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RAPPORTO DI PRIMAVERA 2002
Previsioni, Regole di bilancio
e Politica fiscale
Maggio 2002
www.freefoundation.com
1
INDICE
PARTE PRIMA: ................................................................................... 12
LE PREVISIONI .................................................................................. 12
1. Fattori macroeconomici e strutturali alla base della Previsione ................................................ 13
1.1 Il ciclo economico............................................................................................................. 13
1.2 USA .............................................................................................................................. 13
1.3 Il successo delle politiche anti-cicliche........................................................................... 14
1.4 L’Europa ...................................................................................................................... 16
1.5 Il divario di produttività e il ritardo delle politiche ......................................................... 16
1.6 L’Italia........................................................................................................................... 16
1.7 Le debolezze strutturali ..................................................................................................... 18
1.8 Le prospettive dell’economia italiana nel periodo 2002-2005. ............................................ 20
PARTE SECONDA: ............................................................................ 29
L’EVOLUZIONE CONGIUNTURALE ............................................ 29
1. La Congiuntura Internazionale................................................................................................ 30
1.1 Stati Uniti.......................................................................................................................... 31
1.2 Giappone .......................................................................................................................... 34
1.3 Area dell’euro.................................................................................................................... 34
2. La congiuntura in Italia ........................................................................................................... 39
2.1 L’offerta ............................................................................................................................ 40
2.2 La domanda interna .......................................................................................................... 41
2.3 Il Mercato del Lavoro e l’Occupazione ............................................................................. 45
2.4 L’inflazione ....................................................................................................................... 46
2.5 Gli scambi con l’estero ...................................................................................................... 48
PARTE TERZA: .................................................................................. 50
LA POLITICA FISCALE ANTICICLICA .......................................... 50
1. Disciplina fiscale e ciclo economico ........................................................................................ 51
1.1 Cosa sappiamo sull’efficacia della politica fiscale ............................................................... 55
2. E’ possibile una gestione più flessibile della politica fiscale? .................................................... 58
3. Una proposta d’innovazione istituzionale................................................................................ 60
4. Il patto di stabilità e crescita e la politica fiscale di stabilizzazione............................................ 64
PARTE QUARTA: ............................................................................... 67
LE REGOLE DI BILANCIO.............................................................. 67
1. Verso la legge di stabilità ......................................................................................................... 68
1.1. L’iniziativa del governo .................................................................................................... 68
1.2 Il dibattito parlamentare .................................................................................................... 70
1.3 Le posizioni della maggioranza e della minoranza ............................................................. 71
1.4 Una possibile sintesi .......................................................................................................... 73
1.5 Scenari di riforma di medio-lungo termine ........................................................................ 76
Approfondimento 1: ................................................................................................................ 78
La rilevanza delle regole di bilancio secondo la teoria ...................................................................... 78
Approfondimento 2: .................................................................................................................... 80
Come il bias fiscale e’ contenuto in Europa ...................................................................................... 80
2
2. Le regole di bilancio e performance finanziaria nei paesi dell’unione europea ......................... 81
2.1 Lo stato dell’arte nella ricerca ............................................................................................ 81
2.2 Descrizione delle procedure di bilancio dei paesi UE ........................................................ 83
2.3 Risultati delle verifiche empiriche ...................................................................................... 88
2.4 Conclusioni ....................................................................................................................... 91
Al Rapporto FREE Primavera 2002 hanno collaborato: Renato Brunetta, Stefano Da Empoli,
Ernesto Felli, Fabiano Padovano, Giovanni Tria.
Il modello econometrico NEMO è stato realizzato da Ernesto Felli e Giovanni Tria.
I testi e l'editing sono stati curati da Silvia Carnini Pulino.
3
SOMMARIO
Le prospettive dell’economia italiana nel periodo 2002-2005
1. Come il Rapporto FREE dello scorso settembre aveva ipotizzato, gli effetti dell’11
settembre sono stati transitori e il potenziale di crescita dell’economia americana non
sembra essere stato intaccato in modo permanente dallo shock negativo. L’economia
americana ha reagito all’indebolimento dei fattori che ne avevano guidato la lunga fase
espansiva – la più lunga dal dopoguerra - meglio e più rapidamente del previsto. Non
c’è dubbio che le politiche economiche hanno aiutato l’economia americana a reagire
alla decelerazione del ciclo e agli eventi sfavorevoli.
2. Nell’area dell’euro la crescita del PIL nel 2001 è stata maggiore di quella degli USA
(1,5% contro 1,2%), ma la decelerazione rispetto al 2000 (+3,3%) non meno brusca. A
differenza però di quanto è accaduto oltreoceano, il PIL non ha registrato recuperi
congiunturali e il 2001 si è chiuso con un’ulteriore anche se contenuta riduzione del
tasso di crescita. La ripresa in Europa appare più lenta e graduale. Né la politica
monetaria né l’operare degli stabilizzatori automatici sembrano in grado di stimolare
l’attività economica che rimane fiacca così come lo stato della fiducia della famiglie e
dei loro consumi.
3. Gli effetti del rallentamento internazionale non potevano non estendersi all’Italia.
Tuttavia, le ultime informazioni indicano che il “fondo della recessione” è stato ormai
raggiunto e che l’economia ha ripreso slancio nei primi mesi di dell’anno in corso: nel
primo trimestre del 2002 il PIL è tornato a crescere in termini congiunturali (+0,2%).
4. Anche se la performance congiunturale delineata non appare particolarmente brillante,
non è l’evoluzione ciclica dell’economia italiana a destare preoccupazione. Il ritmo della
ripresa acquisterà vigore e solidità sempre più velocemente nel corso del 2002,
collocando il tasso di crescita tendenziale vicino al tre per cento nell’ultimo trimestre.
Secondo le previsioni FREE, la crescita media dell’economia italiana nel 2003 tornerà
ai livelli del 2000 (+2,8% circa), ossia al risultato raggiunto prima del rallentamento del
biennio 2001-2002. Tuttavia, come abbiamo spiegato nei precedenti rapporti,
l’evoluzione di medio periodo dell’economia italiana è in linea più con lo standard di
crescita bassa del biennio 2001-2002 e di tutti gli anni novanta che con le impennate
4
del 2000 e del 2003 (se la nostra previsione sarà confermata). La previsione è
condizionale all’invarianza della legislazione vigente al momento dell’effettuazione delle
simulazioni (metà maggio 2002) e alle ipotesi di un risveglio della domanda mondiale
nel 2003 e di una stabilizzazione del tasso di cambio dollaro-euro intorno a 0,90
(Tabella 3).
5. Secondo la nostra previsione di base, la causa predominate della dinamica del PIL nel
prossimo quadriennio dal lato dell’offerta sarà la crescita dell’occupazione;
l’accumulazione di capitale manterrà comunque un apporto positivo. La domanda
aggregata influenzerà questa dinamica soprattutto nel 2003, attraverso il contributo
della componente interna, ed in particolare del processo di ricostituzione delle scorte.
Le esportazioni nette non daranno un contributo positivo, con la parentesi del 2003.
L’esaurirsi del dinamismo dell’occupazione causerà il rallentamento del ritmo di
crescita nel biennio 2004-2005. Gli andamenti suddetti si realizzeranno in un contesto
d’inflazione stabile e di graduale miglioramento dei conti pubblici.
6. Secondo le nostre simulazioni, l’obiettivo del pareggio di bilancio sarebbe raggiunto
non prima del 2004. La gradualità di tale evoluzione - il disavanzo delle
Amministrazioni Pubbliche è pari all’1 per cento del PIL nel 2002 e allo 0,4% nel 2003
- deve essere valutata non solo in relazione al previsto comportamento meno virtuoso
di altri paesi dell’UE, ma anche alla luce delle correzioni degli stabilizzatori automatici
provocate dall’andamento ciclico. I nostri risultati, d’altra parte, non contraddicono le
analisi di sensitività del Ministero del Tesoro, secondo le quali una crescita inferiore
all’obiettivo programmatico (1,5 contro 2,3%) comporterebbe nel 2002 un rapporto
indebitamento/ PIL pari allo 0,9% .
7. Nel 2002 il tasso di variazione dei prezzi al consumo scenderà al 2,0% e rimarrà
sostanzialmente bloccato a questo livello negli anni successivi. Si noti che, invece,
l’inflazione “interna” misurata dalle variazioni del deflatore del prodotto interno, pur
essendo più elevata, esibisce un profilo lievemente declinante.
8. Lo scenario che emerge dalla previsione di base deve far riflettere. Sebbene il prodotto
pro-capite registri incrementi positivi anche di fronte alla tenuta dell’occupazione, in
assenza di cambiamenti strutturali o innovazioni istituzionali e di modifiche della
legislazione vigente, la dinamica del PIL è insoddisfacente e per di più declinante:
5
nell’ultimo anno della previsione l’economia italiana è ricondotta al di sotto della
crescita potenziale. In sostanza, i risultati della previsione di base indicano che, in
assenza di shock positivi, un’attenuazione del dinamismo della componente estera è
sufficiente a spingere l’economia italiana su ritmi di crescita modesti.
9. La parte terza e quarta del Rapporto affronta alcuni temi cruciali del dibattito relativo
alle politiche di bilancio nel quadro del Patto di stabilità e crescita (PSC): il possibile
uso di una politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo e le condizioni per la
sua efficacia; il dibattito parlamentare sulla necessità di trasformare la legge finanziaria
in una “legge di stabilità” per rendere più efficiente e trasparente il processo di
formazione della legge di bilancio ed il rispetto del PSC; la relazione tra regole di
bilancio e propensione alla disciplina fiscale.
La politica fiscale anti-ciclica
1. Nella parte terza del Rapporto viene proposto come tema di dibattito una innovazione
istituzionale tesa a consentire una maggiore flessibilità fiscale discrezionale per la
correzione del ciclo nel nuovo contesto europeo. La proposta, di recente avanzata in un
contesto non europeo, è incentrata sull’idea di superare alcune cause di inefficacia della
politica fiscale nella regolazione di breve periodo della domanda affidandone la gestione
ad autorità dotate di un relativo grado di indipendenza, secondo il modello prevalente
nella gestione della politica monetaria. FREE la propone come interessante oggetto di
dibattito in un contesto europeo.
2. Una politica fiscale più flessibile ai fini della stabilizzazione del prodotto e dei prezzi
sarebbe più desiderabile qualora fossero eliminati i ritardi connessi alla sua attuazione e
risolti i problemi di credibilità circa la propensione alla disciplina fiscale dei titolari della
responsabilità fiscale, governo e parlamenti.
3. Questi obiettivi potrebbero essere ottenuti affidando ad una autorità fiscale dotata di un
certo grado di indipendenza dal governo la responsabilità di decidere limitate variazioni
temporanee a qualche aliquota fiscale. La temporaneità dell’azione e la limitazione della
sua intensità dovrebbe essere garantita dall’obbligo di agire in modo simmetrico nelle
varie fasi del ciclo ed in ogni caso sotto il vincolo che l’obiettivo di bilancio strutturale - e
6
la composizione del bilancio in termini di livello della spesa su cui questa autorità fiscale
non avrebbe facoltà di azione - nel medio periodo rimanga invariato.
4. Il fatto che questa responsabilità fiscale sia affidata istituzionalmente ad una autorità
indipendente dal governo, sul modello ormai comunemente accettato dell’indipendenza
dell’autorità monetaria, dovrebbe garantire la credibilità dell’impegno ed il fatto che esso
non venga disatteso in base a logiche di convenienza politica dei governi e delle
maggioranze parlamentari. Il recupero delle caratteristiche della tempestività e credibilità
conferirebbe alla politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo anche la
caratteristica dell’efficacia. Sarebbe interessante considerare la possibilità che l’istituzione
dotata di indipendenza e credibilità, oltre che di capacità tecniche, cui affidare il compito
di gestire la politica fiscale di stabilizzazione sia proprio la Banca Centrale o una agenzia
ad essa collegata.
5. La proposta non porrebbe in discussione in alcun modo il Patto di stabilità e crescita
(PSC). Quest’ultimo richiede che i conti pubblici siano, in media , in pareggio nel corso
del ciclo economico ma non esclude, anzi prevede, che si possano avere avanzi o
disavanzi limitati nelle varie fasi del ciclo.
Verso la legge di stabilità
1. Il vincolo esterno, rappresentato dai Trattati europei, spinge nella direzione di una
maggiore standardizzazione dei bilanci pubblici, da redigere in base a criteri più uniformi.
Il vincolo interno e la devoluzione di parte dei poteri dello Stato ai governi locali,
costringe all’adozione di un nuovo regime contabile che tenga conto del processo di
decentramento ma anche degli obblighi finanziari che derivano dal Patto di stabilità e
crescita e della necessità per lo Stato di continuare a svolgere un’azione di coordinamento
per conseguire una politica fiscale efficace. Per queste ragioni, la legge finanziaria
dovrebbe trasformarsi in legge di stabilità.
2. Nelle intenzioni espresse dal Governo, la legge di stabilità dovrebbe assolvere alle
seguenti funzioni:
o Fissare il tetto complessivo delle entrate e delle spese (non limitandosi a
considerare soltanto i saldi, che hanno perso di significato in vista del
7
pareggio di bilancio e che non tengono conto del livello della spesa e delle
entrate).
o Stabilire il riparto di responsabilità relativo all’attuazione del Patto di stabilità
tra lo Stato e gli altri enti.
o Rivedere le procedure inerenti la presentazione degli emendamenti.
o Rimodulare le modalità dell’informazione resa da parte del Governo al
Parlamento.
3. La legge di stabilità sarebbe quindi uno strumento allo stesso tempo più agile e più
completo dell’attuale legge finanziaria.
4. Dalle risoluzioni di maggioranza e minoranza approvate in sede di dibattito
parlamentare emerge, sia pure con accenti diversi, la comune volontà di snellire la legge
finanziaria, concentrandola soltanto sugli aspetti rilevanti della manovra di bilancio.
Così come c’è concordia nel ritenere che gli emendamenti proposti dal Governo
debbano passare attraverso il vaglio preventivo del Consiglio dei ministri. Una possibile
convergenza può essere individuata anche nell’esigenza di perfezionare il monitoraggio
dei conti della Pubblica Amministrazione, rispetto al quale sono stati fatti molti passi in
avanti negli ultimi mesi, e di cercare un migliore raccordo tra le nozioni di competenza
e di cassa (che eviti anche la tentazione di percorrere le strade pericolose della “finanza
creativa”, contribuendo così ad una maggiore trasparenza del bilancio, obiettivo
condiviso da tutti).
Regole di bilancio e disciplina fiscale
1. Nell’ultima parte del Rapporto viene esaminato come diverse regole di bilancio
producano un diverso effetto vincolante sulla propensione alla disciplina fiscale misurata
dal rapporto deficit/PIL, dal rapporto debito/PIL o dal rapporto spesa pubblica/PIL.
Sulla base di questa informazione si può realizzare una riforma delle procedure di
bilancio specifica per l'obiettivo di disciplina fiscale che si vuole raggiungere.
2. Le stime dirette a misurare gli effetti delle diverse regole di bilancio sugli indicatori di
finanza pubblica sopra indicati sono state effettuate identificando le diverse procedure di
bilancio con riferimento a 5 stadi della formulazione della proposta di bilancio:
8
 la formazione della proposta di bilancio all’interno dell’esecutivo
 la discussione, modifica e approvazione del bilancio nel parlamento
 il grado di trasparenza del documento di bilancio
 la flessibilità nell’attuazione della legge da parte degli organi amministrativi dello stato
 il grado di vincolo del documento di bilancio pluriennale
Tabella 1: Europa e Resto del Mondo, Indicatori Macroeconomici
(tassi di variazione % sull’anno precedente)
2000
2001
2002
2003
2004
2005
3.3
1.5
1.4
2.8
2.8
2.7
3.5
1.1
1.3
2.9
3.0
3.1
USA
4.1
1.2
2.2
3.3
3.1
3.2
Esportazi
12.9
0.4
3.3
8.3
6.5
6.5
28.3
25
24
25
25
25
0.9
-4.2
-1.6
1.5
2.5
2.0
0.92
0.89
0.89
0.90
0.90
0.90
PIL:
Area
Euro
Area
OECD
oni
mondiali
PREZZI:
Petrolio
($/barile)
Materie
prime ($)
CAMBI
(livelli):
Euro/$
9
Tabella 2 – Previsione di base
Tassi di variazione % sull’anno precedente
2000
2001
2002
2003
2004
2005
PIL
2,9
1,8
1,4
2,9
2,2
1,4
Domanda aggregata*
4,0
1,8
1,2
2,1
1,7
1,4
Variazione delle scorte**
-0,2
-0,1
0,1
0,3
0.7
0.6
Unità di lavoro
1,8
1,6
1,3
1,2
0,9
0,4
Stock di capitale
3,1
3,0
2,9
2,8
2,8
2,7
Produttività del lavoro
1,1
0,2
0,1
1,7
1,4
0,9
Spesa per consumi
2,7
1,1
1,2
1,9
1,9
1,7
Investimenti
6,5
2,4
2,0
3,0
3,5
3,0
Esportazioni
11,7
0,8
3,0
6,5
5,9
5,0
Importazioni
9,4
0,2
3,1
6,3
7,0
6,3
Costo del lavoro
3,1
3,0
2,5
2,8
3,1
2,9
Costo d’uso del capitale***
0,6
1,0
-0,8
0,1
0,2
0,2
Prezzi al consumo
2,6
2,7
2,0
2,0
2,1
2,1
Deflatore del PIL
2,1
2,6
2,6
2,4
2,4
2,3
Mark-up
-1,0
0,3
0,3
1,2
0,7
0,4
Saldo AP**
-0,5
-1,4
-1,0
-0,4
0,4
0,2
Pressione fiscale
-1,1
-0,1
-0,4
-0,7
-0,6
-0,6
* al netto della variazione delle scorte
**livello in rapporto al PIL
***variazioni assolute in punti percentuali
10
11
PARTE PRIMA:
LE PREVISIONI
12
1. Fattori macroeconomici e strutturali alla base della Previsione
1.1 Il ciclo economico
Come sempre accade in questi casi, è il dissiparsi stesso delle cause del recente
rallentamento del ciclo economico internazionale a dare slancio alle economie dei paesi più
avanzati e a indirizzarne il cammino verso la ripresa. Negli Stati Uniti, dove aveva avuto origine
questa flessione, i segnali di un’inversione dell’andamento negativo sono evidenti anche se non
univoci. C’è ancora incertezza sulla rapidità e sull’omogeneità della ripresa in atto. Ancora una
volta gli Stati Uniti guidano la svolta. In Europa il ritmo della ripresa appare più lento.
Un anno fa le aspettative erano completamente diverse: i margini del prodigioso ciclo
espansivo americano sembravano esauriti e l’Europa della moneta unica era giudicata pronta ad
afferrare il testimone dell’ideale “staffetta” della crescita economica. Al contrario, nel 2001
l’economia mondiale è stata colpita da un brusco rallentamento che ne ha arrestato il ciclo
espansivo. Il commercio mondiale che nel 2000 aveva sfiorato una crescita del 13 per cento, nel
2001 è stato stazionario (solo + 0,4% l’aumento in volume), mentre il prodotto interno lordo
mondiale ha visto più che dimezzarsi rispetto al 2000 il tasso di crescita (2,0% contro 4,5%).
