PALLINI articolo Bolkestein Riv. Dir. Pubbl. comp. eur. 2007

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Liberalizzazione dei servizi e rischi (veri e presunti) di
dumping sociale nell’Unione Europea.
1. Il principio del mutuo riconoscimento quale strumento di armonizzazione delle
regolazioni nazionali del commercio delle merci e (con diversa efficacia) dei servizi.
2. L’originaria proposta di direttiva Bolkestein bocciata dal Parlamento Europeo: il
principio del paese di origine. 3. Il compromesso della nuova proposta di direttiva di
regolazione dei servizi presentata dalla Commissione: il principio del mutuo
riconoscimento “rafforzato”. 4. Le implicazioni dell’esclusione delle materie di cui
alla direttiva 96/71 dall’ambito di applicazione della nuova proposta di direttiva sui
servizi. 5. Genesi e tramonto dell’immunità del diritto lavoro nazionale dalla libera
circolazione dei servizi. 6. Gli incerti termini del bilanciamento tra libertà di
circolazione e tutela del lavoro realizzato dalla direttiva 96/71/CE. 7. I recenti
orientamenti della Corte di Giustizia circa la legge applicabile ai posted workers. 8. Il
rapporto tra la direttiva 96/71 e la Convenzione di Roma. 9. Vi è ancora un rischio di
dumping sociale nella nuova proposta di direttiva di liberalizzazione dei servizi ?
1.
All’esito di una lunga indagine conclusasi nel 20021, la
Commissione ha rilevato che, sebbene oggi la fornitura di servizi abbia
un’importanza assolutamente primaria nel mercato europeo (70%
GDP), il volume dei servizi scambiati tra i diversi Stati UE è ancora
sensibilmente più contenuto di quello dei beni materiali. Il rapporto ha
ravvisato nella persistenza di un’ampia differenziazione delle discipline
giuridiche nazionali la principale barriera all’effettiva circolazione dei
servizi nel mercato unico.
La principale causa della ridotta armonizzazione delle discipline
giuridiche nazionali della prestazione di servizi deve esser ravvisata
nell’interpretazione sensibilmente più restrittiva e prudente del
principio di libera circolazione dei servizi (art. 49 TCE) adottata dalla
Corte di Giustizia rispetto a quella affermata dalla stessa Corte con
riguardo al principio di libera circolazione delle merci (art. 28 TCE).
1
Cfr. Relazione della Commissione la Parlamento europeo e al Consiglio su Lo stato
del mercato interno dei servizi, COM (2002) 441 definitivo del 30.7.2002;
Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo “Una
strategia per il mercato interno dei servizi”, COM (2000) 888 definitivo del
29.12.2000.
1
Sin dalla metà degli anni ’70 la libertà di circolazione delle merci è
stata plasmata dalla Corte così da trasformarla in una misura
utilizzabile per perseguire non solo l’integrazione dei mercati degli
Stati membri, ma anche la “liberalizzazione” di quei settori nazionali
che gli Stati intendano proteggere dal libero mercato. In quegli anni,
infatti, la Corte di Giustizia ha abbandonato una lettura di questa norma
in senso meramente antidiscriminatorio, per adottarne una assai più
ampia, capace di travolgere unitamente alle normative nazionali che
discriminano in via diretta o indiretta le imprese stabilite in diversi Stati
membri, anche quelle norme che comprimono il volume dei traffici e
dei commerci interstatuali, pur se applicate con modalità identiche alle
imprese nazionali e straniere e destinate a produrre i medesimi effetti
nei confronti di quest’ultime2.
Come noto la Corte di Giustizia ha elaborato l’orientamento
sintetizzato nelle nota formula Dassonville, secondo cui “ogni
normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare
direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi
comunitari va considerata come una misura di effetto equivalente a
restrizioni quantitative”3. Corollario ne è il principio c.d. del mutuo
riconoscimento, elaborato dalla Corte nella sentenza Cassis de Dijon4,
secondo cui ogni prodotto legittimamente commercializzato in uno
Stato membro deve poter essere liberamente commercializzato anche
negli altri Stati, salvo che i diversi e/o ulteriori adempimenti imposti
dagli ordinamenti di questi rispondano a esigenze imperative (a
garanzie dell’imposizione fiscale, della protezione della salute, dei
consumatori o dell’ambiente) e non soddisfabili in altro modo
parimenti efficace, ma meno restrittivo per gli scambi intrastatali.
L’aver ricondotto nell’ambito di applicazione dell’art. 28 TCE ogni
normativa nazionale che fosse anche indistintamente applicabile alle
merci importate da altri Stati membri e a quelle nazionali e che soprattutto - potesse ritenersi anche soltanto potenzialmente lesiva degli
scambi intracomunitari ha permesso, forse oltre l’originaria intenzione
della Corte5, una sostanziale trasformazione dei connotati e delle
2
Cfr. P.Oliver, W. Roth, The internal market and the four freedoms, in C. Mkt L.
Rev., 2004, 411.
3
Corte giust., sent. 11.7.1974, causa C 8-74, Dassonville, in Racc.1974, I-837 ss.
4
Corte giust., sent. 20.2.1979, causa C 120-78, Cassis de Dijon, in Racc. 1979, I-649
ss.
5
Cfr. M. Poiares Maduro, Never on sunday, in S. Sciarra S.(cur.), Labour Law in the
courts, Oxford and Portland Oregon, Hart Publishing, 2001, 281 e s., il quale rileva
2
finalità di questa norma. Essa è divenuta uno strumento per sindacare
qualsiasi tipo di regolazione degli Stati membri, giacché – rilevando in
via primaria la capacità di produrre un “effetto equivalente” a quello di
misure volte alla restrizione degli scambi - risultano relativamente
indifferenti sia l’oggetto che le dichiarate finalità della regolazione
stessa6.
La giurisprudenza della Corte ha progressivamente svalutato il
carattere “transfrontaliero” dello scambio quale criterio di
individuazione dell’ambito di operatività della libertà circolazione delle
merci. La valorizzazione anche della mera potenzialità lesiva sugli
scambi intrastatuali quale condizione sufficiente per il realizzarsi di un
contrasto tra la norma nazionale e la tutela offerta dal Trattato a detta
libertà ha legittimato l’invocazione di quest’ultima anche per la
definizione di controversie relative a scambi “intrastatuali”, che
vedevano contrapposte imprese stabilite nello stesso Stato membro7. La
libertà di circolazione espressamente finalizzata dal disposto letterale
dell’art. 28 TCE alla tutela degli scambi “fra gli Stati membri” ha,
invece, per questa via acquistato una fondamentale rilevanza anche
nella regolazione dei rapporti tra imprese nazionali.
L’accertamento dell’inapplicabilità di una norma nazionale nei
confronti delle imprese di altri Stati in quanto potenzialmente restrittiva
delle loro esportazioni comporta in prima battuta l’inapplicabilità di
tale normativa nei loro confronti8, ma ne consegue in via indiretta
che l’originaria intenzione della Corte nell’adottare una così ampia interpretazione
della portata dell’art.28 TCE non fosse affatto quello di promuovere un riesame di
tutta la regolamentazione del mercato adottata dagli ordinamenti nazionali degli Stati
membri, ma di evitare che differenziazioni ingiustificate delle discipline nazionali
finissero per costituire insuperabili barriere all’accesso dei mercati nazionali per gli
operatori di altri Stati membri.
6
Cfr. G. Tesauro, Diritto Comunitario, Padova, Cedam, 2001, 376; Idem,
Conclusioni del 27.10.1993 nella causa C-292/2, Huenermund, in Racc. 1993, I-6787;
M. Poiares Maduro, We the Court: the European Court of Justice and the European
Economic Constitution, Oxford, Hart Publishing, 1998; R. Rawlings, The Eurolaw
game: deductions from a saga, in Journal of Law and Society, 1993, 309.
7
Cfr. P. Oliver, W. Roth, op.cit., 430 e ss.; v. in particolare Corte giust., sent.
9.8.1994, causa C-363/93, Lacry, in Racc. 1994, I-3957; Corte giust., sent.7.5.1997,
causa C-321, 322, 323, 324/94, Pistre, in Racc. 1997, I-2343, punti 43-48; Corte
giust., sent. 6.6.2002, causa C-159/00, Sapod Audic, in Racc. 2002, I-5031.
8
Cfr. Corte giust., sent. 16.1.2003, causa C-14/00, Commissione c. Italia, in Foro it.,
2003, IV, 72; Corte giust., sent. 16.6.1994, causa C-132/93, Volker Steen c. Deutsche
3
l’inapplicabilità della stessa anche nei confronti delle imprese nazionali
se non si vuole realizzare una “discriminazione a rovescio” a danno di
quest’ultime9. In questo modo ogni pronuncia relativa alla libera
circolazione dei beni si traduce indirettamente in una “abrogazione”
materiale della norma nazionale operante non solo nei confronti delle
imprese straniere, naturali beneficiarie di quelle libertà, ma anche nei
confronti delle imprese nazionali.
Invero nella prima metà degli anni ’90 la Corte – dopo esser stata
chiamata nella c.d. sunday trading saga a confrontarsi apertamente con
le potenzialità demolitorie della regolazione sociale nazionale che la
lettura finalistica della libertà di circolazione è in grado di esprimere10 ha operato un self restraintment cercando di depotenziare l’art 28 TCE
col delimitarne il campo di applicazione alle sole normative nazionali
che regolamentino le caratteristiche “materiali” dei prodotti da
commercializzare, escludendo a contrario quelle che – pur
potenzialmente restrittive delle importazioni - disciplinino le modalità
di produzione e/o di offerta ai consumatori 11. Tuttavia, dopo qualche
anno dall’affermazione di questa più circoscritta portata del principio di
libera circolazione delle merci, la Corte ha dato un’applicazione
progressivamente sempre meno rigorosa alla netta distinzione tra
Bundespost, in Racc. 1994, 2715 e ss.; Corte giust., sent. 8.11.1979, causa C-15/79,
P.B. Groenveld B.V.v. Produktschap voor Vee en Vlees, in Racc. 1979, 3409.
9
Cfr. F. Salmoni, La Corte Costituzionale e la Corte di giustizia delle Comunità
Europee, in Dir. pubbl., 2002, 551 e ss.
10
Si riferisce ai noti casi in cui la Corte giust. si è pronunciata sulla compatibilità con
la libera circolazione delle merci delle leggi nazionali che imponevano la chiusura
domenicale degli esercizi commerciali: Corte giust., sent. 23.11.1989, causa C145/88, Torfaen Borough Council v. B & Q Plc., in Racc. 1989, 3851; Corte giust.,
sent. 28.2.1991, causa C-312/89, Conforama, in Racc. 1991, I-997; Corte giust., sent.
28.2.1991, causa C-332/89, Marchandise, in Racc. 1991, I-1027; Corte giust., sent.
16.12.1992, causa C-169/91, Council of the City of Stoke on Trent v. B & Q Plc, in
Racc. 1992, I-6635. In dottrina v. M. Roccella, La Corte di Giustizia e il diritto del
lavoro, Torino, Giappichelli, 1997, 85 e ss; Idem, Tutela della concorrenza e diritti
fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in Dir. lav. rel. ind., 1993,
1; A. Arnull, What shall we do on sunday?, in Eur. L. Rev., 1996, 112; M. Poiares
Maduro, Never on sunday, cit., 281 e ss.
11
Cfr. Corte giust., sent. 24.11.1993, causa C-267/91 e C-268/91, Keck et Mithouard,
in Racc. 1993, I-6097; Corte giust., sent. 15.12.1993, causa C-292/92, Hunermund, in
Racc. 1993, I-6787; Corte giust., sent. 2.6.1994, causa C-69/93 e C-258/93, Punto
Casa, in Racc. 1994,I-2355; Corte giust., sent. 2.6.1994, causa C-401/92 e C-402/92,
Huekske, in Racc. 1994, I-2199; cfr. G. Tesauro, op.cit., 379.
4
disciplina del prodotto e quella delle modalità di vendita dettata dalla
c.d. dottrina Keck al fine di segnare gli ambiti di applicazione dell’art.
28 TCE. Nei casi in cui norme di quest’ultimo tipo minacciavano
concretamente e significativamente l’accesso al mercato, la Corte è da
ultimo tornata a far disinvoltamente ricorso all’applicazione dei dettami
della libertà di circolazione delle merci senza assolvere l’onere di dar
conto degli effetti direttamente o indirettamente discriminatori delle
norme nazionali censurate12.
La dottrina Dassonville ha prodotto una progressiva armonizzazione
in senso deregolativo degli ordinamenti nazionali, in quanto la libertà di
circolazione delle merci, atteggiandosi quale norma immediatamente
precettiva ma con efficacia soltanto demolitoria, è strutturalmente
incline a operare un’armonizzazione in senso “negativo”13.
La Corte di Giustizia per lungo tempo si è invece trattenuta
dall’estendere l’applicazione di queste potenzialità del principio del
mutuo riconoscimento dalla libera di circolazione delle merci a quella
dei servizi. Tale orientamento è stato indotto dal timore del rischio,
segnalato con particolare insistenza e incisività dagli avvocati generali
Jacobs e Tesauro, che la libertà di circolazione dei servizi, se
reinterpretata in modo estensivo in forza del principio del “mutuo
riconoscimento”, sarebbe inevitabilmente entrata in collisione con le
tutele approntate dagli ordinamenti degli Stati membri ai diritti della
persona tout court, sia nella sua dimensione sociale sia in quella
individuale quale prestatore di lavoro in favore di terzi. A differenza
della circolazione delle merci, infatti, la libera circolazione implica in
una gran quantità di casi l’effettuazione del servizio in loco con
12
Cfr. Corte giust., sent. 4.11.1997, causa C-337/95, Parfums Chistan Dior, in Racc.
1997, I-6013, in cui si è ritenuto che rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art.28
TCE una norma nazionale che consentiva ai titolari di marchi o di diritti d’autore di
impedire agli importatori in parallelo di pubblicizzare la rivendita dei loro prodotti;
Corte giust., sent. 9.7.1997, causa C-34, 35, 36/95, De Agostini, in Racc. 1997, I3843, in cui si è parimenti ritenuto che rientrasse nell’ambito di applicazione
dell’art.28 TCE una norma nazionale che imponeva un divieto totale di pubblicità
televisiva rivolta ai bambini. Rileva la mancanza di rigore della Corte
nell’applicazione della dottrina Keck lo stesso avv.gen. Fennelly nelle conclusioni del
16.9.1999 della causa C-190/98, Graf, in Racc. 2000, I-493, punto 20.
13
Cfr. G. Tesauro, op.cit., 328; S. Deakin, Labour law as market regulation, in P.
Davies, A. Lyon Caen, S. Sciarra, S. Simitis (cur.), European Community labour law,
Oxford, Clarendon Press, 1996, 71 e s.; C.D. Ehlermann, The contribution of the EC
competition policy to single market, in C. Mkt L. Rev., 1992, 258 e ss.
5
l’utilizzo diretto da parte dell’impresa prestatrice di forza lavoro
all’interno del territorio dello Stato ospitante14.
Soltanto agli inizi degli anni ’90 15 la Corte ha timidamente iniziato a
proporre, ma mai in modo inequivoco o con un esplicito riferimento al
principio del mutuo riconoscimento, una lettura “finalistica” dell’art.49
TCE, qualificandolo come norma non solo di garanzia del diritto
all’accesso nel mercato nazionale delle imprese stabilite in altri Stati
membri, ma anch’essa ostativa di qualsivoglia normativa capace di
produrre effetti restrittivi persino della quantità dell’offerta di servizi
sul mercato nazionale, salvo che siano giustificati da imprescindibili
esigenze di ordine pubblico16.
Ciò nonostante la Corte di Giustizia ha continuato a esser assai più
prudente nell’utilizzare le potenzialità di questa lettura con riguardo
all’art.49 TCE rispetto a quanto avesse originariamente fatto con
riguardo alla libertà di circolazione delle merci17. E infatti la Corte ha
in concreto limitato in modo rigoroso il ricorso a questa dottrina
soltanto nelle ipotesi di servizi propriamente “transfrontalieri”18, servizi
cioè prestati da imprese stabilite in uno Stato membro in favore di
Cfr. A. Lo Faro, “Turisti e vagabondi”: riflessioni sulla mobilità internazionale dei
lavoratori nell’impresa senza confini, in Lav. e dir., 2005, 456.
15
Il leading case dell’applicazione della dottrina Dassonville alla libera circolazione
dei servizi è univocamente ritenuto Corte giust., sent. 25.7.1991, causa C-76/90,
Sager v. Dennemeyer & co Ltd, in Racc. 1991, I-4221; v. successivamente Corte
giust., sent. 24.3.1994, causa C-275/92, Customs e Exicse v. Schindler, in Racc. 1994,
I-1039; Corte giust., sent. 10.5.1995, causa C-348/93, Alpine Investments, in Racc.
1995, I-1141; Corte giust., sent.12.12.1996, causa C-3/95, Reisebuero v.Sandker, in
Racc. 1996, I-6511.
16
Cfr. G. Tesauro, op.cit., 376; conclusioni del 26.1.1995 dell’avv. gen. Jacobs nella
causa C-348/93, Alpine investments,in Racc. 1995, I-1141, punti 43-45.
17
Cfr. C.D. Ehlermann, op.cit., 270 e s., il quale sottolinea come la Corte ogni volta
che ha potuto ha evitato di far ricorso all’art. 49, utilizzando piuttosto gli artt. 30 e 82
TCE. Ad es. nei casi Corte giust., sent. 23.4.1991, causa C-41/90, Hoefner, in Racc.
1991, I-1979; Corte giust., sent. 10.12.1991, causa C-179/90, Merci convenzionali
Porto di Genova, in Foro it., 1992, IV, 225; Corte giust., sent. 12.2.1998, causa C 163/96, Raso, in Foro it., 1998, IV, 196; Corte giust., sent. 11.12.1997, causa C-5596, Job Centre coop, in Foro it., 1998, IV, 41, la Corte ha evitato di affrontare il
problema della compatibilità del monopolio dei servizi dettato dalla legge nazionale
con l’art.49 TCE, pur espressamente sollevato dalle parti, ritenendolo assorbito dagli
altri motivi del ricorso.
18
In tal caso quindi “si spostano” da uno stato all’altro soltanto i servizi; v. al
riguardo Corte giust., sent. 25.7.1991, causa C-276/90, Sager, cit.
14
6
clienti residenti in un diverso Stato o servizi che richiedano l’esercizio
in modo strettamente temporaneo e occasionale di un’attività operativa
nello Stato membro del destinatario della prestazione19.
Di recente, sollecitata in tal senso dalla continua pressione della
Commissione, la Corte è sembrata abbandonare l’atteggiamento
prudente che l’ha caratterizzata nell’interpretazione dell’art.49 TCE in
tutti questi anni. E’ così giunta a svalutare in una decisione del 2002 il
requisito dell’incidenza diretta e attuale sugli scambi tra Stati membri
diversi, ritenendo sufficiente per l’applicazione delle previsioni del
Trattato la mera potenzialità di una restrizione di questi, così come
aveva già sostenuto per la libertà di circolazione delle merci20.
2.
