitari, quando questi sono stati legittimamente assunti in un diverso Stato membro45. La Commissione nel suo documento sollecita gli Stati membri a dare puntuale esecuzione all’obbligo di informazione dettato dall’art.4 della direttiva 96/71 di offrire alle imprese distaccanti chiare, complete e agevolmente accessibili indicazioni circa le condizioni di lavoro che esse debbono applicare ai loro lavoratori distaccati; ad esempio si invitano gli Stati ad utilizzare le potenzialità dei siti internet, inserendo le informazioni in più lingue; porre a disposizione delle imprese distaccanti uffici amministrativi efficienti e in grado di fornire notizie celeri e corrette. La Commissione invita gli Stati membri ad assolvere compiutamente anche l’obbligo di cui all’art.5 della direttiva 96/71 di cooperazione con le Amministrazioni pubbliche degli altri Stati al fine della migliore comunicazione delle informazioni alle imprese distaccanti e per l’esercizio dei controlli sulle condizioni di lavoro applicate da queste. Infine la Commissione rammenta agli Stati membri che l’obbligazione di garantire ai lavoratori distaccati l’applicazione dell’hard core del loro diritto del lavoro, significa anche assicurare loro efficaci strumenti e procedure di giustiziabilità degli stessi dinanzi agli uffici arbitrali e ai giudici dei Paesi ospitanti o prevedendo garanzie adeguate all’effettiva soddisfazione da parte delle imprese distaccanti dei diritti dei lavoratori distaccati previsti dalla direttiva 96/71. L’adozione di questo documento proprio in occasione della presentazione della nuova proposta di direttiva sulla liberalizzazione dei servizi mostra che la Commissione ha finalmente preso atto che uno dei punti più critici di questa proposta, anche nella nuova formulazione, è l’effetto che questa è in grado indirettamente di produrre sulla regolazione del lavoro degli Stati membri esponendoli a un potenziale rischio di dumping sociale, tanto più dopo il maggio 2004 con 44 Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit.; Corte giust., sent. 25.10.2001, causa C-49/98, 50/98, 52/98, 54/98, 68/98, Finalarte, in Racc. 2001, I-7831, e in Foro it., 2001, IV, 513. 45 Cfr. Corte giust. sent. Commissione c. Lussemburgo, cit.; Corte giust. sent. Vander Elst, cit.; Corte giust. sent. 19.1.2006, causa C-224/04, Commissione c. Germania, non ancora pubblicata in Racc.. 20 l’adesione alla Comunità di altri 10 Paesi che conoscono standard retributivi e di protezione sociale sensibilmente inferiori a quelli dei vecchi Stati aderenti e intendono utilizzare questa condizione come arma concorrenziale da spendere nel mercato comunitario46. La Commissione ha voluto, però, consapevolmente astenersi sia nella nuova proposta della direttiva sia nella coeva comunicazione sul distacco dei lavoratori dall’intervenire – sul piano normativo o su quello interpretativo – per chiarire se, a quali condizioni e in quale misura gli Stati membri siano legittimati a ingaggiare una competizione sulle condizioni di lavoro da applicarsi ai lavoratori distaccati. Più che il problema dei controlli è questo il problema sostanziale che la Commissione lascia sul tappeto e che il mero rinvio della nuova proposta sulla liberalizzazione dei servizi al disposto della direttiva 96/71 non è certo di per sé in grado di risolvere. Sul merito di come la direttiva 96/71 disciplini o escluda delle pratiche di concorrenza sul costo (retributivo e gestionale) del lavoro, infatti, si confrontano due interpretazioni profondamente diverse che vedono contrapposti due blocchi di Stati membri. La giurisprudenza della Corte di giustizia non sembra aver ancora maturato un orientamento chiaro e inequivoco al riguardo, tale da orientare con certezza le scelte legislative degli Stati membri e l’azione di governo e controllo della Commissione. La nuova proposta di direttiva, infatti, impone l’applicazione nella sua interezza del diritto del lavoro dello Stato dove si esegue il servizio soltanto nell’ipotesi in cui l’impresa straniera intenda esercitarvi stabilmente la sua attività di servizi. Nel caso di imprese stabilite in diversi Stati membri che intendono prestare temporaneamente la loro attività di servizi in un diverso Stato ospitante distaccandovi propri lavoratori, il rinvio della nuova proposta alla regolazione della direttiva 96/71 non è in grado ex se di assicurare tale effetto47. Quest’ultima direttiva, come sottolinea la Commissione nella sua comunicazione, impone che ai lavoratori distaccati siano applicati soltanto alcuni istituti, seppur molto rilevanti, del diritto del lavoro dello Stato ospitante. Rimane dunque il problema di quale sia la disciplina legale e 46 Per i differenziali di reddito medio tra vecchi e nuovi stati membri al momento dell’ingresso nella Comunità di quest’ultimi v. T. Boeri, F. Coricelli, Europa: più grande o più unita ?, Bari, Laterza, 2003, 12 e ss.; J. Kvist, Does EU enlargement start a race to the bottom? Strategic interaction among EU member states in social policy, in Journal of European Social Policy, 2004, 301. 47 Cfr. A. Lo Faro, op.cit., 466 e s. 21 contrattuale da applicarsi per tutti i restanti istituti del rapporto di lavoro. La limitata “copertura” della direttiva 96/71 lascia uno spazio non esiguo per una concorrenza tra le imprese stabilite nei diversi Stati membri e, in ultima istanza, tra gli stessi ordinamenti di questi. Non può neppure tranquillizzare il fatto che la nuova proposta di direttiva sembra escludere in radice questo rischio nel caso di imprese che esercitino stabilmente un’attività di servizi in un diverso Stato membro. La forma più diffusa di offerta di servizi, infatti, è proprio quella della prestazione a titolo temporaneo avvalendosi della libertà di circolazione a norma dell’art.49 TCE48. L’ambito di applicazione della libertà di circolazione dei servizi è amplissimo poiché è assai complesso in concreto distinguere l’ipotesi in cui l’impresa si avvalga del “diritto di stabilimento” in uno Stato membro da quella in cui si limiti a esercitare in via temporanea la fornitura di servizi in virtù della “libertà di circolazione”. Il diritto comunitario non detta un discrimine temporale tra le due ipotesi. La giurisprudenza della Corte di giustizia qualifica come esercizio della libertà di circolazione qualsiasi attività di servizio destinata ad avere necessariamente un termine prevedibile, indipendentemente dal tempo necessario (anche pluriennale) per la prestazione del servizio49. La Corte ha inoltre affermato che l’apertura Il n. 2/2006 della rivista Transfer, edita dal ETUI – European Trade Union Institute, è integralmente dedicato all’esame del fenomeno: il dato sconcertante che emerge è che, sebbene si registri una consistente diffusione dei servizi tranfrontalieri prestati in loco (c.d. Local based), in quasi tutti gli Stati membri non vi siano dati ufficiali circa il numero di lavoratori stranieri distaccati e la durata dei distacchi. 49 V. Corte giust., sent. 11.12.2003, causa C-215/01, Schnitzer, cit.; Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 20; R. Giesen, Posting: social protection of workers vs. fundamental freedoms?, in C. Mkt L. Rev., 2003, 146; M. Hourwerzijl, op.cit., 32 e 35. Al riguardo occorre rammentare che l’art. 14 del regolamento CE 1408/71 che prevede espressamente che il lavoratore distaccato continui a esser soggetto alla legislazione del proprio paese in materia di sicurezza sociale qualora la durata prevedibile del distacco sia inferiore ai dodici mesi e il lavoratore non sia stato inviato in sostituzione di un altro dipendente già distaccato per un periodo massimo di eguale durata. Se per circostanze imprevedibili il distacco debba essere prorogato oltre i dodici mesi l‘impresa può previamente richiedere all’autorità competente dello Stato ospitante di essere esentata dall’applicare la legislazione di quest’ultimo e continuare ad osservare solo quella del proprio Stato di provenienza sino al compimento dei lavori e comunque per un periodo massimo di ulteriori dodici mesi. La prima proroga di dodici mesi viene comunemente accordata da tutti gli Stati membri. V. al riguardo D.M. Massaini, Distacco di lavoratori nell’ambito della Unione Europea, in Dir. 48 22 di una mera sede di rappresentanza volta alla promozione dell’impresa e all’informazione alla clientela non comporta l’esercizio del diritto di stabilimento ma della sola libertà di circolazione50. La nuova proposta di direttiva non colma in alcun modo questa mancanza di chiarezza e si limita a far rinvio alla sopra citata giurisprudenza della Corte di giustizia51. 5. Per ben comprendere la natura e la rilevanza del problema che la nuova proposta di direttiva ripropone è necessario ripercorrere le evoluzioni della giurisprudenza e della normativa comunitaria in materia di distacco di lavoratori. La Corte nelle prime pronunce degli anni ’80, in cui si è trovata ad affrontare il problema degli effetti distorsivi della concorrenza indirettamente prodotti dalla regolazione nazionale del mercato del lavoro, non ritenne che la delicatezza sociale della materia regolata e l’esclusione di una competenza specifica della Comunità in merito potesse esentare il legislatore nazionale dal rispetto dei principi di cui all’art. 49 e ss. TCE. La Corte affermò che qualsiasi regime autorizzatorio a fornire servizi nel mercato nazionale, ivi compresa la fornitura di lavoro temporaneo, non potesse comunque attribuire alcuna rilevanza alla nazionalità o al luogo di stabilimento delle imprese e/o pratica lav., 2005, 199; S. Di Biase, Il distacco trasnazionale dei lavoratori in UE, in Dir. pratica lav., 2005 11 inserto, 32 e ss.. 50 Corte giust., sent. 30.11.1995, causa C-55/94, Gebhard, in Racc. 1995, I-4165. 51 Cfr. Considerando 36 ter, che recita: “Quando un operatore si sposta in un altro Stato membro per esercitarvi un’attività di servizi occorre distinguere le situazioni che rientrano nella libertà di stabilimento da quelle coperte, a motivo del carattere temporaneo dell’attività considerata, dalla libera circolazione dei servizi. Per quanto concerne la distinzione tra la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi, secondo la giurisprudenza della Corte giust. l’elemento chiave è lo stabilimento o meno dell’operatore economico nello Stato membro in cui presta il servizio in questione. Se è stabilito nello Stato membro in cui presta i suoi servizi, rientra nel campo di applicazione della libertà di stabilimento. Se invece non è stabilito nello Stato membro in cui viene fornito il servizio, le sue attività sono oggetto della libera circolazione dei servizi. La Corte ha costantemente ritenuto che il carattere temporaneo delle attività considerate vada valutato non solo in funzione della durata della prestazione, ma anche in funzione della sua regolarità, periodicità o continuità. Il carattere temporaneo della prestazione non deve in ogni caso escludere che il prestatore di servizi possa dotarsi, nello Stato membro ospitante, di una determinata infrastruttura (compreso un ufficio o uno studio) nella misura in cui tale infrastruttura è necessaria per l’esecuzione della prestazione in questione”. 23 del personale di cui si avvalgono e anzi dovesse tener conto della documentazione e delle garanzie già offerte al diverso Stato membro di stabilimento presso cui l’impresa sia già autorizzata a esercitare la medesima attività52. Ma i giudici di Lussemburgo si spinsero subito ben oltre, sino a ritenere che anche le obbligazioni sostanziali del rapporto di lavoro imposte dalla legislazione di uno Stato membro non potessero trovare applicazione all’impresa proveniente da un altro Paese comunitario, la quale abbia temporaneamente inviato i propri lavoratori nel territorio del primo, qualora quest’ultimi non ne traggano alcun beneficio aggiuntivo e la misura nazionale si traduca soltanto in un onere anticompetitivo per la stessa impresa53. I giudici comunitari precisarono che un tale onere non potrebbe ritenersi giustificato neppure nel caso in cui fosse finalizzato a compensare i vantaggi economici di cui gode l’impresa straniera, gravata da oneri sociali inferiori, rispetto all’impresa nazionale e ricondurre in condizioni di parità la competizione tra queste54. Questo primo orientamento della Corte, dettando dei criteri che potevano concorrere a limitare l’applicazione della regolazione nazionale ai lavoratori stranieri temporaneamente operanti nel territorio di uno Stato membro, suscitò notevoli malumori tra gli Stati membri principali “importatori” di manodopera, che erano (e sono) tra l’altro anche i paesi più influenti della Comunità. La Corte si è così affrettata a mutare il proprio orientamento dotando la regolazione nazionale giuslavoristica di uno scudo invulnerabile da parte della libertà di circolazione dei servizi. Nella motivazione della sentenza Rush Portuguesa la Corte ha affermato che la tutela dei lavoratori dovesse essere ricompresa proprio tra le “ragioni imperative d’interesse generale” che potevano legittimamente comprimere questa libertà fondamentale55. La Corte è stata sollecitata a esprimersi in tal senso dalle difese del governo francese preoccupato del pericolo di dumping sociale nel caso in cui fosse permesso a imprese che operano in Stati membri in cui vi sono discipline legali e contrattuali a tutela dei lavoratori meno onerose di continuare ad applicare ai propri dipendenti 52 Cfr. Corte giust., sent. 17.12.1981, causa C-279/80, Webb, in Foro it., 1982, IV, 467. 