1.2 USA
L’inversione del ciclo economico internazionale è stata innescata dagli Stati Uniti con il
drastico ridimensionamento della crescita degli investimenti. L’esplosione della bolla speculativa
legata alla valutazione dei titoli high-tech nei primi mesi del 2001 ha fornito il combustibile che ha
alimentato la progressiva perdita di slancio dell’economia. L’attacco terroristico dell’11 settembre
ha ulteriormente indebolito una fiducia già scossa dal crollo degli investimenti nelle tecnologie
dell’informazione e comunicazione (ICT – information and communication technologies) e
dall’offuscamento del mito della new economy.
In realtà, come il Rapporto FREE dello scorso settembre aveva ipotizzato, gli effetti dell’11
settembre sono stati transitori e il potenziale di crescita dell’economia americana non sembra
essere stato intaccato in modo permanente dallo shock negativo. L’economia americana ha
reagito all’indebolimento dei fattori che ne avevano guidato la lunga fase espansiva – la più lunga
dal dopoguerra - meglio e più rapidamente del previsto. Sono stati così smentiti i timori del
partito dei pessimisti, lo stesso che oggi, di fronte agli eccezionali dati del primo trimestre 2002
(+ 5,8% la crescita congiunturale annualizzata del PIL, + 8,6% quella della produttività oraria),
13
rimane scettico ed evoca il rischio di una ricaduta nella recessione (double-dip recession ). La fiducia
è invece tornata più rapidamente di quanto ci si aspettasse: la recessione del 2001 è stata la più
breve e la più leggera della storia americana – in senso tecnico è stato solo un rallentamento e
non una recessione vera e propria, visto che si è verificata una sola variazione congiunturale
negativa (-1,3% nel III trimestre) e non le due richieste dalla definizione convenzionale, e nel
complesso dell’anno la crescita è stata comunque positiva anche se modesta (+1,2%).
1.3 Il successo delle politiche anti-cicliche
Non c’è dubbio che le politiche economiche hanno aiutato l’economia americana a reagire
alla decelerazione del ciclo e agli eventi sfavorevoli. Non può sfuggire anche al più freddo dei
“non-interventisti”, il ruolo giocato dal mix di politiche anticicliche: la tempestiva ed energica
azione monetaria svolta dalla Fed e lo stimolo fiscale (quasi l’uno e mezzo per cento del PIL)
voluto dal governo federale. L’esperienza americana fornisce un esempio pratico dell’uso che si
può fare della politica fiscale anti-ciclica, quando la politica monetaria non ha più efficacia – in
corrispondenza di bassi tassi nominali d’interesse e di eccessi sia di capacità produttiva sia
d’indebitamento; ossia in condizioni d’inflazione bassa e stabile. L’esperienza americana può
essere d’insegnamento per l’Europa? In Europa le condizioni di sfondo sono differenti: i tassi
d’interesse nominale sono più alti e non esistono surplus di bilancio. Tuttavia, il perseguimento
di un bilancio in pareggio dovrebbe essere un obiettivo di medio periodo e, quando le
circostanze lo richiedono, si potrebbe rinforzare o non neutralizzare l’azione degli stabilizzatori
automatici. Il Rapporto FREE ne discute più avanti nel capitolo dedicato alla politica fiscale, alle
regole di bilancio e alla riforma della legge finanziaria.
Sebbene l’apparente contraddittorietà delle informazioni congiunturali mantiene una certa
incertezza sulle caratteristiche della ripresa economica Usa, e se l’eccezionale aumento
congiunturale del PIL americano nel primo trimestre di quest’anno – un + 5,8% su base annua
corrispondente allo 1,4% non annualizzato - appare difficilmente sostenibile, la ripresa ciclica è
ormai acquisita. È probabile che l’esaurimento della spinta proveniente dalla spesa pubblica e dal
ciclo di rifornimento delle scorte, e gli stessi timori di una debolezza del dollaro e di pressioni
inflazionistiche con le connesse aspettative di possibili interventi restrittivi dell’autorità
monetaria, sospingeranno l’economia su di un sentiero di crescita più regolare nella seconda
metà dell’anno.
In verità, gli aspetti negativi che pure sussistono in questo scenario, sono legati a fattori che
si possono definire di credibilità del sistema: lo scalpore suscitato dagli scandali Enron e Arthur
14
Andersen e la crisi d’immagine delle banche d’investimento hanno messo in luce un punto
debole delle istituzioni del capitalismo “popolare” americano, nel quale metà delle famiglie
detiene azioni delle corporation della old e della new economy. Per il momento l’economia reale non
ha subito i contraccolpi di queste défaillance. Lo stesso lieve peggioramento del tasso di
disoccupazione in aprile (6,0% contro il 5,7 di marzo), deve essere visto come la conseguenza
dello straordinario miglioramento della produttività. Come mostra la Figura 1, la crescita
continua della produttività caratterizza tutti gli anni novanta. Ma è degno di nota il fatto che la
produttività, solitamente una variabile relativamente pro-ciclica, anziché flettere nel 2001,
quando l’economia statunitense ha registrato l’interruzione del lungo ciclo espansivo, sia
cresciuta senza sosta. Dopo l’insignificante peggioramento del I trimestre (-0,1%), la produttività
ha mostrato un profilo crescente nel corso del 2001, culminato in un incremento del 5,5%
nell’ultimo trimestre al quale ha fatto seguito l’eccezionale balzo di quasi il 9% nel primo
trimestre dell’anno in corso. L’andamento della produttività ha permesso di tenere sotto
controllo le pressioni sui prezzi, contenendo la crescita dei costi unitari di produzione delle
imprese. L’inflazione è scesa di sei decimi di punto (dal 3,4% del 2000 al 2,8 del 2001).È il segno
che la new economy non è un fenomeno fittizio e che il meccanismo della crescita sostenuta non
inflazionistica non è un miraggio.
Fig.1: USA - Produttività oraria - variazioni congiunturali annualizzate
10
8
6
%
4
2
0
-2
-4
-6
1992II III IV93 III III IV94 III III IV95 II III IV96 II III IV 97 II III IV98 II III IV99 II III IV00 II III IV01 II III IV02
I
I
I
I
I
I
I
I
I
15
1.4 L’Europa
Nell’area dell’euro la crescita del PIL nel 2001 è stata maggiore di quella degli USA (1,5%
contro 1,2%), ma la decelerazione rispetto al 2000 (+3,3%) non meno brusca. Il meccanismo di
propagazione è stato simile a quello degli Stati Uniti, in quanto gli stimoli recessivi sono stati
trasmessi dalla flessione degli investimenti, anche se in Europa il contributo della componente
estera è rimasto positivo. A differenza però di quanto è accaduto oltreoceano, il PIL non ha
registrato recuperi congiunturali e il 2001 si è chiuso con un’ulteriore anche se contenuta
riduzione del tasso di crescita. La ripresa in Europa appare più lenta e graduale. Né la politica
monetaria né l’operare degli stabilizzatori automatici sembrano in grado di stimolare l’attività
economica che rimane fiacca così come lo stato della fiducia della famiglie e dei loro consumi.
1.5 Il divario di produttività e il ritardo delle politiche
II ritardo congiunturale accumulato dalle economie europee sarà parzialmente eliminato nei
prossimi mesi, ma rimane preoccupante il divario strutturale con gli Stati Uniti in termini di
produttività e potenziale di crescita. Per eliminare o almeno attenuare questo divario sono
necessarie azioni politiche decise. I progressi raggiunti in alcune aree sono ancora largamente
insufficienti: sia i mercati dei prodotti, sia quelli del lavoro, sia i mercati finanziari richiedono
riforme per migliorarne l’integrazione e la competitività
1.6 L’Italia.
Gli effetti del rallentamento internazionale non potevano non estendersi all’Italia, anche se
sono stati relativamente più blandi rispetto alla media europea: nel 2001 il tasso di crescita del
PIL (+1,8%) si è ridotto di oltre un punto rispetto al brillante risultato del 2000 (+2,9%), ma è
rimasto superiore di tre decimi di punto a quello dell’area euro (+1,5%), dopo che per l’intero
quinquennio 1996-2000 il divario di crescita era stato negativo. Tuttavia l’inversione del
differenziale si realizza in una fase di decelerazione dell’attività economica e di difficoltà di
alcune economie chiave come quella tedesca.
L’arretramento dell’economia italiana nel 2001 è dovuto principalmente al rallentamento
della domanda interna, ma anche la componente estera si è progressivamente indebolita pur
proseguendo a fornire un contributo positivo.
L’evoluzione congiunturale ha mostrato un progressivo deterioramento nel corso del 2001,
culminato nella variazione negativa del quarto trimestre (-0,2%) che ha portato la variazione
tendenziale del PIL al di sotto dell’un per cento (+0,6%).
16
Le ultime informazioni indicano che il “fondo della recessione” è stato ormai raggiunto e
che l’economia ha ripreso slancio nei primi mesi di quest’anno: nel primo trimestre del 2002 il
PIL è tornato a crescere in termini congiunturali (+0,2%). Tuttavia la ripresa è ancora modesta e
il tasso tendenziale di crescita del PIL si è ulteriormente indebolito (+0,1%). Anche tenendo
conto del calcolo a parità di giorni lavorativi (nel I trimestre del 2001 erano stati uno in più) la
crescita tendenziale - circa 0,3% secondo l’ISTAT, anziché 0,1% - sarebbe la metà di quella
raggiunta sul finire dell’anno passato. I dati del marzo 2002 sugli andamenti degli indici del
fatturato e degli ordinativi (+1,8% e +2,0%, rispettivamente) confermano che il recupero
congiunturale è di una grandezza insufficiente a determinare un miglioramento degli andamenti
tendenziali - che registrano ancora variazioni negative rispetto ai corrispondenti periodi di un
anno fa.
Fig.2 - Produttività del lavoro - tassi di variazione %
9
8
USA*
7
Italia**
6
5
4
3
2
1
0
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
*produttività oraria, settore privato extragricolo; 2002: I trimestre.
** produttività per occupato, intera economia; 2002: previsioni FREE
Il disegno dello stato psicologico delle famiglie, che si ricava da indicatori come il clima di
fiducia dei consumatori elaborato dall’Isae, non contraddice l’interpretazione dei dati relativi al
PIL, di cui si è appena detto. Nei mesi di marzo ed aprile 2002 il clima di opinione delle famiglie
è stato riveduto al ribasso, dopo che in febbraio aveva toccato i livelli massimi degli ultimi anni,
a conferma del perdurare di fattori di incertezza sulla solidità e soprattutto sull’intensità della
17
ripresa congiunturale. Gli altri indicatori ciclici disponibili, sia qualitativi (come il clima di fiducia
delle imprese, in rialzo ad aprile) sia quantitativi (l’indice della produzione industriale e
l’indicatore anticipatore Isae-Banca d’Italia) confermano il superamento della fase di
decelerazione dell’attività economica.
La ripresa guadagnerà d’intensità nei prossimi mesi, man mano che si rafforzerà la fiducia
dei consumatori e delle imprese, riacquisterà dinamismo la domanda interna (ricostituzione delle
scorte, spesa per consumi e per investimenti) e si faranno sentire attraverso il canale estero gli
effetti della spinta dell’economia americana sul commercio internazionale.
1.7 Le debolezze strutturali
Tuttavia, le opportunità di rilancio sono condizionate da alcuni elementi di debolezza
strutturale che minano la competitività del nostro paese indipendentemente dal contesto
macroeconomico. La Figura 2 mette in luce uno di questi fattori: il differenziale negativo di
produttività che ha caratterizzato per tutti gli anni novanta, con l’eccezione del triennio 1993-95,
l’evoluzione dell’economia italiana (e in genere l’area dell’euro) rispetto a quella statunitense. Il
grafico segnala un sintomo ma non fornisce una spiegazione. Dal momento che non esiste una
causa unica del basso dinamismo della produttività, la spiegazione del fenomeno non è semplice.
Produttività del lavoro - 2001
Portogallo
Grecia
Svezia
Spagna
Regno Unito
Germania
Finlandia
UE-15
Danimarca
Italia
Francia
Austria
Irlanda
Belgio
Olanda
Lussemburg
USA
0
20
40
18
60
80
100
120
Le specificità del sistema economico italiano cui attribuire un’eventuale responsabilità non
mancano; è importante provare ad individuare le più probabili perché le abilità competitive
dipendono in primo luogo dalla produttività.
Le caratteristiche peculiari dell’apparato produttivo italiano, che lo differenziano sia dagli
Stati Uniti sia dal resto dei paesi europei (come viene ribadito anche nel recente Rapporto
annuale dell’ISTAT), suggeriscono una chiave interpretativa. L’Italia ospita un numero elevato di
imprese attive, oltre 4 milioni - circa ¼ di tutte le imprese industriali e circa 1/5 di quelle dei
servizi dell’Unione Europea. Tuttavia, una quota elevata di esse ha una dimensione piccola (da 1
a 9 addetti) o addirittura piccolissima (1-2 addetti). La produttività è correlata positivamente alla
dimensione: le imprese con meno di 10 addetti ottengono livelli di produttività del lavoro che
sono pari a meno della metà (il 44,3%) di quelli delle imprese di dimensioni grandi (con almeno
250 addetti). I guadagni di produttività derivanti dall’ampliamento della scala sarebbero d’entità
tale da più che compensare l’incremento dei costi del lavoro, con conseguenti effetti benefici
sulla profittabilità.
Tuttavia, le implicazioni delle caratteristiche della struttura microeconomica non sono
univoche –la dimensione aziendale non è rilevante dove operano le economie di rete – e non è
detto che abbiano a che fare con il fenomeno macroeconomico della crescita lenta
Secondo il rapporto sulla competitività in Europa a cura della Commissione Europea, la
produttività del lavoro dell’Italia era nel 2001 superiore alla media dei paesi della Unione
Europea, come si può vedere dall’istogramma. È confermato anche da questa evidenza empirica
che, in ogni caso, la performance dei paesi dell’UE è inferiore a quella degli Stati Uniti (con
l’eccezione del Lussemburgo).
I precedenti rapporti FREE hanno posto l’accento su di un approccio interpretativo
diverso, non necessariamente incompatibile con quello appena delineato, nel tentativo di
spiegare il divario di produttività. Nel breve periodo i fattori macroeconomici, ed in particolare
le oscillazioni del ciclo economico, tendono ad avere un impatto comune nelle economie che
hanno caratteristiche simili, come ad esempio i paesi OECD. Tuttavia, nell’aggiustamento di
medio periodo, quando in assenza di shock la crescita si riporta sul sentiero determinato dal
prodotto potenziale, giocano un ruolo decisivo le specifiche istituzioni e regole del gioco di un
paese – come ad esempio quelle che modellano il grado di competitività e di flessibilità dei
mercati dei prodotti, dei mercati finanziari e del mercato del lavoro. L’interazione tra i fattori
19
macroeconomici e i fattori istituzionali influenza non solo la velocità dell’aggiustamento ma
anche i costi (in termini di divario tra il prodotto effettivo e quello potenziale) e altera lo stesso
prodotto potenziale.
1.8 Le prospettive dell’economia italiana nel periodo 2002-2005.
Anche se la performance congiunturale delineata non appare particolarmente brillante, non
è l’evoluzione ciclica dell’economia italiana a destare preoccupazione. Il ritmo della ripresa
acquisterà vigore e solidità sempre più velocemente nel corso del 2002, collocando il tasso di
crescita tendenziale vicino al tre per cento nell’ultimo trimestre. Secondo le previsioni FREE, la
crescita media dell’economia italiana nel 2003 tornerà ai livelli del 2000 (+2,8% circa), ossia al
risultato raggiunto prima del rallentamento del biennio 2001-2002. Tuttavia, come abbiamo
spiegato nei precedenti rapporti, l’evoluzione di medio periodo dell’economia italiana è in linea
più con lo standard di crescita bassa del biennio 2001-2002 e di tutti gli anni novanta che con le
impennate del 2000 e del 2003 (se la nostra previsione sarà confermata). Infatti, come mostra la
Fig.3 e la Tabella 1, nel biennio successivo il ritmo di crescita decelererà tornando nel 2005 al di
sotto del potenziale (+1,3%). L’arretramento del tasso di crescita al di sotto del potenziale è
anche la conseguenza del ridimensionamento della domanda aggregata che scaturisce dalle
ipotesi condizionali della nostra previsione di base e di cui si dirà più avanti. In queste
condizioni, il pareggio di bilancio sarà raggiunto solo nel 2004 in un contesto di sostanziale
controllo dell’inflazione.
PIL
Domanda aggregata*
Tabella 1 – Previsione di base-Sintesi
Tassi annuali di variazione percentuale
2000
20001 2002
2003
2,9
1,8
1,4
2,9
4,0
1,8
1,2
2,1
2004
2,2
1,7
2005
1,4
1,4
Prezzi al consumo
2,6
2,7
2,0
2,0
2,1
2,1
Saldo AP**
-0,5
-1,4
-1,0
-0,4
0,4
0,2
* al netto della variazione delle scorte
** in rapporto al PIL
Tuttavia, è lo stesso tasso di crescita del prodotto potenziale ad essere insoddisfacente. Il
motivo è da ricercarsi nel fatto che, a causa dei ritardi strutturali dell’economia italiana, ogni
evoluzione negativa del ciclo economico, che interessa tutti i paesi, tende a lasciare effetti
20
permanenti nel nostro, riducendone il potenziale di crescita, mentre ha effetti transitori sulle
economie delle istituzioni più flessibili.
Le simulazioni compiute con il modello econometrico Nemo e riportate nei precedenti
rapporti hanno confermato quest’interpretazione. Gli effetti quantitativi delle modifiche
strutturali sono ampi e duraturi; soprattutto quando gli interventi ipotizzati rendono più
dinamiche e favorevoli allo sviluppo della produttività le istituzioni dalle quali dipende
l’aggiustamento di medio periodo (e quindi la crescita di lungo periodo) rispetto alle inevitabili e
spesso imprevedibili oscillazioni cicliche di breve periodo.
Fig. 3 - PIL e domanda aggregata.
T assi annuali di variazione
.05
.04
x100
.03
.02
.01
previsioni
.00
-.01
92
93
94
95
96
97
98
99
00
01
02
03
04
05
PIL
Domanda aggregata al netto delle scorte
Gli shock strutturali simulati in precedenti rapporti da FREE hanno riguardato vari aspetti:
il cambiamento delle regole del mercato del lavoro in modo da ridurne il grado di
corporativismo e di centralizzazione, l’attenuazione permanente della pressione fiscale, il
rinnovamento del capitale pubblico di infrastrutture di base, il miglioramento del capitale umano
e degli incentivi agli investimenti ICT, la liberalizzazione dei mercati delle utilities. I risultati
ottenuti indicano che questi interventi riescono ad aumentare in modo significativo la
produttività totale dei fattori, e a spingere l’economia su di un sentiero di crescita stabilmente più
elevato e non inflazionistico.