Questi ultimi approdi della giurisprudenza comunitaria non
hanno però rassicurato la Commissione circa la capacità della mera
applicazione del principio del mutuo riconoscimento di costituire un
efficace e celere strumento di armonizzazione delle legislazioni
nazionali e di liberalizzazione dei mercati nazionali dei servizi, risultati
che – secondo le conclusioni del rapporto del 2002 – dovrebbero al più
presto essere conseguiti per assicurare una nuova fase di consistente
sviluppo economico in tutti gli Stati membri.
La Commissione ha così pensato nel 2004 di riproporre in una
proposta di direttiva una soluzione regolativa già avanzata nel suo libro
bianco del 198521, secondo la quale il diritto delle imprese
all’applicazione della sola regolazione giuridica dettata dal proprio
paese di origine anche per i servizi prestati negli altri Stati membri
avrebbe dovuto divenire il principio fondamentale a tutela
dell’effettività della libertà di circolazione dei servizi.
Questa proposta di direttiva, denominata “direttiva Bolkestein”22, dal
nome del commissario per il “Mercato Interno” della precedente
Commissione, è stata subito fatta propria anche dalla Commissione
presieduta da Barroso, che l’ha sottoposta al voto del Parlamento
europeo.
19
Cfr. G. Tesauro, op.cit., 470 e ss.
Cfr. Corte giust., sent. 11.7.2002, causa C-60/00, Mary Carpenter, in Racc. 2002, I6279; in q.senso v. P. Oliver, W. Roth, op.cit., 432 e s.
21
Cfr. il libro bianco della Commissione sul completamento del mercato interno
COM 310 definitivo del 14 giugno 1985.
22
COM (2004) 2 definitivo/2, Bruxelles 25.2.2004, Proposta di direttiva del
Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno,
consultabile all’indirizzo www.europa.eu.int .
20
7
L’aspetto centrale sul piano sistematico della proposta originaria era
appunto quello di far evolvere il principio del muto riconoscimento nel
“principio del paese d’origine”, secondo il quale ogni impresa deve
ritenersi sottoposta – non solo per tutte le condizioni di accesso a
un’attività ma anche per quelle di esercizio - unicamente alla
legislazione del paese in cui è stabilita e gli altri Stati membri ospitanti
non possono imporre restrizioni ai servizi forniti da un prestatore
stabilito in un altro Stato membro (art.16). Si sarebbe così realizzata
una rivoluzione copernicana per cui non avrebbe più trovato
applicazione in via generale la legge dello Stato in cui viene
concretamente prestato il servizio, salvo che non si rilevi che questa
produce effetti discriminatori e restrittivi della libera circolazione, ma
al contrario la legge dello Stato di stabilimento dell’impresa23.
Sarebbero stati i Paesi ospitanti gravati dell’onere di provare che le
norme nazionali non producono tali effetti ovvero – qualora non
riuscissero a dimostrarlo – che le stesse rispondono a criteri di necessità
e proporzionalità. La deroga all’applicazione del principio del paese di
origine, infatti, era prevista in via generale esclusivamente per quei
servizi che nello Stato ospitante sono oggetto di un “divieto totale” o
sono condizionati al possesso di “requisiti specifici” giustificati da
ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di salute pubblica
(art.17).
L’idea di coltivare l’armonizzazione attraverso l’induzione di una
competizione tra ordinamenti non nasce da un’intuizione originale della
Commissione ma viene da lontano ed è forte di una ricca elaborazione
del pensiero economico. Si fonda sulla teorica del competitive
federalism elaborata dalla scuola statunitense di law and economics di
ispirazione neoconservatrice e neoliberale per rispondere alle
insoddisfazioni e inefficienze che le politiche tradizionali della spesa
pubblica del New Deal e il crescente peso dello Stato federale nella
regolamentazione del sistema economico avevano generato24.
Cfr. M. Bersani, Bolkestein o Frankestein? Dall’UE una direttiva contro lo Stato
sociale e i diritti del lavoro, 2004, in www.attac.it; R.M. Jennar, Direttiva Bolkestein,
welfare sotto scacco, 2004, in www.attac.it 2004; entrambi sottolineano criticamente
come la proposta di direttiva adotti i medesimi principi e linee guida dell’accordo
generale sul commercio dei servizi (GATS) adottato in sede di Organizzazione
mondiale del Commercio (WTO).
24
Cfr. S. Lombardo, La concorrenza tra ordinamenti nella prospettiva dell’analisi
eonomica del diritto, in A. Zoppini (cur.), La concorrenza tra gli ordinamenti
giuridici, Bari, Laterza, 2004, 195; L. Becchuk, A. Cohen, A. Ferrell, Does the
23
8
Edmund Kitch, uno degli studiosi della scuola di Chicago che ha
maggiormente sostenuto la teoria della concorrenza tra regolazioni in
seno al sistema federale americano25, propose agli inizi degli anni ’80
di sperimentare un approccio simile anche nella Comunità europea, in
alternativa alla integrazione attraverso l’armonizzazione coatta e
centralizzata del diritto comunitario26. La proposta suscitò subito sia
entusiastiche adesioni27, sia critiche radicali28.
Secondo la relazione della Commissione di presentazione della
proposta di direttiva Bolkestein la sovranità nazionale degli Stati
membri circa la regolazione delle prestazioni di lavoro effettuate nei
loro territori sarebbe stata comunque integralmente salvaguardata
giacché la proposta prevedeva espressamente sia nei “considerando”
che nel testo dell’art. 16 che le “materie disciplinate dalla direttiva
96/71/CE” in caso di distacco temporaneo di lavoratori in un diverso
Stato membro fossero espressamente sottratte dall’ambito di
applicazione del principio del paese di origine.
Questa esclusione non ha tranquillizzato la CES e le principali
federazioni sindacali europee, in particolare quelle rappresentative dei
lavoratori del settore edile e dei servizi pubblici locali in Francia,
Germania, Italia, Svezia, Danimarca e Finlandia, che si sono mobilitate
in forza per fermare il cammino di approvazione della direttiva
accusandola di innescare - nel nuovo contesto di un’Europa con 25
Stati membri, caratterizzati da radicali differenze negli standard
protettivi garantiti dai propri ordinamenti - un processo di progressiva e
evidence favor State competition in corporate law?, in California L. Rev., 2002, XC,
1775; F.H. Easterbrook, Antitrust and the economy of federalism, in Journal of Law
and Economics, 1983, XXVI, 23; W.L. Cary, Federalism and corporate law:
reflections upon Delaware, in Yale L. J., 1974, 663; C.M. Tiebout, A pure theory of
local expenditure, in Journal of Political Economy, 1956, LXIV, 416.
25
Cfr. E. Kitch, Regulation and the American common market, in A. Dan Tarlock
(cur.), Regulation, federalism and interstate commerce, Oelgeschlager, Gunn & Hain,
1981.
26
Cfr. E. Kitch, Business organization law: state or federal?, in R. Buxbaum, G.
Hertig, A. Hirsch, K. Hopt (cur.), European business law – Legal and Economic
analyses on integration and harmonization, Berlin/New York, De Gruyter, 1991.
27
In questo senso v. H. Schmidt H. (1996), Economic analyses of the allocation of
regulatory competence in the EC, in M. Buxbaum, H. Hertig, A. Hirsch, K. Hopt
(cur.), European Business Law, Berlin/New York, De Gruyter, 1996, 51.
28
In questo senso v. R. Buxbaum, K. Hopt, Legal harmonization and the business
enterprise, Berlin/New York, De Gruyter, 1988, 274 e s.; N. Reich, Competition
between legal orders: a new paradigm of EC law?, in C. Mkt L. Rev., 1992,865 e ss.
9
sostanziale concorrenza al ribasso tra gli ordinamenti nazionali in
relazione ai sistemi nazionali di protezione sociale e alle condizioni di
lavoro29.
Le critiche più severe sono state indirizzate al sistema di controlli
proposto dalla direttiva, il quale – esonerando le aziende distaccanti
dall’onere di predisporre e conservare presso lo Stato ospitante
documenti comprovanti il rispetto delle condizioni di lavoro da
applicarsi ai lavoratori distaccati secondo il disposto della direttiva
96/71, nonché inibendo a questo stesso Stato qualsiasi procedura di
autorizzazione o verifica preventiva - rimetteva di fatto al solo Paese di
origine dell’impresa distaccante la facoltà di verificare la regolarità
delle condizioni di impiego praticate da quest’ultima (cfr. artt. 24 e 25).
La proposta originaria non eliminava il diritto dello Stato ospitante di
determinare e controllare le condizioni applicate ai rapporti di lavoro
del personale distaccato nel suo territorio; le forme di controllo però
sarebbero state esercitabili dallo Stato ospitante solo ex post e non ex
ante.
3.
L’opposizione alla direttiva Bolkestein e il paventato pericolo
che questa avrebbe legittimato l’invasione di orde di “idraulici
polacchi” pronti a sbaragliare la concorrenza con l’offerta delle loro
prestazioni a prezzi bassissimi ha avuto in Francia un ruolo, se non
decisivo, certamente rilevante nel dibattito sul Trattato costituzionale
europeo, che come è noto si è chiuso con la bocciatura referendaria da
parte dell’elettorato francese.
Il clima di ostilità diffusosi in Germania, Francia, Italia e nei paesi
del nord Europa sembrava condurre la direttiva verso un radicale
rigetto da parte del Parlamento europeo o un suo stravolgimento nei
termini della proposta di modifica (ben 216 emendamenti) approntata
dalla relatrice Gebhardt e approvata dalla Commissione per il Mercato
Interno del Parlamento Europeo (IMCO)30.
Cfr. mozione al Senato dell’11 novembre 2004 presentata dai senatori
G.Malabarba, C.Salvi, N.Dalla Chiesa, A.Falomi, P.Brutti, T.Sodano, L.De Pretis,
G.Cancan, F.Martone, F.Cortina, L.Togni, in www.attac.it; comunicato FIOM, UE,
FIOM: fermare direttive Bolkestein e orari, in www.attac.it; comunicato Federazione
europea dei lavoratori edili e del legno (FETBB) del 25.11.2004, La FELTBB si
mobilita contro la direttiva Bolkestein, in www.attac.it; M. Bersani, op.cit.; R.M.
Jennar, op.cit.; P. Khalfa P., Progetto di direttiva Bolkestein: una macchina da guerra
contro i popoli d’Europa, in www.attac.it, 2004.
30
IMCO - Rapporto finale del 15.12.2005 A6-0409/2005.
29
10
Appena qualche giorno prima della seduta plenaria del Parlamento
del 16 febbraio 2006, Popolari e Socialisti Europei hanno raggiunto un
accordo di compromesso su un diverso testo, che secondo gli intenti
dichiarati dai protagonisti avrebbe dovuto comportare la cancellazione
del principio del paese di origine e l’integrale applicazione del diritto
del lavoro dello Stato dove viene effettuata la prestazione di servizio,
anche in materia di controlli.
In realtà il testo adottato è estremamente ambiguo e non appare
sicuramente in grado di garantire ai diritti del lavoro nazionali quella
piena immunità dalla libera circolazione dei servizi che le componenti
del Parlamento che lo hanno votato intendevano (o quantomeno
avevano dichiarato di intendere) assicurare.
Per quanto attiene al principio di regolazione della circolazione dei
servizi nel mercato unico la formulazione votata é estremamente vago
tanto da prestarsi a due letture diametralmente divergenti: una secondo
cui vi sarebbe una mera riaffermazione del principio del mutuo
riconoscimento; un’altra secondo cui si detterebbe un principio
imperativo nei confronti di ogni Stato di liberalizzare i settori non
armonizzati e rimuovere tutte le normative che comprimano i vantaggi
dei prestatori di servizi di altri Stati membri31.
Per quanto attiene alla regolazione dei rapporti di lavoro da
applicarsi dalle imprese che prestano servizi in Stati diversi da quello di
stabilimento, si operava nuovamente solo un rinvio alla direttiva 96/71,
seppur cancellando tutte le previsioni in materia di controlli dettate
dalla proposta originaria.
Quando sembrava che il testo adottato dal Parlamento fosse
destinato a un perenne stato di quiescenza poiché era manifesto che non
avrebbe incontrato il favore del Consiglio se sottoposto al suo voto, la
Commissione ha inaspettatamente ripreso l’iniziativa presentando il 4
aprile 2006 una nuova proposta di direttiva e riattivando ex novo la
procedura di codecisione a norma dell’art. 251 TCE32.
La nuova proposta della Commissione recepisce in gran parte le
modifiche apportate dal Parlamento Europeo, anche riguardo ai profili
giuslavoristi.
31
Le due letture sono state già (plausibilmente) proposte, ad esempio, rispettivamente
da Il Sole 24 ore (9.2.2006 A.Cerretelli) e da Liberazione (9.2.2006 A.Milluzzi).
32
Proposta modificata di direttiva del Paralamento europeo e del Consiglio relativa ai
servizi nel mercato interno, Bruxelles 4.4.2006, COM (2006) 160, 2004/0001 (COD),
consultabile in www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ.
11
La proposta si divide in due parti: la prima riguarda il diritto di
stabilimento in ogni Stato membro delle imprese che esercitano attività
di servizi; la seconda la libertà di circolazione di queste stesse imprese
per prestare i loro servizi in Stati diversi da quello di stabilimento.
Per quanto attiene il pieno godimento del diritto di stabilimento delle
imprese fornitrici di servizi si prevedono delle misure di
semplificazione delle procedure e adempimenti amministrativi relativi
all’accesso e all’esercizio delle attività di servizi in ciascun Stato
membro. Regimi di autorizzazione (art. 9 e ss.) e di selezione (art. 12 e
ss.) per accedere a un’attività di servizi potranno essere legittimamente
previsti dagli ordinamenti nazionali solo a condizione che rispondano a
criteri non discriminatori, siano giustificati da un “motivo imperativo di
interesse generale”, siano proporzionati rispetto all’effettiva capacità di
perseguire tale obiettivo di interesse generale (cfr. artt. 10 e 15).
Al riguardo vi è una differenza sostanziale rispetto al testo approvato
dal Parlamento. Mentre quest’ultimo escludeva in toto da questo
regime sia i servizi di interesse generale (SIG) sia i servizi economici di
interesse generale (SIEG), la nuova proposta della Commissione
esclude di diritto solo i primi, mentre prevede che tale regime non trovi
applicazione ai servizi di interesse economico generale “... solo in
quanto la loro applicazione non ostacoli, de iure o de facto, la funzione
particolare di tali servizi”33. Nella proposta di direttiva non viene
offerta alcuna qualificazione o criterio qualificatorio dei servizi di
interesse economico generale, problema che arrovella ormai da decenni
il diritto e la giurisprudenza comunitaria e che non avrebbe potuto
trovare sede più appropriata per essere risolto se non una direttivaquadro sulla regolazione dei servizi. La Commissione può
indubbiamente invocare a sua giustificazione l’impraticabilità per
palese contrasto con il disposto del Trattato della soluzione adottata nel
testo approvato dal Parlamento che rimetteva alla discrezionalità di
cascun Stato membro la possibilità di dettare i criteri di qualificazione
dei servizi di interesse generale sottratti alle regole della concorrenza di
mercato nel proprio ordinamento. In tal modo ogni Stato sarebbe stato
legittimato ad attrarre a suo piacimento nella sfera dei servizi di
interesse generale qualsivoglia servizio, costruendo un mercato
comunitario in cui le regole della concorrenza avrebbe trovato
applicazione in modo non uniforme e in balia delle scelte
protezionistiche degli Stati membri.
33
Cfr. art. 15 co.4 della nuova proposta di direttiva.
12
Neppure la scelta “astensionistica” ora proposta dalla Commissione
può soddisfare in quanto il problema rimane irrisolto sul piano
normativo e lo si rimette totalmente agli orientamenti (sinora non certo
chiari e univoci) della Corte di giustizia. Il grado di apertura e chiusura
dei servizi nazionali al libero mercato, salvo i (numerosi) casi di
esclusioni espresse previste nella proposta, sarà governato dalla
nozione di “motivi di interesse generale” che andrà adottando il
Giudice comunitario. La proposta di direttiva d’altronde non ne fa certo
mistero affermando esplicitamente che “la nozione di motivi imperativi
di interesse generale cui fanno riferimento alcune disposizioni della
presente direttiva è stata progressivamente elaborata dalla Corte di
giustizia nella propria giurisprudenza relativa agli articoli 43 e 49 del
trattato, e potrebbe continuare ad evolvere” (considerando 20 bis).
Rischiano pertanto di risultare delle vuote enunciazioni le previsioni
dell’art.1 della proposta secondo cui la direttiva “non riguarda la
liberalizzazione dei servizi di interesse economico generale riservati a
enti pubblici o privati, né la privatizzazione di enti pubblici che
forniscono servizi”. Queste rassicurazioni, infatti, sono contraddette
dalla scelta sistematica di rimettere alla Corte il potere di decidere in
ultima istanza – forgiando le nozioni di servizi di interesse generale e di
interesse economico generale - quali attività di servizi possano essere
legittimamente sottratti al libero mercato dagli ordinamenti degli Stati
membri.
Tale problematica della potenziale portata liberalizzatrice della
proposta della direttiva non è, però, destinata a incidere (se non in
modo del tutto indiretto) sulla sovranità nazionale delle condizioni di
lavoro che debbono essere osservate dalle imprese che esercitano
stabilmente un’attività di servizi nel territorio dello Stato. Nei
considerando e nell’art.1, infatti, viene solennemente affermato più
volte che la direttiva (in tutte le sue parti) non incide su “la legislazione
del lavoro, segnatamente le disposizioni giuridiche o contrattuali che
disciplinano le condizioni occupazionali, le condizioni di lavoro,
compresa la salute e la sicurezza sul posto di lavoro, e il rapporto tra
datori di lavoro e lavoratori, che gli Stati membri applicano in
conformità del diritto comunitario”, né sulla normativa degli Stati
membri in materia di sicurezza sociale. Inoltre la direttiva non può
recare pregiudizio – precisazione di grande rilievo – “ ... all’esercizio
dei diritti fondamentali quali riconosciuti dagli Stati membri e dalla
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, incluso il diritto di
negoziare, concludere ed eseguire accordi collettivi e di intraprendere
13
un’azione sindacale”34. I servizi offerti dalle agenzie di lavoro
interinale sono esclusi dall’ambito di applicazione della direttiva35.
Al diritto del lavoro nazionale viene quindi offerto – almeno sul
piano della sovranità giuridica nazionale - uno scudo in grado di
proteggerlo dalle pressioni deregolative che la liberalizzazione delle
attività di servizi potrebbe esercitare sulla legislazione nazionale
applicabile ai lavoratori che – indipendentemente dalla cittadinanza –
prestano stabilmente la loro attività di lavoro in uno Stato membro a
norma dell’art.39 TCE. Nelle formulazioni degli articoli e dei
considerando della direttiva risuona l’eco del caso Laval-Vaxholm che
è stato più volte evocato nella discussione parlamentare. La Corte di
Stoccolma in questa controversia ha rimesso alla Corte di giustizia una
questione interpretativa in merito alla compatibilità con la libertà di
circolazione dei servizi di una legge nazionale che garantisca
l’esercizio a oltranza del diritto di sciopero e di azioni sindacali
offensive di solidarietà avverso un’impresa straniera al fine di
costringerla ad applicare ai propri dipendenti distaccati per realizzare
un appalto contratti collettivi di lavoro stipulati tra le parti sociali nello
Stato ospitante, ma comunque privi di efficacia erga omnes nel suo
ordinamento36. Le previsioni della proposta di direttiva sembrerebbero
esser specificamente finalizzate a impedire che a tale o a simili
interrogativi la Corte di giustizia possa dare in futuro una risposta
negativa.