53 Corte giust., sent. 3.2.1982, cuasa C-62/80 e 63/80, Seco e Desquenne, in Foro it., 1982, IV, 466. 54 V. in particolare punto 14 della decisione. 55 Cfr. Corte giust., sent. 27.3.1990, causa C-113/89, Rush Portuguesa, in Racc. 1990, I-1417. 24 la disciplina nazionale anche qualora quest’ultimi vengano impiegati temporaneamente in altri Stati membri56. La Corte al proposito ha esplicitamente precisato che la sovranità nazionale in materia di regolazione sostanziale delle condizioni di lavoro non conoscerebbe alcuna limitazione ad opera delle libertà di circolazione dei servizi in quanto “... il diritto comunitario non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione delle loro leggi o dei contratti collettivi di lavoro stipulati tra le parti sociali a chiunque svolga un lavoro subordinato, anche temporaneo, nel loro territorio indipendentemente dal paese in cui è stabilito il datore di lavoro; il diritto comunitario non vieta agli Stati membri neanche d’imporre l’osservanza di queste norme con mezzi adeguati”57. La circostanza che la Corte abbia ritenuto di operare questa precisazione in un caso in cui la questione non le era stata neppure sottoposta da parte del giudice nazionale remittente è stata interpetata come la manifestazione di una ferma volontà della Corte di proteggere integralmente la sovranità nazionale in materia di regolazione del rapporto contrattuale di lavoro da possibili aggressioni della libertà di circolazione e di conferire un imprimatur di legittimità all’applicazione di tale regolazione nella sua interezza anche ai lavoratori distaccati in via temporanea da altri Stati membri58. Forti di questa legittimazione della Corte gli Stati membri che maggiormente temevano che gli standard di tutela garantiti dai loro ordinamenti esponessero le imprese e i lavoratori nazionali alla concorrenza dei posted workers sono corsi ai ripari prevedendo espressamente l’applicazione delle norme di legge e della contrattazione collettiva in materia di retribuzione minima, di orario di lavoro, di condizioni di lavoro e di sicurezza sociale anche ai lavoratori distaccati da altri Stati membri59. 56 Cfr. R. Giesen, op.cit., 144, il quale correttamente rileva che non può parlarsi in questo caso di concorrenza sleale ma di competizione tra sistemi normativi. 57 punto 18 della decisione. 58 Cfr. P. Davies, Posted workers: single market or protection of national Labour Law Systems?, in C. Mkt L. Rev., 1997, 589. 59 Cfr. B. Hepple, Labour laws and global trade, Oxford and Portland, Oregon, Hart Publishing, 2005, 166; P. Davies, Posted workers ... , cit., 590; G. Orlandini, La disciplina comunitaria del distacco dei lavoratori tra libera prestazione dei servizi e tutela della concorrenza: incoerenze e contraddizioni della direttiva n. 71 del 1996, in ADL, 1999, 465; tutti citano specificamente la legge francese n. 93-1313 del 20 dicembre 1993 e la legge tedesca del 29 febbraio 1996 Gesetz uber zwingende 25 La Commissione ha tentato di intervenire per temperare l’esenzione assoluta concessa dalla Corte ai diritti del lavoro nazionali proponendo una direttiva che limitasse l’applicazione delle discipline nazionali degli Stati ospitanti soltanto nella misura in cui fossero finalizzate a garantire degli standard minimi di tutela per i lavoratori operanti a qualsiasi titolo sul territorio dello Stato indipendentemente dalla loro nazionalità. Per lungo tempo è stato impossibile trovare un accordo per l’adozione di una direttiva in materia in quanto gli Stati membri con sistemi di tutela del lavoro più generosi si sono trincerati dietro l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia che offriva loro il massimo di tutela cui avrebbero potuto aspirare60. 6. L’accordo intergovernativo si è poi raggiunto alla fine del 1996, appunto con l’adozione della direttiva 96/7161, su un testo infinitamente meno rigoroso di quello proposto in principio dalla Commissione62 e che – almeno nelle modalità di recepimento adottate dagli Stati membri – è sembrata non discostarsi in modo sostanziale dalla soluzione dell’orientamento Rush Portuguesa. arbeitsdebingungen bei gernzunberschreitenden Dienstleistungen, in BGB,I,227 (quest’ultima però limita l’applicazione della disciplina nazionale soltanto ai lavoratori del settore edile e per i minimi retributivi). 60 In q.senso P. Davies, Posted workers ..., cit., 591; l’orientamento espresso in Rush Portuguesa è stato confermato nei medesimi termini anche alcuni anni dopo da Corte giust., sent. Vander Elst, cit., in particolare punto 23. 61 In Italia la direttiva è stata recepita con il D.lgs. 25.2.2000 n. 72. 62 L’originaria proposta formulata nel 1991 dalla Commissione era quella di prevedere l’applicazione ai lavoratori distaccati in altro Stato membro esclusivamente la disciplina legale e contrattuale del diverso Stato in cui ha sede l’impresa qualora la permanenza necessaria per la prestazione del servizio sia inferiore a 3 mesi e l’assoggettamento alla disciplina dello Stato ospitante solo nel caso di superamento di questo tetto massimo temporale (COM (91) 230 final – SYN 346, O.J., 1991, CAUSA C 225/6), successivamente nel 1993 la Commissione ha proposto quale soluzione di compromesso di abbassare questo tetto temporale ad un mese, ma sempre obbligatorio e inderogabile da parte degli stati membri (COM (93) 230 final – SYN 346, O.J., 1993, C 187/5) ; cfr. al riguardo P. Davies, Posted workers ..., cit., 598 e ss., che sostiene che la proposta originaria della Commissione realizzava un giusto equilibrio tra tutela dell’occupazione e promozione della competitività e efficienza della prestazione dei servizi in seno al mercato unico; G. Orlandini, op.cit., 472; M. Roccella, T. Treu, Diritto del lavoro della Comunità europea, Padova, Cedam, 2002, 126 e ss.; B. Bercusson, European labour law, London, Butterworths, 1996, 398 e ss.. 26 Sebbene la direttiva 96/71 indichi come propria base giuridica non già le disposizioni in materia di politica sociale del Trattato ma gli artt. 46 (ex 57) e 55 (ex 66), che hanno quale fine proprio la tutela della libertà di stabilimento e di libera circolazione dei servizi, in realtà i principali beneficiari della direttiva sono risultati i sistemi nazionali di regolazione del rapporto di lavoro degli Stati “ospitanti”63. L’impostazione della direttiva adottata è stata totalmente rovesciata rispetto ai propositi della Commissione: dalla finalità di proteggere le imprese di servizi dalle misure giuslavoristiche con finalità o effetti restrittivi della libertà di circolazione, che possono costituire una ingiustificata barriera al loro ingresso nel mercato di un altro Stato membro, si è passati a quella di protezione dei livelli occupazionali e delle condizioni di lavoro nazionali (e conseguentemente delle imprese nazionali che sono tenute ad applicarli) dalla concorrenza delle imprese 63 In q. senso P. Davies, Posted workers ..., cit., 1997, 572 e s.; F. Bano, La retribuzione minima garantita ai lavoratori distaccati nell’ambito di una prestazione di servizi, in Orient. giur. lav., 2001, 12 ; G. Orlandini, op.cit., 467, il quale però riconosce al fondamento giuridico prescelto, sebbene caratterizzi la direttiva principalmente come strumento per la politica della concorrenza e solo indirettamente per perseguire obiettivi della politica sociale, il merito di aver consentito l’approvazione a maggioranza qualificata piuttosto che all’unanimità, impossibile da raggiungere sul problema. Per un esame complessivo della direttiva 96/71 e del rapporto con le previsioni della Convenzione di Roma in merito alla legge applicabile ai rapporti obbligatori di lavoro (artt. 6 e 7) v. I. Viarengo, La legge applicabile al lavoratore distaccato in un altro Stato membro nell’ambito di una prestazione di servizi, in B. Nascimbene (cur.), La libera circolazione dei lavoratori. Trent’anni di applicazione delle norme comunitarie, Milano, Giuffrè, 1998, 175; M. Biagi, La fortuna ha arriso alla Presidenza italiana dell’Unione europea: prime note di commento alle direttive sul distacco dei lavoratori all’estero e sui permessi parentali, in Dir. rel. ind., 1996, 3 e ss.; S. Sciarra, Diritto del lavoro e regole della concorrenza in alcuni casi esemplari della Corte di Giustizia europea, in Dir. merc. lav, 2000, 587; G. Orlandini, op.cit., 465 e ss.; M. Roccella, L’Europa e l’Italia: libera circolazione dei lavoratori e parità di trattamento trent’anni dopo, in Riv. giur lav., 1997, I, 287, il quale non ritiene che possano ritenersi fondate l’accusa mossa alla direttiva di costituire essenzialmente un intervento protezionista, essa rappresenterebbe piuttosto il tentativo di governare il processo di integrazione senza trascurare le ricadute di carattere sociale; G. Balandi, La direttiva comunitaria sul distacco dei lavoratori: un passo in avanti verso il diritto comunitario del lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 115 e ss., il quale invece sembra considerare appropriata la base giuridica della direttiva alla luce del quinto considerando secondo cui lo “... sviluppo della prestazione transnazionale di servizi esige un clima di leale concorrenza e misure che garantiscano il rispetto dei diritti dei lavoratori”. 27 provenienti da Stati membri con costi economici e gestionali del lavoro più contenuti. Ma mentre questa eterogenesi dei fini è stata salutata dai giuslavoristi continentali come il riconoscimento da parte del diritto comunitario del valore sociale fondamentale dell’inderogabilità anche per le imprese straniere degli standard normativi e contrattuali delle condizioni di lavoro, oltremanica è stata letta come una iniqua concessione fatta alle logiche protezionistiche degli Stati membri gravati da una più “pesante” regolazione sociale64. Non è stato stabilito un periodo massimo entro il quale le imprese sono esentate dall’applicazione ai propri lavoratori “distaccati” del diritto del lavoro dello Stato ospitante, ma al contrario viene affermato il principio del “day one” secondo cui sin dal primo giorno sussiste tale obbligazione salvo che in ristrettissime eccezioni o nel caso in cui gli Stati membri si avvalgano della facoltà di prevedere nel proprio ordinamento delle esenzioni più ampie per durata e/o per categorie di servizi65. Né la direttiva è realmente riuscita a stabilire un “ ... nocciolo duro di norme protettive chiaramente definite”66 in grado di dare certezza alle imprese distaccanti in merito a quali siano le disposizioni del diritto del lavoro dello Stato ospitante cui esse debbono dare obbligatoriamente applicazione; di fatto è stato consentito agli Stati membri ampia facoltà di estendere l’applicazione ai posted workers sia delle previsioni della legge sia della contrattazione collettiva nazionale. Mentre il par.1 dell’art. 3 prevede che gli Stati membri debbono applicare ai lavoratori distaccati nel loro territorio le disposizioni legislative regolamentari o amministrative che disciplinano soltanto alcuni aspetti specificamente determinati del rapporto di lavoro, in particolare i minimi retributivi, la durata massima dell’orario di lavoro e delle ferie retribuite67; il par.10 dello stesso articolo, invece, ampia di 64 Cfr. P. Davies, The posted workers directive and the EC Treaty, in Industrial Law Journal, 2002, 300 e s. 65 Cfr. art. 3 par. 2, 3, 4 e 5. 