21
Tabella 3: Europa e Resto del Mondo, Indicatori Macroeconomici
(tassi di variazione % sull’anno precedente)
2000 2001 2002 2003 2004 2005
PIL:
Area Euro
3.3
1.5
1.4
2.8
2.8
2.7
Area OECD
3.5
1.1
1.3
2.9
3.0
3.1
USA
4.1
1.2
2.2
3.3
3.1
3.2
Esportazioni
12.9 0.4
3.3
8.3
6.5
6.5
mondiali
PREZZI:
Petrolio ($/barile) 28.3 25
24
25
25
25
Materie prime ($)
0.9
-4.2 -1.6 1.5
2.5
2.0
CAMBI (livelli):
Euro/$
0.92 0.89 0.89 0.90 0.90 0.90
Secondo la nostra previsione di base, la causa predominate della dinamica del PIL nel
prossimo quadriennio dal lato dell’offerta sarà la crescita dell’occupazione – nel nostro modello
il volume della produzione è funzione delle unità di lavoro; l’accumulazione di capitale manterrà
comunque un apporto positivo. La domanda aggregata influenzerà questa dinamica soprattutto
nel 2003, attraverso il contributo della componente interna, ed in particolare del processo di
ricostituzione delle scorte. Le esportazioni nette non daranno un contributo positivo, con la
parentesi del 2003.
L’esaurirsi del dinamismo dell’occupazione causerà il rallentamento del ritmo di crescita nel
biennio 2004-2005.
Nell’anno in corso l’economia italiana si svilupperà in linea con la media dei paesi dell’area
euro: il tasso di crescita sarà compreso tra l’1,2 e l’1,4 per cento (Tabella 4). Il limite inferiore è
rappresentato dalla dinamica della domanda aggregata al netto delle scorte, che risente
pienamente degli effetti dell’involuzione del ciclo economico; il limite superiore è associato alla
crescita del PIL, che nel modello NEMO è determinato dal lato dell’offerta, ossia dipende dalla
quantità degli input (lavoro, capitale fisico, capitale umano) e dal livello della tecnologia, e quindi
è meno soggetto agli effetti di breve periodo delle fluttuazioni. La discrepanza tra il PIL e la
domanda aggregata è “eliminata” attraverso il meccanismo-cuscinetto delle scorte. Come si può
notare osservando la Tabella 4, nella previsione per il 2002 il contributo dell’accumulazione di
scorte torna ad essere positivo, dopo un biennio di smaltimento della capacità produttiva in
eccesso. Il processo di ricostituzione delle scorte verso i livelli desiderati non si completa
22
rapidamente e, come implica la crescita del PIL più accelerata rispetto a quella della domanda
aggregata, caratterizzerà l’aggiustamento dell’economia per tutto il periodo della previsione.
Tabella 4 – Previsione di base
Tassi di variazione % sull’anno precedente
2000
2001
2002
2003
PIL
2,9
1,8
1,4
2,9
Domanda aggregata*
4,0
1,8
1,2
2,1
2004
2,2
1,7
2005
1,4
1,4
Variazione delle scorte**
-0,2
-0,1
0,1
0,3
0.7
0.6
Unità di lavoro
Stock di capitale
1,8
3,1
1,6
3,0
1,3
2,9
1,2
2,8
0,9
2,8
0,4
2,7
Produttività del lavoro
1,1
0,2
0,1
1,7
1,4
0,9
Spesa per consumi
Investimenti
Esportazioni
Importazioni
2,7
6,5
11,7
9,4
1,1
2,4
0,8
0,2
1,2
2,0
3,0
3,1
1,9
3,0
6,5
6,3
1,9
3,5
5,9
7,0
1,7
3,0
5,0
6,3
Costo del lavoro
Costo d’uso del capitale***
Prezzi al consumo
Deflatore del PIL
Mark-up
3,1
0,6
2,6
2,1
-1,0
3,0
1,0
2,7
2,6
0,3
2,5
-0,8
2,0
2,6
0,3
2,8
0,1
2,0
2,4
1,2
3,1
0,2
2,1
2,4
0,7
2,9
0,2
2,1
2,3
0,4
Saldo AP**
Pressione fiscale
-0,5
-1,1
-1,4
-0,1
-1,0
-0,4
-0,4
-0,7
0,4
-0,6
0,2
-0,6
* al netto della variazione delle scorte
**livello in rapporto al PIL
***variazioni assolute in punti percentuali
Gli andamenti suddetti si realizzeranno in un contesto d’inflazione stabile e di graduale
miglioramento dei conti pubblici.
Secondo le nostre simulazioni, l’obiettivo del pareggio di bilancio sarebbe raggiunto non
prima del 2004. La gradualità di tale evoluzione - il disavanzo delle Amministrazioni Pubbliche è
pari all’1 per cento del PIL nel 2002 e allo 0,4% nel 2003 - deve essere valutata non solo in
relazione al previsto comportamento meno virtuoso di altri paesi dell’UE, ma anche alla luce
delle correzioni degli stabilizzatori automatici provocate dall’andamento ciclico. I nostri risultati,
23
d’altra parte, non contraddicono le analisi di sensitività del Ministero del Tesoro, secondo le
quali una crescita inferiore all’obiettivo programmatico (1,5 contro 2,3%) comporterebbe nel
2002 un rapporto indebitamento/ PIL pari allo 0,9%.
Nel 2002 il tasso di variazione dei prezzi al consumo scenderà al 2,0% e rimarrà
sostanzialmente bloccato a questo livello negli anni successivi. Si noti che, invece, l’inflazione
“interna” misurata dalle variazioni del deflatore del prodotto interno, pur essendo più elevata,
esibisce un profilo lievemente declinante.
Nel periodo di previsione, il mark-up medio dell’economia (misurato dal rapporto tra il
prezzo del valore aggiunto ai prezzi base e il costo medio di produzione), che storicamente ha
mostrato un andamento moderatamente anticiclico, mima le oscillazioni del prodotto. La
modifica nel movimento durante il ciclo del mark-up potrebbe riflettere il ripiegamento delle
imprese su strategie di breve periodo. Quando la percezione dell’evoluzione macroeconomica
non autorizza comportamenti più lungimiranti, le imprese sono tentate di sfruttare i guadagni di
produttività per aumentare i profitti. É interessante notare che la riduzione nel 2002 del costo
d’uso del capitale (su cui influiscono gli incentivi fiscali), e la successiva evoluzione moderata,
non sembrano sufficienti a dare particolare vivacità alla spesa per investimenti. Sembrerebbe
confermata la regola secondo la quale gli investimenti sono più sensibili ai profitti, alle
aspettative e alle deviazioni della capacità produttiva dai livelli desiderati piuttosto che a tagli
permanenti delle imposte sulle società. Gli investimenti fissi lordi mostrano, in ogni caso, una
dinamica stabilmente positiva nel triennio 2003-05, dopo il rallentamento di quest’anno.
Lo scenario che emerge dalla previsione di base deve far riflettere. Sebbene il prodotto procapite registri incrementi positivi anche di fronte alla tenuta dell’occupazione, in assenza di
cambiamenti strutturali o innovazioni istituzionali e di modifiche della legislazione vigente, la
dinamica del PIL è insoddisfacente e per di più declinante: nell’ultimo anno della previsione
l’economia italiana è ricondotta al di sotto della crescita potenziale. Dopo il picco del 2003 (+
2,9%), il tasso di variazione annuale del PIL si riduce velocemente scendendo nel 2005 all’1,4
per cento (Figura 3). Il rallentamento della domanda aggregata al netto delle scorte è meno
marcato, e nel 2005 il relativo tasso di crescita converge a quello del prodotto. In sostanza, i
risultati della previsione di base indicano che, in assenza di shock positivi, un’attenuazione del
dinamismo della componente estera è sufficiente a spingere l’economia italiana su ritmi di
crescita modesti.
24
I risultati della previsione di base forniscono un nuovo tassello alla spiegazione del “caso
italiano” delineata nelle pagine precedenti. La crescita effettiva non solo tende ad abbassarsi al di
sotto del trend di lungo periodo, ma è lo stesso ritmo del prodotto potenziale che si contrae.
La Figura 4 mostra che il trend di lungo periodo (misurato dagli incrementi annui del PIL
potenziale) si avvia su di un percorso declinante nella seconda metà degli anni ottanta 1. La
successiva stabilizzazione al di sotto del 2% del ritmo della crescita potenziale, determinata
dall’evoluzione irregolare ma in media anemica degli anni ‘90, rischia di protrarsi e persino di
peggiorare nei primi anni del nuovo millennio.
Figura 4. Crescita effettiva e potenziale
tassi di variazione annuale
.04
previsioni
.03
x100
.02
.01
.00
-.01
86
88
90
92
94
PIL effettivo
96
98
00
02
04
PIL potenziale
In conclusione, l’economia italiana ha bisogno di cambiamenti strutturali che la mettano in
condizione di sopportare meglio le conseguenze di shock negativi e di sfruttare più a fondo le
opportunità favorevoli, in modo da mantenere più elevato e stabile il suo ritmo di crescita.
Nei ’70 il potenziale cresceva ad un tasso superiore al 3%, negli ’80 ad un tasso superiore al 2%. Negli anni novanti il
tasso di crescita scende all’1,7%.
1
25
Approfondimento 1:
Sensibilità del rapporto disavanzo/PIL alla crescita economica
Le differenze tra le previsioni dei principali centri di ricerca, sia interni che internazionali , e gli
obbiettivi del Governo variano tra 0,8 ed 1 punto di PIL, per quanto riguarda la crescita, e tra 0,5 e o,8 punti
di PIL, per quanto riguarda l’indebitamento della P.A. Tra le due indicazioni esiste una differenza che non è
solo terminologica. Le previsioni riguardano l’evoluzione più probabile delle variabili in oggetto dato l’andamento
dell’economia mondiale e la “legislazione vigente”. Le indicazioni programmatiche vogliono invece incidere sulle
aspettative degli operatori, nel tentativo di orientarle al meglio. Il Programma di stabilità ha tuttavia elaborato
delle analisi di sensitività per misurare quali saranno le conseguenze finanziare di un eventuale divario tra il
tasso di crescita del Pil previsto dal governo e quello effettivo.
Sono stati effettuati in particolare due esercizi sulla sensibilità del rapporto indebitamento netto/PIL alle
diverse ipotesi di crescita economica. Per entrambi gli esercizi l’impatto della crescita economica sull’avanzo
primario in rapporto al PIL è calcolato utilizzando la stima dell’elasticità del saldo di bilancio alla crescita
fornita dalla Commissione Europea (Public Finances in EMU 2000). Si ipotizza inoltre che il costo medio del
debito non dipenda dal tasso di crescita del PIL reale.
Il primo esercizio illustra l’effetto di diverse ipotesi di crescita nel periodo 2003-2005 sul rapporto
disavanzo/PIL. L’esercizio ipotizza una crescita del PIL minore o maggiore di mezzo punto percentuale in
ciascun anno del periodo 2003-2005 rispetto alle previsioni presentate nelle sezioni precedenti, con effetti cumulati
quindi sul livello del PIL e di riflesso su quello delle entrate tributarie.
Come illustrato nella Tavola , nel 2005 la minore crescita si riflette in un maggior disavanzo che si
attesta allo 0,5 per cento del PIL, a fronte di un leggero avanzo previsto dallo scenario di base. La sensibilità del
disavanzo in rapporto al PIL è la stessa ottenuta nel precedente aggiornamento. Ciò significa che l’attuale sentiero
di riduzione del debito pubblico e il livello dell’avanzo primario sono tali da non alterare la sensibilità del
disavanzo in rapporto al PIL alle diverse ipotesi di crescita garantendo così la prosecuzione del processo di
aggiustamento della finanza pubblica.
Il secondo esercizio, circoscritto al 2002, prevede un peggioramento del tasso di crescita in tale anno di
1,1 punti percentuali2. La minore crescita economica si tradurrebbe in un disavanzo di circa un punto percentuale
nel 2002. Di conseguenza, anche uno scenario di forte rallentamento per il 2002 non comprometterebbe la
2
Tale scenario corrisponde a quello più pessimistico attualmente previsto dalle organizzazioni internazionali.
26
riduzione del saldo di bilancio, in rapporto al PIL, in termini sia strutturali sia effettivi.”
Sensibilità del rapporto saldo di bilancio/PIL alla crescita del PIL (valori
percentuali)
Tasso medio di crescita del Indebitamento netto/PIL
PIL periodo 2003-2005
2005
Ipotesi di base
3,0
0,2
Ipotesi di minore crescita
2,5
-0,5
Ipotesi di maggiore crescita
3,5
0,9
Nel programma di stabilità si fa riferimento all'output gap ed alla componente ciclica del saldo di
bilancio. Quest'ultima è considerata al lordo delle misure una tantum, cioè delle operazioni di cartolarizzazione,
nonché tutte quelle di carattere straordinario che non sono ripetibili: le one-off measures, nella terminologia
dell'OCSE. Se si tenesse conto di questa seconda componente il deficit strutturale risulterebbe più elevato: di un
valore che oscilla tra 0,5 ed 1 punto di PIL. Come risulta dall'evidenza statistica, operando una regressione fino
al 1998, data di nascita dell'UME.
Un secondo esercizio di sensitività ha riguardato la dinamica del tasso di interesse. A settembre 2001, la
struttura del debito era caratterizzata da una quota di titoli a tasso fisso pari a circa il 70 per cento del totale e
da una vita media pari a circa 5,8 anni. Di conseguenza, nell’ipotesi di una variazione di un punto percentuale
di tutta la curva dei rendimenti rispetto allo scenario centrale a partire da gennaio 2002, l’impatto sulla spesa per
interessi in rapporto al PIL sarebbe pari allo 0,18 per cento nello stesso anno, allo 0,38 per cento nel 2003, allo
0,49 per cento nel 2004 ed allo 0,54 per cento nel 20053.”
Questa seconda analisi è particolarmente importante alla luce di quanto si è verificato nel corso del 2001.
Nel corso dell'esercizio, secondo quanto scrive la Relazione generale sulla situazione del paese, il rapporto debito PIL è stato pari al 109,4 per cento, contro il 110,6 per cento dell'anno precedente. Con una differenza pari a
1,2 punti percentuali. Decisamente al di sotto di quel 3 per cento che costituisce il fondamento degli accordi
sottoscritti in sede europea. Fenomeno dovuto “alla modesta crescita del PIL - com'è scritto nel documento - e
all'accentuazione della stagionalità del fabbisogno che ha reso necessario un elevato livello di emissioni fino ai
primi giorni di dicembre”. Spiegazione opportuna, ma solo in parte convincente. Più che di stagionalità del
fabbisogno si dovrebbe infatti parlare della sua crescita abnorme –1 punto di PIL, nel 2001 ed addirittura 2 nel
E’ opportuno sottolineare che il presente esercizio ha come oggetto di analisi la spesa per interessi al lordo delle
ritenute d’imposta. In particolare, non si considerano gli effetti della variazione dei tassi né sull’attività economica né
sulle entrate tributarie relative ai redditi da capitale (imposte sui rendimenti dei titoli a reddito fisso e sui depositi bancari
3
27
2002 rispetto all’indebitamento della P.A. - in corso d'anno. Fenomeno che si è accentuato nei primi mesi del
2002. E' pertanto prevedibile, per l'anno in corso, un aumento della spesa per interessi dovuto all'aumento del
fabbisogno, cui si potrebbe aggiungere l’effetto di un possibile aumento dei tassi di interesse con l'avvio della
ripresa. Il fenomeno non è allarmante, ma va tenuto sotto controllo.
che sono positivamente correlate con il rialzo dei tassi di interesse). Pertanto dai risultati presentati non è possibile
desumere automaticamente la sensibilità del complessivo saldo di bilancio alla variazione dei tassi di interesse.
28
PARTE SECONDA:
L’EVOLUZIONE CONGIUNTURALE
29
1. La Congiuntura Internazionale
Le più recenti informazioni congiunturali attestano un significativo miglioramento ciclico
dell’economia internazionale e un diffuso, sebbene cauto, ottimismo sulle prospettive a breve. I
preoccupati giudizi sollevati da parte di molti analisti, e imprese al sincronico rallentamento delle
principali economie sviluppate, aggravati dai timori e dall'incertezza di una degenerazione degli
equilibri politici internazionali dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre, si sono capovolti nel
volgere di pochi mesi.
In questo mutato quadro internazionale, l'elemento di maggiore conforto è costituito dal
ritrovato dinamismo degli scambi commerciali, sul quale i principali paesi industrializzati, con
l’unica eccezione degli Stati Uniti, ripongono le ambizioni di crescita di breve periodo. Il
commercio internazionale rappresenta ancora il meccanismo di trasmissione di diffusione più
rapida della ripresa economica nelle economie avanzate, a conferma del ruolo ancora
predominante che gli Stati Uniti rivestono nell'influenzare il ciclo internazionale.
La crescita americana del primo trimestre dell'anno in corso e, forse ancor di più, l'inattesa
performance nel quarto trimestre dello scorso anno hanno dimostrato l'efficacia e il rapido
effetto delle politiche anti-cicliche con un'intensità cui non si era più abituati da tempo.
Nonostante l’infittirsi dei segnali positivi non va sottaciuta l’incertezza sui tempi e
sull’intensità della ripresa economica negli Stati Uniti e di conseguenza in Europa e Giappone.
Come sottolineato da molti osservatori l’accelerazione dei progressi nell'attività produttiva, e in
particolare il recupero in termini di occupazione e investimenti, i veri motori della crescita nel
lungo periodo, potrebbero avvenire con un certo ritardo temporale o non essere sincronizzata
tra le principali aree economiche. Elementi di fragilità di carattere strutturale specifiche di alcune
economie potrebbero frapporsi nel breve periodo posticipando il pieno dispiegarsi della ripresa.
Come già rilevato in altre occasioni appare evidente l'incapacità dei paesi appartenenti
all'area dell'euro di promuovere una crescita autonoma, basata su una forte domanda interna, in
grado di rappresentare sotto il profilo economico l'obiettivo di lungo periodo di un'area valutaria
comune. Il miglioramento del quadro congiunturale per i paesi europei ha così assunto fino a
30
oggi toni molto meno marcati caricando di maggiori incertezze le previsioni di crescita nel breve
periodo.
In Giappone, nonostante un recupero delle esportazioni, la situazione appare ancora fragile
e condizionata pesantemente dalle difficili condizioni strutturali in cui versano tanto il settore
delle imprese manifatturiere quanto il sistema finanziario e il bilancio statale.
Per quanto riguarda le economie emergenti, i paesi asiatici, per quanto danneggiati dal forte
rallentamento degli USA durante lo scorso anno, hanno registrato, grazie al volano degli scambi
commerciali, una sostanziale stabilizzazione del ciclo economico già nel quarto trimestre 2001. A
questo proposito il miglioramento, in particolare, delle condizioni del settore tecnologico ha
svolto un ruolo cruciale. Segnali positivi si avvertono anche in America Latina sebbene
persistano situazioni difficili sotto il profilo politico e finanziario in Argentina e Venezuela, la cui
soluzione di certo non appartiene a uno scenario di carattere congiunturale. Il mancato
verificarsi di significativi effetti di contagio fortemente temuti, come nel caso dell'Argentina, ha
rappresentato un positivo risultato innanzi tutto per il sistema finanziario internazionale.