Cfr. art. 1 co. 7. Il considerando 6 nonies ribadisce che: “La presente direttiva deve
essere interpretata in modo da riconciliare l’esercizio dei diritti fondamentali, quali
riconosciuti dagli Stati membri e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, e le libertà fondamentali di cui agli articoli 43 e 49 del trattato. Tali diritti
fondamentali includono, fra l’altro, il diritto a intraprendere un’azione sindacale. La
presente direttiva deve essere interpretata in modo da garantire pienamente tali
diritti e libertà fondamentali”. L’art.16 co.3 afferma ulteriormente a scanso di ogni
equivoco che “Allo Stato membro in cui il prestatore del servizio si trasferisce ... non
può essere impedito di applicare, conformemente al diritto comunitario, le proprie
norme in materia di condizioni dell’occupazione, comprese le norme che figurano
negli accordi collettivi”.
35
Cfr. considerando 6 octies e art. 2 co.2 lett. c ter.
36
Cfr. Corte di lavoro di Stoccolma, ord. 15 settembre 2005, in Riv. it. dir. lav., 2006,
II, 2, con mia nota, Il caso Laval-Vaxholm: il diritto del lavoro ha già la sua
Bolkestein?; C. Woolfson, J. Sommers, Labour mobility in construction: european
implications of the Laval un Partneri dispute with swedish labour, in European
Journal of Industrial Relations, 2006, 49.
34
14
Una equivalente immunità non viene però offerta al diritto del
lavoro nazionale nella ipotesi di lavoratori distaccati in uno Stato
ospitante da imprese stabilite in un diverso Stato membro.
Invero l’aspetto più problematico della proposta della Commissione
è ancora una volta quello della regolazione delle libertà di circolazione
delle attività di servizi. La Commissione ha recepito letteralmente il
testo votato dal Parlamento a seguito dell’accordo di compromesso tra
PPE e PSE, importandone nella nuova proposta anche tutte le
ambiguità di quel testo. Si abbandona il “principio del paese di origine”
quale regola per selezionare il diritto applicabile alle imprese fornitrici
di servizi in un diverso Stato membro; si propone al suo posto un
diverso principio più soft, ma la cui valenza non può certo essere
circoscritta a una norma antidiscriminatoria delle imprese straniere
rispetto a quelle nazionali ai fini dell’accesso alle attività di servizi nel
territorio di uno Stato membro.
Il nuovo testo dell’art. 16 della proposta della Commissione, infatti,
prevede che “Lo Stato membro in cui il servizio viene prestato assicura
il libero accesso a un’attività di servizi e il libero esercizio della
medesima sul proprio territorio. Gli Stati membri non possono
subordinare l’accesso a un’attività di servizi o l’esercizio della
medesima sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i seguenti
principi: a) non discriminazione: i requisiti non possono essere
direttamente o indirettamente discriminatori sulla base della
nazionalità o, nel caso di persone giuridiche, della sede, b) necessità: i
requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di
pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente, c)
proporzionalità: i requisiti sono tali da garantire il raggiungimento
dell’obiettivo perseguito e non vanno al di là di quanto è necessario
per raggiungere tale obiettivo”.
Si tratta quindi dell’affermazione espressa dell’applicabilità alla
libertà di circolazione dei servizi del “principio del mutuo
riconoscimento” nella sua interezza con le medesime modalità praticate
da tempo per la libera circolazione delle merci e, dunque, in una
versione rafforzata rispetto a quella affermata dai più recenti
orientamenti della Corte di giustizia nelle ipotesi di prestazione di
servizi transfrontalieri.
Non si può pertanto considerare l’affermazione di questo principio
un’innovazione eversiva, si tratta piuttosto di un’evoluzione in rapporto
di assoluta continuità con la nozione di libertà di circolazione dei
servizi che si rinviene nella più recente giurisprudenza dei giudici di
15
Lussemburgo. E’ però indebitamente riduttivo e fuorviante affermare –
come si è stato spesso ripetuto da parte di alcuni Parlamentari europei
dopo il voto del 16 febbraio 2006 – che questa norma sia destinata a
garantire la condizione di parità tra imprese nazionali e straniere
nell’accesso ai mercati dei servizi in ogni Stato membro. La norma reca
in sé tutte le potenzialità deregolatrici delle discipline nazionali delle
condizioni di esercizio delle attività di servizi che il principio del mutuo
riconoscimento ha già mostrato di poter esprimere nella giurisprudenza
in cui ha trovato applicazione quale principio regolatore della libera
circolazione delle merci.
Rispetto al principio del paese di origine proposto nella originaria
stesura della direttiva Bolkestein questa formulazione del principio del
mutuo riconoscimento comporta sostanzialmente un’inversione della
presunzione relativa della legittimazione dell’impresa stabilita in uno
Stato membro di offrire i propri servizi negli altri Stati membri alle
medesime condizioni previste dalla legge dello Stato di stabilimento.
Secondo il principio del paese di origine questa legittimazione sarebbe
stata sempre presunta a favore dell’impresa salvo che lo Stato ospitante
non avesse dimostrato che la sua legge nazionale rispondesse alle
finalità d’interesse pubblico per cui è preservata una sovranità statale
esclusiva. Ora, invece, la piena operatività del principio di mutuo
riconoscimento comporterebbe una presunzione di legittimità
dell’imposizione della legge nazionale dello Stato ospitante salvo che
l’impresa lesa dimostri l’insussistenza dei requisiti che possono
giustificare tale imposizione. L’inversione della presunzione relativa e
dell’onere della prova non è certo una differenza di poca rilevanza,
tuttavia in entrambe le proposte l’obbligo di rispetto della legge dello
Stato ospitante è rigorosamente condizionato ai medesimi requisiti
sostanziali: la necessità per la tutela degli interessi pubblici di cui
all’art.46 TCE, la proporzionalità e l’adeguatezza delle misure
normative imposte rispetto a tale fine.
Il principio di mutuo riconoscimento – come dimostra l’esperienza
ormai trentennale in materia di circolazione delle merci - è di per sé
uno strumento strutturalmente idoneo a coltivare un’armonizzazione
soltanto in senso “negativo” degli ordinamenti degli Stati membri,
seppur in modo meno radicale e repentino di quella che avrebbe potuto
essere operare il principio del paese di origine. Si può far affidamento –
come sembrerebbe negli auspici della Commissione – sulla possibilità
che proprio il timore di una non governata armonizzazione negativa si
trasformi nel migliore incentivo per gli Stati membri per addivenire
16
all’adozione di regolazioni comunitarie di armonizzazione “positiva”.
La situazione di stallo dei processi di armonizzazione hard in cui
l’Europa si trova da lungo tempo, in particolare nel campo della
protezione sociale, e l’attuale interesse di alcuni (nuovi e vecchi) Stati
membri di sfruttare il vantaggio competitivo che offre loro una
regolazione nazionale “leggera”, però, inducono a ritenere
eccessivamente ottimistica la fiducia in una tale reazione cooperativa
all’implementazione del nuovo regime di liberalizzazione dei servizi37.
Anche in questo caso, dunque, sarebbe la Corte di giustizia a operare
(di diritto) una funzione di supplenza delle incapacità decisionali degli
organi politici comunitari. La Corte, infatti, è sostanzialmente investita
della funzione di governare il grado effettivo di liberalizzazione e di
deregolazione dei mercati dei servizi negli Stati membri attraverso il
sindacato sulla rispondenza delle norme nazionali ai requisiti di non
discriminazione, necessità e proporzionalità. I caratteri sostanziali di
questi requisiti, infatti, sono totalmente rimessi anche dalla nuova
proposta di direttiva all’insindacabile enucleazione ad opera della Corte
stessa38.
La proposta di direttiva prevede espressamente che tale principio di
mutuo riconoscimento “rafforzato” non si applichi alle condizioni di
lavoro e di occupazione dei lavoratori distaccati per prestare un servizio
nel territorio di un altro Stato membro. Viene infatti fatta salva la
disciplina dettata dalla direttiva 96/71. Nel considerando 41 bis viene
persino enunciata una sorta di summa del dettato della direttiva come
risultante dagli orientamenti della Corte di giustizia39. L’art.3 co.1 della
37
Cfr. M. Houwerzijl, Posting of workers: background, content and implementation
of directive 96/71/EC, in CLR News, 2005, 36, paragona la condizione in cui vengono
a trovarsi gli Stati membri a quella del dilemma del prigioniero.
38
Sulla funzione “paranormativa” delle decisioni della Corte di giustizia v. le ancora
attuali riflessioni di J.H. Weiler, A quiet revolution. The European Court of Justice
and its interlocutors, in Comparative Political Studies, 1994, 514; M. Cartabia,
Principi inviolabili e integrazione comunitaria, Milano, Giuffré, 1995, 229.
39
Il considerando 41 bis significativamente recita: “La presente direttiva non
concerne le condizioni di lavoro e di occupazione che, in conformità della direttiva
96/71/CE, si applicano ai lavoratori distaccati per prestare un servizio nel territorio
di un altro Stato membro. In tali casi, la direttiva 96/71/CE prevede che i prestatori
dei servizi debbano conformarsi alle condizioni di lavoro e di occupazione
applicabili, in alcuni settori elencati, nello Stato membro in cui viene prestato il
servizio. Tali condizioni sono: periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo,
durata minima delle ferie annuali retribuite, tariffe minime salariali, comprese le
tariffe per lavoro straordinario, condizioni di cessione temporanea dei lavoratori, in
17
proposta di direttiva poi chiarisce che in caso di contrasto del suo
disposto con la disciplina specifica del distacco di lavoratori di cui alla
direttiva 96/71 è quest’ultima a prevalere e a trovare integrale
applicazione.
4.
La nuova proposta di direttiva, conformemente al testo votato
dal Parlamento, cancella quelle limitazioni dei controlli esercitabili
dallo Stato ospitante al fine di verificare la correttezza delle condizioni
di lavoro applicate dalle imprese straniere ai dipendenti distaccati che
erano dettata dall’originaria formulazione della direttiva Bolkestein.
Nella relazione di presentazione della nuova proposta però la
Commissione ritiene che tale soppressione sia giustificata soltanto
“come parte di un compromesso globale” e rimanga comunque una
priorità l’eliminazione degli oneri amministrativi che costituiscono
soltanto degli inutili o protezionistici impedimenti alla libera
circolazione dei servizi. A tal fine preannuncia l’impegno a fornire agli
Stati membri degli orientamenti chiarificatori delle tipologie di
controlli che possono esser legittimamente operati sulle imprese
straniere e delle forme di cooperazione amministrativa che possono
instaurarsi con le competenti autorità degli Stati di origine.
La Commissione ha tenuto fede al suo impegno con incredibile
tempestività pubblicando esattamente lo stesso giorno della nuova
proposta di direttiva, il 4 aprile 2006, anche una comunicazione in
merito alla disciplina del distacco dei lavoratori nel quadro della libera
circolazione di servizi40.
particolare la tutela dei lavoratori ceduti da imprese di lavoro interinale, salute,
sicurezza e igiene sul lavoro, provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di
lavoro e di occupazione di gestanti, puerpere, bambini e giovani, parità di
trattamento tra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non
discriminazione. Ciò riguarda non solo le condizioni di lavoro e occupazione stabilite
per legge, ma anche quelle stabilite in contratti collettivi o sentenze arbitrali, che
siano ufficialmente dichiarati o siano di fatto universalmente applicabili ai sensi della
direttiva 96/71/CE. La presente direttiva, inoltre, non dovrebbe impedire agli Stati
membri di applicare condizioni di lavoro e di occupazione a materie diverse da quelle
elencate nell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 96/71/CE per motivi di ordine
pubblico” (ndr).
40
Comunicazione della Commissione su “Orientamenti relativi al distacco dei
lavoratori nell’ambito della prestazione di servizi” del 4.4.2006 COM (2006) 159
definitivo,in www.eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2006.
18
La Commissione tenta in modo quasi spregiudicato di reintrodurre
per via interpretativa esattamente le stesse limitazioni ai controlli e alle
autorizzazioni preventive che venivano dettate dagli artt. 24 e 25
dell’originaria proposta di direttiva Bolkestein e che sono state bocciate
dal Parlamento, accreditandole quali conseguenze necessitate di un
puntuale rispetto del disposto dell’art. 49 TCE come risultante dagli
orientamenti della Corte di giustizia. A sostegno delle sue indicazioni
interpretative, infatti, la Commissione opera nella comunicazione un
continuo (e invero assolutamente puntuale) rinvio a pronunce della
Corte in cui viene affermata ogni determinata limitazione della potestà
di controllo da parte dello Stato ospitante.
E dunque, secondo la comunicazione della Commissione, gli Stati
ospitanti possono imporre alle imprese che distaccano lavoratori nel
loro territorio delle limitazione alla loro libertà di circolazione soltanto
qualora queste siano rispondenti alle finalità di ordine pubblico,
pubblica sicurezza e sanità pubblica consentiti dall’art.46 e le stesse
risultino non discriminatorie e strettamente proporzionate all’interesse
pubblico tutelato. Costituisce una misura sproporzionata imporre
all’impresa distaccante di avere un legale rappresentante domiciliato
nello Stato ospitante, giacché per operare i controlli sulle condizioni di
lavoro applicate ai lavoratori distaccati sarebbe sufficiente incaricare
tra questi un caposquadra per cooperare con l’ispettorato del lavoro
dello Stato ospitante41. Allo stesso modo deve ritenersi incompatibile
con il disposto dell’art. 49 TCE l’adozione da parte di uno Stato
ospitante di un sistema generale di autorizzazione o registrazione
preventiva dell’impresa distaccante42. Mentre, sempre ad avviso della
Commissione, gli Stati ospitanti possono legittimamente imporre che le
imprese distaccanti debbano preventivamente comunicare la tipologia,
l’inizio, la durata e il luogo del servizio da prestarsi, nonché
informazioni circa il numero di lavoratori distaccati a tal fine e le
condizioni di lavoro a quest’ultimi applicate43. Gli Stati ospitanti
possono richiedere alle imprese distaccanti di conservare nella sede
dove viene prestato il servizio soltanto quei documenti che per la loro
41
Si fa rinvio a Corte giust., sent., 23.11.1999, causa C-369/96, Arblade, in Racc.,
1999, I-8453, e in Mass. Giur. Lav., 2000, 221 e ss.; Corte giust., sent. 7.2.2002,
causa C-279/00, Commissione c. Repubblica Italiana, in Racc. 2002, I-1425.
42
Si fa rinvio a Corte giust., sent. 9.8.1994, causa C-43/93, Vander Elst, in Racc.
1994, I-3803.
43
Cfr. Corte giust., sent. 21.10.2004, causa C-445/03, Commissione c. Lussemburgo,
cit..
19
natura non possono che essere redatti in loco: ad esempio i libri
presenze dei lavoratori o i documenti di protezione e sicurezza44. Infine
gli Stati ospitanti non possono imporre adempimenti e condizioni
amministrative aggiuntive per il distacco nel loro territorio di lavoratori
cittadini di paesi extracomunitari, quando questi sono stati
legittimamente assunti in un diverso Stato membro45.
La Commissione nel suo documento sollecita gli Stati membri a dare
puntuale esecuzione all’obbligo di informazione dettato dall’art.4 della
direttiva 96/71 di offrire alle imprese distaccanti chiare, complete e
agevolmente accessibili indicazioni circa le condizioni di lavoro che
esse debbono applicare ai loro lavoratori distaccati; ad esempio si
invitano gli Stati ad utilizzare le potenzialità dei siti internet, inserendo
le informazioni in più lingue; porre a disposizione delle imprese
distaccanti uffici amministrativi efficienti e in grado di fornire notizie
celeri e corrette. La Commissione invita gli Stati membri ad assolvere
compiutamente anche l’obbligo di cui all’art.5 della direttiva 96/71 di
cooperazione con le Amministrazioni pubbliche degli altri Stati al fine
della migliore comunicazione delle informazioni alle imprese
distaccanti e per l’esercizio dei controlli sulle condizioni di lavoro
applicate da queste. Infine la Commissione rammenta agli Stati membri
che l’obbligazione di garantire ai lavoratori distaccati l’applicazione
dell’hard core del loro diritto del lavoro, significa anche assicurare loro
efficaci strumenti e procedure di giustiziabilità degli stessi dinanzi agli
uffici arbitrali e ai giudici dei Paesi ospitanti o prevedendo garanzie
adeguate all’effettiva soddisfazione da parte delle imprese distaccanti
dei diritti dei lavoratori distaccati previsti dalla direttiva 96/71.
L’adozione di questo documento proprio in occasione della
presentazione della nuova proposta di direttiva sulla liberalizzazione
dei servizi mostra che la Commissione ha finalmente preso atto che uno
dei punti più critici di questa proposta, anche nella nuova formulazione,
è l’effetto che questa è in grado indirettamente di produrre sulla
regolazione del lavoro degli Stati membri esponendoli a un potenziale
rischio di dumping sociale, tanto più dopo il maggio 2004 con
44
Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit.; Corte giust., sent. 25.10.2001, causa C-49/98,
50/98, 52/98, 54/98, 68/98, Finalarte, in Racc. 2001, I-7831, e in Foro it., 2001, IV,
513.
45
Cfr. Corte giust. sent. Commissione c. Lussemburgo, cit.; Corte giust. sent. Vander
Elst, cit.; Corte giust. sent. 19.1.2006, causa C-224/04, Commissione c. Germania,
non ancora pubblicata in Racc..
20
l’adesione alla Comunità di altri 10 Paesi che conoscono standard
retributivi e di protezione sociale sensibilmente inferiori a quelli dei
vecchi Stati aderenti e intendono utilizzare questa condizione come
arma concorrenziale da spendere nel mercato comunitario46.
La Commissione ha voluto, però, consapevolmente astenersi sia
nella nuova proposta della direttiva sia nella coeva comunicazione sul
distacco dei lavoratori dall’intervenire – sul piano normativo o su
quello interpretativo – per chiarire se, a quali condizioni e in quale
misura gli Stati membri siano legittimati a ingaggiare una competizione
sulle condizioni di lavoro da applicarsi ai lavoratori distaccati.
Più che il problema dei controlli è questo il problema sostanziale che
la Commissione lascia sul tappeto e che il mero rinvio della nuova
proposta sulla liberalizzazione dei servizi al disposto della direttiva
96/71 non è certo di per sé in grado di risolvere. Sul merito di come la
direttiva 96/71 disciplini o escluda delle pratiche di concorrenza sul
costo (retributivo e gestionale) del lavoro, infatti, si confrontano due
interpretazioni profondamente diverse che vedono contrapposti due
blocchi di Stati membri. La giurisprudenza della Corte di giustizia non
sembra aver ancora maturato un orientamento chiaro e inequivoco al
riguardo, tale da orientare con certezza le scelte legislative degli Stati
membri e l’azione di governo e controllo della Commissione.