66 Così recita il quattordicesimo considerando della direttiva. 67 L’art. 3 par. 1 della direttiva precisa che dette disposizioni dello Stato ospitante applicabili ai lavoratori distaccati nel suo territorio debbono essere relative a: “a) periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; b) durata minima delle ferie annuali retribuite; c) tariffe minime salariali comprese le tariffe maggiorate per lavoro straordinario; il presente punto non si applica ai regimi pensionistici integrativi di categoria; d) condizioni di cessione temporanea dei lavoratori in particolare la cessione temporanea di lavoratori da parte di imprese di lavoro 28 fatto questa delimitazione prevedendo che gli Stati membri possano imporre l’applicazione ai lavoratori distaccati delle “condizioni di lavoro e di occupazione” previste dal proprio ordinamento anche in materie diverse da quelle contemplate al par.1, seppur a condizione che si tratti di disposizioni di “ordine pubblico”. Inoltre, mentre il par.1 dell’art.3 della direttiva prevede che le previsioni della contrattazione collettiva relative alle materie specificamente elencate trovino applicazione esclusivamente ai lavoratori distaccati per la prestazione di servizi nel settore edilizio68, il par.10 consente, poi, agli Stati membri di estendere del tutto discrezionalmente l’obbligatorietà dell’applicazione ai lavoratori distaccati non solo di tutte “le condizioni di lavoro e di occupazione” stabilite dai contratti collettivi nazionali, prescindendo quindi dall’indicazione delle materie di cui al par.1, ma oltretutto per la prestazione di servizi in qualsiasi settore. Tra l’altro il par.8 dello stesso art.3 precisa che la direttiva non intende riferirsi esclusivamente alle disposizioni dei contratti collettivi con efficacia erga omnes; qualora l’ordinamento nazionale non preveda un sistema di dichiarazione dell’applicazione generalizzata della contrattazione collettiva, gli Stati membri possono decidere di imporre ai lavoratori distaccati nel loro territorio anche l’applicazione dei contratti collettivi che sono “... in genere applicabili a tutte le imprese simili nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate e/o dei contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali più rappresentative sul piano nazionale e che sono applicati in tutto il territorio nazionale”69. temporaneo; e) sicurezza, salute e igiene sul lavoro; f) provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani; g) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione”. 68 L’allegato della direttiva specifica che l’applicazione delle previsioni della contrattazione collettive nelle materie indicate nell’art.3 par.1 a “... tutte le attività del settore edilizio riguardanti la realizzazione, il riattamento, la manutenzione, la modifica o l’eliminazione di edifici e in particolare i lavori seguenti: 1) scavo, 2) sistemazione, 3) costruzione, 4) montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati, 5) assetto o attrezzatura, 6) trasformazione, 7) rinnovo, 8) riparazione, 9) smantellamento, 10) demolizione, 11) manutenzione, 12) manutenzione – lavori di pittura e di pulitura, 13) bonifica”. 69 Cfr. P. Chieco Lavoratore comparabile e modello sociale nella legislazione sulla flessibilità del contratto e dell’impresa, in AA.VV., Eguaglianza e libertà nel diritto del lavoro. Scritti in memoria di Luciano Ventura, Bari, Cacucci, 2004, nota 53; G. 29 La facoltà degli Stati membri di prevedere l’applicazione anche alle imprese “transfrontaliere” dei contratti collettivi nazionali che rispondono a questa ampia nozione di efficacia soggettiva “generalizzata” non risulta, però, del tutto incondizionata nella lettera della direttiva: deve essere comunque garantita dall’ordinamento dello Stato ospitante la parità di trattamento delle imprese straniere rispetto alle imprese nazionali che operano nel medesimo settore70. Occorre poi rilevare che, oltre al rispetto di tali requisiti specifici, la facoltà di estensione dell’ambito di applicazione della legge nazionale e della contrattazione collettiva dello Stato ospitante è comunque condizionata – come espressamente previsto dall’art.3 co.10 della direttiva 96/71 - al rispetto di tutte le altre previsioni del Trattato, prima tra tutte la libertà di circolazione dei servizi di cui all’art. 49 TCE. Se dunque per le materie espressamente elencate all’art.3 co.1 della direttiva è stato il legislatore comunitario ad affermare la proporzionalità della conseguente compressione della libertà di circolazione di servizi, per l’estensione alla regolazione delle altre materie del diritto del lavoro dello Stato ospitante rimane invece soggetta all’onere di bilanciamento con questa libertà71. Orlandini, op.cit., 476; B. Bercusson, op.cit., 1996, 403; G. Balandi, op.cit., 128; A. Ojeda Aviles, European collective bargaining and posted workers. Comments on Directive 96/71/EC, in Int. Jour. Com. Lab. Law. Ind. Rel., 1997, 128; tutti sottolineano che la previsione dell’applicazione della contrattazione collettiva anche ai lavoratori provenienti da altri Stati membri è la vera “novità rivoluzionaria” sul piano sistematico della direttiva, in quanto nessuna norma internazionale di collegamento ha mai previsto l’applicazione ai lavoratori stranieri oltre che della legge dello Stato ospitante anche della contrattazione collettiva ivi applicata. 70 L’art. 3, par. 8, ultimo capoverso, della direttiva precisa ulteriormente al riguardo che “Vi è parità di trattamento, a norma del presente articolo, quando le imprese nazionali che si trovano in una situazione analoga: - sono soggette, nel luogo o nel settore in cui svolgono la loro attività, ai medesimi obblighi delle imprese che effettuano il distacco, per quanto attiene alle materie menzionate al paragrafo 1, primo comma del presente articolo, e - sono soggette ai medesimi obblighi, aventi i medesimi effetti” (ndr). 71 Cfr. Corte giust., sent. 24.1.2002, causa C 164/99, Portugaia Construcoes Lda, in Foro it., 2002, IV, 216. In questa pronuncia (v. in particolare punti 31-35) la Corte ha dichiarato l’incompatibilità sempre con il disposto degli artt. 49 e 50 TCE della stessa legge tedesca nella parte in cui prevede che ai lavoratori di imprese straniere si applichino obbligatoriamente i minimi retributivi previsti da un contratto collettivo nazionale dichiarato di applicazione generale, mentre è concesso alle sole imprese nazionali di convenire minimi inferiori con un contratto collettivo aziendale. V. al 30 Nelle leggi di recepimento della direttiva di gran parte degli Stati membri, però, è stata totalmente svalutata la portata delle condizioni poste alla direttiva all’estensione alle imprese straniere dell’applicazione delle leggi e della contrattazione collettiva nazionale, rispettivamente la rispondenza a finalità di ordine pubblico e la garanzia della parità di trattamento. Si è così (erroneamente) accreditata la lettura secondo cui agli Stati membri fosse attribuita di fatto una discrezionalità piena nel decidere se e in quale misura imporre alle imprese straniere l’applicazione della disciplina legale e contrattuale nazionale oltre gli istituti previsti espressamente dall’art.3 co.1 della direttiva72. Quanto al primo requisito - in mancanza di un’espressa qualificazione nel Trattato dei caratteri dell’”ordine pubblico” – gli Stati membri hanno ritenuto di poter far riferimento alla nozione di “disposizione di ordine pubblico” coniata dai loro ordinamenti o dalla giurisprudenza nazionale che in molti Paesi, tra i quali l’Italia, si estende sino a ricomprendere in toto o, quantomeno, in grandissima parte la regolazione del lavoro73. Il secondo requisito è stato riguardo U. Carabelli, V. Leccese, Libertà di concorrenza e protezione sociale a confronto. Le clausole di favor e di non regresso nelle direttive sociali, Working Papers M. D’Antona, n. 64, 2005, 26; A. Lo Faro, op.cit., 465; B. Hepple, op.cit.,168. 72 In q. senso M. Biagi, op. cit., 6 e s., il quale rileva come la non tassatività delle materie per cui è legittimata l’applicazione del diritto del lavoro dello Stato ospitante e la possibilità concessa a questo di estenderle invocando la clausola delle disposizioni di ordine pubblico abbia comportato l’attribuzione alla direttiva dello spregiativo epiteto di swiss cheese directive (direttiva gruviera); Biagi riconosce però alla direttiva il merito, pur tra innumerevoli carenze, di aver affermato “… una sorta di “primato” comunitario, proprio in nome della sussidiarietà, che legittima il legislatore ad intervenire affinché la concorrenza non subisca distorsioni sotto forma di dumping sociale”. V. anche B. Hepple, op.cit., 167; P. Davies, Posted workers ..., cit. 597 e s.; G. Orlandini, op.cit., 478, questi ultimi autori rilevano che in ogni caso non è corretto ricorrere alle diverse nozioni di “ordine pubblico” adottate negli ordinamenti negli Stati membri, ma occorre far riferimento a una nozione comune ricavabile dalla giurisprudenza della Corte giust. elaborata in merito agli artt. 49 e 50 TCE. 73 Si pensi alla giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana secondo cui il principio del favor laboris, quale principio di ordine pubblico, impone l’applicazione della legge italiana qualora risulti più favorevole al lavoratore rispetto alla legge straniera applicabile secondo i criteri di collegamento dettati dalle convenzioni internazionali cfr. Cass. 27.3.1996 n. 2756, in Foro it.,1996, I, 2427; Cass. 9.11.1993 n. 9435, in Giust civ., 1994, I, 1315; Cass. 22.2.1992 n. 2193, in Foro it., 1992, I, 2368; v. al riguardo M. Magnani, Il diritto applicabile ai rapporti di lavoro internazionali tra legge e contratti collettivi, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 73. 31 indebitamente ritenuto privo di una qualche efficacia concreta a causa dell’omnicomprensiva nozione di contratti collettivi con efficacia generalizzata formulata dalla direttiva. Gli Stati membri, con la sola eccezione in controtendenza della Gran Bretagna74, hanno così ritenuto in virtù di una tale interpretazione della direttiva 96/71 di essere legittimati a “blindare” il proprio diritto del lavoro nazionale imponendone l’applicazione integrale alle imprese “transfrontaliere”75. Ad esempio il d.lgs 25 febbraio 2000 n. 7276, con cui appunto è stata recepita la direttiva sul distacco, si è avvalso di tutte le possibilità di estensione dei limiti di applicabilità del diritto del lavoro nazionale ai lavoratori distaccati nel proprio territorio sino a prevederne l’applicazione integrale sia delle disposizioni legali che contrattuali, per tutte le materie e per tutti i settori77. Il legislatore italiano ha così ritenuto per un verso di poter qualificare “in blocco” tutte le previsioni del diritto del lavoro nazionale come “disposizioni di ordine pubblico” a norma dell’art. 3 par.10 della direttiva78, per altro verso, di potere rispettare l’obbligo di parità di trattamento attribuendo 74 Cfr. P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 299, il quale rileva che il Regno Unito, a differenza in particolare della Germania, Francia e Italia, non si è avvalsa di nessuna delle facoltà di estensione in relazione alle materie e ai settori delle disposizioni del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva nazionale, imputando tale condotta piuttosto che a una scelta virtuosa rispettosa delle finalità della libera concorrenza in seno al mercato unico, al declino della contrattazione collettiva in quel settore che difficilmente risponde ai requisiti di applicazione “generalizzata” richiesti dalla direttiva. 75 Cfr. C. Barnard, EC Employment Law, Oxford, Oxford University Press, 2000, 179. 76 Pubblicato in G.U. 30.3.2000 n. 75; la dottrina italiana non ha dedicato particolare attenzione a questa norma, per quanto consta l’unico commento è S. Maretti, Il recepimento della direttiva Cee sul distacco dei lavoratori, in Mass. giur. lav., 2000, 1148. 77 Il d.lgs. n. 72/2000 ha realizzato quella che M. Biagi, op.cit., ha definito l’“opzione zero”: non è stata prevista alcuna delle esenzioni facoltative consentite dalla direttiva 96/71. 