1.1 Stati Uniti
Negli Stati Uniti, dopo la caduta del PIL nel terzo trimestre del 2001 (0,3% rispetto al
trimestre precedente) l’attività produttiva ha registrato, contrariamente alle attese degli analisti,
una variazione positiva nel quarto trimestre, cui è seguita una crescita ancor più intensa nel
primo trimestre del 2002. L’incremento di 1,4% del PIL è attribuibile per intero alla dinamica
della domanda interna (con un contributo al netto delle scorte pari allo 0,9%) trainata
principalmente dai consumi delle famiglie (0,8% la variazione congiunturale) e dalla spesa
pubblica in consumi e investimenti.
La componente più dinamica dei consumi è stata quella dei beni durevoli, automobili in
testa, conseguita in virtù degli incentivi finanziari introdotti a ottobre e di un elevato ricorso
all’indebitamento delle famiglie. Proprio questa caratteristica rappresenta un elemento di fragilità
per le prospettive a breve dell’economia americana lasciando intravedere qualche rischio circa la
tenuta di ritmi così intensi dei consumi nel corso del 2002. Dalle informazioni congiunturali più
recenti, emerge una situazione di crescita sostenuta dei consumi anche nel secondo trimestre
dell'anno: l'indice delle vendite al dettaglio rivela incrementi significativi delle vendite anche nei
comparti dei beni non durevoli. Fino a questo momento la caduta dei prezzi dei prodotti
31
energetici e il conseguente aumento del reddito disponibile hanno più che bilanciato il
deterioramento del mercato del lavoro sulle decisioni di spesa delle famiglie.
La spesa pubblica, per la tempestività con cui è stata utilizzata dall’Amministrazione dopo
gli attacchi terroristici dell'11 settembre scorso, costituisce l’altro fattore cui ricondurre il
miglioramento del tono congiunturale. Alle decisioni di spesa bisogna, però, aggiungere le
misure d'espansione del reddito disponibile definite nel maggio 2001, durante la campagna
elettorale. Nelle settimane scorse, ad esempio, è stato approvato un consistente pacchetto di
misure fiscali a sostegno dell'agricoltura che dimostra come siano tuttora in pieno svolgimento le
misure previste dall'Economic Growth and Tax Relief Reconciliation Act. Secondo quanto si
deduce da queste informazioni lo stimolo fiscale dovrebbe produrre effetti consistenti fino al
termine del terzo trimestre. Il valore totale dei provvedimenti di spesa e di riduzione delle
entrate fiscali si aggira attorno a una cifra che rappresenta il 2% circa del PIL.
S T A T I UN IT I
C O N T R IB UT I A LLE V A R IA Z IO N I C O N G IUN T UR A LI
D A T I D E S T A G IO N A LIZ Z A T I A P R E Z Z I C O S T A N T I
3.0%
2.5%
2.0%
1.5%
1.0%
0.5%
0.0%
-0.5%
-1.0%
-1.5%
-2.0%
Q1 2002
Q4 2001
Q3 2001
Q2 2001
Q1 2001
Q4 2000
Q3 2000
Q2 2000
Q1 2000
Q4 1999
Q3 1999
Q2 1999
Q1 1999
INVESTIMENTI FISSI LORDI PRIVATI
VARIAZIONE DELLE SCORTE E RESIDUO
ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
CONSUMI FINALI DELLE FAMIGLIE
CONSUMI E INVESTIMENTI PUBBLICI
PIL
32
Un contributo positivo alla crescita è stato offerto anche dalla variazione positiva delle
scorte (il contributo è stato dello 0,9%), dopo la pronta correzione avvenuta nel corso del 2001
quando si erano manifestati i primi segnali di rallentamento.
La cautela sulla situazione economica americana mostrata nelle dichiarazioni ufficiali di
molti rappresentanti della FED evidenzia come, sebbene la ripresa sia ormai avviata,
permangano rischi legati alla stagnazione degli investimenti e all’elevato grado di indebitamento
delle imprese.
Una concausa del mancato riavvio del processo di accumulazione del capitale è
individuabile anche nella manovra di stimolo fiscale. L’elemento del pacchetto fiscale approvato
a marzo più interessante per le imprese era rappresentato dalla deduzione fino al 30% del costo
complessivo dell'investimento nel primo anno e dall’accelerazione dell’ammortamento nei tre
anni successivi all’11 settembre 2001. La percezione, largamente condivisa tra gli analisti, è che le
imprese aspettino il netto miglioramento degli utili aziendale per usufruire delle agevolazioni.
Inoltre, un recupero della domanda di investimenti è previsto non prima della fine dell’anno in
corso a causa dei ridotti livelli attuali della capacità produttiva utilizzata, comuni alla quasi totalità
dei settori produttivi, e dei tempi lunghi di validità degli incentivi fiscali (tre anni appunto). La
stagnazione degli investimenti è confermata dalla sostanziale stabilità della domanda di prestiti
bancari.
Poiché, infine, gli investimenti negli Stati Uniti dipendono anche molto dall’andamento
quotazioni di borsa, l’evoluzione congiunturale di questa componente della domanda aggregata
sarà funzione anche di come si risolverà il dibattito aperto su caso Enron dopo il fallimento della
terza più grande società nel settore energetico, che può avere risvolti anche sulle regole di
funzionamento del mercato finanziario.
La debolezza degli investimenti e la necessità di registrare presto miglioramenti della
profittabilità delle imprese sono alla base di un orientamento della politica monetaria rivolto per
quest’anno alla stabilità dei tassi di interesse. Le tensioni registrate tra marzo e aprile sulla
struttura a termine dei tassi di interesse, in particolare sui rendimenti delle attività con scadenze
più inoltrate, sembrano essere rientrate anche in virtù di una dinamica inflazionistica
sostanzialmente sotto controllo. L’indice dei prezzi al consumo di aprile è atteso in lieve
riduzione: dovrebbe raggiungere l’1,4% su base tendenziale. La tendenza di medio periodo
33
definita dalla cosiddetta “core inflation”, l’indice depurato delle componenti più volatili (alimentari
ed energia), è invece dato in lieve risalita fino alla fine dell’anno.
1.2 Giappone
Fra i maggiori paesi industrializzati, il Giappone ha maggiormente risentito del
rallentamento del quadro internazionale nel corso del 2001. Il PIL ha registrato tre contrazioni
congiunturali consecutive, a sintesi di una flessione tanto della domanda interna, quanto delle
esportazioni nette.
La domanda interna è stata caratterizzata da una debole dinamica dei consumi, negativi nei
trimestri centrali a causa di una perdurante deflazione che induce le famiglie a procrastinare
continuamente i propri piani di spesa, e un crollo degli investimenti. Il forte regresso nel
processo di accumulazione è stato causato dal deterioramento del conto economico di molte
imprese e dal sostenuto aumento dei fallimenti aziendali. La situazione finanziaria di molte
imprese già molto indebitate nei confronti del sistema bancario a causa della tendenza
discendente dei prezzi si è aggravata producendo effetti anche sul mercato del lavoro. Il tasso di
disoccupazione, nonostante la contrazione dell'offerta di lavoro è salito ormai stabilmente al di
sopra del 5 per cento.
Il rallentamento dell'economia americana e della dinamica degli scambi commerciali nel
2001 hanno prodotto riflessi negativi sulle esportazioni del paese, il cui tasso di variazione
congiunturale è risultato negativo in tutti i trimestri del 2001 e di entità superiore alla
contrazione delle importazioni.
In questo quadro poco incoraggiante, gli spazi per effettuare azioni di politica economica
appaiono molto ridotte: la politica monetaria appare completamente inefficace nonostante
l'azzeramento del tasso di interesse nominale, mentre la politica fiscale rimane gravata da un
rapporto debito PIL e da un disavanzo di bilancio corrente entrambi molto elevati.
Nonostante un recupero delle esportazioni dovuto al deprezzamento dello yen nei primi
mesi dell'anno in corso le prospettive per il 2002 restano ancora negativamente impostate.
1.3 Area dell’euro
Nell’area dell’euro, la fase discendente del ciclo economico, avviatasi dal secondo trimestre
del 2000, sembra aver toccato il suo punto di minimo nel quarto trimestre del 2001. Ai maggiori
stimoli provenienti dal quadro internazionale si contrappone una debole dinamica della
34
domanda interna che ha determinato la flessione sperimentata dal PIL europeo alla fine dello
scorso anno
Le indicazioni favorevoli provenienti dai principali indicatori anticipatori fanno ritenere
probabile un lento rafforzamento dell’attività economica con l’inoltrarsi dell’anno in corso. Resta
al momento centrale per il consolidamento della ripresa economica il contributo delle
esportazioni perché può rappresentare un decisivo stimolo alla crescita della domanda di
investimenti privati. L’aumento dei consumi appare ancora frenato, all’inizio del 2002, dal
riacutizzarsi delle tensioni inflazionistiche derivante dai rincari del prezzo del petrolio e delle
altre materie prime.
I dati di contabilità nazionale a tutt’oggi disponibili hanno reso evidente la recessione
dell’economia tedesca, che, dopo una crescita nulla nel secondo trimestre del 2001, ha accusato
nel terzo e nel quarto trimestre due flessioni consecutive del PIL rispettivamente dello 0,2% e
dello 0,3%. La frenata dell’economia, nell’ultimo trimestre dello scorso anno, è stata determinata
dal contributo congiunturale negativo fornito tanto dalla domanda interna che dalla domanda
estera, compensato solo parzialmente dall’apporto della variazione delle scorte. Nell’ambito della
domanda interna, alla flessione congiunturale dei consumi privati si è accompagnato un nuovo
calo degli investimenti fissi lordi, il quinto consecutivo, particolarmente allarmante per le
possibili ripercussioni sul potenziale di crescita nel medio termine. La crescita dell’economia
tedesca nel 2001 è risultata pari allo 0,7 per cento.
Relativamente meno grave è apparsa la performance dell’economia francese che, per la
prima volta dalla fine del 1996, ha accusato nel quarto trimestre una flessione congiunturale del
prodotto interno lordo dello 0,1%, ma che ha comunque conseguito in media d’anno una
crescita del 2%. Grazie alla tenuta dei consumi delle famiglie, che hanno segnato nel quarto
trimestre un incremento dello 0,2%, la domanda interna ha continuato a fornire un contributo
congiunturale positivo al PIL, a fronte di un contributo negativo proveniente dalla variazione
delle scorte. Per quanto concerne l’interscambio con l’estero, entrambi i flussi hanno registrato
una contrazione, più ampia nel caso delle importazioni (-4,7%) rispetto a quella delle
esportazioni (-3,8%). L’apporto della domanda estera netta è pertanto risultato positivo.
L’economia spagnola ha registrato nel quarto trimestre 2001 un incremento congiunturale
del PIL dello 0,2%, dopo lo 0,9% del terzo trimestre. A fronte di un contributo negativo fornito
dalla domanda estera netta (-0,4 punti percentuali) e dalla variazione delle scorte (-0,1%), la
35
domanda interna ha continuato a sostenere la crescita del PIL, con un apporto positivo pari a
0,7 punti percentuali. Particolarmente significativo, rispetto ai partner, è apparso il progresso dei
consumi delle famiglie che, con un incremento congiunturale dell’1,4%, hanno fornito il maggior
contributo (0,8) all’incremento del PIL.
Per quanto riguarda i primi mesi dell’anno in corso, le informazioni delle inchieste
qualitative nell’area dell’euro sembrano anticipare risultati più favorevoli. In particolare,
l’indicatore che sintetizza il clima di fiducia nell’industria ha mostrato un rafforzamento sia in
Germania sia in Francia. Il recupero di ottimismo degli imprenditori tedeschi e francesi è, però,
il risultato non tanto di una positiva valutazione della situazione presente, quanto di un
miglioramento delle aspettative di breve termine.
L’incremento tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo nell’insieme della
zona euro si è portato in aprile al 2,2% inferiore alla media registrata nel primo trimestre
dell'anno (2,5%). Successivamente al rialzo dei prezzi in gennaio - generato da un insieme di
circostanze quali l’impatto del changeover, fattori stagionali ed erratici, aumenti fiscali in alcuni
paesi, nonché l’effetto delle cattive condizioni meteorologiche sui prezzi dei prodotti
ortofrutticoli - la discesa dell'inflazione ha assunto un'intensità inferiore alle attese, in parte a
causa della turbolenza delle quotazioni dei prodotti petroliferi e delle altre principali materie
prime. L'inflazione dovrebbe comunque scendere nell'anno in corso al di sotto del 2% come
indicato dall'indicatore di "core inflation". L'aspetto preoccupante dell'inflazione e che ne potrebbe
in parte spiegare la lentezza del processo di rientro riguarda la divergente dinamica dei prezzi dei
beni e dei servizi; mentre la variazione tendenziale dei primi, dopo la fiammata di gennaio, si è
ridotta attorno al 2%, quella dei servizi mostra un trend crescente e superiore alla soglia del 3 per
cento.
36
PIL e componenti di spesa per Euro11 UE15 e principali paesi industrializzati
(variazioni congiunturali a prezzi costanti, dati destagionalizzati)
Consumi delle famiglie
PIL
Euro-12
UE15
2001
I II III
0,5 0,1 0,2
0,5 0,1 0,2
Germania
Francia
Italia
Spagna
UK
0,4
0,4
0,8
1,0
0,6
USA
Giappone
2002
IV
I
I
-0,2 na 1,0
-0,1 na 1,0
0,0 -0,2 -0,3
0,2 0,5 -0,1
0,0 0,1 -0,2
0,2 0,9 0,2
0,5 0,4 0,0
na
na
0,2
na
0,1
1,0
1,3
0,1
2,4
1,0
2001
II III
0,5 0,1
0,5 0,2
IV
0,1
0,3
Investimenti Fissi Lordi Variazione delle scorte
(% del PIL)
2002
2001
2002
2001
2002
I
I
II III IV I
I II III IV
I
na -0,4 -0,7 -0,3 -0,4 na 1,2 -0,5 -0,4 -0,6 na
na -0,9 -0,5 -0,4 -0,1 na -0,2 -0,1 -0,2 -0,5 na
0,7 -0,3 -0,5
0,3 1,1 0,2
0,4 -0,2 0,2
0,2 -0,8 1,4
1,0 1,0 0,9
na
na
na
na
na
-2,2
0,5
1,3
0,8
-3,9
0,8 0,7 0,2 1,7
1,9 -1,1 -1,7 1,9
Esportazioni
2001
I
II III IV
-0,2 -0,7 -0,4 -1,2
-0,1 -1,0 -0,7 -1,1
0,8
na
0,3 -2,8 -1,6 -2,7 0,0 -0,2 -0,3 -0,4 -1,1 -0,2
Euro-12
UE15
0,3 0,1 -0,3 0,4 1,4
1,0 -1,2 -0,5 -1,2 na
Domanda Interna
2001
2002
I II III IV
I
-0,1 0,2 -0,2 -0,1 na
0,0 0,3 -0,1 0,0 na
Importazioni
2002
2001
2002
I
I
II III IV I
na -1,9 -0,2 -1,5 -1,0 na
na -1,4 -0,5 -1,7 -0,7 na
Germania
Francia
Italia
Spagna
UK
0,3
0,9
0,6
1,8
0,4
0,1 -0,6 -0,3
0,2 0,8 0,1
0,3 0,0 0,2
0,4 -0,1 0,7
0,7 0,3 1,0
na
na
na
na
na
0,1
0,6
0,1
-1,8
1,4
0,6 -1,1
-1,4 -3,8
-2,4 0,2
0,4 0,1
-2,4 -1,2
na
na
na
na
na
-5,4
-2,2
0,4
0,4
1,1
USA
Giappone
0,8 0,1 -0,1 1,1
0,8
-0,3 -3,3 -5,1 -2,8
-1,8 -4,9 -3,0 -2,7
1,5
na
-1,3 -2,2 -3,4 -1,9 3,5
-0,4 -2,6 -4,2 -2,0 na
0,3
-1,7
0,1
-0,1
-2,8
37
-1,5
-0,2
0,2
0,4
0,5
1,1
-1,2
0,9
1,0
-1,5
-1,5
0,3
0,4
1,0
-1,2
-1,7
-1,8
-2,7
-1,3
-2,4
-0,9
-0,1
-0,1
-1,0
0,7
0,0
-4,7
-1,1
1,5
0,2
na -0,8 -0,6 -1,0 -0,6
na 0,0 0,2 -0,3 -0,7
na 0,1 0,0 0,0 -0,7
na 0,1 0,3 0,7 0,6
na 0,2 0,3 0,3 -0,3
na
na
na
na
na
na
na
na
na
na
G E R M A N IA
C O N T R IB UT I A LLE V A R IA Z IO N I C O N G IUN T UR A LI
D A T I D E S T A G IO N A LIZ Z A T I A P R E Z Z I C O S T A N T I
3.0%
2.0%
1.0%
0.0%
-1.0%
-2.0%
-3.0%
Q4 2001
Q3 2001
Q2 2001
Q1 2001
Q4 2000
Q3 2000
Q2 2000
Q1 2000
Q4 1999
Q3 1999
Q2 1999
Q1 1999
CONSUMI FINALI
INVESTIMENTI FISSI LORDI
VARIAZIONE DELLE SCORTE
ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
PIL
FRANCIA
CONTRIBUTI ALLE VARIAZIONI CONGIUNTURALI
DATI DESTAGIONALIZZATI A PREZZI COSTANTI
FONTE INSEE
3.0%
2.5%
2.0%
1.5%
1.0%
0.5%
0.0%
-0.5%
-1.0%
-1.5%
-2.0%
Q4 2001
Q3 2001
Q2 2001
Q1 2001
Q4 2000
Q3 2000
Q2 2000
Q1 2000
Q4 1999
Q3 1999
Q2 1999
Q1 1999
CONSUMI FINALI
INVESTIMENTI FISSI LORDI
VARIAZIONE DELLE SCORTE
ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
PIL
38
2. La congiuntura in Italia
Anche in Italia, i più recenti indicatori congiunturali hanno mostrato, all’inizio del 2002, un
progressivo miglioramento. Nei primi tre mesi dell’anno l’attività economica è tornata ad
aumentare seppure a ritmi molto blandi: la stima preliminare del PIL riporta un incremento
congiunturale dello 0,2% (0,1% su base tendenziale). Le uniche informazioni disponibili
indicano un lieve aumento del valore aggiunto dell'industria e dei servizi e una crescita più
sostenuta dell'agricoltura.
ITALIA
CONTRIBUTI ALLE VARIAZIONI CONGIUNTURALI
VALORI DESTAGIONALIZZATI A PREZZI COSTANTI
3%
3%
2%
2%
1%
1%
0%
-1%
-1%
-2%
-2%
Q1 2002
Q4 2001
Q3 2001
Q2 2001
Q1 2001
Q4 2000
Q3 2000
Q2 2000
Q1 2000
Q4 1999
Q3 1999
Q2 1999
Q1 1999
CONSUMI FINALI
INVESTIMENTI FISSI LORDI
VARIAZIONE DELLE SCORTE
ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI
PIL
Sulla dinamica del prodotto ha certamente inciso l’eredità del rallentamento subito nel corso
di tutto il 2001 e, in particolare, della contrazione registrata nell’ultimo trimestre. L’asfittica
performance dell’economia italiana durante lo scorso anno è sottolineata dal fatto che il segno della
variazione congiunturale del prodotto è stato determinato largamente dai processi di accumulo e
decumulo delle scorte.