La nuova proposta di direttiva, infatti, impone l’applicazione nella
sua interezza del diritto del lavoro dello Stato dove si esegue il servizio
soltanto nell’ipotesi in cui l’impresa straniera intenda esercitarvi
stabilmente la sua attività di servizi. Nel caso di imprese stabilite in
diversi Stati membri che intendono prestare temporaneamente la loro
attività di servizi in un diverso Stato ospitante distaccandovi propri
lavoratori, il rinvio della nuova proposta alla regolazione della direttiva
96/71 non è in grado ex se di assicurare tale effetto47. Quest’ultima
direttiva, come sottolinea la Commissione nella sua comunicazione,
impone che ai lavoratori distaccati siano applicati soltanto alcuni
istituti, seppur molto rilevanti, del diritto del lavoro dello Stato
ospitante. Rimane dunque il problema di quale sia la disciplina legale e
46
Per i differenziali di reddito medio tra vecchi e nuovi stati membri al momento
dell’ingresso nella Comunità di quest’ultimi v. T. Boeri, F. Coricelli, Europa: più
grande o più unita ?, Bari, Laterza, 2003, 12 e ss.; J. Kvist, Does EU enlargement
start a race to the bottom? Strategic interaction among EU member states in social
policy, in Journal of European Social Policy, 2004, 301.
47
Cfr. A. Lo Faro, op.cit., 466 e s.
21
contrattuale da applicarsi per tutti i restanti istituti del rapporto di
lavoro.
La limitata “copertura” della direttiva 96/71 lascia uno spazio non
esiguo per una concorrenza tra le imprese stabilite nei diversi Stati
membri e, in ultima istanza, tra gli stessi ordinamenti di questi. Non
può neppure tranquillizzare il fatto che la nuova proposta di direttiva
sembra escludere in radice questo rischio nel caso di imprese che
esercitino stabilmente un’attività di servizi in un diverso Stato membro.
La forma più diffusa di offerta di servizi, infatti, è proprio quella della
prestazione a titolo temporaneo avvalendosi della libertà di circolazione
a norma dell’art.49 TCE48. L’ambito di applicazione della libertà di
circolazione dei servizi è amplissimo poiché è assai complesso in
concreto distinguere l’ipotesi in cui l’impresa si avvalga del “diritto di
stabilimento” in uno Stato membro da quella in cui si limiti a esercitare
in via temporanea la fornitura di servizi in virtù della “libertà di
circolazione”. Il diritto comunitario non detta un discrimine temporale
tra le due ipotesi. La giurisprudenza della Corte di giustizia qualifica
come esercizio della libertà di circolazione qualsiasi attività di servizio
destinata ad avere necessariamente un termine prevedibile,
indipendentemente dal tempo necessario (anche pluriennale) per la
prestazione del servizio49. La Corte ha inoltre affermato che l’apertura
Il n. 2/2006 della rivista Transfer, edita dal ETUI – European Trade Union Institute,
è integralmente dedicato all’esame del fenomeno: il dato sconcertante che emerge è
che, sebbene si registri una consistente diffusione dei servizi tranfrontalieri prestati in
loco (c.d. Local based), in quasi tutti gli Stati membri non vi siano dati ufficiali circa
il numero di lavoratori stranieri distaccati e la durata dei distacchi.
49
V. Corte giust., sent. 11.12.2003, causa C-215/01, Schnitzer, cit.; Corte giust., sent.
Arblade, cit., punto 20; R. Giesen, Posting: social protection of workers vs.
fundamental freedoms?, in C. Mkt L. Rev., 2003, 146; M. Hourwerzijl, op.cit., 32 e
35. Al riguardo occorre rammentare che l’art. 14 del regolamento CE 1408/71 che
prevede espressamente che il lavoratore distaccato continui a esser soggetto alla
legislazione del proprio paese in materia di sicurezza sociale qualora la durata
prevedibile del distacco sia inferiore ai dodici mesi e il lavoratore non sia stato inviato
in sostituzione di un altro dipendente già distaccato per un periodo massimo di eguale
durata. Se per circostanze imprevedibili il distacco debba essere prorogato oltre i
dodici mesi l‘impresa può previamente richiedere all’autorità competente dello Stato
ospitante di essere esentata dall’applicare la legislazione di quest’ultimo e continuare
ad osservare solo quella del proprio Stato di provenienza sino al compimento dei
lavori e comunque per un periodo massimo di ulteriori dodici mesi. La prima proroga
di dodici mesi viene comunemente accordata da tutti gli Stati membri. V. al riguardo
D.M. Massaini, Distacco di lavoratori nell’ambito della Unione Europea, in Dir.
48
22
di una mera sede di rappresentanza volta alla promozione dell’impresa
e all’informazione alla clientela non comporta l’esercizio del diritto di
stabilimento ma della sola libertà di circolazione50.
La nuova proposta di direttiva non colma in alcun modo questa
mancanza di chiarezza e si limita a far rinvio alla sopra citata
giurisprudenza della Corte di giustizia51.
5.
Per ben comprendere la natura e la rilevanza del problema che
la nuova proposta di direttiva ripropone è necessario ripercorrere le
evoluzioni della giurisprudenza e della normativa comunitaria in
materia di distacco di lavoratori.
La Corte nelle prime pronunce degli anni ’80, in cui si è trovata ad
affrontare il problema degli effetti distorsivi della concorrenza
indirettamente prodotti dalla regolazione nazionale del mercato del
lavoro, non ritenne che la delicatezza sociale della materia regolata e
l’esclusione di una competenza specifica della Comunità in merito
potesse esentare il legislatore nazionale dal rispetto dei principi di cui
all’art. 49 e ss. TCE. La Corte affermò che qualsiasi regime
autorizzatorio a fornire servizi nel mercato nazionale, ivi compresa la
fornitura di lavoro temporaneo, non potesse comunque attribuire alcuna
rilevanza alla nazionalità o al luogo di stabilimento delle imprese e/o
pratica lav., 2005, 199; S. Di Biase, Il distacco trasnazionale dei lavoratori in UE, in
Dir. pratica lav., 2005 11 inserto, 32 e ss..
50
Corte giust., sent. 30.11.1995, causa C-55/94, Gebhard, in Racc. 1995, I-4165.
51
Cfr. Considerando 36 ter, che recita: “Quando un operatore si sposta in un altro
Stato membro per esercitarvi un’attività di servizi occorre distinguere le situazioni
che rientrano nella libertà di stabilimento da quelle coperte, a motivo del carattere
temporaneo dell’attività considerata, dalla libera circolazione dei servizi. Per quanto
concerne la distinzione tra la libertà di stabilimento e la libera circolazione dei
servizi, secondo la giurisprudenza della Corte giust. l’elemento chiave è lo
stabilimento o meno dell’operatore economico nello Stato membro in cui presta il
servizio in questione. Se è stabilito nello Stato membro in cui presta i suoi servizi,
rientra nel campo di applicazione della libertà di stabilimento. Se invece non è
stabilito nello Stato membro in cui viene fornito il servizio, le sue attività sono
oggetto della libera circolazione dei servizi. La Corte ha costantemente ritenuto che il
carattere temporaneo delle attività considerate vada valutato non solo in funzione
della durata della prestazione, ma anche in funzione della sua regolarità, periodicità
o continuità. Il carattere temporaneo della prestazione non deve in ogni caso
escludere che il prestatore di servizi possa dotarsi, nello Stato membro ospitante, di
una determinata infrastruttura (compreso un ufficio o uno studio) nella misura in cui
tale infrastruttura è necessaria per l’esecuzione della prestazione in questione”.
23
del personale di cui si avvalgono e anzi dovesse tener conto della
documentazione e delle garanzie già offerte al diverso Stato membro di
stabilimento presso cui l’impresa sia già autorizzata a esercitare la
medesima attività52. Ma i giudici di Lussemburgo si spinsero subito ben
oltre, sino a ritenere che anche le obbligazioni sostanziali del rapporto
di lavoro imposte dalla legislazione di uno Stato membro non potessero
trovare applicazione all’impresa proveniente da un altro Paese
comunitario, la quale abbia temporaneamente inviato i propri lavoratori
nel territorio del primo, qualora quest’ultimi non ne traggano alcun
beneficio aggiuntivo e la misura nazionale si traduca soltanto in un
onere anticompetitivo per la stessa impresa53. I giudici comunitari
precisarono che un tale onere non potrebbe ritenersi giustificato
neppure nel caso in cui fosse finalizzato a compensare i vantaggi
economici di cui gode l’impresa straniera, gravata da oneri sociali
inferiori, rispetto all’impresa nazionale e ricondurre in condizioni di
parità la competizione tra queste54.
Questo primo orientamento della Corte, dettando dei criteri che
potevano concorrere a limitare l’applicazione della regolazione
nazionale ai lavoratori stranieri temporaneamente operanti nel territorio
di uno Stato membro, suscitò notevoli malumori tra gli Stati membri
principali “importatori” di manodopera, che erano (e sono) tra l’altro
anche i paesi più influenti della Comunità.
La Corte si è così affrettata a mutare il proprio orientamento dotando
la regolazione nazionale giuslavoristica di uno scudo invulnerabile da
parte della libertà di circolazione dei servizi. Nella motivazione della
sentenza Rush Portuguesa la Corte ha affermato che la tutela dei
lavoratori dovesse essere ricompresa proprio tra le “ragioni imperative
d’interesse generale” che potevano legittimamente comprimere questa
libertà fondamentale55. La Corte è stata sollecitata a esprimersi in tal
senso dalle difese del governo francese preoccupato del pericolo di
dumping sociale nel caso in cui fosse permesso a imprese che operano
in Stati membri in cui vi sono discipline legali e contrattuali a tutela dei
lavoratori meno onerose di continuare ad applicare ai propri dipendenti
52
Cfr. Corte giust., sent. 17.12.1981, causa C-279/80, Webb, in Foro it., 1982, IV,
467.
53
Corte giust., sent. 3.2.1982, cuasa C-62/80 e 63/80, Seco e Desquenne, in Foro it.,
1982, IV, 466.
54
V. in particolare punto 14 della decisione.
55
Cfr. Corte giust., sent. 27.3.1990, causa C-113/89, Rush Portuguesa, in Racc. 1990,
I-1417.
24
la disciplina nazionale anche qualora quest’ultimi vengano impiegati
temporaneamente in altri Stati membri56. La Corte al proposito ha
esplicitamente precisato che la sovranità nazionale in materia di
regolazione sostanziale delle condizioni di lavoro non conoscerebbe
alcuna limitazione ad opera delle libertà di circolazione dei servizi in
quanto “... il diritto comunitario non osta a che gli Stati membri
estendano l’applicazione delle loro leggi o dei contratti collettivi di
lavoro stipulati tra le parti sociali a chiunque svolga un lavoro
subordinato, anche temporaneo, nel loro territorio indipendentemente
dal paese in cui è stabilito il datore di lavoro; il diritto comunitario
non vieta agli Stati membri neanche d’imporre l’osservanza di queste
norme con mezzi adeguati”57.
La circostanza che la Corte abbia ritenuto di operare questa
precisazione in un caso in cui la questione non le era stata neppure
sottoposta da parte del giudice nazionale remittente è stata interpetata
come la manifestazione di una ferma volontà della Corte di proteggere
integralmente la sovranità nazionale in materia di regolazione del
rapporto contrattuale di lavoro da possibili aggressioni della libertà di
circolazione e di conferire un imprimatur di legittimità all’applicazione
di tale regolazione nella sua interezza anche ai lavoratori distaccati in
via temporanea da altri Stati membri58.
Forti di questa legittimazione della Corte gli Stati membri che
maggiormente temevano che gli standard di tutela garantiti dai loro
ordinamenti esponessero le imprese e i lavoratori nazionali alla
concorrenza dei posted workers sono corsi ai ripari prevedendo
espressamente l’applicazione delle norme di legge e della
contrattazione collettiva in materia di retribuzione minima, di orario di
lavoro, di condizioni di lavoro e di sicurezza sociale anche ai lavoratori
distaccati da altri Stati membri59.
56
Cfr. R. Giesen, op.cit., 144, il quale correttamente rileva che non può parlarsi in
questo caso di concorrenza sleale ma di competizione tra sistemi normativi.
57
punto 18 della decisione.
58
Cfr. P. Davies, Posted workers: single market or protection of national Labour Law
Systems?, in C. Mkt L. Rev., 1997, 589.
59
Cfr. B. Hepple, Labour laws and global trade, Oxford and Portland, Oregon, Hart
Publishing, 2005, 166; P. Davies, Posted workers ... , cit., 590; G. Orlandini, La
disciplina comunitaria del distacco dei lavoratori tra libera prestazione dei servizi e
tutela della concorrenza: incoerenze e contraddizioni della direttiva n. 71 del 1996,
in ADL, 1999, 465; tutti citano specificamente la legge francese n. 93-1313 del 20
dicembre 1993 e la legge tedesca del 29 febbraio 1996 Gesetz uber zwingende
25
La Commissione ha tentato di intervenire per temperare l’esenzione
assoluta concessa dalla Corte ai diritti del lavoro nazionali proponendo
una direttiva che limitasse l’applicazione delle discipline nazionali
degli Stati ospitanti soltanto nella misura in cui fossero finalizzate a
garantire degli standard minimi di tutela per i lavoratori operanti a
qualsiasi titolo sul territorio dello Stato indipendentemente dalla loro
nazionalità. Per lungo tempo è stato impossibile trovare un accordo per
l’adozione di una direttiva in materia in quanto gli Stati membri con
sistemi di tutela del lavoro più generosi si sono trincerati dietro
l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia che offriva loro il
massimo di tutela cui avrebbero potuto aspirare60.
6.
L’accordo intergovernativo si è poi raggiunto alla fine del 1996,
appunto con l’adozione della direttiva 96/7161, su un testo infinitamente
meno rigoroso di quello proposto in principio dalla Commissione62 e
che – almeno nelle modalità di recepimento adottate dagli Stati membri
– è sembrata non discostarsi in modo sostanziale dalla soluzione
dell’orientamento Rush Portuguesa.
arbeitsdebingungen bei gernzunberschreitenden Dienstleistungen, in BGB,I,227
(quest’ultima però limita l’applicazione della disciplina nazionale soltanto ai
lavoratori del settore edile e per i minimi retributivi).
60
In q.senso P. Davies, Posted workers ..., cit., 591; l’orientamento espresso in Rush
Portuguesa è stato confermato nei medesimi termini anche alcuni anni dopo da Corte
giust., sent. Vander Elst, cit., in particolare punto 23.
61
In Italia la direttiva è stata recepita con il D.lgs. 25.2.2000 n. 72.
62
L’originaria proposta formulata nel 1991 dalla Commissione era quella di
prevedere l’applicazione ai lavoratori distaccati in altro Stato membro esclusivamente
la disciplina legale e contrattuale del diverso Stato in cui ha sede l’impresa qualora la
permanenza necessaria per la prestazione del servizio sia inferiore a 3 mesi e
l’assoggettamento alla disciplina dello Stato ospitante solo nel caso di superamento di
questo tetto massimo temporale (COM (91) 230 final – SYN 346, O.J., 1991, CAUSA
C 225/6), successivamente nel 1993 la Commissione ha proposto quale soluzione di
compromesso di abbassare questo tetto temporale ad un mese, ma sempre
obbligatorio e inderogabile da parte degli stati membri (COM (93) 230 final – SYN
346, O.J., 1993, C 187/5) ; cfr. al riguardo P. Davies, Posted workers ..., cit., 598 e
ss., che sostiene che la proposta originaria della Commissione realizzava un giusto
equilibrio tra tutela dell’occupazione e promozione della competitività e efficienza
della prestazione dei servizi in seno al mercato unico; G. Orlandini, op.cit., 472; M.
Roccella, T. Treu, Diritto del lavoro della Comunità europea, Padova, Cedam, 2002,
126 e ss.; B. Bercusson, European labour law, London, Butterworths, 1996, 398 e ss..
26
Sebbene la direttiva 96/71 indichi come propria base giuridica non
già le disposizioni in materia di politica sociale del Trattato ma gli artt.
46 (ex 57) e 55 (ex 66), che hanno quale fine proprio la tutela della
libertà di stabilimento e di libera circolazione dei servizi, in realtà i
principali beneficiari della direttiva sono risultati i sistemi nazionali di
regolazione del rapporto di lavoro degli Stati “ospitanti”63.
L’impostazione della direttiva adottata è stata totalmente rovesciata
rispetto ai propositi della Commissione: dalla finalità di proteggere le
imprese di servizi dalle misure giuslavoristiche con finalità o effetti
restrittivi della libertà di circolazione, che possono costituire una
ingiustificata barriera al loro ingresso nel mercato di un altro Stato
membro, si è passati a quella di protezione dei livelli occupazionali e
delle condizioni di lavoro nazionali (e conseguentemente delle imprese
nazionali che sono tenute ad applicarli) dalla concorrenza delle imprese
63
In q. senso P. Davies, Posted workers ..., cit., 1997, 572 e s.; F. Bano, La
retribuzione minima garantita ai lavoratori distaccati nell’ambito di una prestazione
di servizi, in Orient. giur. lav., 2001, 12 ; G. Orlandini, op.cit., 467, il quale però
riconosce al fondamento giuridico prescelto, sebbene caratterizzi la direttiva
principalmente come strumento per la politica della concorrenza e solo indirettamente
per perseguire obiettivi della politica sociale, il merito di aver consentito
l’approvazione a maggioranza qualificata piuttosto che all’unanimità, impossibile da
raggiungere sul problema. Per un esame complessivo della direttiva 96/71 e del
rapporto con le previsioni della Convenzione di Roma in merito alla legge applicabile
ai rapporti obbligatori di lavoro (artt. 6 e 7) v. I. Viarengo, La legge applicabile al
lavoratore distaccato in un altro Stato membro nell’ambito di una prestazione di
servizi, in B. Nascimbene (cur.), La libera circolazione dei lavoratori. Trent’anni di
applicazione delle norme comunitarie, Milano, Giuffrè, 1998, 175; M. Biagi, La
fortuna ha arriso alla Presidenza italiana dell’Unione europea: prime note di
commento alle direttive sul distacco dei lavoratori all’estero e sui permessi parentali,
in Dir. rel. ind., 1996, 3 e ss.; S. Sciarra, Diritto del lavoro e regole della concorrenza
in alcuni casi esemplari della Corte di Giustizia europea, in Dir. merc. lav, 2000,
587; G. Orlandini, op.cit., 465 e ss.; M. Roccella, L’Europa e l’Italia: libera
circolazione dei lavoratori e parità di trattamento trent’anni dopo, in Riv. giur lav.,
1997, I, 287, il quale non ritiene che possano ritenersi fondate l’accusa mossa alla
direttiva di costituire essenzialmente un intervento protezionista, essa
rappresenterebbe piuttosto il tentativo di governare il processo di integrazione senza
trascurare le ricadute di carattere sociale; G. Balandi, La direttiva comunitaria sul
distacco dei lavoratori: un passo in avanti verso il diritto comunitario del lavoro, in
Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 115 e ss., il quale invece sembra considerare
appropriata la base giuridica della direttiva alla luce del quinto considerando secondo
cui lo “... sviluppo della prestazione transnazionale di servizi esige un clima di leale
concorrenza e misure che garantiscano il rispetto dei diritti dei lavoratori”.