78 In q. senso P. Davies, Posted workers ..., 597 e s.; G. Orlandini, op.cit., 478; contra S. Maretti, op.cit., 1156, secondo cui questa scelta del legislatore italiano pur tradendo “un atteggiamento di accentuato protezionismo”, non sarebbe però in violazione delle disposizioni della direttiva perché la previsione dell’applicazione della legge italiana anche ai lavoratori stranieri impiegati nel territorio italiano, ove più favorevole di quella applicabile al loro rapporto di lavoro secondo i consueti criteri di collegamento, risponderebbe al principio del favor, che è principio di ordine pubblico internazionale riconosciuto dalla giurisprudenza nazionale. 32 imperativamente alla contrattazione collettiva di tutti i livelli un’efficacia soggettiva erga omnes “relativa” nei confronti delle sole imprese straniere, anche per materie che trascendono la determinazione dei minimi retributivi di cui all’art.36 Cost.79. 7. La Commissione, allarmata dal timore che la direttiva 96/71 e soprattutto le modalità con cui gli Stati membri le hanno dato attuazione potessero produrre una rigida compartimentazione dei mercati nazionali dei servizi erigendo per mezzo dei diritti nazionali del lavoro delle barriere all’ingresso delle imprese straniere, ha continuato ostinatamente a incalzare i giudici di Lussemburgo affinché attenuassero la garanzia offerta con la giurisprudenza Rush Portuguesa a ogni Stato membro di legittimità dell’applicazione generalizzata del proprio diritto del lavoro nazionale a tutte le imprese che - anche temporaneamente - prestino servizi nel loro territorio. Voci autorevoli della dottrina, in particolare anglosassone80, hanno persino sollevato il dubbio che l’orientamento espresso dalla Corte di 79 Come noto secondo la giurisprudenza i minimi retributivi stabiliti dai contratti collettivi nazionali trovano applicazione a tutti i datori di lavoro del settore merceologico cui si riferisce il contratto, anche se non vi hanno aderito o non vi hanno dato applicazione, in quanto costituiscono parametri fattuali di riferimento per il giudice nella determinazione della retribuzione minima e sufficiente cui ha diritto il lavoratore subordinato a norma dell’art.36 Cost. Questa previsione della direttiva 96/71 dunque non solo appare difficilmente compatibile con il disposto dell’art. 39 Cost., ma soprattutto reca una manifesta disparità di trattamento a danno delle imprese straniere che vengono gravate di oneri cui le imprese italiane che non aderiscono o non applicano contratti collettivi non sono legittimamente soggette. Cfr. contra Chieco 2004, nota 87 , il quale deduce da questa previsione del d.lgs. 72/2000 un imperativo di parità all’applicazione delle stesse previsioni contrattuali anche ai lavoratori italiani alle dipendenze di imprese che non applicano nessun contratto collettivo quale conseguenza necessitata dall’art.3 Cost. al fine di evitare che questi lavoratori siano destinatari di un trattamento discriminatorio rispetto a quello previsto dal legislatore per i dipendenti delle aziende straniere. 80 Cfr. P. Davies, Posted workers ..., cit., 593 e ss., il quale sottolinea che d’altronde è lo stesso art.3 par.10 delle direttiva 96/71 a prevedere espressamente che la facoltà degli Stati membri di estensione delle materie e dei settori di applicazione delle previsioni della legge e della contrattazione collettiva ai lavoratori distaccati nei rispettivi territori non possa comunque che esser esercitata “... nel rispetto del Trattato”; P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 301; B. Hepple, op.cit., 168; M.A. Moreau M.A., Le détachement des travailleurs effectuant une prestation de service dans l’Unione européenne, in Jour. Dr. Int., 1996, 891; in senso dubitativo R. Giesen, op.cit., 153. 33 Giustizia nella sentenza Rush Portuguesa e – conseguentemente - la stessa direttiva 96/71, ove interpretate nel senso di una legittimazione incondizionata degli Stati membri a comprimere discrezionalmente la libertà di circolazione dei servizi per tutelare i propri livelli e condizioni occupazionali proteggendo le imprese nazionali dalla concorrenza delle imprese degli altri Stati membri con regolazioni dei contratti di lavoro “più leggere”, si porrebbero radicalmente in contrasto con le disposizioni fondamentali del Trattato dell’Unione, cui le fonti di diritto comunitario derivato non possono neppur parzialmente derogare a pena della loro inapplicabilità81. Alla fine degli anni ’90 la Corte è sembrata prestar ascolto a questi timori della Commissione e di parte della dottrina iniziando a riconsiderare la delega “in bianco” concessa agli Stati membri ponendo una serie di rilevanti e sostanziali condizioni alla possibilità di questi di applicare le disposizioni del diritto del lavoro nazionale ai lavoratori distaccati nel loro territorio82. La Corte ha ribadito che in via generale il diritto europeo non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione della legge e della contrattazione collettiva nazionali ai lavoratori distaccati nel loro territorio anche qualora i livelli di tutela previsti siano più elevati (e conseguentemente più onerosi) di quelli previsti dagli standard minimi dettati dal diritto derivato dell’Unione europea83, ma condiziona il 81 Cfr. Corte giust., sent. 17.5.1990, causa C-262/88, Barber v. Guardian Royal Exchange, in Racc. 1990, I-1889, in cui i giudici comunitari hanno disapplicato per contrasto con disposizioni del Trattato gran parte della direttiva 86/378 in materia di parità negli schemi pensionistici di lavoro; Corte giust., sent. 5.10.2000, causa C376/98, Germania v. Parlamento europeo, in Racc. 2000, I-8419; Corte giust., sent. causa C-74/99, The Queen v. Secretary of State for Health, ex parte Imperial Tobacco Ltd e altri, in Racc. 2000, I-8599, in cui la Corte ha di fatto disapplicato totalmente la direttiva sulla commercializzazione del tabacco perché volta di fatto a tutelare la salute umana, mentre è inidonea ad agevolare la libera circolazione dei prodotti sebbene la sua base giuridica sia l’art. 28 TCE . 82 Cfr. B. Hepple, op.cit, 170 e ss.; P. Davies, The posting workers directive ..., cit., 301. 83 R. Giesen, op.cit., 155 e s., ritiene che, sebbene possa apparire contraddittoria, sia stata in ogni caso saggia la scelta della Corte di ribadire questo orientamento e non individuare negli standard minimi comunitari le uniche previsioni che avrebbero potuto esser imposte dagli Stati membri ospitanti alle imprese di altri Stati; l’armonizzazione dei minimi non preclude agli Stati di avere un più generoso sistema di protezione sociale, mentre individuare nei minimi comunitari le previsioni di “ordine pubblico” di cui all’art.3 della direttiva 96/71 avrebbe reso impossibile in 34 legittimo esercizio di questa facoltà al superamento di tre test: a) di parità (formale e sostanziale) di trattamento tra imprese nazionali e straniere, b) di effettività e genuinità della tutela in favore del lavoratore distaccato, e c) di proporzionalità tra questa tutela e gli effetti restrittivi della libera circolazione dei servizi prodotti84. Esattamente i requisiti che ora la nuova proposta di direttiva dei servizi presentata il 4 aprile 2006 intenderebbe importare e consolidare nel testo normativo quali condizioni che deve necessariamente rispettare ogni legge nazionale che comporti la compressione della libertà di circolazione e di esercizio dell’attività di servizi (cfr. art.16). Sotto il primo profilo la Corte ha ribadito il principio che - in senso assoluto - nessuna finalità può giustificare l’applicazione alle imprese di altri Stati membri di discipline legislative o contrattuali aggiuntive rispetto a quelle che trovano applicazione nei confronti delle imprese nazionali, salvo che la diversità di disciplina non possa rigorosamente attribuirsi a differenze obiettive esistenti tra imprese straniere e imprese nazionali85. Proprio per la loro natura direttamente discriminatoria la Corte ha da ultimo censurato alcune previsioni della legge tedesca sul distacco nel proprio territorio di lavoratori di altri Stati UE che assoggettavano tutte le imprese straniere all’applicazione dei contratti collettivi del settore edilizio, quando invece quegli stessi contratti trovano applicazione nei confronti delle imprese nazionali solo se queste superano determinate soglie quantitative di personale impiegato e possono comunque derogarvi ove stipulino un contratto collettivo aziendale in tal senso86. Se la misura normativa nazionale è rispettosa del principio di parità “formale” di trattamento, occorre poi valutare – in senso relativo - se futuro adottare qualsiasi direttiva in materia di protezione sociale se non realizzando l’(impossibile) condizione di prescegliere quale minimo il massimo livello di protezione garantito dallo Stato membro più generoso, il quale altrimenti non avrebbe alcun interesse a votare una direttiva che indirettamente esonererebbe le imprese straniere operanti nel territorio di quello Stato dall’applicare la tutela più elevata imposta alle imprese nazionali. 84 Cfr. P. Davies, The posted workers directive ..., cit.,2002, 301 e ss.; R. Giesen, op.cit.,146 e ss. 85 Cfr. Corte giust., sent. Finalarte, cit.; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit.; Corte giust., sent. 25.10.2001, causa C 493/99, Commissione v. Repubblica federale di Germania, in Racc. 2001, I-8163, e in Foro it., 2001, IV, 513; Corte giust., sent. Commissione v. Granducato di Lussemburgo, cit. 86 Corte giust., sent. Finalarte, cit.; Corte giust. sent. Portugaia Construcoes Lda, cit.. 35 assicuri anche la parità “sostanziale” tra imprese nazionali e straniere, se cioè non sia destinata a produrre in concreto effetti discriminatori a danno di quest’ultime così da restringerne l’accesso al mercato nazionale dei servizi87. In tal caso misure normative che indirettamente producano effetti restrittivi della concorrenza possono essere ammesse solo a condizione che rispondano a “ragioni imperative d’interesse generale”88. La Corte ha chiarito al riguardo – con evidenti riflessi sulla condizione di cui all’art. 3 par.10 legittimante l’estensione della disciplina legale giuslavoristica alle imprese straniere - che la qualificazione da parte del legislatore nazionale di una norma come “legge di polizia e di pubblica sicurezza” non la sottrae al sindacato di effettiva rispondenza ai caratteri propri delle disposizioni di “ordine pubblico”, volte appunto alla tutela dell’”interesse generale”89. Quasi ossessivamente la Corte ripete in tutte le pronunce che senza dubbio rispondono a quest’ultima finalità le norme a“tutela dei lavoratori” e dunque – come tali – possono operare legittimamente la compressione delle libertà di circolazione di beni e servizi90. Dall’analisi dei casi decisi, però, emerge chiaramente che i giudici di Lussemburgo intendono riferirsi non già ai lavoratori appartenenti al mercato del lavoro nazionale, bensì ai posted workers, ai lavoratori distaccati temporaneamente da imprese stabilite in altri Stati membri91. 87 V. di recente Corte giust., causa sent. 17.10.2002, C-79/01, Payroll data service, in Racc., 2002, I-8923. 88 Cfr. Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 34; Corte giust., sent. Commissione v. Repubblica federale di Germania, cit., punto 20; Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 31; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 19. 89 Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punti 30 e 31; Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 33; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 20; Corte giust., sent. 31.5.2001, causa C-283/99, Commissione v. Repubblica italiana, in Foro it., 2001, IV, 535. 90 Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 36; Corte giust., sent. Commissione v. Repubblica federale di Germania, cit., punto 20; alla luce di tale affermazione U. Carabelli, V. Leccese, op.cit., 26, deducono elementi tranquillizzanti nel senso che “il rischio di un vulnus alla cittadella del diritto del lavoro da parte della giurisprudenza della Corte giust. ... sia in realtà da ritenere assai meno grave di quanto talora temuto”. 