39
Sebbene il dettaglio dei conti per il primo trimestre non sia al momento disponibile si può
sostenere che gli elementi che hanno portato a una variazione positiva del PIL provengono
probabilmente dalla domanda interna. L’accelerazione di quest’ultima, coerentemente agli altri
principali paesi europei, su ritmi in grado di garantire una forte ripresa è attesa nella seconda
metà dell’anno. Le componenti della domanda finale interna e, in particolare, le spese per
investimenti dovrebbero guadagnare maggiore vivacità quando le prospettive di ripresa
dell’economia internazionale si saranno consolidate e le favorevoli attese delle imprese, emerse
all’inizio dell’anno, avranno trovato una conferma negli andamenti effettivi dell’economia.
Un secondo fattore in grado di innescare una ripresa nel 2002, presumibilmente in anticipo
rispetto agli altri fattori della domanda interna, è costituito dal processo di ricostituzione delle
scorte dopo la marcata flessione registrata nell’ultimo trimestre del 2001.
2.1 L’offerta
L’indice generale della produzione industriale rilevata dall’ISTAT mostra, al netto della
stagionalità, una sostanziale stabilità nel confronto tra il primo trimestre dell’anno in corso e il
quarto dell’anno precedente (105,2 contro 105) dopo le perduranti flessioni congiunturali
registrate nel 2001. Le più recenti informazioni riportano il dato provvisorio di marzo che segna
rispetto al mese precedente una flessione di 0,7 punti percentuali. Il dato di marzo segna una
battuta di arresto nel lieve miglioramento riscontrato tra gennaio e febbraio. Secondo quanto
emerge dalle inchieste congiunturali dell’ISAE la flessione dell’ultimo mese potrebbe essere
dovuta alla contrazione degli ordini dall’estero, in quanto la domanda proveniente dall’interno
risulta, nei giudizi degli imprenditori, sostanzialmente stabile da febbraio.
A livello disaggregato, il rallentamento di marzo è attribuibile principalmente al comparto
dei beni intermedi che, con maggiore intensità aveva mostrato segnali di ripresa successivamente
al punto di minimo ciclico di novembre 2001. Tra i beni intermedi quelli a destinazione mista e
per beni di consumo segnalano i tassi tendenziali meno negativi (circa il 3%), mentre la quota del
comparto che si rivolge alle attività di produzione di beni di investimento ha subito, nell’ultimo
anno, la maggiore contrazione di output (all’incirca il 6% su base tendenziale).
I comparti dei beni di consumo e di investimento mostrano una sostanziale stabilità
dell’attività produttiva a sintesi di andamenti alquanto divergenti dei settori che li compongono.
Nel settore dei beni di investimento, i mezzi di trasporto e le macchine e attrezzature, che hanno
subito forti arretramenti dell’attività, da un anno a questa parte mostrano una maggiore vivacità,
40
mentre nei beni finali di consumo una migliore impostazione ciclica si segnala nei durevoli e non
durevoli rispetto ai semidurevoli.
Se fossero confermate le aspettative espresse dagli imprenditori, nei mesi successivi
dovrebbe verificarsi un miglioramento ciclico dell’attività produttiva trainata essenzialmente
dalle scorte. I processi di decumulo delle scorte di prodotti finiti hanno, infatti, determinato in
aprile un livello inadeguato del magazzino rispetto alle esigenze operative delle imprese. Sono
proprio le attese degli operatori a influenzare positivamente l’indicatore sintetico del clima di
fiducia delle imprese da dicembre del 2001 e non i giudizi sull’attuale condizione di ordini e
produzione, in linea con quanto avviene anche in altri paesi europei.
Nel corso del 2001, il terziario, all’interno di un quadro generale dominato da una forte
erraticità, ha espresso andamenti congiunturali dell’attività non omogenei al suo interno. Il
Commercio Alberghi e pubblici esercizi è cresciuto molto lentamente con ben due variazioni
congiunturali del prodotto negative (nel secondo e nel quarto trimestre). Dalle più recenti
informazioni, per quanto ancora molto scarse, ci si attende una lieve contrazione anche nel
primo trimestre di quest’anno. Nel confronto tendenziale il movimento alberghiero è
contrassegnato da flessioni sia in termini di arrivi sia di presenze determinato prevalentemente
dalla domanda proveniente dall’estero.
Il settore dei trasporti e delle comunicazioni ha fatto registrare incrementi in termini di
valore aggiunto più pronunciati, riportando però la più consistente contrazione di prodotto nel
terzo trimestre del 2001. Questo comparto, in quanto più strettamente legato da una parte
all’andamento dei consumi e dall’altra all’attività produttiva, dovrebbe mostrare un progresso,
seppur lieve sia nel primo sia nel secondo trimestre dell’anno in corso.
2.2 La domanda interna
La debolezza della domanda interna ha rappresentato la caratteristica che ha dominato
l’evoluzione congiunturale del 2001. Sia i consumi, sia gli investimenti hanno mostrato un
andamento molto deludente, soprattutto se confrontato con la dinamica dei due anni precedenti.
La crescita molto contenuta dei consumi (1,1%), paragonabile soltanto a quanto rilevato per
la Germania tra i maggiori paesi europei, è stata conseguita a sintesi di un primo semestre più
brillante cui ha fatto seguito un forte rallentamento. Tale profilo congiunturale è stato ottenuto
nonostante il lieve miglioramento del reddito disponibile delle famiglie, legato alle positive
condizioni del mercato del lavoro e della politica di bilancio, all’effetto favorevole derivante dalla
41
riduzione del prezzo del petrolio, nonché alla riduzione del tasso d’interesse reale. Tutti questi
segnali sono stati rilevati puntualmente dal clima di fiducia delle famiglie che, difatti, era apparso
in tendenziale aumento raggiungendo, in giugno, un massimo storico. Al prudente atteggiamento
di spesa delle famiglie, potrebbero aver contribuito sia il calo dei mercati azionari sia la maggiore
persistenza della dinamica dei prezzi dei servizi dopo lo shock petrolifero dell’anno precedente,
che ha negativamente condizionato il processo di rientro dell’inflazione. Quest’ultimo, infatti, è
proceduto a ritmi più lenti del previsto.
CONSUMI PRIVATI
VALORI DESTAGIONALIZZATI A PREZZI COSTANTI
VARIAZIONI TENDENZIALI
4.5%
8.0%
4.0%
6.0%
3.5%
4.0%
3.0%
2.5%
2.0%
2.0%
0.0%
1.5%
-2.0%
1.0%
-4.0%
0.5%
0.0%
-6.0%
BENI DUREVOLI - dx
Q4 2001
BENI NON DUREVOLI
SERVIZI
Q3 2001
Q2 2001
Q1 2001
Q4 2000
Q3 2000
Q2 2000
Q1 2000
Q4 1999
Q3 1999
Q2 1999
Q1 1999
CONSUMI PRIVATI - TOTALE
Se si analizza la disaggregazione per tipologia di beni, si osserva come l’andamento
complessivo dei consumi sia stato condizionato dalla cattiva performance dei beni di consumo
durevole che hanno riportato, sin dal primo trimestre, variazioni congiunturali negative. Tra
questi beni si osserva, in particolare, la crescita ancora sostenuta della spesa in computer, in
ragione di un relativamente basso grado di diffusione di questa tipologia di consumi nel nostro
paese, e la sostanziale stabilità della domanda d’auto fino a novembre cui è seguita una breve ma
intensa crescita.
42
I consumi in servizi, sostenuti dalla dinamica ancora favorevole della spesa per
comunicazioni, e in beni non durevoli, pur in progresso nel primo semestre hanno,
successivamente, mostrato un profilo congiunturale negativo.
Le più recenti informazioni non offrono un quadro positivo della domanda di consumi per
il primo trimestre dell’anno in corso. L’indice delle vendite al dettaglio, tra gennaio e febbraio, ha
registrato un incremento tendenziale inferiore al tasso di inflazione medio. Le immatricolazioni
di auto hanno subito una caduta, tra gennaio e febbraio, che ha più che compensato
l’incremento registrato in dicembre.
Un auspicato recupero della domanda dei consumi, che si produrrà verosimilmente nella
seconda metà dell’anno, trova ragioni nelle attese di una crescita del reddito disponibile reale
delle famiglie a riflesso del più sostenuto rientro del tasso di inflazione, nell’ulteriore
miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro e, infine, nei rinnovi contrattuali nel
pubblico impiego.
La domanda di investimenti ha subito i contraccolpi del forte rallentamento che ha
dominato lo scenario congiunturale internazionale e del clima di notevole incertezza
conseguente ai tragici eventi dell’11 settembre. La flessione congiunturale del quarto trimestre,
seguita a variazioni molto contenute degli investimenti nei due trimestri precedenti, è stata
causata dalla forte riduzione della componente di impianti e macchinari. Meno pronunciato è
risultato il rallentamento della domanda di mezzi di trasporto e, soprattutto, delle costruzioni.
Tra queste ultime hanno registrato una dinamica sostanzialmente positiva quelle a carattere non
residenziale.
L’impatto degli incentivi fiscali inseriti nella cosiddetta "legge Tremonti bis" è stato sino ad
oggi contenuto. Un insieme di fattori ne hanno condizionato il pieno dispiegarsi degli effetti. In
primo luogo, il livello medio degli investimenti realizzato nei cinque anni precedenti il 2001,
importante ai fini del calcolo dell’entità complessiva degli investimenti che può andare in
detrazione al reddito imponibile di ciascun imprenditore, è stato molto elevato nonostante il
realizzarsi di ben due fasi recessive (il 1995:4 1996:4 e il 1997:4 1999:1), entrambe di intensità
molto contenuta. In particolare, l'accumulazione del capitale ha interessato il comparto dei
prodotti in metallo e macchine. Sebbene, dunque, l'attuale sistema di detassazione abbia
interessato una platea più ampia di operatori economici rispetto alla precedente legge Tremonti
(giacché è stata estesa alle attività di servizi anche professionali), l'efficacia è stata molto inferiore
43
a causa del comportamento ciclico degli investimenti nel quinquennio precedente l’applicazione
della norma. In secondo luogo, la fase depressiva del ciclo, al momento in cui è stata approvata
la "Tremonti bis" non rappresentava un fenomeno in grado di produrre un consistente flusso di
spesa in beni strumentali anticipata rispetto ai programmi originari degli operatori. In questo
senso la legge ha prodotto un effetto anticiclico evitando le flessioni registrate in altri paesi
europei come ad esempio la Germania. Infine, anche l'elevato grado di incertezza - determinato
dai condizionanti risvolti politico-internazionali che hanno accompagnato tanto l’aggravarsi del
rallentamento economico nell’ultimo trimestre del 2001, quanto il graduale miglioramento
dell'attuale fase congiunturale - ha certamente pesato sull'efficacia della legge.
INVESTIM ENTI FISSI LORDI
VARIAZIONI TENDENZIALI
VALORI DESTAGIONALIZZATI A P REZZI COSTANTI
25.0%
20.0%
15.0%
10.0%
5.0%
0.0%
-5.0%
MEZZI DI TRASPORTO
Q4 2001
IMPIANTI E MACCHINARI
COSTRUZIONI - TOTALE
Q3 2001
Q2 2001
Q1 2001
Q4 2000
Q3 2000
Q2 2000
Q1 2000
Q4 1999
Q3 1999
Q2 1999
Q1 1999
INVESTIMENTI FISSI LORDI - TOTALE
Elementi a favore di una positiva evoluzione degli investimenti sono individuabili soltanto
nella seconda metà dell'anno, quando il ristabilirsi di un positivo sviluppo del commercio
internazionale e il miglioramento del clima di fiducia sulle prospettive a breve dell’economia
rappresenteranno uno stimolo e un'opportunità per le imprese di programmare un incremento
della propria capacità produttiva.
44
I timidi segnali sin qui registrati, relativi al lieve recupero della domanda interna rivolta alle
imprese di beni di investimento come rilevato dagli indicatori dell'ISAE, dovranno
necessariamente consolidarsi per ottenere un positivo sviluppo della domanda aggregata.
2.3 Il Mercato del Lavoro e l’Occupazione
Nonostante il deterioramento del quadro congiunturale nazionale e internazionale, nel
corso del 2001, il mercato del lavoro ha mantenuto una positiva impostazione. Al forte
rallentamento dell’attività produttiva in atto dal primo trimestre dello scorso anno, si è
contrapposto l’emergere solo di qualche segnale di appannamento nel profilo congiunturale sia
della domanda sia dell’offerta di lavoro. Quest’ultima da variazioni tendenziali di gennaio pari al
3,1% ha registrato incrementi dell’1,2% in ottobre, mentre la domanda dal 5,1% di gennaio ha
conseguito in ottobre un incremento tendenziale del 2,5 per cento. Il progresso più sostenuto
della domanda rispetto all'offerta di lavoro ha prodotto una riduzione del tasso di
disoccupazione (dal 9,9% di gennaio al 9,2% di ottobre).
Le più recenti informazioni, provenienti dall’indagine sulle forze di lavoro indicano un
ulteriore miglioramento sia dell’offerta (0,8%) sia della domanda (1,7%). Le persone in cerca di
occupazione si sono ridotte nell’ultimo trimestre di 31 mila unità (-1,4%), fenomeno dovuto,
quindi, ad un incremento del flusso di uscita dalla disoccupazione verso l’occupazione. Le
dinamiche descritte hanno permesso il mantenimento del profilo decrescente del tasso di
disoccupazione (9,1%) iniziato più di tre anni fa.
Le ripartizioni del centro e soprattutto del nord presentano ormai tassi di disoccupazione
molto inferiori alle medie europee. Ormai la quasi totalità delle regioni del nord (con l’unica
eccezione della Liguria) ha tassi di disoccupazione inferiori al 5% mentre nel centro (Lazio
escluso) la media è di poco superiore. La situazione rimane critica nelle grandi regioni del
Mezzogiorno dove le persone in cerca di occupazione rappresentano una quota tra il 15 e il 20%
della forza di lavoro.
Al netto delle componenti stagionali, il protrarsi della dinamica positiva dell’occupazione è
stata determinata, su base congiunturale, dal settore dei servizi e dall’industria in senso stretto.
La ripresa vivacità in quest’ultimo settore, ascrivibile per intero al progresso degli occupati
dipendenti, potrebbe rappresentare il lieve miglioramento ciclico espresso dagli indicatori
congiunturali ma non compensa le flessioni dell’occupazione avvenute nei trimestri precedenti
per cui la variazione tendenziale risulta ancora negativa (-0,4%). Il settore delle costruzioni non
45
ha contribuito, rispetto alla precedente rilevazione, alla crescita occupazionale pur mantenendo
un tasso di crescita tendenziale positivo.
Gli incrementi di occupazione sono risultati abbastanza omogenei tra le diverse aree
geografiche. Progressi di intensità lievemente inferiore, ma in linea con i ritmi di sviluppo emersi
dalle precedenti rilevazioni, si sono manifestati nell’area del nord-ovest.
Tra l’occupazione dipendente la crescita (350.000 unità rispetto a gennaio 2001) è
attribuibile per la quota parte più consistente ai contratti standard, cioè a tempo pieno e
indeterminato (301.000 unità), secondo una linea di tendenza che si è affermata nel recente
passato, mentre la restante parte della crescita dell’occupazione è formata da contratti part time a
tempo indeterminato (49.000 unità).
Il tasso di occupazione è pari al 54,9%, 0,9 punti percentuali in più rispetto ad un anno fa:
cresce in particolare il tasso di occupazione femminile, ormai prossimo al 42% (1,2 punti in più
dello scorso anno), grazie anche all’espansione del part time a tempo indeterminato che si
rivolge in maniera quasi esclusiva alle donne.
2.4 L’inflazione
Il tasso medio di inflazione, misurato dall’indice dei prezzi al consumo si è attestato al 2,7%
nel corso del 2001, coerentemente con quanto avvenuto nell’area dell’euro. La dinamica in corso
d’anno dell’inflazione ha mostrato una forte accelerazione sino alla primavera per effetto di
fattori di natura esogena, quali il rincaro delle quotazioni del greggio e il deprezzamento
dell’euro. Successivamente, con l’esaurirsi delle tensioni sui mercati internazionali, si è assistito a
un graduale rientro dell’inflazione, secondo un profilo congiunturale, però, meno intenso di
quanto originariamente atteso.
Tra il primo e il secondo semestre, nonostante una moderata dinamica salariale,
approssimata dal costo del lavoro per unità prodotta, che ha contribuito in modo determinante
al decremento delle variazioni dei prezzi al consumo, il differenziale rispetto agli altri principali
paesi dell’eurozona si è ampliato. Da agosto in poi, a un differenziale nullo si è sostituito un
valore positivo pari, in dicembre, a 0,7 e a 0,8 punti percentuali nei confronti rispettivamente
della Germania e della Francia. Nello stesso periodo, la dinamica dei prezzi alla produzione è
risultata particolarmente favorevole all'Italia, dove le variazioni tendenziali dell'indice
mostravano più intense spinte deflative rispetto sia alla media UME sia ai principali paesi
dell'area. Questo fenomeno appariva con maggiore forza nel comparto dei beni intermedi. Una
46
spiegazione riposa sul divergente andamento dell’inflazione dei beni e dei servizi dopo la
manifestazione degli shock esogeni. Il comparto dei servizi ha mostrato una notevole stabilità
della dinamica tendenziale su valori medi molto più elevati di quanto fatto registrare dal
comparto dei beni. L’inerzia dell’inflazione nel settore dei servizi è spiegabile probabilmente con
la prevalenza di forme di mercato contraddistinte da un basso grado di concorrenza interna e
internazionale.
Nei primi tre mesi dell’anno in corso, la dinamica dei prezzi ha mostrato nuovamente una
brusca accelerazione attribuibile a diversi fattori tutti a carattere congiunturale: il rincaro dei
prezzi del petrolio in gennaio ha ripreso vigore durante il mese di marzo, le sfavorevoli
condizioni meteorologiche, che hanno esercitato pressioni al rialzo sui prezzi dei prodotti
ortofrutticoli e, infine, l’effetto, seppure marginale, determinato dalla sostituzione del contante.
In Italia, l’accelerazione delle variazioni dei prezzi ha interessato principalmente i servizi
mentre i beni hanno mantenuto una dinamica attorno ai valori medi espressi negli ultimi mesi
del 2001.
D IF F E R E N Z IA LI D 'IN F LA Z IO N E F R A IT A LIA E P R IN C IP A LI P A E S I
E UR O P E I
1.5%
1.0%
0.5%
0.0%
-0.5%
-1.0%
-1.5%
-2.0%
apr-02
gen-02
IT - ES
ott-01
47
lug-01
IT - FR
apr-01
gen-01
IT - GER
ott-00
lug-00
apr-00
gen-00
ott-99
lug-99
apr-99
gen-99
IT - UME
IT - UE15
Anche negli altri paesi europei si è assistito a un’escursione molto accentuata dell’inflazione
ma con un profilo congiunturale diverso: al forte incremento dell’indice dei prezzi in gennaio è
subentrato un’altrettanto forte contrazione in febbraio.