27
provenienti da Stati membri con costi economici e gestionali del lavoro
più contenuti. Ma mentre questa eterogenesi dei fini è stata salutata dai
giuslavoristi continentali come il riconoscimento da parte del diritto
comunitario del valore sociale fondamentale dell’inderogabilità anche
per le imprese straniere degli standard normativi e contrattuali delle
condizioni di lavoro, oltremanica è stata letta come una iniqua
concessione fatta alle logiche protezionistiche degli Stati membri
gravati da una più “pesante” regolazione sociale64.
Non è stato stabilito un periodo massimo entro il quale le imprese
sono esentate dall’applicazione ai propri lavoratori “distaccati” del
diritto del lavoro dello Stato ospitante, ma al contrario viene affermato
il principio del “day one” secondo cui sin dal primo giorno sussiste tale
obbligazione salvo che in ristrettissime eccezioni o nel caso in cui gli
Stati membri si avvalgano della facoltà di prevedere nel proprio
ordinamento delle esenzioni più ampie per durata e/o per categorie di
servizi65.
Né la direttiva è realmente riuscita a stabilire un “ ... nocciolo duro
di norme protettive chiaramente definite”66 in grado di dare certezza
alle imprese distaccanti in merito a quali siano le disposizioni del diritto
del lavoro dello Stato ospitante cui esse debbono dare
obbligatoriamente applicazione; di fatto è stato consentito agli Stati
membri ampia facoltà di estendere l’applicazione ai posted workers sia
delle previsioni della legge sia della contrattazione collettiva nazionale.
Mentre il par.1 dell’art. 3 prevede che gli Stati membri debbono
applicare ai lavoratori distaccati nel loro territorio le disposizioni
legislative regolamentari o amministrative che disciplinano soltanto
alcuni aspetti specificamente determinati del rapporto di lavoro, in
particolare i minimi retributivi, la durata massima dell’orario di lavoro
e delle ferie retribuite67; il par.10 dello stesso articolo, invece, ampia di
64
Cfr. P. Davies, The posted workers directive and the EC Treaty, in Industrial Law
Journal, 2002, 300 e s.
65
Cfr. art. 3 par. 2, 3, 4 e 5.
66
Così recita il quattordicesimo considerando della direttiva.
67
L’art. 3 par. 1 della direttiva precisa che dette disposizioni dello Stato ospitante
applicabili ai lavoratori distaccati nel suo territorio debbono essere relative a: “a)
periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo; b) durata minima delle ferie
annuali retribuite; c) tariffe minime salariali comprese le tariffe maggiorate per
lavoro straordinario; il presente punto non si applica ai regimi pensionistici
integrativi di categoria; d) condizioni di cessione temporanea dei lavoratori in
particolare la cessione temporanea di lavoratori da parte di imprese di lavoro
28
fatto questa delimitazione prevedendo che gli Stati membri possano
imporre l’applicazione ai lavoratori distaccati delle “condizioni di
lavoro e di occupazione” previste dal proprio ordinamento anche in
materie diverse da quelle contemplate al par.1, seppur a condizione che
si tratti di disposizioni di “ordine pubblico”.
Inoltre, mentre il par.1 dell’art.3 della direttiva prevede che le
previsioni della contrattazione collettiva relative alle materie
specificamente elencate trovino applicazione esclusivamente ai
lavoratori distaccati per la prestazione di servizi nel settore edilizio68, il
par.10 consente, poi, agli Stati membri di estendere del tutto
discrezionalmente l’obbligatorietà dell’applicazione ai lavoratori
distaccati non solo di tutte “le condizioni di lavoro e di occupazione”
stabilite dai contratti collettivi nazionali, prescindendo quindi
dall’indicazione delle materie di cui al par.1, ma oltretutto per la
prestazione di servizi in qualsiasi settore. Tra l’altro il par.8 dello stesso
art.3 precisa che la direttiva non intende riferirsi esclusivamente alle
disposizioni dei contratti collettivi con efficacia erga omnes; qualora
l’ordinamento nazionale non preveda un sistema di dichiarazione
dell’applicazione generalizzata della contrattazione collettiva, gli Stati
membri possono decidere di imporre ai lavoratori distaccati nel loro
territorio anche l’applicazione dei contratti collettivi che sono “... in
genere applicabili a tutte le imprese simili nell’ambito di applicazione
territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate e/o
dei contratti collettivi conclusi dalle organizzazioni delle parti sociali
più rappresentative sul piano nazionale e che sono applicati in tutto il
territorio nazionale”69.
temporaneo; e) sicurezza, salute e igiene sul lavoro; f) provvedimenti di tutela
riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e
giovani; g) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in
materia di non discriminazione”.
68
L’allegato della direttiva specifica che l’applicazione delle previsioni della
contrattazione collettive nelle materie indicate nell’art.3 par.1 a “... tutte le attività del
settore edilizio riguardanti la realizzazione, il riattamento, la manutenzione, la
modifica o l’eliminazione di edifici e in particolare i lavori seguenti: 1) scavo, 2)
sistemazione, 3) costruzione, 4) montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati, 5)
assetto o attrezzatura, 6) trasformazione, 7) rinnovo, 8) riparazione, 9)
smantellamento, 10) demolizione, 11) manutenzione, 12) manutenzione – lavori di
pittura e di pulitura, 13) bonifica”.
69
Cfr. P. Chieco Lavoratore comparabile e modello sociale nella legislazione sulla
flessibilità del contratto e dell’impresa, in AA.VV., Eguaglianza e libertà nel diritto
del lavoro. Scritti in memoria di Luciano Ventura, Bari, Cacucci, 2004, nota 53; G.
29
La facoltà degli Stati membri di prevedere l’applicazione anche alle
imprese “transfrontaliere” dei contratti collettivi nazionali che
rispondono a questa ampia nozione di efficacia soggettiva
“generalizzata” non risulta, però, del tutto incondizionata nella lettera
della direttiva: deve essere comunque garantita dall’ordinamento dello
Stato ospitante la parità di trattamento delle imprese straniere rispetto
alle imprese nazionali che operano nel medesimo settore70.
Occorre poi rilevare che, oltre al rispetto di tali requisiti specifici, la
facoltà di estensione dell’ambito di applicazione della legge nazionale e
della contrattazione collettiva dello Stato ospitante è comunque
condizionata – come espressamente previsto dall’art.3 co.10 della
direttiva 96/71 - al rispetto di tutte le altre previsioni del Trattato, prima
tra tutte la libertà di circolazione dei servizi di cui all’art. 49 TCE. Se
dunque per le materie espressamente elencate all’art.3 co.1 della
direttiva è stato il legislatore comunitario ad affermare la
proporzionalità della conseguente compressione della libertà di
circolazione di servizi, per l’estensione alla regolazione delle altre
materie del diritto del lavoro dello Stato ospitante rimane invece
soggetta all’onere di bilanciamento con questa libertà71.
Orlandini, op.cit., 476; B. Bercusson, op.cit., 1996, 403; G. Balandi, op.cit., 128; A.
Ojeda Aviles, European collective bargaining and posted workers. Comments on
Directive 96/71/EC, in Int. Jour. Com. Lab. Law. Ind. Rel., 1997, 128; tutti
sottolineano che la previsione dell’applicazione della contrattazione collettiva anche
ai lavoratori provenienti da altri Stati membri è la vera “novità rivoluzionaria” sul
piano sistematico della direttiva, in quanto nessuna norma internazionale di
collegamento ha mai previsto l’applicazione ai lavoratori stranieri oltre che della
legge dello Stato ospitante anche della contrattazione collettiva ivi applicata.
70
L’art. 3, par. 8, ultimo capoverso, della direttiva precisa ulteriormente al riguardo
che “Vi è parità di trattamento, a norma del presente articolo, quando le imprese
nazionali che si trovano in una situazione analoga:
- sono soggette, nel luogo o nel settore in cui svolgono la loro attività, ai medesimi
obblighi delle imprese che effettuano il distacco, per quanto attiene alle materie
menzionate al paragrafo 1, primo comma del presente articolo, e
- sono soggette ai medesimi obblighi, aventi i medesimi effetti” (ndr).
71
Cfr. Corte giust., sent. 24.1.2002, causa C 164/99, Portugaia Construcoes Lda, in
Foro it., 2002, IV, 216. In questa pronuncia (v. in particolare punti 31-35) la Corte ha
dichiarato l’incompatibilità sempre con il disposto degli artt. 49 e 50 TCE della stessa
legge tedesca nella parte in cui prevede che ai lavoratori di imprese straniere si
applichino obbligatoriamente i minimi retributivi previsti da un contratto collettivo
nazionale dichiarato di applicazione generale, mentre è concesso alle sole imprese
nazionali di convenire minimi inferiori con un contratto collettivo aziendale. V. al
30
Nelle leggi di recepimento della direttiva di gran parte degli Stati
membri, però, è stata totalmente svalutata la portata delle condizioni
poste alla direttiva all’estensione alle imprese straniere
dell’applicazione delle leggi e della contrattazione collettiva nazionale,
rispettivamente la rispondenza a finalità di ordine pubblico e la
garanzia della parità di trattamento. Si è così (erroneamente) accreditata
la lettura secondo cui agli Stati membri fosse attribuita di fatto una
discrezionalità piena nel decidere se e in quale misura imporre alle
imprese straniere l’applicazione della disciplina legale e contrattuale
nazionale oltre gli istituti previsti espressamente dall’art.3 co.1 della
direttiva72. Quanto al primo requisito - in mancanza di un’espressa
qualificazione nel Trattato dei caratteri dell’”ordine pubblico” – gli
Stati membri hanno ritenuto di poter far riferimento alla nozione di
“disposizione di ordine pubblico” coniata dai loro ordinamenti o dalla
giurisprudenza nazionale che in molti Paesi, tra i quali l’Italia, si
estende sino a ricomprendere in toto o, quantomeno, in grandissima
parte la regolazione del lavoro73. Il secondo requisito è stato
riguardo U. Carabelli, V. Leccese, Libertà di concorrenza e protezione sociale a
confronto. Le clausole di favor e di non regresso nelle direttive sociali, Working
Papers M. D’Antona, n. 64, 2005, 26; A. Lo Faro, op.cit., 465; B. Hepple, op.cit.,168.
72
In q. senso M. Biagi, op. cit., 6 e s., il quale rileva come la non tassatività delle
materie per cui è legittimata l’applicazione del diritto del lavoro dello Stato ospitante
e la possibilità concessa a questo di estenderle invocando la clausola delle
disposizioni di ordine pubblico abbia comportato l’attribuzione alla direttiva dello
spregiativo epiteto di swiss cheese directive (direttiva gruviera); Biagi riconosce però
alla direttiva il merito, pur tra innumerevoli carenze, di aver affermato “… una sorta
di “primato” comunitario, proprio in nome della sussidiarietà, che legittima il
legislatore ad intervenire affinché la concorrenza non subisca distorsioni sotto forma
di dumping sociale”. V. anche B. Hepple, op.cit., 167; P. Davies, Posted workers ...,
cit. 597 e s.; G. Orlandini, op.cit., 478, questi ultimi autori rilevano che in ogni caso
non è corretto ricorrere alle diverse nozioni di “ordine pubblico” adottate negli
ordinamenti negli Stati membri, ma occorre far riferimento a una nozione comune
ricavabile dalla giurisprudenza della Corte giust. elaborata in merito agli artt. 49 e 50
TCE.
73
Si pensi alla giurisprudenza della Corte di Cassazione italiana secondo cui il
principio del favor laboris, quale principio di ordine pubblico, impone l’applicazione
della legge italiana qualora risulti più favorevole al lavoratore rispetto alla legge
straniera applicabile secondo i criteri di collegamento dettati dalle convenzioni
internazionali cfr. Cass. 27.3.1996 n. 2756, in Foro it.,1996, I, 2427; Cass. 9.11.1993
n. 9435, in Giust civ., 1994, I, 1315; Cass. 22.2.1992 n. 2193, in Foro it., 1992, I,
2368; v. al riguardo M. Magnani, Il diritto applicabile ai rapporti di lavoro
internazionali tra legge e contratti collettivi, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 73.
31
indebitamente ritenuto privo di una qualche efficacia concreta a causa
dell’omnicomprensiva nozione di contratti collettivi con efficacia
generalizzata formulata dalla direttiva.
Gli Stati membri, con la sola eccezione in controtendenza della Gran
Bretagna74, hanno così ritenuto in virtù di una tale interpretazione della
direttiva 96/71 di essere legittimati a “blindare” il proprio diritto del
lavoro nazionale imponendone l’applicazione integrale alle imprese
“transfrontaliere”75. Ad esempio il d.lgs 25 febbraio 2000 n. 7276, con
cui appunto è stata recepita la direttiva sul distacco, si è avvalso di tutte
le possibilità di estensione dei limiti di applicabilità del diritto del
lavoro nazionale ai lavoratori distaccati nel proprio territorio sino a
prevederne l’applicazione integrale sia delle disposizioni legali che
contrattuali, per tutte le materie e per tutti i settori77. Il legislatore
italiano ha così ritenuto per un verso di poter qualificare “in blocco”
tutte le previsioni del diritto del lavoro nazionale come “disposizioni di
ordine pubblico” a norma dell’art. 3 par.10 della direttiva78, per altro
verso, di potere rispettare l’obbligo di parità di trattamento attribuendo
74
Cfr. P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 299, il quale rileva che il
Regno Unito, a differenza in particolare della Germania, Francia e Italia, non si è
avvalsa di nessuna delle facoltà di estensione in relazione alle materie e ai settori delle
disposizioni del diritto del lavoro e della contrattazione collettiva nazionale,
imputando tale condotta piuttosto che a una scelta virtuosa rispettosa delle finalità
della libera concorrenza in seno al mercato unico, al declino della contrattazione
collettiva in quel settore che difficilmente risponde ai requisiti di applicazione
“generalizzata” richiesti dalla direttiva.
75
Cfr. C. Barnard, EC Employment Law, Oxford, Oxford University Press,
2000, 179.
76
Pubblicato in G.U. 30.3.2000 n. 75; la dottrina italiana non ha dedicato particolare
attenzione a questa norma, per quanto consta l’unico commento è S. Maretti, Il
recepimento della direttiva Cee sul distacco dei lavoratori, in Mass. giur. lav., 2000,
1148.
77
Il d.lgs. n. 72/2000 ha realizzato quella che M. Biagi, op.cit., ha definito l’“opzione
zero”: non è stata prevista alcuna delle esenzioni facoltative consentite dalla direttiva
96/71.
78
In q. senso P. Davies, Posted workers ..., 597 e s.; G. Orlandini, op.cit., 478; contra
S. Maretti, op.cit., 1156, secondo cui questa scelta del legislatore italiano pur tradendo
“un atteggiamento di accentuato protezionismo”, non sarebbe però in violazione delle
disposizioni della direttiva perché la previsione dell’applicazione della legge italiana
anche ai lavoratori stranieri impiegati nel territorio italiano, ove più favorevole di
quella applicabile al loro rapporto di lavoro secondo i consueti criteri di collegamento,
risponderebbe al principio del favor, che è principio di ordine pubblico internazionale
riconosciuto dalla giurisprudenza nazionale.
32
imperativamente alla contrattazione collettiva di tutti i livelli
un’efficacia soggettiva erga omnes “relativa” nei confronti delle sole
imprese straniere, anche per materie che trascendono la determinazione
dei minimi retributivi di cui all’art.36 Cost.79.
7.
La Commissione, allarmata dal timore che la direttiva 96/71 e
soprattutto le modalità con cui gli Stati membri le hanno dato
attuazione potessero produrre una rigida compartimentazione dei
mercati nazionali dei servizi erigendo per mezzo dei diritti nazionali del
lavoro delle barriere all’ingresso delle imprese straniere, ha continuato
ostinatamente a incalzare i giudici di Lussemburgo affinché
attenuassero la garanzia offerta con la giurisprudenza Rush Portuguesa
a ogni Stato membro di legittimità dell’applicazione generalizzata del
proprio diritto del lavoro nazionale a tutte le imprese che - anche
temporaneamente - prestino servizi nel loro territorio.
Voci autorevoli della dottrina, in particolare anglosassone80, hanno
persino sollevato il dubbio che l’orientamento espresso dalla Corte di
79
Come noto secondo la giurisprudenza i minimi retributivi stabiliti dai contratti
collettivi nazionali trovano applicazione a tutti i datori di lavoro del settore
merceologico cui si riferisce il contratto, anche se non vi hanno aderito o non vi
hanno dato applicazione, in quanto costituiscono parametri fattuali di riferimento per
il giudice nella determinazione della retribuzione minima e sufficiente cui ha diritto il
lavoratore subordinato a norma dell’art.36 Cost. Questa previsione della direttiva
96/71 dunque non solo appare difficilmente compatibile con il disposto dell’art. 39
Cost., ma soprattutto reca una manifesta disparità di trattamento a danno delle
imprese straniere che vengono gravate di oneri cui le imprese italiane che non
aderiscono o non applicano contratti collettivi non sono legittimamente soggette. Cfr.
contra Chieco 2004, nota 87 , il quale deduce da questa previsione del d.lgs. 72/2000
un imperativo di parità all’applicazione delle stesse previsioni contrattuali anche ai
lavoratori italiani alle dipendenze di imprese che non applicano nessun contratto
collettivo quale conseguenza necessitata dall’art.3 Cost. al fine di evitare che questi
lavoratori siano destinatari di un trattamento discriminatorio rispetto a quello previsto
dal legislatore per i dipendenti delle aziende straniere.
80
Cfr. P. Davies, Posted workers ..., cit., 593 e ss., il quale sottolinea che d’altronde è
lo stesso art.3 par.10 delle direttiva 96/71 a prevedere espressamente che la facoltà
degli Stati membri di estensione delle materie e dei settori di applicazione delle
previsioni della legge e della contrattazione collettiva ai lavoratori distaccati nei
rispettivi territori non possa comunque che esser esercitata “... nel rispetto del
Trattato”; P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 301; B. Hepple, op.cit.,
168; M.A. Moreau M.A., Le détachement des travailleurs effectuant une prestation de
service dans l’Unione européenne, in Jour. Dr. Int., 1996, 891; in senso dubitativo R.
Giesen, op.cit., 153.
33
Giustizia nella sentenza Rush Portuguesa e – conseguentemente - la
stessa direttiva 96/71, ove interpretate nel senso di una legittimazione
incondizionata degli Stati membri a comprimere discrezionalmente la
libertà di circolazione dei servizi per tutelare i propri livelli e
condizioni occupazionali proteggendo le imprese nazionali dalla
concorrenza delle imprese degli altri Stati membri con regolazioni dei
contratti di lavoro “più leggere”, si porrebbero radicalmente in
contrasto con le disposizioni fondamentali del Trattato dell’Unione, cui
le fonti di diritto comunitario derivato non possono neppur
parzialmente derogare a pena della loro inapplicabilità81.