91 Cfr. B. Hepple, op.cit., 191; P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 302, giudica “bizzarro” questo ragionamento della Corte che finisce per gravare lo Stato ospitante della tutela dei lavoratori distaccati temporaneamente da un altro Stato, che – come più volte affermato dalla Corte - non possono essere ritenuti parti del mercato 36 La Corte ha al riguardo inequivocabilmente chiarito che ai fini dell’applicazione delle disposizioni del Trattato i lavoratori distaccati non possono essere considerati dal legislatore nazionale come parte del proprio mercato del lavoro in quanto questi lavoratori non intendono accedere stabilmente a questo mercato poiché essi tornano nel loro paese di origine o di residenza dopo aver prestato la loro attività. In questi casi quindi non trovano applicazione le disposizioni sulla libera circolazione dei lavoratori di cui all’art. 39 e ss. TCE, ma esclusivamente quelle che disciplinano la libera circolazione dei servizi92. E’ pur vero che la Corte ha affermato che non possa ritenuta di per sé in violazione dell’art. 49 TCE la legge tedesca di regolazione delle prestazioni di lavoro nel settore edile che nelle premesse ha espressamente dichiarato tra le sue finalità quella di proteggere il livello occupazionale del settore dalla concorrenza operata dalle imprese straniere in grado di offrire i medesimi servizi a prezzi più contenuti delle imprese nazionali avvalendosi di lavoratori distaccati cui applicano minimi retributivi sensibilmente più bassi di quelli previsti dai contratti collettivi tedeschi93. Ma anche in queste pronunce del lavoro dello Stato ospitante, mentre non valuta minimamente sugli effetti prodotti a tutela dei lavoratori effettivamente appartenenti a quel mercato del lavoro. 92 Cfr. Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 22; Corte giust., sent. Commissione v. Granducato di Lussemburgo,cit., punto 38; ma già in precedenza nel medesimo senso Corte giust., sent. Rush Portuguesa, cit., punto 15; Corte giust., sent. Vander Elst, cit., punto 21. 93 Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 38; la Corte ha rilevato che “... il giudice a quo osserva che si desume dalla motivazione dell’AEntG che tale legge ha il dichiarato obiettivo di tutelare le imprese tedesche del settore dell’edilizia contro la crescente pressione della concorrenza sul mercato interno europeo e quindi contro i prestatori di servizi stranieri. Il giudice di rinvio aggiunge che, sin dai dibattiti preparatori sul progetto di tale legge, era stato ripetutamente sottolineato che una siffatta legge mirava soprattutto a lottare contro la concorrenza asseritamente sleale delle imprese europee che si avvalgono di manodopera a basso costo”; la Corte al proposito ritenuto che “Tuttavia, se è vero che l’intento del legislatore quale risulta dai dibattiti politici che precedono l’adozione di una legge o dall’esposizione delle sue motivazioni può costituire indizio quanto al fine perseguito dalla detta legge, tale intento non può essere determinante” (punto 40); la Corte, però, al fine di verificare l’ammissibilità della restrizione della concorrenza intrastatuale, ha rimesso al giudice nazionale di rinvio il compito di “... verificare se, considerata in modo obiettivo, la normativa oggetto delle cause principali promuova la tutela dei lavoratori 37 ben si comprende che debbono essere i lavoratori distaccati i veri destinatari della tutela offerta dalla norma nazionale dalla circostanza che la legittimità della restrizione della concorrenza interstatuale viene egualmente condizionata alla valutazione della genuinità e effettività della protezione migliorativa assicurata proprio a quest’ultimi dalla norma dello Stato ospitante rispetto a quella loro prestata dall’ordinamento del diverso Stato da cui provengono, non essendo invece attribuita a questi fini nessuna rilevanza agli effetti positivi eventualmente prodotti nell’incremento o nel mantenimento dei livelli di occupazione della manodopera nazionale94. In quest’ottica la Corte ha ritenuto inapplicabili tutte le norme del diritto del lavoro nazionale che si traducono in pratica in una mera duplicazione delle protezioni già assicurate ai lavoratori distaccati dall’ordinamento di provenienza allo stesso livello e con il medesimo grado di effettività. La Corte quindi ammette che nel caso di un medesimo istituto contrattuale garantito da entrambi gli ordinamenti è consentita la previsione dell’applicazione della regolazione dello Stato ospitante ove sia più favorevole anche solo parzialmente e – oltretutto – anche al di sopra degli standard minimi eventualmente previsti da direttive comunitarie (si pensi all’orario di lavoro, ai riposi e alle ferie retribuite)95. La novità del più recente orientamento della Corte è costituita dall’ulteriore precisazione che affinché possa ravvisarsi un’inammissibile duplicazione di tutela non occorre che il medesimo istituto sia disciplinato in modo identico nei due ordinamenti, ma è distaccati” (punto 41) e non già quella occupazionale dei lavoratori tedeschi. Nello stesso senso v. Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punti 25-30. 94 Cfr. Corte giust., sent. Commissione v. Repubblica federale di Germania, cit., punti 11-13 e 20-21, il governo tedesco ha giustificato le limitazioni di fatto poste alle imprese straniere al distacco di lavoratori nel settore edile con l’intento della normativa nazionale di “... impedire gli abusi in materia di lavoro precario nell’industria edile e di garantire la tutela previdenziale dei lavoratori occupati in questo settore”, la Corte però nella sua motivazione non si è minimamente interessata degli effetti concretamente prodotti dalla normativa a tutela dei lavoratori tedeschi, ma ha valutato solo quelli ravvisabili a tutela dei lavoratori distaccati; Corte giust., sent. Arblade, cit., punti 51, 52 e 54. 95 Corte giust., sent. Finalarte, cit., punti 55-59, in cui la Corte ha rilevato che il fatto che l’art.7, n.1, della direttiva 93/104 disponga che gli Stati membri debbano prevedere il diritto dei lavoratori ad almeno 4 settimane di ferie retribuite ogni anno non osta di per sé né alla previsione da parte dell’ordinamento di uno Stato membro di una durata delle ferie retribuite superiore né tantomeno all’estensione di questo superiore livello di tutela anche ai lavoratori distaccati. 38 sufficiente che sia assicurata una tutela “sostanzialmente equiparabile”96. La Corte ha rimesso ai giudici nazionali di rinvio la valutazione di una tale “equivalenza sostanziale”97, che deve affermarsi non solo nel caso in cui si registrino differenze poco significanti tra il tipo e il grado di tutela dei due ordinamenti, ma anche nel caso in cui una previsione migliorativa del medesimo istituto dettata dalla legge dello Stato ospitante possa ritenersi compensata con un’altra peggiorativa rispetto alle regolazione dello Stato di provenienza, come si deve dedurre dalla precisazione che la comparazione delle due discipline deve essere complessiva e non clausola per clausola98. La tutela offerta al lavoratore distaccato deve inoltre risultare effettiva, deve risultare, cioè, non solo astrattamente ma autenticamente e concretamente vantaggiosa per questo99. La garanzia di diritti che poi 96 Cfr. Corte giust., sent. 28.2.1996, causa C-272/94, Guiot, in Racc.1996, I-1905, con questa pronuncia la Corte aveva già intrapreso il suo percorso di “relativizzazione” della dottrina Rush Portuguesa rilevando che l’estensione dell’applicazione di disposizioni dell’ordinamento dello Stato ospitante deve ritenersi ingiustificata nel caso in cui i lavoratori distaccati godono di un identica tutela o di “una tutela essenzialmente comparabile” garantita dalla legislazione dello Stato di stabilimento. La Corte giust. ha poi precisato in modo compiuto questo orientamento nelle sentenze Arblade, cit., punti 48,51,79, e Finalarte, cit., punto 44. 97 Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 53; 98 Cfr. Corte giust., sent. 15.3.2001, causa C-165/98, Mazzoleni, in Racc. 2001, I2189, e in Foro it., 2001, IV, 515 e ss., e in Orient. giur. lav, 2001, III, 10 e ss.. La Corte ha affermato in questo caso, in cui ai lavoratori distaccati venivano corrisposti salari inferiori ai minimi retribuiti previsti dai contratti collettivi con efficacia erga omnes applicati nello Stato ospitante, che “... allo scopo di accertarsi se la tutela di cui fruiscono i dipendenti nello Stato membro di stabilimento sia equivalente, esse devono in particolare prendere in considerazione gli elementi collegati all’importo della retribuzione, la durata del lavoro cui tale importo si riferisce, nonché l’importo dei contributi previdenziali e l’incidenza tributaria” (punto 39). F. Bano, op.cit., 15, rileva che nelle sue conclusioni l’avv. gen. Alber aveva prospettato una soluzione diversa secondo la quale la comparazione dovesse essere operata soltanto tra le tariffe di retribuzione lorda. 99 Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punti 52-54; Corte giust., sent. Mazzoleni, cit., punti 34-37; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 29; Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 48, in cui la Corte al fine di valutare l’effettività della tutela aggiuntiva offerta dalla legge dello Stato ospitante ai lavoratori distaccati ritiene necessario che “... il giudice del rinvio verifichi che, al ritorno sul territorio dello Stato membro di stabilimento del loro datore di lavoro, i lavoratori interessati siano davvero in condizione di far valere i loro diritti di ottenere il versamento delle indennità di ferie presso la cassa, tenuto conto, in special modo delle formalità che 39 risultano assai difficilmente azionabili da parte del lavoratore distaccato una volta che sia ritornato nello Stato di provenienza o che soddisfino “bisogni” insussistenti si traduce per la Corte in una barriera all’ingresso nel mercato nazionale delle imprese provenienti da altri Stati membri e, conseguentemente, in una misura di protezione del mercato nazionale in violazione dell’art.49 TCE. L’ineffettività della tutela può travolgere anche discipline delle materie fondanti del diritto del lavoro la cui applicazione parrebbe, invece, estesa di diritto anche ai lavoratori distaccati dall’art.3 par.1 della direttiva 71/96. In particolare la Corte ha ritenuto che nel caso di lavoratori transfrontalieri day by day, i quali prestano la loro attività di lavoro in un diverso Stato membro dove sono distaccati e si recano quotidianamente pur continuando a vivere stabilmente al di là del confine, l’applicazione dei più elevati minimi retributivi imposti dall’ordinamento dello Stato ospitante risulti ingiustificata giacché questi lavoratori si trovano nelle condizioni di non esser gravati del più elevato costo della vita di questo Stato100. Infine la norma nazionale deve superare un’ulteriore prova: quella di “proporzionalità” della disciplina in melius offerta ai lavoratori distaccati in relazione all’entità degli effetti restrittivi della libera circolazione prodotti101. Ogni minima tutela aggiuntiva a vantaggio dei lavoratori distaccati non può certo giustificare una rilevante e radicale compressione della concorrenza intrastatuale nell’offerta di servizi. Così come al contrario un beneficio sostanziale per i lavoratori distaccati può ben giustificare una significativa restrizione della concorrenza sul mercato nazionale delle imprese di servizi provenienti da altri Stati membri102. Il dosaggio tra tutela delle concorrenza e tutela essi devono adempiere, della lingua che devono utilizzare e delle modalità di pagamento”. 100 Corte giust., sent. Mazzoleni,cit. 101 Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 75; Corte giust., sent. Mazzoleni,cit., punti 30 e 41; Corte giust., sent. Finalarte, cit., punti 49-52. 