Sebbene il paragone dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo imponga maggiore
cautela per l’anno in corso, in quanto in Italia sono state introdotte alcune importanti
innovazioni nella rilevazione dei prezzi, si osserva che il differenziale si è mantenuto
sostanzialmente inalterato su livelli molto bassi con la media UME ma ancora abbastanza elevati
nel confronto con Germania e Francia.
Le più recenti informazioni congiunturali confermano il processo di lenta riduzione del
tasso dell’inflazione tendenziale: secondo le indicazioni provenienti dalle città campione la
crescita dei prezzi al consumo si attesta al 2,3% contro 2,4% e 2,5% rilevati rispettivamente in
aprile e marzo.
2.5 Gli scambi con l’estero
Il rallentamento dell’economia e degli scambi internazionali nel corso del 2001 hanno
prodotto una marcata contrazione dei volumi scambiati con un profilo congiunturale che denota
un netto peggioramento tra il primo e il secondo semestre. Il rallentamento è risultato maggiore
per le importazioni, poiché la riduzione dei volumi si è sommata al ridimensionamento dei valori
medi unitari che ha permesso il recupero delle ragioni di scambio dopo la perdita registrata nel
2000.
Le esportazioni sono diminuite dello 0,2 per cento a fronte di andamenti alquanto
divergenti delle aree di destinazione delle nostre merci: alla flessione verso i paesi UE (-3,6%) si
è contrapposto un progresso nei confronti dei paesi extra UE (3,5%). La debolezza dell’euro ha
certamente influenzato il differente orientamento delle nostre esportazioni favorendo le aree
esterne all’eurozona.
Dalle più recenti informazioni congiunturali, che riportano l’interscambio a prezzi correnti
con i paesi UE fino a marzo e con i paesi extra-UE fino ad aprile, si evince il persistere di una
fase recessiva delle esportazioni, che in linea con quanto avvenuto nei mesi precedenti, sembra
essere più intensa nei confronti dei paesi UE.
La scomposizione in prezzi e quantità per il complessivo interscambio commerciale è, al
momento, disponibile solo per il primo bimestre dell’anno e indica una flessione, in termini
48
tendenziali, del volume esportato più pronunciata verso i paesi UE (-7,5%), in particolare verso
la Germania, rispetto a quanto registrato per l’area extra-UE (-4,9 per cento).
Le importazioni hanno seguito, con riferimento allo stesso periodo, un andamento simile
alle esportazioni ma meno pronunciato. Alla riduzione dei volumi importati dai paesi UE, tra i
quali spicca un forte ridimensionamento delle importazioni dal Regno Unito a ragione di uno
sfavorevole tasso di cambio, si è contrapposto un incremento dai paesi extra-UE sospinti
dall’evidente compressione dei valori medi unitari.
49
PARTE TERZA:
LA POLITICA FISCALE ANTICICLICA
50
1. Disciplina fiscale e ciclo economico
Il tema della crescita è stato al centro di tutti i rapporti FREE nella convinzione che il
problema centrale dell’economia italiana sia quello di aumentare il tasso di crescita della
produttività e con essa l’occupazione e gli investimenti. Al di là degli episodi espansivi e recessivi
legati al ciclo economico che hanno caratterizzato l’ultimo triennio, l’Italia condivide infatti con
buona parte degli altri paesi dell’Europa continentale una dinamica insufficiente del prodotto
potenziale.
L’attenzione agli aspetti microeconomici e di “offerta” della crescita è stato, quindi,
prevalente rispetto all’attenzione rivolta alle politiche macroeconomiche di tipo tradizionale,
monetaria e fiscale, di regolazione della domanda aggregata.
La conseguenza è stata che i Rapporti FREE si sono soffermati maggiormente sulla
necessità di interventi di policy dettati da considerazioni essenzialmente di tipo microeconomico:
la riforma delle regole dei mercati, l’aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture diretti a
sostenere la produttività del settore privato e quindi ad aumentare il rendimento
dell’investimento privato, la riduzione consistente della pressione fiscale diretta a mutare gli
incentivi al risparmio, all’investimento, al lavoro.
Abbiamo sottolineato che conta la composizione del bilancio ed il modo in cui il
consolidamento fiscale viene attuato. Non è la stessa cosa se la riduzione del disavanzo in
rapporto al PIL, conseguibile solo attraverso un forte surplus primario dato l’alto livello di
indebitamento, sia ottenuta con un aumento della pressione fiscale a spesa invariata o in crescita,
o se venga conseguita attraverso una riduzione della spesa accompagnata da una riduzione della
pressione fiscale e contributiva.
Il richiamo costante alla necessità di una riforma del regime fiscale e le simulazioni
effettuate sull’impatto positivo che ne sarebbe derivato sulla crescita, presentate nei primi
rapporti FREE, erano inoltre basate su ipotesi di mantenimento del programma di
consolidamento fiscale iniziato all’inizio degli anni novanta, poi accelerato in occasione
dell’adesione dell’Italia all’Unione monetaria ed infine oggi dettatoci dal patto di stabilità e
crescita che vincola i paesi dell’Unione monetaria europea.
51
La posizione assunta in favore del rispetto del sentiero concordato di consolidamento
fiscale si fonda sull’implicita condivisione della tesi che una forte e persistente azione di
riduzione del deficit pubblico e di riduzione tendenziale del rapporto/debito PIL, quindi la
realizzazione di un mutamento strutturale della politica di bilancio e la conquista di credibilità
sulla persistenza del mutamento, non avrebbe determinato un impatto negativo sulla crescita
attraverso un effetto depressivo sulla domanda aggregata. In altri termini, abbiamo condiviso
l’opinione che una forte riduzione del deficit di bilancio avrebbe potuto generare effetti nonkeynesiani, cioè una espansione e non una contrazione della domanda aggregata. Anche per
questo abbiamo espresso fin dal primo Rapporto FREE il nostro disaccordo con coloro che
imputavano il rallentamento strutturale dell’economia negli anni novanta principalmente al
consolidamento fiscale, contraddicendo in tal modo l’argomentazione fondamentale che avrebbe
dovuto giustificare il consolidamento fiscale stesso e creare consenso intorno ad esso, al di là
delle imposizioni esterne.
Tuttavia, il fatto che la nostra attenzione si sia concentrata sulle determinanti della
crescita del prodotto potenziale e quindi meno sulle politiche macroeconomiche di regolazione
del ciclo non significa che consideriamo morte o inutili le politiche monetarie e fiscali di
stabilizzazione orientate al breve periodo.
I periodi di recessione sono infatti costosi non solo nel breve periodo, ma, se prolungati,
anche per gli effetti persistenti che si riflettono sulla crescita di medio-lungo periodo, così come
gli episodi di inflazione sono costosi per le politiche deflazionistiche che essi possono rendere
necessarie.
Nel rapporto FREE pubblicato nel settembre 2001, quando era ormai documentato il
rallentamento dell’economia, sottolineammo in particolare come tra gli Stati Uniti e l’Europa si
stesse manifestando in modo chiaro un divario di efficienza nella gestione delle politiche
economiche. Negli Stati Uniti si assisteva ad una forte e tempestiva azione anticiclica della
Federal Reserve, memore anche degli errori di timidezza mostrati nel corso della precedente
recessione dell’inizio degli anni novanta, e la politica fiscale si orientava anch’essa all’espansione,
almeno negli annunci. In Europa, al contrario, la politica monetaria appariva impacciata e
preoccupata di un’inflazione che non è mai apparsa un problema all’ordine del giorno, mentre la
politica fiscale rimaneva ancorata, seppur in modo sempre meno credibile, solo agli obiettivi di
consolidamento fiscale. In particolare, quando fu chiaro che la fase di rallentamento del ciclo
52
avrebbe determinato lo scostamento dagli obiettivi programmatici relativi al rapporto
deficit/PIL nei maggiori paesi europei, nessun paese dichiarò apertamente di voler abbandonare
gli obiettivi annunciati in precedenza, ma neppure chiarì che la politica fiscale avrebbe dovuto
orientarsi in tal caso in senso pro-ciclico in modo da sterilizzare l’azione degli stabilizzatori fiscali
automatici. Una condotta questa che ci è apparsa ambigua e quindi contraria alla necessità di
ridurre il grado di incertezza che gli operatori devono fronteggiare. Si è trattato di un tipico caso
in cui la scarsa flessibilità della politica fiscale opera nel senso di aumentare l’incertezza e non di
ridurla.
D’altra parte questa condotta aveva le sue motivazioni. Ciascun paese, se da una parte era
tentato di orientare la politica fiscale alla regolazione di breve periodo della domanda, dall’altra si
rendeva conto di correre il rischio, con un’azione non concordata di allentamento fiscale, di
indurre i mercati a leggere l’intervento fiscale come un mutamento di indirizzo nella propria
propensione alla disciplina fiscale. Questo mutamente di aspettative avrebbe reso inefficace il
tentativo di sostenere la domanda nel breve periodo ed avrebbe avuto conseguenze negative nel
medio-lungo periodo per l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo. Ovviamente questo
pericolo sarebbe stato maggiore per i paesi con minore tradizione di disciplina fiscale.
Nonostante la timida ripresa delle economie europee che attendono l’impatto di quella
americana, il dilemma sembra oggi ben presente nelle posizioni assunte da paesi come la Francia
e la Germania che, vicini a scadenze elettorali, sembrano inclini a lasciare salire il deficit oltre gli
obiettivi concordati con la Comunità europea, rivendicando una maggiore flessibilità fiscale
almeno per i paesi meno indebitati. Questa ultima argomentazione non ci sembra che abbia
alcun fondamento scientifico, se non quello di affermare che questi paesi sono più credibili degli
altri rispetto alla volontà di mantenere una disciplina fiscale almeno in termini di deficit
strutturale, anche se adottano una maggiore flessibilità di bilancio al fine di stabilizzare il ciclo
economico. La posizione ci sembra particolarmente debole soprattutto per paesi come la
Germania la cui economia appare in difficoltà strutturale e per i quali quindi si rischia di
confondere per componente ciclica del disavanzo un disavanzo strutturale causato dal
rallentamento non-ciclico dell’economia.
Tuttavia, il problema posto non è liquidabile come espressione di un nervosismo legato
al ciclo politico. Il tema è rilevante e riguarda la desiderabilità o meno di una maggiore flessibilità
della politica fiscale con l’obiettivo di ridare a questo strumento un ruolo nella stabilizzazione del
53
ciclo, ruolo che, secondo un orientamento che ha prevalso tra gli economisti nell’ultimo
ventennio, dovrebbe essere prevalentemente affidato alla politica monetaria, ma che in Europa
ci sembra nel complesso del tutto vacante non solo di fronte a shock asimmetrici.
Questa sezione del presente rapporto intende contribuire alla discussione sul tema
sollevato proponendo l’esame dei vantaggi e degli svantaggi di una innovazione istituzionale tesa
a consentire una maggiore flessibilità fiscale discrezionale per la correzione del ciclo nel nuovo
contesto europeo. La proposta, incentrata sull’idea di superare alcune cause di inefficacia della
politica fiscale nella regolazione di breve periodo della domanda affidandone la gestione ad
autorità dotate di un relativo grado di indipendenza, secondo il modello prevalente nella gestione
della politica monetaria, è stata di recente riproposta in un contesto non europeo 4. Secondo
FREE essa merita di essere approfondita per trarne suggerimenti in quello europeo.
La proposta che intendiamo qui discutere si fonda sulla distinzione tra componente
ciclica del saldo di bilancio e saldo strutturale, cioè il saldo di bilancio che, data la struttura del
sistema fiscale e contributivo e della spesa pubblica, si realizza quando il livello dell’attività è al
livello del prodotto potenziale. In pratica la misura dei due saldi è meno semplice della loro
definizione perché richiede una corretta valutazione del prodotto potenziale e della sua
dinamica.
Il problema non è di poco conto perché uno sbilancio strutturale richiede una
correzione strutturale del bilancio, cioè una correzione o del sistema di aliquote fiscali e
contributive o della dinamica della spesa, in modo che il pareggio di bilancio sia il risultato
previsto quando l’economia si trova lungo il suo trend di crescita. In presenza, invece, di una
componente ciclica del disavanzo causata dall’agire degli stabilizzatori automatici, è necessaria da
parte dell’autorità fiscale una scelta tra tre diverse opzioni: a) lasciare agire gli stabilizzatori
automatici e permettere il manifestarsi di un disavanzo ciclico, b) correggere tale disavanzo con
un’azione discrezionale che compensi l’azione degli stabilizzatori automatici, quindi attuando
una politica fiscale discrezionale pro-ciclica (restrittiva nel corso delle recessioni ed espansiva nel
corso delle fasi di accelerazione della crescita), c) adottare una politica discrezionale integrativa
degli stabilizzatori automatici in modo che nel complesso la politica fiscale sia in grado di
garantire una tempestiva ed efficace azione di controllo del ciclo.
Vedi: “Avoiding boom/bust: macro-economic reform for a globalised economy”,Discussion Paper 2, New Directions,
Business Council of Australia, ed il dibattito che ne è seguito.
4
54
Quello che in questo rapporto intendiamo discutere è il ruolo delle politiche fiscali
discrezionali nella stabilizzazione dell’attività economica in aggiunta all’azione dei cosiddetti
stabilizzatori automatici cioè alle variazioni del deficit di bilancio conseguente al fatto che le
varie voci di entrata e di spesa delle Amministrazioni pubbliche variano nel corso del ciclo per il
solo fatto che esse dipendono dalle variazioni dell’attività economica. Le voci di entrata perché il
ciclo determina la variazione delle basi imponibili e contributive e quindi il gettito fiscale , le voci
di spesa perché parte di esse sono legate ad un ruolo redistributivo ed assistenziale e parte sono
indipendenti dal ciclo.
1.1 Cosa sappiamo sull’efficacia della politica fiscale
Per lungo tempo è divenuto un common sense della letteratura economica che la politica
fiscale discrezionale sia inadatta alla gestione di breve termine della domanda e che quindi è bene
lasciare alla politica monetaria il perseguimento di questo obiettivo.
Le argomentazioni a sostegno di questa posizione si possono distinguere in due gruppi
principali. Il primo gruppo si basa su considerazioni relative alla efficacia delle politiche fiscali, il
secondo gruppo su considerazioni riconducibili in generale ad un possibile “cattivo uso” di tali
politiche da parte dei responsabili politici del bilancio. Definiamo in tal modo gli interventi
fiscali dettati non dal ciclo economico ma dal ciclo politico e più in generale dalle regole della
competizione politica nelle democrazie rappresentative. I governi sono tentati di forzare
l’economia in prossimità di elezioni attuando politiche fiscali espansive imprudenti oppure si
possono rifiutare di attuare politiche restrittive in fasi di eccessiva crescita della domanda
aggregata sempre in prossimità di elezioni. Inoltre, il cumularsi di questi episodi determina la
tendenza allo squilibrio strutturale della finanza pubblica, l’ampliarsi del debito pubblico e, nei
casi più estremi, genera problemi di sostenibilità del debito di lungo periodo.
Le argomentazioni che contestano l’efficacia delle politiche fiscali di regolazioni del ciclo
sono peraltro in gran parte riconducibili a considerazioni riguardanti il contesto istituzionale
entro cui le politiche di bilancio si determinano. Variazioni delle aliquote fiscali o della spesa
richiedono infatti in generale una approvazione non solo delle autorità di governo ma un
passaggio legislativo che determina forti ritardi tra il momento in cui vengono percepiti segnali
di recessione o di surriscaldamento dell’economia, e quindi la necessità dell’adozione di
provvedimenti di fine tuning nella politica di bilancio, ed il momento in cui i provvedimenti
vengono di fatto adottati. Questi ritardi sono tanto più rilevanti quanto più i provvedimenti di
55
variazione della spesa o del gettito fiscale, implicando effetti distributivi cioè la determinazione
di chi deve beneficiare o subire nel breve periodo gli effetti diretti dei provvedimenti, sono
oggetto di complicati negoziati politico-sindacali. L’implicazione è che l’effetto della manovra di
bilancio raramente si ha nel corso della fase del ciclo che si vuole smussare, e quindi spesso
l’azione desiderata di stabilizzazione del ciclo si rivela pro-ciclica e quindi determina in modo
perverso un approfondimento del ciclo.
E’ tuttavia importante stabilire se accanto a questa inefficacia per motivi “istituzionali”
della politica fiscale di stabilizzazione vi è una inefficacia legata alle funzioni di comportamento
che legano le variabili di spesa o di offerta alle politiche di bilancio. In altri termini si hanno
evidenze empiriche non ambigue che il moltiplicatore di breve e lungo periodo del PIL rispetto
alle variabili fiscali sia nullo o negativo?
La risposta a questa domanda è cruciale perché se fosse dimostrata questa inefficacia, il dibattito
sul ruolo della politica fiscale nella stabilizzazione del ciclo verrebbe a perdere immediatamente
di significato.
La possibilità che una espansione fiscale condotta attraverso una riduzione delle tasse, o
un aumento della spesa per consumi collettivi o investimenti pubblici, possa condurre ad effetti
non-keynesiani, cioè ad una riduzione della spesa privata, è legata essenzialmente a due possibilità.
La prima possibilità è che le famiglie percepiscano che la riduzione fiscale o l’aumento della
spesa pubblica implica una riduzione e non un aumento del loro reddito permanente, cioè delle
loro aspettative di reddito, e quindi reagiscano ad una politica fiscale espansiva riducendo i
consumi. In particolare, le famiglie potrebbero reagire ad un aumento della spesa pubblica in
deficit con una riduzione della spesa privata aspettandosi un aumento futuro della pressione
fiscale necessario a riequilibrare i conti pubblici oppure, in caso di riduzione delle tasse,
potrebbero non reagire con un aumento dei consumi all’aumento temporaneo del reddito
disponibile quando una simmetrica variazione di segno contrario è attesa in un futuro
abbastanza prossimo per il rispetto del vincolo intertemporale di bilancio da parte dello stato.
La seconda possibilità che la politica fiscale possa generare un effetto perverso si ha
quando una politica di deficit spending , o di riduzione della pressione fiscale, viene considerata
dagli operatori come il segno di una destabilizzazione strutturale del bilancio. Ciò potrebbe
determinare un aumento degli interessi reali di lungo periodo ed una diminuzione conseguente
anche nel breve periodo sia degli investimenti, ben oltre il tradizionale effetto di crowding out
56
dovuto ad un aumento della spesa pubblica, sia anche dei consumi per l’effetto negativo
dell’aumento dei tassi sulla ricchezza finanziaria. Quando ciò accade una espansione fiscale
potrebbe avere un effetto di contrazione della domanda
5
o, simmetricamente, una politica
fiscale restrittiva potrebbe avere un effetto espansivo.