Alla fine degli anni ’90 la Corte è sembrata prestar ascolto a questi
timori della Commissione e di parte della dottrina iniziando a
riconsiderare la delega “in bianco” concessa agli Stati membri ponendo
una serie di rilevanti e sostanziali condizioni alla possibilità di questi di
applicare le disposizioni del diritto del lavoro nazionale ai lavoratori
distaccati nel loro territorio82.
La Corte ha ribadito che in via generale il diritto europeo non osta a
che gli Stati membri estendano l’applicazione della legge e della
contrattazione collettiva nazionali ai lavoratori distaccati nel loro
territorio anche qualora i livelli di tutela previsti siano più elevati (e
conseguentemente più onerosi) di quelli previsti dagli standard minimi
dettati dal diritto derivato dell’Unione europea83, ma condiziona il
81
Cfr. Corte giust., sent. 17.5.1990, causa C-262/88, Barber v. Guardian Royal
Exchange, in Racc. 1990, I-1889, in cui i giudici comunitari hanno disapplicato per
contrasto con disposizioni del Trattato gran parte della direttiva 86/378 in materia di
parità negli schemi pensionistici di lavoro; Corte giust., sent. 5.10.2000, causa C376/98, Germania v. Parlamento europeo, in Racc. 2000, I-8419; Corte giust., sent.
causa C-74/99, The Queen v. Secretary of State for Health, ex parte Imperial Tobacco
Ltd e altri, in Racc. 2000, I-8599, in cui la Corte ha di fatto disapplicato totalmente la
direttiva sulla commercializzazione del tabacco perché volta di fatto a tutelare la
salute umana, mentre è inidonea ad agevolare la libera circolazione dei prodotti
sebbene la sua base giuridica sia l’art. 28 TCE .
82
Cfr. B. Hepple, op.cit, 170 e ss.; P. Davies, The posting workers directive ..., cit.,
301.
83
R. Giesen, op.cit., 155 e s., ritiene che, sebbene possa apparire contraddittoria, sia
stata in ogni caso saggia la scelta della Corte di ribadire questo orientamento e non
individuare negli standard minimi comunitari le uniche previsioni che avrebbero
potuto esser imposte dagli Stati membri ospitanti alle imprese di altri Stati;
l’armonizzazione dei minimi non preclude agli Stati di avere un più generoso sistema
di protezione sociale, mentre individuare nei minimi comunitari le previsioni di
“ordine pubblico” di cui all’art.3 della direttiva 96/71 avrebbe reso impossibile in
34
legittimo esercizio di questa facoltà al superamento di tre test: a) di
parità (formale e sostanziale) di trattamento tra imprese nazionali e
straniere, b) di effettività e genuinità della tutela in favore del
lavoratore distaccato, e c) di proporzionalità tra questa tutela e gli
effetti restrittivi della libera circolazione dei servizi prodotti84.
Esattamente i requisiti che ora la nuova proposta di direttiva dei servizi
presentata il 4 aprile 2006 intenderebbe importare e consolidare nel
testo normativo quali condizioni che deve necessariamente rispettare
ogni legge nazionale che comporti la compressione della libertà di
circolazione e di esercizio dell’attività di servizi (cfr. art.16).
Sotto il primo profilo la Corte ha ribadito il principio che - in senso
assoluto - nessuna finalità può giustificare l’applicazione alle imprese
di altri Stati membri di discipline legislative o contrattuali aggiuntive
rispetto a quelle che trovano applicazione nei confronti delle imprese
nazionali, salvo che la diversità di disciplina non possa rigorosamente
attribuirsi a differenze obiettive esistenti tra imprese straniere e imprese
nazionali85.
Proprio per la loro natura direttamente discriminatoria la Corte ha da
ultimo censurato alcune previsioni della legge tedesca sul distacco nel
proprio territorio di lavoratori di altri Stati UE che assoggettavano tutte
le imprese straniere all’applicazione dei contratti collettivi del settore
edilizio, quando invece quegli stessi contratti trovano applicazione nei
confronti delle imprese nazionali solo se queste superano determinate
soglie quantitative di personale impiegato e possono comunque
derogarvi ove stipulino un contratto collettivo aziendale in tal senso86.
Se la misura normativa nazionale è rispettosa del principio di parità
“formale” di trattamento, occorre poi valutare – in senso relativo - se
futuro adottare qualsiasi direttiva in materia di protezione sociale se non realizzando
l’(impossibile) condizione di prescegliere quale minimo il massimo livello di
protezione garantito dallo Stato membro più generoso, il quale altrimenti non avrebbe
alcun interesse a votare una direttiva che indirettamente esonererebbe le imprese
straniere operanti nel territorio di quello Stato dall’applicare la tutela più elevata
imposta alle imprese nazionali.
84
Cfr. P. Davies, The posted workers directive ..., cit.,2002, 301 e ss.; R. Giesen,
op.cit.,146 e ss.
85
Cfr. Corte giust., sent. Finalarte, cit.; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes
Lda, cit.; Corte giust., sent. 25.10.2001, causa C 493/99, Commissione v. Repubblica
federale di Germania, in Racc. 2001, I-8163, e in Foro it., 2001, IV, 513; Corte giust.,
sent. Commissione v. Granducato di Lussemburgo, cit.
86
Corte giust., sent. Finalarte, cit.; Corte giust. sent. Portugaia Construcoes Lda, cit..
35
assicuri anche la parità “sostanziale” tra imprese nazionali e straniere,
se cioè non sia destinata a produrre in concreto effetti discriminatori a
danno di quest’ultime così da restringerne l’accesso al mercato
nazionale dei servizi87. In tal caso misure normative che indirettamente
producano effetti restrittivi della concorrenza possono essere ammesse
solo a condizione che rispondano a “ragioni imperative d’interesse
generale”88. La Corte ha chiarito al riguardo – con evidenti riflessi
sulla condizione di cui all’art. 3 par.10 legittimante l’estensione della
disciplina legale giuslavoristica alle imprese straniere - che la
qualificazione da parte del legislatore nazionale di una norma come
“legge di polizia e di pubblica sicurezza” non la sottrae al sindacato di
effettiva rispondenza ai caratteri propri delle disposizioni di “ordine
pubblico”, volte appunto alla tutela dell’”interesse generale”89.
Quasi ossessivamente la Corte ripete in tutte le pronunce che senza
dubbio rispondono a quest’ultima finalità le norme a“tutela dei
lavoratori” e dunque – come tali – possono operare legittimamente la
compressione delle libertà di circolazione di beni e servizi90.
Dall’analisi dei casi decisi, però, emerge chiaramente che i giudici di
Lussemburgo intendono riferirsi non già ai lavoratori appartenenti al
mercato del lavoro nazionale, bensì ai posted workers, ai lavoratori
distaccati temporaneamente da imprese stabilite in altri Stati membri91.
87
V. di recente Corte giust., causa sent. 17.10.2002, C-79/01, Payroll data service, in
Racc., 2002, I-8923.
88
Cfr. Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 34; Corte giust., sent. Commissione
v. Repubblica federale di Germania, cit., punto 20; Corte giust., sent. Finalarte, cit.,
punto 31; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 19.
89
Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punti 30 e 31; Corte giust., sent. Finalarte, cit.,
punto 33; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 20; Corte giust.,
sent. 31.5.2001, causa C-283/99, Commissione v. Repubblica italiana, in Foro it.,
2001, IV, 535.
90
Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 36; Corte giust., sent. Commissione v.
Repubblica federale di Germania, cit., punto 20; alla luce di tale affermazione U.
Carabelli, V. Leccese, op.cit., 26, deducono elementi tranquillizzanti nel senso che “il
rischio di un vulnus alla cittadella del diritto del lavoro da parte della giurisprudenza
della Corte giust. ... sia in realtà da ritenere assai meno grave di quanto talora
temuto”.
91
Cfr. B. Hepple, op.cit., 191; P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 302,
giudica “bizzarro” questo ragionamento della Corte che finisce per gravare lo Stato
ospitante della tutela dei lavoratori distaccati temporaneamente da un altro Stato, che
– come più volte affermato dalla Corte - non possono essere ritenuti parti del mercato
36
La Corte ha al riguardo inequivocabilmente chiarito che ai fini
dell’applicazione delle disposizioni del Trattato i lavoratori distaccati
non possono essere considerati dal legislatore nazionale come parte del
proprio mercato del lavoro in quanto questi lavoratori non intendono
accedere stabilmente a questo mercato poiché essi tornano nel loro
paese di origine o di residenza dopo aver prestato la loro attività. In
questi casi quindi non trovano applicazione le disposizioni sulla libera
circolazione dei lavoratori di cui all’art. 39 e ss. TCE, ma
esclusivamente quelle che disciplinano la libera circolazione dei
servizi92.
E’ pur vero che la Corte ha affermato che non possa ritenuta di per
sé in violazione dell’art. 49 TCE la legge tedesca di regolazione delle
prestazioni di lavoro nel settore edile che nelle premesse ha
espressamente dichiarato tra le sue finalità quella di proteggere il
livello occupazionale del settore dalla concorrenza operata dalle
imprese straniere in grado di offrire i medesimi servizi a prezzi più
contenuti delle imprese nazionali avvalendosi di lavoratori distaccati
cui applicano minimi retributivi sensibilmente più bassi di quelli
previsti dai contratti collettivi tedeschi93. Ma anche in queste pronunce
del lavoro dello Stato ospitante, mentre non valuta minimamente sugli effetti prodotti
a tutela dei lavoratori effettivamente appartenenti a quel mercato del lavoro.
92
Cfr. Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 22; Corte giust., sent. Commissione v.
Granducato di Lussemburgo,cit., punto 38; ma già in precedenza nel medesimo senso
Corte giust., sent. Rush Portuguesa, cit., punto 15; Corte giust., sent. Vander Elst, cit.,
punto 21.
93
Corte giust., sent. Finalarte, cit., punto 38; la Corte ha rilevato che “... il giudice a
quo osserva che si desume dalla motivazione dell’AEntG che tale legge ha il
dichiarato obiettivo di tutelare le imprese tedesche del settore dell’edilizia contro la
crescente pressione della concorrenza sul mercato interno europeo e quindi contro i
prestatori di servizi stranieri. Il giudice di rinvio aggiunge che, sin dai dibattiti
preparatori sul progetto di tale legge, era stato ripetutamente sottolineato che una
siffatta legge mirava soprattutto a lottare contro la concorrenza asseritamente sleale
delle imprese europee che si avvalgono di manodopera a basso costo”; la Corte al
proposito ritenuto che “Tuttavia, se è vero che l’intento del legislatore quale risulta
dai dibattiti politici che precedono l’adozione di una legge o dall’esposizione delle
sue motivazioni può costituire indizio quanto al fine perseguito dalla detta legge, tale
intento non può essere determinante” (punto 40); la Corte, però, al fine di verificare
l’ammissibilità della restrizione della concorrenza intrastatuale, ha rimesso al giudice
nazionale di rinvio il compito di “... verificare se, considerata in modo obiettivo, la
normativa oggetto delle cause principali promuova la tutela dei lavoratori
37
ben si comprende che debbono essere i lavoratori distaccati i veri
destinatari della tutela offerta dalla norma nazionale dalla circostanza
che la legittimità della restrizione della concorrenza interstatuale viene
egualmente condizionata alla valutazione della genuinità e effettività
della protezione migliorativa assicurata proprio a quest’ultimi dalla
norma dello Stato ospitante rispetto a quella loro prestata
dall’ordinamento del diverso Stato da cui provengono, non essendo
invece attribuita a questi fini nessuna rilevanza agli effetti positivi
eventualmente prodotti nell’incremento o nel mantenimento dei livelli
di occupazione della manodopera nazionale94.
In quest’ottica la Corte ha ritenuto inapplicabili tutte le norme del
diritto del lavoro nazionale che si traducono in pratica in una mera
duplicazione delle protezioni già assicurate ai lavoratori distaccati
dall’ordinamento di provenienza allo stesso livello e con il medesimo
grado di effettività. La Corte quindi ammette che nel caso di un
medesimo istituto contrattuale garantito da entrambi gli ordinamenti è
consentita la previsione dell’applicazione della regolazione dello Stato
ospitante ove sia più favorevole anche solo parzialmente e – oltretutto –
anche al di sopra degli standard minimi eventualmente previsti da
direttive comunitarie (si pensi all’orario di lavoro, ai riposi e alle ferie
retribuite)95. La novità del più recente orientamento della Corte è
costituita dall’ulteriore precisazione che affinché possa ravvisarsi
un’inammissibile duplicazione di tutela non occorre che il medesimo
istituto sia disciplinato in modo identico nei due ordinamenti, ma è
distaccati” (punto 41) e non già quella occupazionale dei lavoratori tedeschi. Nello
stesso senso v. Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punti 25-30.
94
Cfr. Corte giust., sent. Commissione v. Repubblica federale di Germania, cit., punti
11-13 e 20-21, il governo tedesco ha giustificato le limitazioni di fatto poste alle
imprese straniere al distacco di lavoratori nel settore edile con l’intento della
normativa nazionale di “... impedire gli abusi in materia di lavoro precario
nell’industria edile e di garantire la tutela previdenziale dei lavoratori occupati in
questo settore”, la Corte però nella sua motivazione non si è minimamente interessata
degli effetti concretamente prodotti dalla normativa a tutela dei lavoratori tedeschi,
ma ha valutato solo quelli ravvisabili a tutela dei lavoratori distaccati; Corte giust.,
sent. Arblade, cit., punti 51, 52 e 54.
95
Corte giust., sent. Finalarte, cit., punti 55-59, in cui la Corte ha rilevato che il fatto
che l’art.7, n.1, della direttiva 93/104 disponga che gli Stati membri debbano
prevedere il diritto dei lavoratori ad almeno 4 settimane di ferie retribuite ogni anno
non osta di per sé né alla previsione da parte dell’ordinamento di uno Stato membro di
una durata delle ferie retribuite superiore né tantomeno all’estensione di questo
superiore livello di tutela anche ai lavoratori distaccati.
38
sufficiente che sia assicurata una tutela “sostanzialmente
equiparabile”96. La Corte ha rimesso ai giudici nazionali di rinvio la
valutazione di una tale “equivalenza sostanziale”97, che deve affermarsi
non solo nel caso in cui si registrino differenze poco significanti tra il
tipo e il grado di tutela dei due ordinamenti, ma anche nel caso in cui
una previsione migliorativa del medesimo istituto dettata dalla legge
dello Stato ospitante possa ritenersi compensata con un’altra
peggiorativa rispetto alle regolazione dello Stato di provenienza, come
si deve dedurre dalla precisazione che la comparazione delle due
discipline deve essere complessiva e non clausola per clausola98.
La tutela offerta al lavoratore distaccato deve inoltre risultare
effettiva, deve risultare, cioè, non solo astrattamente ma autenticamente
e concretamente vantaggiosa per questo99. La garanzia di diritti che poi
96
Cfr. Corte giust., sent. 28.2.1996, causa C-272/94, Guiot, in Racc.1996, I-1905, con
questa pronuncia la Corte aveva già intrapreso il suo percorso di “relativizzazione”
della dottrina Rush Portuguesa rilevando che l’estensione dell’applicazione di
disposizioni dell’ordinamento dello Stato ospitante deve ritenersi ingiustificata nel
caso in cui i lavoratori distaccati godono di un identica tutela o di “una tutela
essenzialmente comparabile” garantita dalla legislazione dello Stato di stabilimento.
La Corte giust. ha poi precisato in modo compiuto questo orientamento nelle sentenze
Arblade, cit., punti 48,51,79, e Finalarte, cit., punto 44.
97
Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 53;
98
Cfr. Corte giust., sent. 15.3.2001, causa C-165/98, Mazzoleni, in Racc. 2001, I2189, e in Foro it., 2001, IV, 515 e ss., e in Orient. giur. lav, 2001, III, 10 e ss.. La
Corte ha affermato in questo caso, in cui ai lavoratori distaccati venivano corrisposti
salari inferiori ai minimi retribuiti previsti dai contratti collettivi con efficacia erga
omnes applicati nello Stato ospitante, che “... allo scopo di accertarsi se la tutela di
cui fruiscono i dipendenti nello Stato membro di stabilimento sia equivalente, esse
devono in particolare prendere in considerazione gli elementi collegati all’importo
della retribuzione, la durata del lavoro cui tale importo si riferisce, nonché l’importo
dei contributi previdenziali e l’incidenza tributaria” (punto 39). F. Bano, op.cit., 15,
rileva che nelle sue conclusioni l’avv. gen. Alber aveva prospettato una soluzione
diversa secondo la quale la comparazione dovesse essere operata soltanto tra le tariffe
di retribuzione lorda.
99
Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punti 52-54; Corte giust., sent. Mazzoleni, cit.,
punti 34-37; Corte giust., sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 29; Corte
giust., sent. Finalarte, cit., punto 48, in cui la Corte al fine di valutare l’effettività
della tutela aggiuntiva offerta dalla legge dello Stato ospitante ai lavoratori distaccati
ritiene necessario che “... il giudice del rinvio verifichi che, al ritorno sul territorio
dello Stato membro di stabilimento del loro datore di lavoro, i lavoratori interessati
siano davvero in condizione di far valere i loro diritti di ottenere il versamento delle
indennità di ferie presso la cassa, tenuto conto, in special modo delle formalità che
39
risultano assai difficilmente azionabili da parte del lavoratore distaccato
una volta che sia ritornato nello Stato di provenienza o che soddisfino
“bisogni” insussistenti si traduce per la Corte in una barriera
all’ingresso nel mercato nazionale delle imprese provenienti da altri
Stati membri e, conseguentemente, in una misura di protezione del
mercato nazionale in violazione dell’art.49 TCE.
L’ineffettività della tutela può travolgere anche discipline delle
materie fondanti del diritto del lavoro la cui applicazione parrebbe,
invece, estesa di diritto anche ai lavoratori distaccati dall’art.3 par.1
della direttiva 71/96. In particolare la Corte ha ritenuto che nel caso di
lavoratori transfrontalieri day by day, i quali prestano la loro attività di
lavoro in un diverso Stato membro dove sono distaccati e si recano
quotidianamente pur continuando a vivere stabilmente al di là del
confine, l’applicazione dei più elevati minimi retributivi imposti
dall’ordinamento dello Stato ospitante risulti ingiustificata giacché
questi lavoratori si trovano nelle condizioni di non esser gravati del più
elevato costo della vita di questo Stato100.
Infine la norma nazionale deve superare un’ulteriore prova: quella di
“proporzionalità” della disciplina in melius offerta ai lavoratori
distaccati in relazione all’entità degli effetti restrittivi della libera
circolazione prodotti101. Ogni minima tutela aggiuntiva a vantaggio dei
lavoratori distaccati non può certo giustificare una rilevante e radicale
compressione della concorrenza intrastatuale nell’offerta di servizi.
Così come al contrario un beneficio sostanziale per i lavoratori
distaccati può ben giustificare una significativa restrizione della
concorrenza sul mercato nazionale delle imprese di servizi provenienti
da altri Stati membri102. Il dosaggio tra tutela delle concorrenza e tutela
essi devono adempiere, della lingua che devono utilizzare e delle modalità di
pagamento”.
100
Corte giust., sent. Mazzoleni,cit.
101
Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 75; Corte giust., sent. Mazzoleni,cit., punti
30 e 41; Corte giust., sent. Finalarte, cit., punti 49-52.