102 La Corte giust. nella sent. Finalarte, cit., opera un tentativo di precisare quali debbano essere in concreto i criteri e gli elementi rilevanti in questa valutazione di proporzionalità tra effetti restrittivi della concorrenza e benefici per i lavoratori distaccati; ai punti 50 e 51 di questa pronuncia si rileva che “A tal fine dovrebbero essere soppesati, da una parte, gli oneri amministrativi ed economici che si impongono ai prestatori di servizi in forza di tale normativa e, dall’altra, il sovrappiù di tutela sociale che essa conferisce ai lavoratori rispetto a quanto è garantito dalla normativa dello Stato membro di stabilimento del loro datore di lavoro. A tal 40 del diritto del lavoro nazionale non è dato chiaramente dalla Corte, che si limita a delle indicazioni dalle quali non è certo agevole dedurre dei sicuri criteri di valutazione per il giudice nazionale, cui, anche in questo caso, la Corte ha rimesso ogni sindacato di merito103. Sarcasticamente Davies ha cercato di immaginare l’espressione di stupore del giudice nazionale di fronte al quale debbono essere riassunte queste controversie, chiamato dalle parti a operare nel merito il duplice sindacato sia di “equivalenza sostanziale” tra le discipline di un istituto del rapporto di lavoro dettate rispettivamente dall’ordinamento dello Stato ospitante e da quello dello Stato di provenienza dei lavoratori distaccati sia di “proporzionalità” con i principi di libera circolazione104. Invero, sebbene l’astensione della Corte da ogni valutazione del merito delle comparazioni tra le diverse regolazioni statuali potrebbe apparire un assurdo, fonte di molte e più complesse controversie di quante ne avrebbe dovuto dirimere, la soluzione adottata riflette l’atteggiamento di estrema cautela con cui la Corte sta cercando di maneggiare la spinosa questione, evidentemente memore dell’effetto dirompente che hanno prodotto le proprie affermazioni ultrapetita nella sentenza Rush Portuguesa. La Corte ha già utilizzato questa “tattica attendista” nelle prime pronunce della sunday trading saga in cui ha rimesso al giudice nazionale la valutazione degli effetti indirettamente discriminatori, della loro giustificazione e proporzionalità delle norme nazionali che disciplinano la commercializzazione di prodotti provenienti da altri Stati membri, per poi – alla luce del disorientamento riscontrato nei giudici nazionali e delle iniziative assunte dalla Commissione e dagli Stati membri – modificare il proprio riguardo sarebbe necessario accertare se l’obiettivo che consiste nell’accordare ai lavoratori distaccati in Germania più giorni di ferie e un’indennità giornaliera più elevata che ai sensi della normativa dello Stato membro in cui ha sede il datore di lavoro possa essere raggiunto mediante norme meno restrittive di quelle che risultano dalla normativa oggetto delle cause principali, per esempio mediante un obbligo imposto al datore di lavoro con sede fuori dalla Germania di pagare direttamente al lavoratore, durante il periodo di distacco, le indennità di ferie alle quali ha diritto secondo la normativa tedesca”. 103 Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 75; Corte giust., sent. Mazzoleni,cit., punti 37 e 41; 104 Cfr. P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 304; nel medesimo senso R. Giesen, op.cit., 152. 41 orientamento in modo da poter essa stessa dare delle indicazioni precettive per la definizione nel merito dei casi sottopostile105. I giudici di Lussemburgo hanno elaborato questo diverso orientamento esaminando casi relativi a periodi anteriori al termine di recepimento della direttiva 96/71 e, pertanto, hanno valutato la compatibilità delle norme nazionali censurate soltanto in relazione al disposto dell’art.49 TCE e non della direttiva. La dottrina si è interrogata se questo orientamento sarebbe rimasto invariato quando la Corte avrebbe dovuto decidere dando applicazione alla direttiva, in particolare nella parte in cui questa sembra dotare i diritti del rapporto di lavoro indicati all’art.3 par.1 di una protezione inviolabile da parte del diritto della concorrenza, in modo apparentemente inconciliabile con le previsioni del Trattato e con la più recente dottrina dello stesso giudice comunitario106. In realtà alcuni passaggi delle motivazioni delle pronunce in materia di posted workers lasciavano abbastanza chiaramente intendere che i ragionamenti della Corte si sviluppavano con attenzione anche agli ambiti di applicazione del diritto del lavoro dello Stato ospitante disegnati dalla direttiva 96/71107. Non sorprende, quindi, che, giunta ad affrontare dei casi in cui finalmente trovava applicazione il disposto della direttiva, la Corte non abbia minimamente modificato il suo ultimo orientamento e abbia ritenuto che nessuna materia disciplinata dal diritto del lavoro degli Stati membri, neppure quelle specificamente enumerate all’art. 3 par.1 della 105 R. Giesen, op.cit., 152, avanza il sospetto che la Corte abbia consapevolmente rimesso ai giudici nazionali una valutazione comparativa impossibile da operarsi con certezza proprio per creare difficoltà agli Stati membri nell’applicare misure protezionistiche e concedere loro l’occasione di ripensare queste scelte alla luce dell’esame dei sistemi degli altri Stati. 106 Cfr. R. Giesen, op.cit., 153; P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 301, secondo il quale – pur premettendo che l’orientamento della Corte era difficilmente prevedibile – non vi erano ragioni giuridiche che potessero giustificare un mutamento di posizioni della Corte quando sarebbe giunta a esaminare casi in cui trovava applicazione il disposto della direttiva. 107 Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 30, dove la Corte dà atto di aver valutato la compatibilità delle norme belghe in esame anche alla luce delle disposizioni della direttiva 96/71 in quanto sebbene fosse pacifico che queste “... non erano in vigore al momento dei fatti. tuttavia, il diritto comunitario non osta a che il giudice a quo tenga conto conformemente a un principio del suo diritto penale, delle più favorevoli disposizioni della direttiva 96/71 ai fini dell’applicazione del diritto interno, ancorché il diritto comunitario non comporti alcun obbligo in tal senso (v. sent. 29 ottobre 1998, causa C-230/97, Awoyemi, in Racc. pag.I-6781, punto 38)”. 42 direttiva, possa dirsi esentata di per sé dal rispetto dalla libertà di circolazione dei servizi, ma ciascuna è indifferentemente assoggettata alle condizioni di parità di trattamento, di equivalenza sostanziale e di proporzionalità108. D’altronde anche la Commissione nella sua recente comunicazione interpretativa della direttiva 96/71 ha fatto espresso rinvio alla giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia soltanto con riferimento all’art.49 TCE in casi in cui il disposto della direttiva ancora non poteva trovare applicazione. Non mi pare, quindi, che possano sussistere dubbi che quest’ultima giurisprudenza della Corte sia destinata nel prossimo futuro a continuare a orientarla nell’enucleare i caratteri dei requisiti (rispondenza a finalità di ordine pubblico e parità di trattamento) che, secondo il disposto della direttiva 96/71, legittimano l’applicazione del diritto e dei contratti collettivi di lavoro nazionali anche alle imprese “transfrontaliere”. Tanto più che la stessa riceverebbe in caso di adozione della nuova direttiva servizi l’esplicito assenso del Parlamento e del Consiglio. 8. La giurisprudenza della Corte di Giustizia appare disattendere l’interpretazione della direttiva 96/71 propugnata da molti Stati membri secondo cui la rispondenza a finalità di “ordine pubblico” dell’estensione ai posted workers del diritto del lavoro dello Stato ospitante sia alla nozione elaborata in ciascun contesto nazionale e, dunque, sostanzialmente alla discrezionalità di ciascun Stato membro. Questa valutazione deve essere effettuata nel merito dal giudice nazionale ma utilizzando i criteri e parametri “comunitari” formulati dalla stessa Corte di giustizia, alla quale in ultima istanza è sempre rimesso il potere di sindacare l’effettiva corrispondenza a tali parametri della decisione del caso concreto del giudice di merito nazionale109. 108 Cfr. Corte giust., sent. 12.10.2004, causa C-60/03, Wolff & Muller GmbH & Co. Kg v. José Filipe Pereira Felix,; Corte giust., sent. 19.1.2006, causa C-244/04, Commissione v. Germania. 109 Cfr. Corte giust. sent. Arblade, cit., punto 34; Corte giust. sent. 25.10.2001, causa C-493/99, Commissione c. Repubblica federale di Germania, in Racc. 2001, I-8163 e in Foro it. 2001, IV, 513; Corte giust. sent. Finalarte, cit., punto 31; Corte giust. sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 19. 109 Cfr. Corte giust. sent. Arblade, cit., punti 30 e 31; Corte giust. sent. Finalarte, cit., punto 33; Corte giust. sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 20; Corte giust. 43 Non mi sembra possa condurre a una diversa conclusione in futuro la previsione di salvaguardia dei criteri di selezione della legge applicabile dettati dal diritto internazionale privato ora espressa dalla nuova proposta di direttiva110. La Convenzione di Roma del 19 giugno del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali prevede all’art.6 che al rapporto di lavoro con elementi di internazionalità trovi applicazione la legge scelta dalle parti; in ogni caso il lavoratore non può esser privato della protezione assicuratagli dalla legge applicabile in difetto di scelta. In quest’ultimo caso la legge applicabile è quella del paese in cui il lavoratore, in esecuzione del contratto, presta abitualmente il suo lavoro, anche se inviato temporaneamente in un altro paese o la legge in cui ha sede il datore di lavoro qualora il lavoratore non operi abitualmente in uno stesso paese. L’art.7 della Convenzione prevede, però, che possano trovare egualmente applicazione le norme imperative dello Stato presso cui presti, anche temporaneamente, la sua attività il lavoratore, che risultino di “applicazione necessaria” e insuscettibili di disapplicazione perché – secondo la ricostruzione dottrinale tradizionale - volte alla salvaguardia della coerenza e della stessa effettività dell’ordinamento interno111. La giurisprudenza comunitaria non ha enucleato con chiarezza quali siano i caratteri dell’abitualità della prestazione dell’attività di lavoro al sent. 31.5.2001, causa C-283/99, Commissione c. Repubblica italiana, in Foro it., 2001, IV, 535. 110 Il considerando 45 della proposta della Commissione del 4.4.2006 recita: “Le relazioni contrattuali tra il prestatore di servizi e il cliente nonché tra il datore di lavoro e il dipendente non sono soggette alla presente direttiva. La legge applicabile alle obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali del prestatore di servizi è determinata dalle norme di diritto internazionale privato”. L’art.17 inoltre prevede che il principio di libera prestazione di servizi così come formulato dall’art.16 della proposta di direttiva non trova applicazione “alle disposizioni riguardanti obblighi contrattuali e non contrattuali, compresa la forma dei contratti, determinate in virtù delle norme di diritto internazionale privato”. 111 Cfr. T. Ballarino, Diritto internazionale privato, Padova, Cedam,1999, 618 e ss.; F. Mosconi, Giurisdizione e legge applicabile ai rapporti di lavoro con elementi di internazionalità, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 55; A. Lyon Caen, S. Sciarra S., La Convenzione di Roma e i principi del diritto del lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 9; M.E. Corrao, Sub art.7, in Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, in Nuove leggi civ. comm., 1995, 1009 e ss.; C. Ogriseg, Recesso libero e limite dell’ordine pubblico, in Mass. giur. lav., 2003, 363. 44 fine di selezionare la legge applicabile al rapporto di lavoro in mancanza di scelta delle parti e – in quanto tale – inderogabile in pejus a norma dell’art.6 co.1 della Convenzione qualora invece le parti abbiano espresso la scelta di una diversa legge. Quando la reiterazione o la durata della prestazione dell’attività di lavoro in uno Stato renda quest’ultima “abitualmente” svolta in quello Stato rimane un problema irrisolto affidato ai giudici di merito chiamati a decidere il caso concreto112. Neppure il riferimento analogico ai criteri per la selezione della giurisdizione dettati dalla Convenzione di Bruxelles sembra fornire orientamenti decisivi113. Non vi sono maggiori certezze circa i criteri per individuare le norme di “applicazione necessaria”, tanto che, secondo la giurisprudenza di gran parte degli Stati membri, tutte le norme imperative dei loro ordinamenti vi sono in concreto ricomprese. In tal modo si riconosce agli Stati una piena sovranità nel determinare le norme applicabile ai rapporti che si svolgono nel loro territorio; in particolare l’imperatività generalizzata delle norme di diritto del lavoro ne imporrebbe l’applicazione a tutte le prestazioni di lavoro svolte - pur temporaneamente – in uno Stato salvo che la legge applicabile secondo i criteri di collegamento non sia più favorevole114. Non può ritenersi che la previsione del legislatore nazionale dell’applicazione del proprio diritto del lavoro ai posted workers, qualora non risulti rispondente ai criteri legittimanti dettati dalla direttiva 96/71, possa invece trovare giustificazione nell’art.7 della 112 Cfr. I. Viarengo, op.cit.,179. Cfr. M.E. Corrao, Profili internazional-privatistici dei rapporti di lavoro nei gruppi di società, in Lav e dir., 2005, 515 e s.; come noto la Convenzione del 1968 è stata comunitarizzata dal Regolamento 44/2001. Sui criteri per individuare il luogo abituale della prestazione per la definizione della giurisdizione da ultimo v. Corte giust. sent. 10.4.2003, causa C-437/00, Pugliese c. Finmeccanica Spa, in Riv. Dir. internaz. priv. proc., 2003,1045. 