Evidenze empiriche di questi effetti non-keynesiani sono state trovate soprattutto con
riferimento a situazioni in cui il rapporto debito/PIL è alto e crescente al momento
dell’intervento fiscale (Sutherland 1995) o è già elevato il deficit strutturale, fatti entrambi che
indicano un cattivo record
delle autorità di bilancio e quindi segnalano anche problemi di
credibilità.
Altri studi hanno sottolineato come questi effetti dipendano dalla entità e persistenza
dell’azione fiscale espansiva o restrittiva (Giavazzi e Pagano 1995; Giavazzi, Jappelli e Pagano
2000). Questi stessi studi mostrano tuttavia che un’azione fiscale limitata nell’entità e soprattutto
nel tempo produce in generale gli effetti tradizionali: un’espansione della domanda aggregata in
caso di una manovra di riduzione delle imposte ed una contrazione in caso un intervento fiscale
restrittivo.
Queste evidenze empiriche derivano d’altra parte dall’analisi di episodi storici di
espansione e contrazione fiscale e dei loro effetti sulla crescita della spesa privata e del PIL.
Poiché una contrazione o una espansione fiscale può includere un aggiustamento diretto alla
stabilizzazione del ciclo o un processo di consolidamento o di destabilizzazione fiscale,
l’interpretazione dell’episodio in un senso o nell’altro da parte delle famiglie e delle imprese è
cruciale ai fini delle reazioni di spesa. Gli effetti individuati sono quindi strettamente legati alle
condizioni di credibilità circa l’orientamento fiscale delle autorità dei vari paesi basate sui loro
comportamenti storici. Ciò significa anche che le relazioni individuate a sostegno della tesi
dell’inefficacia delle politiche fiscali sono in parte riconducibili a quello che abbiamo definito il
“cattivo uso” delle politiche di bilancio.
Allo stato delle conoscenze degli economisti possiamo quindi concludere che è in generale
sconsigliabile l’uso della politica fiscale discrezionale per la gestione di breve periodo della
domanda aggregata? Ci sembra che una risposta conclusiva affermativa non sia affatto scontata.
Una argomentazione, parzialmente concorrente con quella esposta, del fatto che una politica restrittiva possa avere un
effetto espansivo, si basa sull’ipotesi che i mark-ups reagiscano positivamente all’aumento dei tassi di interesse
determinando quindi una riduzione dell’output offerto (vedi Phelps...).
5
57
2. E’ possibile una gestione più flessibile della politica fiscale?
Vi è oggi un’ampia convergenza sul fatto che il ruolo della politica fiscale è quello di
allocare le risorse nazionali tra settori pubblico e privato e che un suo cambiamento altera gli
incentivi a consumare, a risparmiare ed a investire influenzando in tal modo il prodotto di lungo
periodo. Essa più difficilmente è in grado di generare una variazione permanente della domanda
aggregata.
Ciò implica che la politica fiscale dovrebbe avere soprattutto un orientamento di mediolungo periodo e porsi come obiettivo principale quello di perseguire una struttura fiscale e della
spesa che sia equa ed al tempo stesso efficiente e consistente con l’obiettivo del più elevato tasso
di crescita del prodotto di lungo periodo.
A ciò si aggiunga che la riduzione del deficit e del debito pubblico è stata per lungo
tempo l’obiettivo prioritario in molta parte dei paesi industrializzati, soprattutto nei paesi dove la
disciplina fiscale era stata una virtù meno seguita.
In questo contesto storico, il problema del ruolo della politica fiscale discrezionale a fini
di stabilizzazione del ciclo si è posto in modo rovesciato. La domanda infatti è stata: una politica
fiscale discrezionale orientata a perseguire un obiettivo di medio termine di consolidamento
fiscale deve anche compensare l’azione degli ammortizzatori fiscali automatici nel corso di un
rallentamento dell’economia o al contrario è necessario che essa si astenga dall’annullare l’azione
di questi stabilizzatori, o ancora deve essere in grado di integrarli nella misura in cui essi
appaiono insufficienti alla stabilizzazione del ciclo? La risposta implica una riflessione almeno
sui seguenti aspetti del problema.
Primo. L’affermazione che la componente ciclica di un deficit non debba essere corretta,
in altri termini che gli stabilizzatori automatici debbano essere lasciati liberi di agire, implica che
si sia in grado di distinguere tra componente ciclica e componente strutturale di un deficit.
Questo significa che si deve essere in grado di stimare correttamente il prodotto potenziale e
soprattutto di riconoscere tempestivamente una variazione della sua dinamica. Come già si è
detto, un rallentamento strutturale dell’economia potrebbe essere scambiato per un
rallentamento ciclico e quindi il manifestarsi di un deficit strutturale potrebbe essere scambiato
per un deficit di tipo ciclico. In questo caso una politica fiscale espansiva non solo rischierebbe
58
di prolungarsi troppo se i governi insistessero nell’azione espansiva, ma soprattutto sarebbe
molto costoso, e quindi politicamente non attraente, successivamente ripianare il deficit perché
ciò richiederebbe una forte restrizione fiscale da attuarsi in una economia che cresce a ritmi più
lenti. L’ accumularsi del debito è in questo caso un accadimento probabile. La risposta agli shock
di offerta degli anni settanta con politiche fiscali espansive sono un evento ormai lontano nel
tempo ma i cui effetti sul debito non si sono ancora esauriti.
Secondo. Se si ritiene che gli stabilizzatori automatici debbano essere lasciati agire allora
non vi è ragione per non consentire anche una politica fiscale discrezionale di tipo anticiclico, se
non quella della inefficacia legata ai processi “istituzionali” di tale politica, cioè l’inefficacia
dovuta alla difficoltà di usare in modo tempestivo ed efficace la politica di bilancio per un’azione
di fine tuning o al pericolo di un cattivo uso della politica fiscale discrezionale collegata al ciclo
politico.
Il fatto importante è che non è necessario che questi comportamenti non virtuosi delle
autorità di bilancio vengano realmente adottati ma il fatto che essi siano possibili e che quindi
una politica di stabilizzazione discrezionale venga interpretata come potenzialmente pericolosa
in quanto non vi è sicurezza che essa non si traduca in una destabilizzazione fiscale ed in un
aumento del debito.
La conclusione cui si può giungere è che le argomentazioni portate contro l’uso di una
politica fiscale discrezionale a fini di stabilizzazione del ciclo si fondano essenzialmente su una
sua inefficacia dovuta agli aspetti istituzionali legati ai meccanismi decisionali che la
sovrintendono o ad un problema di credibilità dei responsabili della politica fiscale, i governi ed i
parlamenti titolari della sovranità fiscale, circa la loro volontà o capacità di limitare l’azione di
stabilizzazione entro limiti che non conducano ad uno squilibrio strutturale della finanza
pubblica. Anche il legame tra livello del debito pubblico o del deficit aggiustato per il ciclo e la
possibilità che l’azione fiscale produca effetti non-keynesiani si basa infatti essenzialmente sul
fatto che il livello del debito sembra essere un indicatore di credibilità delle autorità.
Di fatto, una politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo che rispetti il vincolo
dell’invarianza del rapporto deficit/ PIL nel medio periodo - o del suo ritmo di riduzione,
sempre nel medio periodo, se il paese sta conducendo una politica di consolidamento fiscale non dovrebbe generare alcun impatto perverso sui tassi di interesse reali di lungo periodo
59
attraverso l’operare delle aspettative degli operatori, qualora l’impegno dei governi a mantenere
invariato il deficit strutturale sia credibile.
Il livello del debito preesistente, da questo punto di vista non ha alcun rilievo. Ha rilievo
ovviamente la politica di bilancio strutturale, cioè il livello del deficit aggiustato per il ciclo deciso
dal governo, che condiziona la sostenibilità strutturale del debito.
3. Una proposta d’innovazione istituzionale
La conseguenza di quanto detto fin qui è che una politica fiscale più flessibile ai fini della
stabilizzazione del prodotto e dei prezzi sarebbe più desiderabile qualora fossero eliminati i
ritardi connessi alla sua attuazione e risolti i problemi di credibilità circa la sua natura
temporanea.
Questi obiettivi potrebbero essere ottenuti affidando ad una autorità fiscale dotata di un
certo grado di indipendenza dal governo la responsabilità di decidere limitate variazioni
temporanee a qualche aliquota fiscale (relativa ad esempio alle imposte sui redditi delle persone
fisiche, o delle persone giuridiche o alle imposte indirette) in più o in meno per qualche punto
percentuale rispetto ai livelli proposti dal governo, ed approvati dal parlamento, in base ai suoi
autonomi obiettivi di saldo di bilancio strutturale, di distribuzione del reddito e di dimensione
della spesa pubblica.
Questa autorità potrebbe agire rapidamente in base ad un monitoraggio delle condizioni
dell’economia rispetto al sentiero di crescita normale del prodotto potenziale e l’obiettivo di
inflazione.
La temporaneità dell’azione e la limitazione della sua intensità dovrebbe essere garantita
dall’obbligo di agire in modo simmetrico nelle varie fasi del ciclo ed in ogni caso sotto il vincolo
che l’obiettivo di bilancio strutturale - e la composizione del bilancio in termini di livello della
spesa su cui questa autorità fiscale non avrebbe facoltà di azione - nel medio periodo rimanga
invariato. Questo significa che se per un periodo le aliquote vengono ridotte, nel periodo
successivo il gettito dovrà essere recuperato anche con un aumento delle stesse aliquote al di
sopra dei livelli “normali” se necessario.
Il fatto che questa responsabilità fiscale sia affidata istituzionalmente ad una autorità
indipendente dal governo, sul modello ormai comunemente accettato dell’indipendenza
60
dell’autorità monetaria, dovrebbe garantire la credibilità dell’impegno ed il fatto che esso non
venga disatteso in base a logiche di convenienza politica dei governi e delle maggioranze
parlamentari.
Il recupero delle caratteristiche della tempestività e credibilità conferirebbe alla politica
fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo anche la caratteristica dell’efficacia. In tal modo
non solo si potrebbe sollevare la politica monetaria dall’onere di perseguire da sola l’obiettivo
della stabilizzazione del reddito ma potrebbe essere la politica fiscale ad aiutare la politica
monetaria a perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Questo risultato sarebbe tanto più
apprezzabile quanto più sono lunghi i ritardi con cui la politica monetaria raggiunge i suoi
risultati, anche se è rapido il processo decisionale. L’osservazione degli ultimi episodi recessivi
degli Stati Uniti mostrano come la leva monetaria debba essere usata in modo sempre più
massiccio per ottenere dei risultati in tempi rapidi, mentre l’esperienza giapponese mostra come
la politica monetaria si rivela scarsamente efficace soprattutto quando i tassi di interesse reali
sono prossimi allo zero o negativi.
Questa idea di innovazione istituzionale potrebbe quindi far sì che l’efficacia di una
maggiore flessibilità fiscale sarebbe garantita proprio dalla disciplina fiscale assicurata da
istituzioni indipendenti, condizione questa fondamentale in un mondo caratterizzato da libera
circolazione dei capitali.
In un sistema come quello abbozzato nelle linee generali, la sovranità fiscale rimarrebbe
al parlamento e quindi al governo che in esso trova la maggioranza per governare. La natura
essenzialmente politica delle decisioni relative alla politica fiscale non verrebbe toccata per ciò
che riguarda il livello relativo delle differenti tasse e delle componenti di spesa, il saldo di
bilancio strutturale ed il livello complessivo della spesa e della pressione fiscale di tipo strutturale
con cui l’obiettivo del saldo viene assicurato.
Ciò significa che i governi rimarrebbero interamente responsabili dei risultati della
politica fiscale in termini di crescita economica di lungo periodo e di equità distributiva dal
momento che rimarrebbero totalmente sotto la sua responsabilità le decisioni che attengono al
ruolo distributivo della politica fiscale ed a quello connesso di determinazione degli incentivi
microeconomici al risparmio ed agli investimenti.
Il meccanismo istituzionale che potrebbe essere adottato per l’applicazione di queste idee
può essere vario ed implica delle scelte in merito a:
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 il grado di indipendenza dal governo dell’autorità responsabile della gestione della
politica fiscale, la sua composizione e la sua struttura;
 il grado di discrezionalità che ad essa verrebbe attribuito circa la forchetta di oscillazione
delle aliquote fiscali rispetto al loro valore centrale o normale;
 la discrezionalità nella determinazione delle condizioni che autorizzano l’aggiustamento
fiscale temporaneo;
 infine quali tipo di imposte (o anche di contributi) potrebbero essere soggette a
flessibilità rispetto ai livelli fissati dal governo.
Rispetto a quest’ultimo punto la scelta dovrebbe dipendere dalla concreta struttura fiscale del
paese considerato, in modo da unire efficacia e semplicità amministrativa di attuazione. In
generale ogni scelta può presentare vantaggi e svantaggi.
Ad esempio, includere nel mix di aliquote soggette a possibili variazioni le imposte
indirette sarebbe vantaggioso perché la loro base imponibile è ampia. Inoltre la temporaneità
della correzione darebbe la massima efficacia all’effetto di correzione della spesa privata
redistribuendola intertemporalmente in senso anticiclico. Tuttavia nei periodi di espansione,
quando l’obiettivo è di contenere l’inflazione, l’aumento delle tasse indirette potrebbe generare,
nel breve periodo, l’effetto indesiderato di creare maggiore crescita dei prezzi finali. La
caratteristica di indipendenza e temporaneità dell’azione fiscale dovrebbe peraltro escludere un
meccanismo di traslazione dell’imposta sui salari lordi e non dovrebbe porre in discussione gli
accordi salariali fondati sul livello di aliquote normali fissate dal governo.
Ci si può scandalizzare all’idea che il reddito disponibile possa essere influenzato da una
autorità indipendente, che le imprese possano vedere la domanda dei loro prodotti
improvvisamente variata da questi provvedimenti e più in generale preoccuparsi del fattore di
incertezza immesso nel sistema dalla maggiore flessibilità fiscale. D’altra parte va considerato che
l’azione fiscale sarebbe diretta a stabilizzare la domanda nel corso del ciclo, e ciò stabilizzerebbe
le aspettative delle imprese relative alla domanda. Inoltre già oggi l’azione indipendente delle
autorità monetarie agisce con lo stesso fine di regolazione della domanda e ciò viene
comunemente accettato. Le variazioni dei tassi di interesse e dei cambi influenzabili dalla politica
monetaria hanno conseguenze sui redditi forse meno immediatamente percepite da tutti gli
operatori ma non meno rilevanti di quelle che si avrebbero con una maggiore flessibilità fiscale.
62
Il punto è se la flessibilità ed indipendenza della politica fiscale può rappresentare
un’azione più efficace, e quindi garantire in media una minore variabilità del prodotto e dei
prezzi ed a costi minori, rispetto alla politica monetaria.
Si assuma un episodio di crescita eccessiva della domanda aggregata tale da generare un
processo inflazionistico. E’ difficile immaginare un inasprimento fiscale teso a tagliare i consumi
da parte di governi sempre alla ricerca di buoni risultati in termini di crescita di breve periodo e
consapevoli della difficoltà di ottenere l’approvazione parlamentare in tempi utili. Aumenti della
pressione fiscale sono stati infatti storicamente deliberati in genere solo al fine di contenere i
deficit di bilancio in presenza di problemi di sostenibilità.
E’ stata invece generalmente accettata una stabilizzazione dei prezzi perseguita frenando
la spesa privata mediante un aumento dei tassi di interesse, i cui effetti tuttavia si producono
lentamente, con effetti più persistenti sulla crescita e con difficoltà maggiore di graduare l’entità
dell’azione monetaria rispetto agli effetti desiderati nei tempi voluti. Allo stesso modo potrebbe
essere accettata un’azione fiscale da parte di un’autorità indipendente qualora fosse possibile
ottenere gli stessi risultati in modo più efficace e con la possibilità di dimensionare in modo
migliore l’intervento all’effetto desiderato.
In presenza invece di un episodio recessivo sarebbe più facile politicamente per i governi
adottare una politica fiscale espansiva, ma essa potrebbe risultare inefficace se i mercati
registrassero l’azione come un abbandono strutturale della disciplina fiscale. Una politica fiscale
al contempo flessibile ed indipendente potrebbe tuttavia, per i motivi sopra addotti, risultare
efficace e non sarebbe necessario invocare a sostegno un allentamento della politica monetaria.
Da questo punto di vista, sarebbe interessante considerare la possibilità che l’istituzione
dotata di indipendenza e credibilità, oltre che di capacità tecniche, cui affidare il compito di
gestire la politica fiscale di stabilizzazione sia proprio la Banca Centrale o una agenzia ad essa
collegata. Coloro che hanno ipotizzato questa soluzione istituzionale hanno in genere anche
sottolineato come in tal modo la politica monetaria e fiscale si sarebbero orientate in modo
coerente in base agli obiettivi specifici loro assegnati nella stabilizzazione del ciclo. Altri tuttavia
hanno visto in questa concentrazione degli strumenti fiscali e monetari un fatto negativo. Nel
contesto europeo, in cui le Banche centrali nazionali non hanno più il controllo diretto della
politica monetaria ma sono coinvolte negli indirizzi della BCE, l’ipotesi risulterebbe tuttavia
interessante perché esse acquisirebbero il controllo diretto di uno strumento con cui affrontare
63
shock di domanda, anche asimmetrici, tenendo conto degli indirizzi complessivi della politica
monetaria gestita a livello europeo. Nel caso italiano, la capacità tecnica della Banca centrale,
forse al momento non pienamente utilizzata, non sembra inoltre una risorsa scarsa.
4. Il patto di stabilità e crescita e la politica fiscale di stabilizzazione.
La discussione fin qui condotta dovrebbe rendere evidente che il domandarsi se un
maggior uso della politica fiscale discrezionale per la stabilizzazione del ciclo sia desiderabile,
non pone in discussione in alcun modo il Patto di stabilità e crescita (PSC). Quest’ultimo
afferma che i conti pubblici siano, in media , in pareggio nel corso del ciclo economico ma non
esclude, anzi prevede, che si possano avere avanzi o disavanzi limitati nelle varie fasi del ciclo. La
richiesta che nelle fasi di espansione i bilanci siano tendenzialmente in surplus sono la
conseguenza del principio appena esposto ed è diretta a consentire una maggiore flessibilità nel
breve periodo alle posizioni di bilancio. Il PSC riguarda quindi essenzialmente le regole relative
al saldo di bilancio strutturale, non la gestione di breve periodo delle componenti cicliche del
saldo.
La sovrapposizione dei due problemi è possibile nel corso di avvicinamento dei bilanci
dei paesi che hanno sottoscritto il PSC al soddisfacimento della regola del pareggio di bilancio.
Un possibile disavanzo ciclico può far allontanare il deficit effettivo dal sentiero prefissato di
riduzione del deficit strutturale. E’ facile comprendere che la posizione più logica è quella di
consentire di rallentare il processo di riduzione dei deficit di bilancio nelle fasi di recessione e di
accelerarlo nei periodi di espansione, sotto il vincolo che in media il ritmo di riduzione non vari.