102
La Corte giust. nella sent. Finalarte, cit., opera un tentativo di precisare quali
debbano essere in concreto i criteri e gli elementi rilevanti in questa valutazione di
proporzionalità tra effetti restrittivi della concorrenza e benefici per i lavoratori
distaccati; ai punti 50 e 51 di questa pronuncia si rileva che “A tal fine dovrebbero
essere soppesati, da una parte, gli oneri amministrativi ed economici che si
impongono ai prestatori di servizi in forza di tale normativa e, dall’altra, il sovrappiù
di tutela sociale che essa conferisce ai lavoratori rispetto a quanto è garantito dalla
normativa dello Stato membro di stabilimento del loro datore di lavoro. A tal
40
del diritto del lavoro nazionale non è dato chiaramente dalla Corte, che
si limita a delle indicazioni dalle quali non è certo agevole dedurre dei
sicuri criteri di valutazione per il giudice nazionale, cui, anche in questo
caso, la Corte ha rimesso ogni sindacato di merito103.
Sarcasticamente Davies ha cercato di immaginare l’espressione di
stupore del giudice nazionale di fronte al quale debbono essere
riassunte queste controversie, chiamato dalle parti a operare nel merito
il duplice sindacato sia di “equivalenza sostanziale” tra le discipline di
un istituto del rapporto di lavoro dettate rispettivamente
dall’ordinamento dello Stato ospitante e da quello dello Stato di
provenienza dei lavoratori distaccati sia di “proporzionalità” con i
principi di libera circolazione104.
Invero, sebbene l’astensione della Corte da ogni valutazione del
merito delle comparazioni tra le diverse regolazioni statuali potrebbe
apparire un assurdo, fonte di molte e più complesse controversie di
quante ne avrebbe dovuto dirimere, la soluzione adottata riflette
l’atteggiamento di estrema cautela con cui la Corte sta cercando di
maneggiare la spinosa questione, evidentemente memore dell’effetto
dirompente che hanno prodotto le proprie affermazioni ultrapetita nella
sentenza Rush Portuguesa. La Corte ha già utilizzato questa “tattica
attendista” nelle prime pronunce della sunday trading saga in cui ha
rimesso al giudice nazionale la valutazione degli effetti indirettamente
discriminatori, della loro giustificazione e proporzionalità delle norme
nazionali che disciplinano la commercializzazione di prodotti
provenienti da altri Stati membri, per poi – alla luce del
disorientamento riscontrato nei giudici nazionali e delle iniziative
assunte dalla Commissione e dagli Stati membri – modificare il proprio
riguardo sarebbe necessario accertare se l’obiettivo che consiste nell’accordare ai
lavoratori distaccati in Germania più giorni di ferie e un’indennità giornaliera più
elevata che ai sensi della normativa dello Stato membro in cui ha sede il datore di
lavoro possa essere raggiunto mediante norme meno restrittive di quelle che risultano
dalla normativa oggetto delle cause principali, per esempio mediante un obbligo
imposto al datore di lavoro con sede fuori dalla Germania di pagare direttamente al
lavoratore, durante il periodo di distacco, le indennità di ferie alle quali ha diritto
secondo la normativa tedesca”.
103
Cfr. Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 75; Corte giust., sent. Mazzoleni,cit.,
punti 37 e 41;
104
Cfr. P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 304; nel medesimo senso R.
Giesen, op.cit., 152.
41
orientamento in modo da poter essa stessa dare delle indicazioni
precettive per la definizione nel merito dei casi sottopostile105.
I giudici di Lussemburgo hanno elaborato questo diverso
orientamento esaminando casi relativi a periodi anteriori al termine di
recepimento della direttiva 96/71 e, pertanto, hanno valutato la
compatibilità delle norme nazionali censurate soltanto in relazione al
disposto dell’art.49 TCE e non della direttiva. La dottrina si è
interrogata se questo orientamento sarebbe rimasto invariato quando la
Corte avrebbe dovuto decidere dando applicazione alla direttiva, in
particolare nella parte in cui questa sembra dotare i diritti del rapporto
di lavoro indicati all’art.3 par.1 di una protezione inviolabile da parte
del diritto della concorrenza, in modo apparentemente inconciliabile
con le previsioni del Trattato e con la più recente dottrina dello stesso
giudice comunitario106. In realtà alcuni passaggi delle motivazioni delle
pronunce in materia di posted workers lasciavano abbastanza
chiaramente intendere che i ragionamenti della Corte si sviluppavano
con attenzione anche agli ambiti di applicazione del diritto del lavoro
dello Stato ospitante disegnati dalla direttiva 96/71107. Non sorprende,
quindi, che, giunta ad affrontare dei casi in cui finalmente trovava
applicazione il disposto della direttiva, la Corte non abbia
minimamente modificato il suo ultimo orientamento e abbia ritenuto
che nessuna materia disciplinata dal diritto del lavoro degli Stati
membri, neppure quelle specificamente enumerate all’art. 3 par.1 della
105
R. Giesen, op.cit., 152, avanza il sospetto che la Corte abbia consapevolmente
rimesso ai giudici nazionali una valutazione comparativa impossibile da operarsi con
certezza proprio per creare difficoltà agli Stati membri nell’applicare misure
protezionistiche e concedere loro l’occasione di ripensare queste scelte alla luce
dell’esame dei sistemi degli altri Stati.
106
Cfr. R. Giesen, op.cit., 153; P. Davies, The posted workers directive ..., cit., 301,
secondo il quale – pur premettendo che l’orientamento della Corte era difficilmente
prevedibile – non vi erano ragioni giuridiche che potessero giustificare un mutamento
di posizioni della Corte quando sarebbe giunta a esaminare casi in cui trovava
applicazione il disposto della direttiva.
107
Corte giust., sent. Arblade, cit., punto 30, dove la Corte dà atto di aver valutato la
compatibilità delle norme belghe in esame anche alla luce delle disposizioni della
direttiva 96/71 in quanto sebbene fosse pacifico che queste “... non erano in vigore al
momento dei fatti. tuttavia, il diritto comunitario non osta a che il giudice a quo tenga
conto conformemente a un principio del suo diritto penale, delle più favorevoli
disposizioni della direttiva 96/71 ai fini dell’applicazione del diritto interno,
ancorché il diritto comunitario non comporti alcun obbligo in tal senso (v. sent. 29
ottobre 1998, causa C-230/97, Awoyemi, in Racc. pag.I-6781, punto 38)”.
42
direttiva, possa dirsi esentata di per sé dal rispetto dalla libertà di
circolazione dei servizi, ma ciascuna è indifferentemente assoggettata
alle condizioni di parità di trattamento, di equivalenza sostanziale e di
proporzionalità108.
D’altronde anche la Commissione nella sua recente comunicazione
interpretativa della direttiva 96/71 ha fatto espresso rinvio alla
giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia soltanto con
riferimento all’art.49 TCE in casi in cui il disposto della direttiva
ancora non poteva trovare applicazione.
Non mi pare, quindi, che possano sussistere dubbi che quest’ultima
giurisprudenza della Corte sia destinata nel prossimo futuro a
continuare a orientarla nell’enucleare i caratteri dei requisiti
(rispondenza a finalità di ordine pubblico e parità di trattamento) che,
secondo il disposto della direttiva 96/71, legittimano l’applicazione del
diritto e dei contratti collettivi di lavoro nazionali anche alle imprese
“transfrontaliere”. Tanto più che la stessa riceverebbe in caso di
adozione della nuova direttiva servizi l’esplicito assenso del
Parlamento e del Consiglio.
8.
La giurisprudenza della Corte di Giustizia appare disattendere
l’interpretazione della direttiva 96/71 propugnata da molti Stati membri
secondo cui la rispondenza a finalità di “ordine pubblico”
dell’estensione ai posted workers del diritto del lavoro dello Stato
ospitante sia alla nozione elaborata in ciascun contesto nazionale e,
dunque, sostanzialmente alla discrezionalità di ciascun Stato membro.
Questa valutazione deve essere effettuata nel merito dal giudice
nazionale ma utilizzando i criteri e parametri “comunitari” formulati
dalla stessa Corte di giustizia, alla quale in ultima istanza è sempre
rimesso il potere di sindacare l’effettiva corrispondenza a tali parametri
della decisione del caso concreto del giudice di merito nazionale109.
108
Cfr. Corte giust., sent. 12.10.2004, causa C-60/03, Wolff & Muller GmbH & Co.
Kg v. José Filipe Pereira Felix,; Corte giust., sent. 19.1.2006, causa C-244/04,
Commissione v. Germania.
109
Cfr. Corte giust. sent. Arblade, cit., punto 34; Corte giust. sent. 25.10.2001, causa
C-493/99, Commissione c. Repubblica federale di Germania, in Racc. 2001, I-8163 e
in Foro it. 2001, IV, 513; Corte giust. sent. Finalarte, cit., punto 31; Corte giust. sent.
Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 19.
109
Cfr. Corte giust. sent. Arblade, cit., punti 30 e 31; Corte giust. sent. Finalarte, cit.,
punto 33; Corte giust. sent. Portugaia Construcoes Lda, cit., punto 20; Corte giust.
43
Non mi sembra possa condurre a una diversa conclusione in futuro la
previsione di salvaguardia dei criteri di selezione della legge
applicabile dettati dal diritto internazionale privato ora espressa dalla
nuova proposta di direttiva110.
La Convenzione di Roma del 19 giugno del 1980 sulla legge
applicabile alle obbligazioni contrattuali prevede all’art.6 che al
rapporto di lavoro con elementi di internazionalità trovi applicazione la
legge scelta dalle parti; in ogni caso il lavoratore non può esser privato
della protezione assicuratagli dalla legge applicabile in difetto di scelta.
In quest’ultimo caso la legge applicabile è quella del paese in cui il
lavoratore, in esecuzione del contratto, presta abitualmente il suo
lavoro, anche se inviato temporaneamente in un altro paese o la legge
in cui ha sede il datore di lavoro qualora il lavoratore non operi
abitualmente in uno stesso paese.
L’art.7 della Convenzione prevede, però, che possano trovare
egualmente applicazione le norme imperative dello Stato presso cui
presti, anche temporaneamente, la sua attività il lavoratore, che
risultino di “applicazione necessaria” e insuscettibili di disapplicazione
perché – secondo la ricostruzione dottrinale tradizionale - volte alla
salvaguardia della coerenza e della stessa effettività dell’ordinamento
interno111.
La giurisprudenza comunitaria non ha enucleato con chiarezza quali
siano i caratteri dell’abitualità della prestazione dell’attività di lavoro al
sent. 31.5.2001, causa C-283/99, Commissione c. Repubblica italiana, in Foro it.,
2001, IV, 535.
110
Il considerando 45 della proposta della Commissione del 4.4.2006 recita: “Le
relazioni contrattuali tra il prestatore di servizi e il cliente nonché tra il datore di
lavoro e il dipendente non sono soggette alla presente direttiva. La legge applicabile
alle obbligazioni contrattuali ed extracontrattuali del prestatore di servizi è
determinata dalle norme di diritto internazionale privato”. L’art.17 inoltre prevede che
il principio di libera prestazione di servizi così come formulato dall’art.16 della
proposta di direttiva non trova applicazione “alle disposizioni riguardanti obblighi
contrattuali e non contrattuali, compresa la forma dei contratti, determinate in virtù
delle norme di diritto internazionale privato”.
111
Cfr. T. Ballarino, Diritto internazionale privato, Padova, Cedam,1999, 618 e ss.;
F. Mosconi, Giurisdizione e legge applicabile ai rapporti di lavoro con elementi di
internazionalità, in Quad. dir. lav. rel. ind., 1998, 55; A. Lyon Caen, S. Sciarra S.,
La Convenzione di Roma e i principi del diritto del lavoro, in Quad. dir. lav. rel. ind.,
1998, 9; M.E. Corrao, Sub art.7, in Convenzione sulla legge applicabile alle
obbligazioni contrattuali, in Nuove leggi civ. comm., 1995, 1009 e ss.; C. Ogriseg,
Recesso libero e limite dell’ordine pubblico, in Mass. giur. lav., 2003, 363.
44
fine di selezionare la legge applicabile al rapporto di lavoro in
mancanza di scelta delle parti e – in quanto tale – inderogabile in pejus
a norma dell’art.6 co.1 della Convenzione qualora invece le parti
abbiano espresso la scelta di una diversa legge. Quando la reiterazione
o la durata della prestazione dell’attività di lavoro in uno Stato renda
quest’ultima “abitualmente” svolta in quello Stato rimane un problema
irrisolto affidato ai giudici di merito chiamati a decidere il caso
concreto112. Neppure il riferimento analogico ai criteri per la selezione
della giurisdizione dettati dalla Convenzione di Bruxelles sembra
fornire orientamenti decisivi113.
Non vi sono maggiori certezze circa i criteri per individuare le
norme di “applicazione necessaria”, tanto che, secondo la
giurisprudenza di gran parte degli Stati membri, tutte le norme
imperative dei loro ordinamenti vi sono in concreto ricomprese. In tal
modo si riconosce agli Stati una piena sovranità nel determinare le
norme applicabile ai rapporti che si svolgono nel loro territorio; in
particolare l’imperatività generalizzata delle norme di diritto del lavoro
ne imporrebbe l’applicazione a tutte le prestazioni di lavoro svolte - pur
temporaneamente – in uno Stato salvo che la legge applicabile secondo
i criteri di collegamento non sia più favorevole114.
Non può ritenersi che la previsione del legislatore nazionale
dell’applicazione del proprio diritto del lavoro ai posted workers,
qualora non risulti rispondente ai criteri legittimanti dettati dalla
direttiva 96/71, possa invece trovare giustificazione nell’art.7 della
112
Cfr. I. Viarengo, op.cit.,179.
Cfr. M.E. Corrao, Profili internazional-privatistici dei rapporti di lavoro nei
gruppi di società, in Lav e dir., 2005, 515 e s.; come noto la Convenzione del 1968 è
stata comunitarizzata dal Regolamento 44/2001. Sui criteri per individuare il luogo
abituale della prestazione per la definizione della giurisdizione da ultimo v. Corte
giust. sent. 10.4.2003, causa C-437/00, Pugliese c. Finmeccanica Spa, in Riv. Dir.
internaz. priv. proc., 2003,1045.
114
Cfr. Cass. 8.3.1998 n. 2622, in Riv. Dir. internaz. priv. proc., 1999, 633; Cass.
27.3.1996 n. 2756, ivi,1997,469; Cass. 22.2.1992 n.2193, ivi 1994, 150; Cass.
25.5.1985 n. 3209, ivi,658; F. Pocar, I. Viarengo, Diritto Comunitario del lavoro,
Padova, Cedam, 2001, 137 e s.; invece per una (fondata) critica a questo orientamento
v. R. Clerici, Rapporti di lavoro, ordine pubblico e convenzione di Roma del 1980, in
Riv. Dir. internaz. priv. proc., 2003, 815.
113
45
Convenzione di Roma quale norma imperativa della lex fori115 (co.2) o
della lex causae (co.1)116.
La direttiva 96/71 nel caso di distacco di lavoratori si pone in
termini di lex specialis rispetto ai criteri di selezione della legge
applicabile al rapporto di lavoro dettati dalla Convenzione. La direttiva
prescinde da quale sia la legge applicabile al rapporto di lavoro che è
invece selezionata secondo le previsioni della Convenzione, ma
disciplina le ipotesi – anche in deroga ai criteri della Convenzione – in
cui l’applicazione della legge dello Stato ospitante deve essere imposta
e, specularmente, esclusa117. La direttiva crea un microsistema chiuso e
autosufficiente, all’interno del quale sono selezionati gli istituti del
rapporto di lavoro dei lavoratori distaccati che debbono essere
obbligatoriamente disciplinati dallo Stato ospitante al fine di costituire
un equilibrio “dato” tra le esigenze di protezione del mercato del lavoro
dello Stato ospitante e quelle di libertà di circolazione delle imprese di
servizi stabilite in diversi Stati membri. L’equilibrio si fonda appunto
sulla previsione: a) della tassatività dell’applicazione ai posted workers
della legge dello Stato ospitante solo per gli istituti espressamente
previsti dall’art.3 co.1 della direttiva 96/71, b) della facoltà di
estensione dell’applicabilità ad altre della legge dello Stato ospitante ad
altri istituti solo per motivi di “ordine pubblico”, c) dell’esclusione
dell’applicabilità della legge dello Stato ospitante per tutti gli altri
istituti anche qualora questa dovesse risultasse applicabile secondo i
criteri di collegamento del diritto internazionale privato.
Il ricorso a criteri “esterni” alla direttiva 96/71 per selezionare la
legge applicabile non ne integrerebbe il disposto, ma sarebbe
strutturalmente incompatibile con questo perché altererebbe
quell’equilibrio “dato” che la direttiva è espressamente finalizzata a
realizzare di per sé tra protezione del mercato del lavoro dello Stato
ospitante e garanzia dell’apertura del suo mercato dei servizi alle
imprese stabilite in altri stati membri.
L’art.6 della direttiva 96/71 prevede che il lavoratore possa far valere il diritto alle
condizioni di lavoro garantite all'art. 3 della stessa direttiva dinanzi al giudice dello
Stato membro nel cui territorio il lavoratore è o era distaccato.
116
Contra I. Viarengo, La legge applicabile al lavoratore distaccato ..., cit., 182 e s.;
G. Balandi, op.cit., 127.
117
Contra I. Viarengo, La legge applicabile al lavoratore distaccato ..., cit., 181, ma
sulla base della sola giurisprudenza Rush Portuguesa interpretata come
riconoscimento di legittimità da parte della corte di ogni estensione dell’applicazione
del diritto dello Stato ospitante se più favorevole per il lavoratore.
115
46
Qualora i criteri di selezione della legge applicabile dettati dalla
direttiva 96/71 e quelli previsti dalla Convenzione di Roma dovessero
risultare non perfettamente coincidenti, sarebbero soltanto i primi a
trovare applicazione. L’art.20 della Convenzione, richiamato non a
caso anche nei considerando della direttiva 96/71, prevede infatti che,
in caso di conflitto tra i criteri dettati dalla Convenzione e da atti della
Unione europea, questi ultimi debbano trovare applicazione.
Potrebbe semmai ritenersi che sia la direttiva 96/71 ad assolvere una
funzione integratrice della Convenzione118, ma solo nel senso che la
direttiva abbia individuato tassativamente quali siano le disposizioni
dell’ordinamento dello Stato membro che a norma dell’art.7 della
Convenzione possono trovare applicazione necessaria ai lavoratori
stranieri che operano temporaneamente nel suo territorio119. O ancora
che dalla direttiva possano dedursi i criteri per valutare la temporaneità
e non abitualità della prestazione del lavoratore distaccato nello Stato
ospitante in relazione non alla durata ma alla certezza del termine della
stessa prestazione in quello Stato120. Ma non mi sembra che possa
sostenersi che sia la Convenzione a integrare il disposto della direttiva
estendendo oltre i limiti segnati dalla stessa direttiva l’ambito di
applicazione della legge dello Stato ospitante quale norma di
applicazione necessaria in virtù del favor laboris.