114 Cfr. Cass. 8.3.1998 n. 2622, in Riv. Dir. internaz. priv. proc., 1999, 633; Cass. 27.3.1996 n. 2756, ivi,1997,469; Cass. 22.2.1992 n.2193, ivi 1994, 150; Cass. 25.5.1985 n. 3209, ivi,658; F. Pocar, I. Viarengo, Diritto Comunitario del lavoro, Padova, Cedam, 2001, 137 e s.; invece per una (fondata) critica a questo orientamento v. R. Clerici, Rapporti di lavoro, ordine pubblico e convenzione di Roma del 1980, in Riv. Dir. internaz. priv. proc., 2003, 815. 113 45 Convenzione di Roma quale norma imperativa della lex fori115 (co.2) o della lex causae (co.1)116. La direttiva 96/71 nel caso di distacco di lavoratori si pone in termini di lex specialis rispetto ai criteri di selezione della legge applicabile al rapporto di lavoro dettati dalla Convenzione. La direttiva prescinde da quale sia la legge applicabile al rapporto di lavoro che è invece selezionata secondo le previsioni della Convenzione, ma disciplina le ipotesi – anche in deroga ai criteri della Convenzione – in cui l’applicazione della legge dello Stato ospitante deve essere imposta e, specularmente, esclusa117. La direttiva crea un microsistema chiuso e autosufficiente, all’interno del quale sono selezionati gli istituti del rapporto di lavoro dei lavoratori distaccati che debbono essere obbligatoriamente disciplinati dallo Stato ospitante al fine di costituire un equilibrio “dato” tra le esigenze di protezione del mercato del lavoro dello Stato ospitante e quelle di libertà di circolazione delle imprese di servizi stabilite in diversi Stati membri. L’equilibrio si fonda appunto sulla previsione: a) della tassatività dell’applicazione ai posted workers della legge dello Stato ospitante solo per gli istituti espressamente previsti dall’art.3 co.1 della direttiva 96/71, b) della facoltà di estensione dell’applicabilità ad altre della legge dello Stato ospitante ad altri istituti solo per motivi di “ordine pubblico”, c) dell’esclusione dell’applicabilità della legge dello Stato ospitante per tutti gli altri istituti anche qualora questa dovesse risultasse applicabile secondo i criteri di collegamento del diritto internazionale privato. Il ricorso a criteri “esterni” alla direttiva 96/71 per selezionare la legge applicabile non ne integrerebbe il disposto, ma sarebbe strutturalmente incompatibile con questo perché altererebbe quell’equilibrio “dato” che la direttiva è espressamente finalizzata a realizzare di per sé tra protezione del mercato del lavoro dello Stato ospitante e garanzia dell’apertura del suo mercato dei servizi alle imprese stabilite in altri stati membri. L’art.6 della direttiva 96/71 prevede che il lavoratore possa far valere il diritto alle condizioni di lavoro garantite all'art. 3 della stessa direttiva dinanzi al giudice dello Stato membro nel cui territorio il lavoratore è o era distaccato. 116 Contra I. Viarengo, La legge applicabile al lavoratore distaccato ..., cit., 182 e s.; G. Balandi, op.cit., 127. 117 Contra I. Viarengo, La legge applicabile al lavoratore distaccato ..., cit., 181, ma sulla base della sola giurisprudenza Rush Portuguesa interpretata come riconoscimento di legittimità da parte della corte di ogni estensione dell’applicazione del diritto dello Stato ospitante se più favorevole per il lavoratore. 115 46 Qualora i criteri di selezione della legge applicabile dettati dalla direttiva 96/71 e quelli previsti dalla Convenzione di Roma dovessero risultare non perfettamente coincidenti, sarebbero soltanto i primi a trovare applicazione. L’art.20 della Convenzione, richiamato non a caso anche nei considerando della direttiva 96/71, prevede infatti che, in caso di conflitto tra i criteri dettati dalla Convenzione e da atti della Unione europea, questi ultimi debbano trovare applicazione. Potrebbe semmai ritenersi che sia la direttiva 96/71 ad assolvere una funzione integratrice della Convenzione118, ma solo nel senso che la direttiva abbia individuato tassativamente quali siano le disposizioni dell’ordinamento dello Stato membro che a norma dell’art.7 della Convenzione possono trovare applicazione necessaria ai lavoratori stranieri che operano temporaneamente nel suo territorio119. O ancora che dalla direttiva possano dedursi i criteri per valutare la temporaneità e non abitualità della prestazione del lavoratore distaccato nello Stato ospitante in relazione non alla durata ma alla certezza del termine della stessa prestazione in quello Stato120. Ma non mi sembra che possa sostenersi che sia la Convenzione a integrare il disposto della direttiva estendendo oltre i limiti segnati dalla stessa direttiva l’ambito di applicazione della legge dello Stato ospitante quale norma di applicazione necessaria in virtù del favor laboris. L’interpretazione qui proposta del rapporto tra direttiva 96/71 e diritto internazionale privato alla luce della espressa salvaguardia di quest’ultimo prevista dalla nuova formulazione della direttiva Bolkestein appare trovare indirettamente conforto nella giurisprudenza della Corte di giustizia e nelle conclusioni degli avvocati generali esaminate nel paragrafo che precede. In nessuno dei casi decisi, invero, la Corte o gli avvocati generali hanno ritenuto di dover esaminare se le norme giuslavoristiche nazionali che producono effetti restrittivi della libera circolazione possano essere giustificate quali norme di “applicazione necessaria” a norma della Convenzione di Roma. Se ne deve dedurre che i giudici comunitari abbiano implicitamente ritenuto che il contesto normativo in cui rinvenire i limiti all’applicazione 118 Contra M. Roccella, T. Treu, op.cit., 130 e ss.; G. Balandi, op.cit.,127 e s. In q. senso M. Magnani, op.cit., 92; G. Orlandini, op.cit., 481; I. Viarengo, La legge applicabile al lavoratore distaccato ..., cit., 182. 120 Cfr. sull’influenza che la giurisprudenza della Corte ha esercitato sulla nozione di abitualità per definire la giurisdizione per le controversie di lavoro a norma dell’art.5 n. 1 della Convenzione di Bruxelles: M.E. Corrao, Profili internazional-privatistici ..., 516. 119 47 imperativa della legge dello Stato ospitante ai lavoratori distaccati sia rigorosamente circoscritto alla disciplina della libera circolazione dei servizi e alla direttiva 96/71. 9. La nuova proposta di direttiva, recependo molte degli emendamenti votati dal Parlamento europeo alla versione originaria della proposta, dota il diritto del lavoro nazionale di uno scudo avverso gli effetti deregolativi che è potenzialmente in grado di produrre la liberalizzazione dei servizi, indotta dall’implementazione negli ordinamenti degli Stati membri della regolazione del diritto di stabilimento e di circolazione delle imprese che viene disciplinata nella direttiva stessa. E’ infatti garantita agli Stati membri la sovranità per quanto attiene “la legislazione del lavoro”, ivi compresa la regolazione della contrattazione collettiva e delle azioni di sciopero e di diverse forme di autotutela collettiva (art.1 co.6 e 7). Sul piano strettamente tecnico-giuridico l’adozione della direttiva segnerebbe per questo profilo un significativo passo avanti non solo rispetto all’originaria proposta di direttiva Bolkestein, ma anche rispetto alla situazione attuale in cui – come dimostra il caso LavalVaxholm – anche l’esercizio dei diritti attribuiti ai lavoratori impiegati stabilmente in uno Stato membro e alle organizzazioni sindacali dall’ordinamento di questo Stato sono potenzialmente soggette a una compressione per bilanciarle, in caso di conflitto, con le libertà di circolazione e di concorrenza. La direttiva comporterebbe anche la “giuridificazione” della Carta di Nizza nelle more o persino in mancanza della ratifica del Trattato costituzionale, che recepisce la stessa Carta, laddove la direttiva prevede che i diritti fondamentali riconosciuti dagli Stati membri e, appunto, anche dalla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea” non possano essere pregiudicati dalle libertà di accesso e di esercizio dei servizi come disciplinate dalla direttiva stessa (cfr. art. 1 co.7)121. 121 Gli artt. 51 e 52 della Carta di Nizza chiariscono che tutti i diritti e principi ivi affermati non hanno efficacia diretta negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, ma esplicano soltanto un’efficacia precettiva in senso verticale, diretta cioè solo alle istituzioni comunitarie e agli Stati membri ed “…esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. La Carta pertanto non attribuisce ai cittadini diritti giustiziabili; l’efficacia “verticale” dei diritti sociali fondamentali riconosciuti da questa legittimerebbe, invece, le scelte dei singoli Stati membri di compressione delle libertà economiche al fine di bilanciarle con la tutela di questi stessi diritti sociali in seno al loro ordinamento nazionale. 48 Nell’impianto della nuova proposta tale sovranità statale risulta, però, esser realmente piena ed esclusiva soltanto nei confronti dei soggetti che - secondo gli orientamenti della Corte di giustizia – compongono il “mercato del lavoro nazionale” di uno Stato membro, e cioè, sul lato dell’offerta, le imprese che stabilmente prestano servizi nel suo territorio avvalendosi della libertà di stabilimento, sul lato della domanda, i lavoratori che vi sono stabilmente impiegati. Come già illustrato, la Corte non considera componenti del mercato del lavoro nazionale né le imprese che prestano temporaneamente servizi in uno Stato membro ospitante diverso da quello di stabilimento, né i lavoratori dalle stesse imprese distaccati per prestare questi servizi anche qualora siano destinate a impegnarli per mesi o anni nel territorio dello Stato ospitante. Queste imprese e lavoratori sono soggette alla regolazione del lavoro dettata dallo Stato ospitante soltanto per gli istituti e nei limiti previsti dalla direttiva 96/71 (cfr. art.3 co.1 lett. a e art. 17 punto 5). Orbene la direttiva 96/71/CE prevede un ambito di applicazione del diritto del lavoro dello Stato ospitante ai rapporti di lavoro dei lavoratori ivi impiegati in regime di distacco abbastanza ampio, ma non certo omnicomprensivo e incondizionato. La direttiva impone l’applicazione della legge dello Stato ospitante per alcuni specifici istituti, in particolare per la determinazione delle retribuzioni minime, dell’orario di lavoro, delle ferie retribuite, delle condizioni di sicurezza, salute e igiene sul lavoro. I lavoratori distaccati in un diverso Stato membro, invece, rimarrebbero soggetti alla disciplina dello Stato di origine – per citare in via esemplificativa gli istituti più significativi – per quanto riguarda le condizioni di esercizio del diritto di sciopero, l’apposizione del termine al contratto, l’interposizione di forza-lavoro, le condizioni e i requisiti di assunzione e di licenziamento, nonché le rispettive tutele giudiziali (reintegra e/o risarcimento). Al riguardo occorre rilevare che il regolamento n. 1408/71, anch’esso fatto integralmente salvo nella nuova proposta di direttiva (cfr. art.3 co.1 lett.b e art.17 punto 9), consente che ai lavoratori distaccati vengano applicati gli oneri previdenziali e assicurativi dello Stato di origine per un periodo minimo di un anno, generalmente prolungata a 2 anni122, determinando così anche rilevanti differenze sul “costo previdenziale” tra lavoratore distaccato e lavoratore nazionale entro tali limiti temporali di distacco. 