L’interpretazione qui proposta del rapporto tra direttiva 96/71 e
diritto internazionale privato alla luce della espressa salvaguardia di
quest’ultimo prevista dalla nuova formulazione della direttiva
Bolkestein appare trovare indirettamente conforto nella giurisprudenza
della Corte di giustizia e nelle conclusioni degli avvocati generali
esaminate nel paragrafo che precede. In nessuno dei casi decisi, invero,
la Corte o gli avvocati generali hanno ritenuto di dover esaminare se le
norme giuslavoristiche nazionali che producono effetti restrittivi della
libera circolazione possano essere giustificate quali norme di
“applicazione necessaria” a norma della Convenzione di Roma. Se ne
deve dedurre che i giudici comunitari abbiano implicitamente ritenuto
che il contesto normativo in cui rinvenire i limiti all’applicazione
118
Contra M. Roccella, T. Treu, op.cit., 130 e ss.; G. Balandi, op.cit.,127 e s.
In q. senso M. Magnani, op.cit., 92; G. Orlandini, op.cit., 481; I. Viarengo, La
legge applicabile al lavoratore distaccato ..., cit., 182.
120
Cfr. sull’influenza che la giurisprudenza della Corte ha esercitato sulla nozione di
abitualità per definire la giurisdizione per le controversie di lavoro a norma dell’art.5
n. 1 della Convenzione di Bruxelles: M.E. Corrao, Profili internazional-privatistici ...,
516.
119
47
imperativa della legge dello Stato ospitante ai lavoratori distaccati sia
rigorosamente circoscritto alla disciplina della libera circolazione dei
servizi e alla direttiva 96/71.
9.
La nuova proposta di direttiva, recependo molte degli
emendamenti votati dal Parlamento europeo alla versione originaria
della proposta, dota il diritto del lavoro nazionale di uno scudo avverso
gli effetti deregolativi che è potenzialmente in grado di produrre la
liberalizzazione dei servizi, indotta dall’implementazione negli
ordinamenti degli Stati membri della regolazione del diritto di
stabilimento e di circolazione delle imprese che viene disciplinata nella
direttiva stessa. E’ infatti garantita agli Stati membri la sovranità per
quanto attiene “la legislazione del lavoro”, ivi compresa la regolazione
della contrattazione collettiva e delle azioni di sciopero e di diverse
forme di autotutela collettiva (art.1 co.6 e 7).
Sul piano strettamente tecnico-giuridico l’adozione della direttiva
segnerebbe per questo profilo un significativo passo avanti non solo
rispetto all’originaria proposta di direttiva Bolkestein, ma anche
rispetto alla situazione attuale in cui – come dimostra il caso LavalVaxholm – anche l’esercizio dei diritti attribuiti ai lavoratori impiegati
stabilmente in uno Stato membro e alle organizzazioni sindacali
dall’ordinamento di questo Stato sono potenzialmente soggette a una
compressione per bilanciarle, in caso di conflitto, con le libertà di
circolazione e di concorrenza. La direttiva comporterebbe anche la
“giuridificazione” della Carta di Nizza nelle more o persino in
mancanza della ratifica del Trattato costituzionale, che recepisce la
stessa Carta, laddove la direttiva prevede che i diritti fondamentali
riconosciuti dagli Stati membri e, appunto, anche dalla “Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea” non possano essere pregiudicati
dalle libertà di accesso e di esercizio dei servizi come disciplinate dalla
direttiva stessa (cfr. art. 1 co.7)121.
121
Gli artt. 51 e 52 della Carta di Nizza chiariscono che tutti i diritti e principi ivi
affermati non hanno efficacia diretta negli ordinamenti giuridici degli Stati membri,
ma esplicano soltanto un’efficacia precettiva in senso verticale, diretta cioè solo alle
istituzioni comunitarie e agli Stati membri ed “…esclusivamente nell’attuazione del
diritto dell’Unione”. La Carta pertanto non attribuisce ai cittadini diritti giustiziabili;
l’efficacia “verticale” dei diritti sociali fondamentali riconosciuti da questa
legittimerebbe, invece, le scelte dei singoli Stati membri di compressione delle libertà
economiche al fine di bilanciarle con la tutela di questi stessi diritti sociali in seno al
loro ordinamento nazionale.
48
Nell’impianto della nuova proposta tale sovranità statale risulta,
però, esser realmente piena ed esclusiva soltanto nei confronti dei
soggetti che - secondo gli orientamenti della Corte di giustizia –
compongono il “mercato del lavoro nazionale” di uno Stato membro, e
cioè, sul lato dell’offerta, le imprese che stabilmente prestano servizi
nel suo territorio avvalendosi della libertà di stabilimento, sul lato della
domanda, i lavoratori che vi sono stabilmente impiegati.
Come già illustrato, la Corte non considera componenti del mercato
del lavoro nazionale né le imprese che prestano temporaneamente
servizi in uno Stato membro ospitante diverso da quello di stabilimento,
né i lavoratori dalle stesse imprese distaccati per prestare questi servizi
anche qualora siano destinate a impegnarli per mesi o anni nel territorio
dello Stato ospitante. Queste imprese e lavoratori sono soggette alla
regolazione del lavoro dettata dallo Stato ospitante soltanto per gli
istituti e nei limiti previsti dalla direttiva 96/71 (cfr. art.3 co.1 lett. a e
art. 17 punto 5).
Orbene la direttiva 96/71/CE prevede un ambito di applicazione del
diritto del lavoro dello Stato ospitante ai rapporti di lavoro dei
lavoratori ivi impiegati in regime di distacco abbastanza ampio, ma non
certo omnicomprensivo e incondizionato. La direttiva impone
l’applicazione della legge dello Stato ospitante per alcuni specifici
istituti, in particolare per la determinazione delle retribuzioni minime,
dell’orario di lavoro, delle ferie retribuite, delle condizioni di sicurezza,
salute e igiene sul lavoro. I lavoratori distaccati in un diverso Stato
membro, invece, rimarrebbero soggetti alla disciplina dello Stato di
origine – per citare in via esemplificativa gli istituti più significativi –
per quanto riguarda le condizioni di esercizio del diritto di sciopero,
l’apposizione del termine al contratto, l’interposizione di forza-lavoro,
le condizioni e i requisiti di assunzione e di licenziamento, nonché le
rispettive tutele giudiziali (reintegra e/o risarcimento).
Al riguardo occorre rilevare che il regolamento n. 1408/71,
anch’esso fatto integralmente salvo nella nuova proposta di direttiva
(cfr. art.3 co.1 lett.b e art.17 punto 9), consente che ai lavoratori
distaccati vengano applicati gli oneri previdenziali e assicurativi dello
Stato di origine per un periodo minimo di un anno, generalmente
prolungata a 2 anni122, determinando così anche rilevanti differenze sul
“costo previdenziale” tra lavoratore distaccato e lavoratore nazionale
entro tali limiti temporali di distacco.
122
Cfr. D.M. Massaini, op.cit; S. Di Biase, op.cit..
49
E’ pur vero che la direttiva 96/71 consente agli Stati membri
ospitanti di estendere ai lavoratori distaccati l’applicazione della loro
legge o della contrattazione collettiva nazionale con efficacia erga
omnes anche agli istituti non enumerati nell’art.3 co.1, ma tale
estensione è condizionata alla sua necessità per motivi di ordine
pubblico, nonché all’adeguatezza e proporzionalità all’efficace
perseguimento di questi. Arbitro unico e insindacabile della sussistenza
di queste condizioni è la Corte di giustizia, a cui verrebbe
indirettamente affidato - per mezzo di un tale sindacato - il
discrezionale governo non solo del grado di liberalizzazione e
deregolazione dei mercati dei servizi nazionali, ma anche dei margini in
cui possa effettivamente instaurarsi una concorrenza tra gli ordinamenti
degli Stati membri sulla regolazione delle condizioni di lavoro. I più
recenti orientamenti della Corte circa la legittimità di norme nazionali
che impongano l’applicazione del diritto dello Stato ospitante a
lavoratori distaccati per istituti non ricompresi tra quelli espressamente
previsti dall’art. 3 co.1 della direttiva 96/71 sembrano far prevedere che
questi ambiti di concorrenza non siano destinati a essere del tutto
marginali.
Occorre dar atto alla Commissione che – sul piano della regolazione
tecnico-giuridica dei criteri selettivi della legge applicabile ai rapporti
di lavoro dei posted workers – nulla verrebbe modificato dalla nuova
proposta di direttiva rispetto agli approdi della giurisprudenza della
Corte di giustizia in merito alla direttiva 96/71123. Potrebbero, però,
essere le altre condizioni (giuridiche e fattuali) del contesto
complessivo in un mercato interno dei servizi fortemente liberalizzato a
mutarne indirettamente gli effetti concreti sul mercato del lavoro degli
Stati membri: in primo luogo l’incremento della competizione tra
123
Mi sembra debba condividersi la notazione di U. Carabelli, V. Leccese, op.cit.,
nota 103, secondo cui l’inapplicabilità ai lavoratori distaccati dalle imprese straniere
per contrasto con l’art.49 TCE di una norma nazionale non consentirebbe di censurare
quella stessa norma per incostituzionalità a causa della “discriminazione a rovescio”
che realizzerebbe a danno delle imprese italiane o stabilite in Italia che
continuerebbero ad esser obbligate a rispettarla. Questo meccanismo “demolitorio”
sembrerebbe non poter operare nei confronti delle norme lavoristiche nel contesto
nazionale non tanto perché, come argomentano i due Autori citati, l’art.35 Cost.
legittimerebbe tale differenziazione di trattamento, ma per la disomogeneità della
situazione in cui – secondo il diritto comunitario - si trovano i lavoratori che operano
stabilmente in Italia rispetto ai lavoratori distaccati: i primi sono parti del mercato del
lavoro nazionale, i secondi no.
50
imprese anche sul contenimento dei costi di produzione che le libertà di
accesso e di esercizio delle attività di servizi così come disciplinate
dalla nuova proposta di direttiva dovrebbero indurre; in secondo luogo
la compresenza nei nuovi Stati membri entrati nella Comunità nel 2004
(e in quelli in procinto di entrarvi a breve) sia dei mercati dei servizi
meno regolamentati per le condizioni di esercizio sia e dei più bassi
standard di tutela e di retribuzione per i lavoratori di tutta la Comunità
Europea124.
I rilevanti differenziali del costo del lavoro e delle rigidità in entrata
e in uscita rispetto ai trattamenti economici e normativi applicati in
molti dei nuovi Stati membri (in particolare Lettonia, Lituania, Estonia,
Polonia e Repubblica Slovacca) potrebbero porre a rischio i posti dei
lavoratori nazionali o quantomeno le attuali condizioni di lavoro loro
praticate, giacché le imprese potrebbero esser indotte a preservare la
loro competitività praticando trattamenti inferiori o – qualora questi
non siano consentiti dalla contrattazione collettiva e/o dalla legge
nazionale – stabilendosi esse stesse in quei Paesi al fine di avvalersi
della disciplina giuridica più favorevole e prestare servizi in tutto il
mercato interno distaccandovi lavoratori (c.dd. posted workers). Ciò
potrebbe accadere mediante un reale trasferimento della sede legale e
operativa delle imprese nazionali in questi Paesi oppure in modo
“fraudolento”, aprendo una letterbox company che vi elegga soltanto la
sua sede legale e vi si stabilisca solo in modo virtuale125.
124
Cfr. J. Cremers J., Free movement revisited, in CLR News, 2005, 3; J. Kvist,
op.cit., 301 e ss..
125
Queste preoccupazioni circa il fenomeno già conosciuto delle letterbox company
non possono dirsi fugate dalle precisazioni che sono state formulate nel considerando
18 bis della direttiva. Sebbene vi sia affermato che “Il luogo di stabilimento del
prestatore dovrebbe essere determinato in conformità della giurisprudenza della
Corte giust., secondo la quale la nozione di stabilimento implica l’esercizio effettivo
di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata mediante
l’insediamento in pianta stabile. … Secondo questa definizione … una semplice
casella postale non costituisce uno stabilimento”; tuttavia viene anche precisato che il
requisito di stabilimento dell’impresa in uno Stato membro “… può essere soddisfatto
anche nel caso in cui una società sia costituita a tempo determinato o abbia in affitto
un fabbricato o un impianto per lo svolgimento della sua attività. Esso può altresì
essere soddisfatto allorché uno Stato membro rilascia autorizzazioni di durata
limitata soltanto per particolari servizi. Lo stabilimento non deve necessariamente
assumere la forma di una filiale, succursale o rappresentanza ma può consistere in
un ufficio gestito dal personale del prestatore o da una persona indipendente ma
51
Le condizioni (legali e contrattuali) di lavoro applicate in uno Stato
membro diverrebbero quindi una componente del “pacchetto” di
convenienze di ogni sistema-paese che l’impresa può valutare al fine di
decidere dove stabilirsi non più soltanto per produrre beni da inviare
negli altri Stati membri, ma anche per organizzarvi e dirigersi attività di
servizi da prestare in via temporanea (seppur per un numero
innumerevole di volte e in favore di innumerevoli committenti) negli
altri Stati membri.
L’aspetto che più interessa in questa sede è che può affermarsi in
termini non dubitativi il sistema disegnato dalla direttiva 96/71
consente già ora una concorrenza tra le imprese stabilite in diversi Stati
membri giocata anche sulle differenze delle condizioni di lavoro che
sono tenute ad applicare. Quale potrebbe essere la natura e – soprattutto
- l’entità di questa concorrenza, se possa scadere in un vero e proprio
dumping sociale a seguito delle pressioni nel senso di una maggiore
competitività nei mercati dei servizi che l’adozione della proposta di
direttiva innescherebbe, sono quesiti ai quali è veramente difficile
azzardare una risposta. Gli effetti concreti della direttiva, infatti,
sarebbero destinati ad esser condizionati dalla sapienza di governo del
fenomeno da parte della Corte di giustizia attraverso la propria
giurisprudenza su due aspetti nodali: a) la distinzione tra libertà di
circolazione e di stabilimento, in particolare nella determinazione della
soglia di reiterazione o di durata nel tempo sopra la quale la prestazione
di distinti servizi di natura temporanea prestati da un’impresa in un
altro Stato membro ospitante si traduca in esercizio della libertà di
stabilimento e non più soltanto di libertà di circolazione assoggettando
integralmente i propri lavoratori ivi impiegati al diritto del lavoro di
quello stesso Stato; b) la nozione di motivi di ordine pubblico che
legittimano l’estensione dell’ambito di applicazione della regolazione
del lavoro dello Stato ospitante agli Stati distaccati.
Vi sono due esigenze contrapposte ma egualmente meritevoli di
tutela e considerazione: da un lato evitare che gli Stati membri con più
bassi standard di protezione possano scatenare una inarrestabile corsa al
ribasso che avrebbe conseguenze sociali e politiche disastrose per il
futuro dell’Unione; d’altro lato, però, evitare che gli Stati membri al
momento economicamente e tecnologicamente più competitivi possano
utilizzare le loro più onerose condizioni di lavoro come uno strumento
autorizzata ad agire su base permanente per conto dell’impresa, come nel caso di
una rappresentanza”.
52
protezionistico dei loro settori nazionali labour intensive e a bassa
qualità tecnologica (quali, ad esempio, il settore edile, delle pulizie,
delle manutenzioni) in cui le imprese provenienti dai Paesi meno
sviluppati hanno chances di effettiva concorrenzialità126.
In un approccio squisitamente economico si ritiene che i
differenziali di costo (retributivo e gestionale) tra gli Stati membri
dovrebbero riflettere nel mercato unico solo la diversa produttività della
forza lavoro e in tal caso risultare indifferenti sul piano della
concorrenza interstatuale tra le imprese perché quelle che sono gravate
da un costo del lavoro più elevato non sarebbero in alcun modo
svantaggiate in quanto godano di una superiore produttività del proprio
personale127. Se invece le differenze retributive e normative sussistono
nonostante non vi sia un corrispondente differenziale di produttività in
seno ai diversi Stati membri, la pressione che la libera circolazione
esercita sul livellamento verso i minimi retributivi meno elevati
dovrebbe spingere gli Stati e le imprese europee a praticare politiche
regolative e retributive strettamente legate alla loro effettiva
competitività in quel settore o a specializzarsi e concentrarsi solo nei
settori in cui la loro competitività è garantita da altri fattori di
produzione (in particolare dalla qualità e innovatività del prodotto o dal
know how tecnologico). Intesa in questo modo l’assenza di tutela del
diritto del lavoro rispetto alle erosioni operate dalla libera circolazione
dei beni e dei servizi diviene fonte di efficienza complessiva del
mercato europeo, come se ciascuno Stato fosse libero di applicare alle
proprie imprese il diritto del lavoro che preferisce a condizione che il
sistema nazionale nel suo complesso sia in grado effettivamente di
“permetterselo”128.
126
G. Saint Paul, Making sense of Bolkestein-bashing: trade liberalization under
segmented labour markets, CEPR - Centre for economic Policy Research – London,
discussion paper n. 5100, 2005, rileva però che, in caso dell’instaurazione repentina
nella UE di un mercato interno dei servizi assolutamente libero, nei vecchi Stati
membri la rigidità dei mercati del lavoro e la difficile riallocazione in altre attività
della forza lavoro poco qualificata causerebbero nel breve termine un incremento
della disoccupazione di per questa componente del mercato del lavoro e – soprattutto
- una riduzione assai consistente dei suoi livelli retributivi.
127
Cfr. P. Davies, Posted workers ..., cit., 598 e s.; S. Deakin, F. Wilkinson, Rights vs
efficiency? The economic case fro transnational labour standards,in Industrial Law
Journal, 1994, 289.
128
R. Giesen, op.cit., 144, rileva come l’apertura ad un mercato unico senza barriere
tra gli Stati aderenti incrementa l’efficienza e la produttività complessiva e
53
E’ evidente che in questo approccio si considera la regolazione delle
condizioni di lavoro esclusivamente quale elemento che incide sul
costo di una risorsa che indirettamente poi condiziona la
determinazione del prezzo del bene (prodotto o servizio) finale. Si
svaluta totalmente la diversa funzione, concorrente a quella appena
descritta, che gli ordinamenti costituzionali dei Paesi europei
continentali fondati sul pluralismo democratico hanno attribuito e
continuano ad attribuire alla disciplina lavoristica (legale e contrattuale)
e delle relazioni industriali: quella di strumento principe sia nella
ripartizione della ricchezza prodotta tra capitale e lavoro sia nella
redistribuzione di questa tra le diverse tipologie professionali e sociali
di lavoratori.
MASSIMO PALLINI
Professore associato di diritto del lavoro
Università degli studi di Milano
conseguentemente il benessere dei cittadini. E’ inevitabile però che arrivi anche una
competizione tra i diversi sistemi di sicurezza sociale che opera pressioni sugli Stati
membri, in positivo, a non “sovraccaricare” i propri sistemi, in negativo, a ridurre i
livelli di protezione sociale per comprimerne i costi e far guadagnare competitività
alle imprese nazionali rispetto alla concorrenza delle imprese con oneri sociali
inferiori. R. Giesen, però, sottolinea anche che è difficile comprovare e misurare
l’entità della pressione operata sui sistemi sociali, ma comunque si cede sempre alla
tentazione di proteggerli con misure che risultano in realtà meramente
protezionistiche del mercato interno.
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