122 Cfr. D.M. Massaini, op.cit; S. Di Biase, op.cit.. 49 E’ pur vero che la direttiva 96/71 consente agli Stati membri ospitanti di estendere ai lavoratori distaccati l’applicazione della loro legge o della contrattazione collettiva nazionale con efficacia erga omnes anche agli istituti non enumerati nell’art.3 co.1, ma tale estensione è condizionata alla sua necessità per motivi di ordine pubblico, nonché all’adeguatezza e proporzionalità all’efficace perseguimento di questi. Arbitro unico e insindacabile della sussistenza di queste condizioni è la Corte di giustizia, a cui verrebbe indirettamente affidato - per mezzo di un tale sindacato - il discrezionale governo non solo del grado di liberalizzazione e deregolazione dei mercati dei servizi nazionali, ma anche dei margini in cui possa effettivamente instaurarsi una concorrenza tra gli ordinamenti degli Stati membri sulla regolazione delle condizioni di lavoro. I più recenti orientamenti della Corte circa la legittimità di norme nazionali che impongano l’applicazione del diritto dello Stato ospitante a lavoratori distaccati per istituti non ricompresi tra quelli espressamente previsti dall’art. 3 co.1 della direttiva 96/71 sembrano far prevedere che questi ambiti di concorrenza non siano destinati a essere del tutto marginali. Occorre dar atto alla Commissione che – sul piano della regolazione tecnico-giuridica dei criteri selettivi della legge applicabile ai rapporti di lavoro dei posted workers – nulla verrebbe modificato dalla nuova proposta di direttiva rispetto agli approdi della giurisprudenza della Corte di giustizia in merito alla direttiva 96/71123. Potrebbero, però, essere le altre condizioni (giuridiche e fattuali) del contesto complessivo in un mercato interno dei servizi fortemente liberalizzato a mutarne indirettamente gli effetti concreti sul mercato del lavoro degli Stati membri: in primo luogo l’incremento della competizione tra 123 Mi sembra debba condividersi la notazione di U. Carabelli, V. Leccese, op.cit., nota 103, secondo cui l’inapplicabilità ai lavoratori distaccati dalle imprese straniere per contrasto con l’art.49 TCE di una norma nazionale non consentirebbe di censurare quella stessa norma per incostituzionalità a causa della “discriminazione a rovescio” che realizzerebbe a danno delle imprese italiane o stabilite in Italia che continuerebbero ad esser obbligate a rispettarla. Questo meccanismo “demolitorio” sembrerebbe non poter operare nei confronti delle norme lavoristiche nel contesto nazionale non tanto perché, come argomentano i due Autori citati, l’art.35 Cost. legittimerebbe tale differenziazione di trattamento, ma per la disomogeneità della situazione in cui – secondo il diritto comunitario - si trovano i lavoratori che operano stabilmente in Italia rispetto ai lavoratori distaccati: i primi sono parti del mercato del lavoro nazionale, i secondi no. 50 imprese anche sul contenimento dei costi di produzione che le libertà di accesso e di esercizio delle attività di servizi così come disciplinate dalla nuova proposta di direttiva dovrebbero indurre; in secondo luogo la compresenza nei nuovi Stati membri entrati nella Comunità nel 2004 (e in quelli in procinto di entrarvi a breve) sia dei mercati dei servizi meno regolamentati per le condizioni di esercizio sia e dei più bassi standard di tutela e di retribuzione per i lavoratori di tutta la Comunità Europea124. I rilevanti differenziali del costo del lavoro e delle rigidità in entrata e in uscita rispetto ai trattamenti economici e normativi applicati in molti dei nuovi Stati membri (in particolare Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia e Repubblica Slovacca) potrebbero porre a rischio i posti dei lavoratori nazionali o quantomeno le attuali condizioni di lavoro loro praticate, giacché le imprese potrebbero esser indotte a preservare la loro competitività praticando trattamenti inferiori o – qualora questi non siano consentiti dalla contrattazione collettiva e/o dalla legge nazionale – stabilendosi esse stesse in quei Paesi al fine di avvalersi della disciplina giuridica più favorevole e prestare servizi in tutto il mercato interno distaccandovi lavoratori (c.dd. posted workers). Ciò potrebbe accadere mediante un reale trasferimento della sede legale e operativa delle imprese nazionali in questi Paesi oppure in modo “fraudolento”, aprendo una letterbox company che vi elegga soltanto la sua sede legale e vi si stabilisca solo in modo virtuale125. 124 Cfr. J. Cremers J., Free movement revisited, in CLR News, 2005, 3; J. Kvist, op.cit., 301 e ss.. 125 Queste preoccupazioni circa il fenomeno già conosciuto delle letterbox company non possono dirsi fugate dalle precisazioni che sono state formulate nel considerando 18 bis della direttiva. Sebbene vi sia affermato che “Il luogo di stabilimento del prestatore dovrebbe essere determinato in conformità della giurisprudenza della Corte giust., secondo la quale la nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata mediante l’insediamento in pianta stabile. … Secondo questa definizione … una semplice casella postale non costituisce uno stabilimento”; tuttavia viene anche precisato che il requisito di stabilimento dell’impresa in uno Stato membro “… può essere soddisfatto anche nel caso in cui una società sia costituita a tempo determinato o abbia in affitto un fabbricato o un impianto per lo svolgimento della sua attività. Esso può altresì essere soddisfatto allorché uno Stato membro rilascia autorizzazioni di durata limitata soltanto per particolari servizi. Lo stabilimento non deve necessariamente assumere la forma di una filiale, succursale o rappresentanza ma può consistere in un ufficio gestito dal personale del prestatore o da una persona indipendente ma 51 Le condizioni (legali e contrattuali) di lavoro applicate in uno Stato membro diverrebbero quindi una componente del “pacchetto” di convenienze di ogni sistema-paese che l’impresa può valutare al fine di decidere dove stabilirsi non più soltanto per produrre beni da inviare negli altri Stati membri, ma anche per organizzarvi e dirigersi attività di servizi da prestare in via temporanea (seppur per un numero innumerevole di volte e in favore di innumerevoli committenti) negli altri Stati membri. L’aspetto che più interessa in questa sede è che può affermarsi in termini non dubitativi il sistema disegnato dalla direttiva 96/71 consente già ora una concorrenza tra le imprese stabilite in diversi Stati membri giocata anche sulle differenze delle condizioni di lavoro che sono tenute ad applicare. Quale potrebbe essere la natura e – soprattutto - l’entità di questa concorrenza, se possa scadere in un vero e proprio dumping sociale a seguito delle pressioni nel senso di una maggiore competitività nei mercati dei servizi che l’adozione della proposta di direttiva innescherebbe, sono quesiti ai quali è veramente difficile azzardare una risposta. Gli effetti concreti della direttiva, infatti, sarebbero destinati ad esser condizionati dalla sapienza di governo del fenomeno da parte della Corte di giustizia attraverso la propria giurisprudenza su due aspetti nodali: a) la distinzione tra libertà di circolazione e di stabilimento, in particolare nella determinazione della soglia di reiterazione o di durata nel tempo sopra la quale la prestazione di distinti servizi di natura temporanea prestati da un’impresa in un altro Stato membro ospitante si traduca in esercizio della libertà di stabilimento e non più soltanto di libertà di circolazione assoggettando integralmente i propri lavoratori ivi impiegati al diritto del lavoro di quello stesso Stato; b) la nozione di motivi di ordine pubblico che legittimano l’estensione dell’ambito di applicazione della regolazione del lavoro dello Stato ospitante agli Stati distaccati. Vi sono due esigenze contrapposte ma egualmente meritevoli di tutela e considerazione: da un lato evitare che gli Stati membri con più bassi standard di protezione possano scatenare una inarrestabile corsa al ribasso che avrebbe conseguenze sociali e politiche disastrose per il futuro dell’Unione; d’altro lato, però, evitare che gli Stati membri al momento economicamente e tecnologicamente più competitivi possano utilizzare le loro più onerose condizioni di lavoro come uno strumento autorizzata ad agire su base permanente per conto dell’impresa, come nel caso di una rappresentanza”. 52 protezionistico dei loro settori nazionali labour intensive e a bassa qualità tecnologica (quali, ad esempio, il settore edile, delle pulizie, delle manutenzioni) in cui le imprese provenienti dai Paesi meno sviluppati hanno chances di effettiva concorrenzialità126. In un approccio squisitamente economico si ritiene che i differenziali di costo (retributivo e gestionale) tra gli Stati membri dovrebbero riflettere nel mercato unico solo la diversa produttività della forza lavoro e in tal caso risultare indifferenti sul piano della concorrenza interstatuale tra le imprese perché quelle che sono gravate da un costo del lavoro più elevato non sarebbero in alcun modo svantaggiate in quanto godano di una superiore produttività del proprio personale127. Se invece le differenze retributive e normative sussistono nonostante non vi sia un corrispondente differenziale di produttività in seno ai diversi Stati membri, la pressione che la libera circolazione esercita sul livellamento verso i minimi retributivi meno elevati dovrebbe spingere gli Stati e le imprese europee a praticare politiche regolative e retributive strettamente legate alla loro effettiva competitività in quel settore o a specializzarsi e concentrarsi solo nei settori in cui la loro competitività è garantita da altri fattori di produzione (in particolare dalla qualità e innovatività del prodotto o dal know how tecnologico). Intesa in questo modo l’assenza di tutela del diritto del lavoro rispetto alle erosioni operate dalla libera circolazione dei beni e dei servizi diviene fonte di efficienza complessiva del mercato europeo, come se ciascuno Stato fosse libero di applicare alle proprie imprese il diritto del lavoro che preferisce a condizione che il sistema nazionale nel suo complesso sia in grado effettivamente di “permetterselo”128. 126 G. Saint Paul, Making sense of Bolkestein-bashing: trade liberalization under segmented labour markets, CEPR - Centre for economic Policy Research – London, discussion paper n. 5100, 2005, rileva però che, in caso dell’instaurazione repentina nella UE di un mercato interno dei servizi assolutamente libero, nei vecchi Stati membri la rigidità dei mercati del lavoro e la difficile riallocazione in altre attività della forza lavoro poco qualificata causerebbero nel breve termine un incremento della disoccupazione di per questa componente del mercato del lavoro e – soprattutto - una riduzione assai consistente dei suoi livelli retributivi. 127 Cfr. P. Davies, Posted workers ..., cit., 598 e s.; S. Deakin, F. Wilkinson, Rights vs efficiency? The economic case fro transnational labour standards,in Industrial Law Journal, 1994, 289. 128 R. Giesen, op.cit., 144, rileva come l’apertura ad un mercato unico senza barriere tra gli Stati aderenti incrementa l’efficienza e la produttività complessiva e 53 E’ evidente che in questo approccio si considera la regolazione delle condizioni di lavoro esclusivamente quale elemento che incide sul costo di una risorsa che indirettamente poi condiziona la determinazione del prezzo del bene (prodotto o servizio) finale. Si svaluta totalmente la diversa funzione, concorrente a quella appena descritta, che gli ordinamenti costituzionali dei Paesi europei continentali fondati sul pluralismo democratico hanno attribuito e continuano ad attribuire alla disciplina lavoristica (legale e contrattuale) e delle relazioni industriali: quella di strumento principe sia nella ripartizione della ricchezza prodotta tra capitale e lavoro sia nella redistribuzione di questa tra le diverse tipologie professionali e sociali di lavoratori. MASSIMO PALLINI Professore associato di diritto del lavoro Università degli studi di Milano conseguentemente il benessere dei cittadini. E’ inevitabile però che arrivi anche una competizione tra i diversi sistemi di sicurezza sociale che opera pressioni sugli Stati membri, in positivo, a non “sovraccaricare” i propri sistemi, in negativo, a ridurre i livelli di protezione sociale per comprimerne i costi e far guadagnare competitività alle imprese nazionali rispetto alla concorrenza delle imprese con oneri sociali inferiori. R. Giesen, però, sottolinea anche che è difficile comprovare e misurare l’entità della pressione operata sui sistemi sociali, ma comunque si cede sempre alla tentazione di proteggerli con misure che risultano in realtà meramente protezionistiche del mercato interno. 54