Non è questo tuttavia l’argomento che qui ci interessa affrontare anche in considerazione del
fatto che qualunque riforma nella gestione della politica fiscale si attuerebbe probabilmente
quando l’obiettivo del pareggio sarà ormai raggiunto.
iù interessante è invece discutere se il ruolo di stabilizzazione delle politiche di bilancio
debba essere, anche nel quadro del PSC, assicurato dagli stabilizzatori automatici o se vi sia
spazio anche per le politiche discrezionali. La posizione espressa dalla Banca Centrale Europea 6
è che si dovrebbe consentire l’azione degli stabilizzatori automatici, mentre è sconsigliabile
ricorrere a misure discrezionali di stabilizzazione con le politiche di bilancio. Questa è
6“Il
funzionamento degli stabilizzatori automatici di bilancio nell’area dell’euro”, Bollettino mensile della BCE, Aprile
2002.
64
l’affermazione che riteniamo che richieda un maggiore approfondimento o perlomeno un
dibattito un po’ meno conformista. In realtà le argomentazioni addotte dalla BCE sono quelle
consuete, richiamate in questo rapporto, e che in gran parte cadrebbero nell’ambito della
proposta di assicurare una gestione “indipendente” delle misure fiscali di stabilizzazione.
Val al pena d’altra parte che si prendano in considerazione non solo gli argomenti relativi
alla cosiddetta inefficacia della politica discrezionale ma ci si interroghi anche sull’efficacia degli
stabilizzatori automatici. E’ noto che l’efficacia degli stabilizzatori automatici vari in funzione
non solo dell’intensità degli shock ma soprattutto della struttura delle entrate e delle spese
pubbliche e della loro elasticità rispetto alle variazione della produzione e dell’occupazione. La
struttura dei mercati, la struttura produttiva, il sistema di welfare, oltre che il sistema fiscale
influenzano quindi questa efficacia. Vi sono d’altra parte due fattori generali che influenzano
questa efficacia, il primo è l’entità del settore pubblico nell’economia, il secondo è il grado di
progressività del sistema fiscale. Entrambi questi fattori dovrebbero ridimensionarsi in base non
tanto ai programmi politici di particolari maggioranze ma agli indirizzi generali già espressi in
sede comunitaria ed imposti dai problemi di competitività connessi ai processi di
globalizzazione.
Anche queste considerazioni suggeriscono di porsi il problema di un recupero della
politica di stabilizzazione di tipo discrezionale. D’altra parte quando gli stabilizzatori automatici
sono sufficienti, le fluttuazioni cicliche sono contenute e quindi non sono necessarie misure
discrezionali aggiuntive.
65
Bibliografia
- Giavazzi Francesco, , Pagano Marco (1995), “Non-keynesian Effects of Fiscal Policy Changes:
International Evidence and the Swedish Experience”, NBER working paper 5332, November.
- Giavazzi Francesco, Jappelli Tullio, Pagano Marco (2000), “Searching for Non-linear Effects
of Fiscal Policy: Evidence from Industrial and Developing Countries”, NBER working paper
7460, January.
- Sutherland Alan (1997), Fiscal Crisis and Aggregate Demand: Can High Public Debt Riverse
the Effects of Fiscal Policy?”, Journal of Public Economics 65.
66
PARTE QUARTA:
LE REGOLE DI BILANCIO
67
1. Verso la legge di stabilità
1.1. L’iniziativa del governo
Nell’audizione tenutasi il 20 febbraio del 2002 presso la Commissione Congiunta
Bilancio del Parlamento, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, On. Giulio Tremonti, e il
Sottosegretario di Stato per lo stesso dicastero, Sen. Giuseppe Vegas, manifestavano l’intenzione
del Governo di procedere al riordino degli strumenti normativi della manovra di bilancio.
I più recenti interventi legislativi in materia (la legge n.94 del 1997 e la legge n.208 del
1999) si sono infatti rilevati tutt’altro che esaustivi.
La legge 94 ha ridotto i capitoli del bilancio dello stato, aggregandoli con riferimento ai
centri di costo. L’obiettivo era quello di aumentare la trasparenza del budget pubblico, creando
un vincolo più diretto tra la spesa e gli effetti del suo utilizzo. In realtà, l’accorpamento per centri
di costo non ha risolto, se non in misura marginale, la questione della frammentazione eccessiva
delle voci di spesa, che ostacola la leggibilità del bilancio. Anche l’intento di passare ad uno zero
base budgeting, che ridiscute criticamente ogni anno l’utilità di ogni singolo esborso,
abbandonando il metodo del bilancio incrementale, che più o meno automaticamente aggiunge
qualcosa ogni anno sul budget dell’anno precedente, non ha dato i frutti sperati.
La legge 208 ha modificato invece la legge finanziaria, soprattutto al fine di ridurre l’uso
strumentale ed abnorme dei provvedimenti collegati, che vengono impiegati per introdurre
modifiche alla legislazione vigente che abbiano effetti indiretti di natura finanziaria.
Per dare una dimensione quantitativa del fenomeno, basti pensare che nel 1993 il
provvedimento collegato consisteva di 75 pagine e la Finanziaria di sole 8. Dato che durante la
discussione parlamentare i collegati vengono continuamente aggiornati, questo rappresenta un
ulteriore elemento di sfilacciamento delle regole di bilancio. Peraltro, molto spesso i collegati
non sono approvati entro l’anno ma scivolano al successivo, affievolendo ulteriormente il
legame con la manovra corrente di finanza pubblica.
La legge 208 ha cercato di porre degli argini al dilagare dei collegati e delle deleghe
contenute al loro interno. Anche qui l’innovazione non è stata particolarmente soddisfacente
perché la Finanziaria è diventata di nuovo quel mezzo omnibus dei tempi precedenti alla legge
68
del 1988. Inoltre, la scadenza per la presentazione dei collegati (15 novembre) è spesso troppo
dilazionata nel calendario per consentirne un’approvazione immediata.
Nonostante le riforme degli ultimi anni, manca quindi ancora una cornice comune che
consenta un coordinamento pienamente efficace degli interventi di finanza pubblica.
Anche perché nuove circostanze, affacciatesi negli ultimi anni, impongono una visione unitaria e
complessiva della politica di bilancio.
E’ infatti questo lo spirito dell’iniziativa del Governo, che nasce da due considerazioni
principali:
 Il vincolo esterno, rappresentato dai Trattati europei, spinge nella direzione di una maggiore
standardizzazione dei bilanci pubblici, da redigere in base a criteri più uniformi. Si impone
quindi una integrazione tra l’impianto normativo italiano, rappresentato in primis dall’art.81
della Costituzione, e quello europeo, a partire dal Trattato di Maastricht e dai regolamenti
che disciplinano il Patto di stabilità e crescita.
 Il vincolo interno, cioè la devoluzione di parte dei poteri dello Stato ai governi locali,
secondo il nuovo Titolo V della Costituzione, costringe all’adozione di un nuovo regime
contabile che tenga conto del processo di decentramento ma anche degli obblighi finanziari
che derivano dal Patto di stabilità e crescita e della necessità per lo Stato di continuare a
svolgere un’azione di coordinamento per conseguire una politica fiscale efficace. Se è vero
che le sanzioni previste a livello europeo colpiscono soltanto gli Stati nazionali, la grandezza
contabile rilevante è l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, che comprende
anche gli enti locali. Il Patto di stabilità interno, introdotto dalla legge 448 del 1998, impone
dei vincoli agli enti locali sia sul piano delle spese (correnti) sia sul piano dei saldi finanziari.
Occorre però irrobustirne meccanismi e monitoraggio, in un quadro di compatibilità
generale.
Per queste ragioni la legge finanziaria dovrebbe trasformarsi in legge di stabilità.
Secondo le intenzioni espresse inizialmente dal Governo, la legge di stabilità dovrebbe
assolvere alle seguenti funzioni:
69
 Fissare il tetto complessivo delle entrate e delle spese (tralasciando i saldi, che hanno perso
di significato con l’ormai prossimo pareggio di bilancio e che non tengono conto del livello
della spesa e delle entrate).
 Stabilire il riparto di responsabilità relativo all’attuazione del Patto di stabilità tra lo Stato e
gli altri enti.
 Fissare le altre misure necessarie per il rispetto del Patto di stabilità.
 Delineare gli ulteriori interventi necessari per attuare il programma di politica economica
del Governo.
La legge di stabilità sarebbe quindi uno strumento allo stesso tempo più agile e più
completo dell’attuale legge finanziaria.
1.2 Il dibattito parlamentare
Il Governo ha deciso di lasciare la materia del riordino degli strumenti di bilancio al dibattito
parlamentare, in seno alla Commissione congiunta Bilancio. Il dibattito parlamentare, terminato
il 10 aprile del 2002 con la replica del Sen. Vegas, ha in effetti evidenziato, all’interno di una
eterogeneità pronunciata delle diverse posizioni, una base comune di critiche alla legislazione
vigente e di proposte per un intervento di riordino:
 Gli strumenti della manovra di bilancio, così come sono oggi, non sono sufficientemente
impermeabili a stravolgimenti dettati dalla scarsità di tempo a disposizione e dagli interessi di
parte (vedi il box 1 sui fenomeni di free-riding che si verificano nella sessione di bilancio
allorché emerge una distonia tra i benefici ed i costi di un certo provvedimento).
 Il riordino va compiuto rapidamente, attraverso una legge ordinaria, per consolidare il
risanamento di bilancio.
 La riforma deve andare nella direzione di una maggiore trasparenza dei documenti di
bilancio e quindi di un rafforzamento del controllo democratico.
Dopo la fine del dibattito, le Commissioni Bilancio della Camera e del Senato si sono
impegnate a votare una risoluzione d’indirizzo, di cui terrà conto il disegno di legge del
Governo.
70
1.3 Le posizioni della maggioranza e della minoranza
La risoluzione della maggioranza in seno alla Commissione Bilancio del Senato impegna il
Governo a formulare un progetto normativo volto a:
 Ricalibrare le funzioni della legge finanziaria, da ridenominare legge di stabilità, sui vincoli
interni ed esterni della finanza pubblica, tenendo conto in particolare dell’ordinamento
comunitario nonché della necessità di disporre di norme di coordinamento della finanza
pubblica.
 Rafforzare il divieto di introdurre con la legge di stabilità interventi di carattere localistico e
microsettoriale.
 Introdurre disposizioni volte a rivedere, semplificare e rendere tempestive le informazioni
del Governo al Parlamento sugli andamenti periodici della finanza pubblica, in particolar
modo comunicando con cadenza mensile dati coordinati sull’evoluzione del fabbisogno ed
ogni tre mesi, eventualmente nell’ambito della Relazione trimestrale di cassa, l’andamento del
Conto economico della Pubblica Amministrazione, nonché il quadro di raccordo con il
fabbisogno.
 Riordinare, con un’apposita delega, la materia trattata dai titoli IV e V della legge di
contabilità n.468/78 (che ha istituito la legge finanziaria) e successive modificazioni, al fine di
pervenire ad un’omogeneizzazione dei principi e della struttura dei bilanci degli enti pubblici
e alla creazione di una rete telematica in materia che permetta di conoscere nel tempo più
breve possibile l’andamento dei flussi finanziari della pubblica amministrazione.
 Disciplinare più puntualmente la generale attività emendativa, prevedendo che gli
emendamenti da presentare a suo nome siano sottoposti alla previa approvazione del
Consiglio dei ministri, su parere favorevole del Ministro dell’Economia nelle materie
finanziarie.
 Avviare il riesame e la revisione dell’attuale struttura del bilancio dello Stato in vista di un
miglioramento della trasparenza e della leggibilità dei relativi dati, in connessione con la
riforma in atto della P.A.
Per la maggioranza, appare inoltre necessario coinvolgere pienamente le regioni e le
autonomie territoriali, attivando nella sua mutata composizione, in parte su base locale, la
Commissione bicamerale per le questioni regionali.
71
La risoluzione della minoranza nella Commissione Bilancio del Senato afferma che:
1. E’ auspicabile il mantenimento della distinzione tra legge di bilancio e legge finanziaria,
secondo lo schema definito con la legge 208 del 1999, che ha abolito il collegato di sessione.
Piuttosto ne va rafforzata l’interpretazione stringente, laddove afferma che sono ammissibili
soltanto emendamenti che contribuiscano allo sviluppo, portino ad un miglioramento dei
saldi ovvero non siano microsettoriali. Inoltre, i Presidenti delle Assemblee parlamentari e
delle Commissioni Bilancio devono avvalersi di una struttura tecnica rafforzata che istruisca
le procedure di stralcio o di inammissibilità. Va poi definito un percorso certo per i
provvedimenti collegati, che renda possibile la loro approvazione prima della presentazione
del nuovo DPEF, ed il loro contenuto normativo deve essere definito più chiaramente.
2. Gli emendamenti del Governo alla legge finanziaria e al bilancio devono essere approvati dal
Consiglio dei ministri, a pena di inammissibilità. Gli emendamenti presentati dal relatore
debbono essere corredati da una relazione tecnica predisposta dalle amministrazioni
competenti e verificata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
3. Occorre affinare ulteriormente il processo di specificazione delle unità previsionali di base,
individuando in modo più nitido le diverse unità amministrative in cui si articolano i vari
centri di costo, e specificare meglio, potenziandolo, il grado di discrezionalità dei dirigenti
delle varie unità amministrative nella gestione delle risorse finanziarie e strumentali.
4. Lo strumento più adeguato per definire regole certe relative al Patto di stabilità interno è la
legge 468 del 1978, della quale vanno riformati i titoli IV e V, mentre la legge finanziaria può
essere la sede annuale di definizione degli aspetti quantitativi. In particolare va inserita nella
legge 468 una norma che espliciti per le leggi statati regionali il rispetto dei limiti del PSC e
per le regioni la possibilità di accensione di debiti a medio e a lungo termine solo per
fronteggiare spese di investimento, nei limiti stabiliti nell’ambito dell’Unione Europea.
5. Il Governo nazionale, responsabile del rispetto del PSC nei confronti dell’UE, deve essere
messo nelle condizioni di ricorrere alla Corte Costituzionale, nel caso in cui una legge
regionale contrasti con gli obiettivi fissati nel PSC.
6. Il saldo programmatico ai fini del Patto di stabilità interno va definito come differenza tra le
entrate finali (al netto dei trasferimenti dallo Stato, dall’UE e dagli altri enti) e le uscite finali
(al netto degli investimenti fissi lordi).
72
7. Un adeguato monitoraggio del rispetto degli obiettivi del Patto di stabilità interno è
strumentale al processo concertativo e deve essere svolto dal Ministero dell’Economia,
attraverso il sistema informativo del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato
integrato dalle informazioni degli enti (in particolare sui saldi finanziari mensili).
8. Per il conseguimento degli obiettivi del Patto di stabilità interno è opportuno prevedere
sanzioni ed incentivi al fine di evitare fenomeni di free-riding.
1.4 Una possibile sintesi
Secondo FREE, la legge di stabilità rappresenta un adeguamento necessario dello Stato al
duplice vincolo esterno ed interno.
Da una parte, bisogna onorare gli impegni presi in sede europea all’interno del Patto di
stabilità e di crescita (PSC). I documenti di bilancio del Governo si vanno quindi ad iscrivere in
una cornice già stabilita a livello europeo e a cui non si può derogare, a meno che non ci si metta
d’accordo con i nostri partner per stravolgere o eliminare il PSC (evento non solo improbabile ma
neppure auspicabile secondo FREE, che anzi è a favore dell’inserimento del PSC nell’eventuale
costituzione europea, ora in discussione presso la Convenzione).
Dall’altra parte occorre tener conto della riscrittura del Titolo V della Costituzione, che
ha assegnato nuovi poteri alle Regioni e alle autonomie locali. Tra questi il nuovo art.119 amplia
l’autonomia finanziaria degli enti locali. In questa prospettiva non solo non viene meno ma anzi
deve essere rafforzato il ruolo di coordinamento esercitato dalla politica fiscale statale. Va infatti
evitato il pericolo di uno scollamento tra decisioni di politica fiscale prese a livello nazionale, in
ottemperamento del PSC, e decisioni prese nella stessa materia a livelli di governo più bassi.
L’assenza di un Patto di stabilità interno, come quello esistente nel nostro Paese, sta creando
non pochi problemi alla Germania ai fini del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica
stabiliti dal PSC. Proprio per questo occorre fare tutto il possibile per mantenere un assetto
compatibile con l’equilibrio di bilancio, anche dopo che la riforma in senso federalista dello
Stato sarà a pieno regime.
Il Patto di stabilità interno prevede che, per l’anno corrente, le Regioni non possano
destinare alle spese correnti una cifra superiore del 4.5% a quella iscritta in bilancio nel 2000
mentre per le Province e i Comuni con popolazione superiore a 5000 abitanti l’aumento della
stessa voce non può superare il 6%.
Per quanto riguarda i saldi, l’incremento (nel caso di disavanzo, viceversa nel caso di un
avanzo) si deve fermare al 2.5%.
73
Alla nozione di disavanzo rilevante, si applica una golden rule allargata. Non vengono
quindi sottratti solo gli investimenti ma anche gli interessi passivi, le spese sostenute sulla base di
trasferimenti con vincolo di destinazione e le spese che per loro natura rivestono il carattere
dell’eccezionalità.
Probabilmente, sarebbe auspicabile arrivare a vincoli meno stringenti sulle voci di spesa
dei governi locali, a fronte di una definizione più coerente di disavanzo con quella che vale ai fini
del Patto di stabilità e di crescita, dove, almeno per ora, la golden rule, anche nella sua versione più
ristretta, non si applica. Una volta che si consolideranno l’attuale fase di crescita dei poteri locali
e la loro relativa autonomia impositiva, non è pensabile che lo Stato mantenga dei vincoli che
non riguardino esclusivamente gli obiettivi.
Per irrobustire la finanza locale, fermo restando il rispetto dell’equilibrio di bilancio
complessivo, si potrebbe creare un mercato dei permessi di disavanzo. Che garantirebbe l’allocazione
più efficiente delle possibilità di andare in deficit rispetto alle esigenze finanziarie dei vari
governi. Acquisteranno i permessi quelli che prevedono di investire le risorse aggiuntive più
produttivamente e di ripagare il debito contratto più facilmente. In questo modo, peraltro,
sarebbero favorite le amministrazioni locali la cui domanda di investimenti è maggiore.
Peraltro, se è vero che il sistema è stato proposto originariamente per i paesi aderenti
all’Unione monetaria europea, funzionerebbe probabilmente meglio in un contesto come quello
del Patto di stabilità interno perché il numero dei soggetti interessati potrebbe essere molto
superiore e quindi assicurare maggiore competitività. Naturalmente, si potrebbero prevedere
delle restrizioni, in funzione del record di bilancio di un ente o delle dimensioni del suo budget
(limitando la partecipazione al mercato solo alle amministrazioni locali che possono garantire
sufficiente affidabilità). Peraltro, coerentemente con il Patto di stabilità e di crescita, che prevede
la possibilità di politiche anti-cicliche attraverso gli stabilizzatori automatici, si potrebbe pensare
ad un ammontare di permessi che vari automaticamente a seconda delle fasi del ciclo.
Tuttavia, la legge di stabilità non deve limitarsi a scrivere le nuove regole del gioco tra
stato ed enti decentrati in materia di bilancio ma deve aggiungere altre novità significative.
Si deve cercare di fare alcuni passi indietro (o, a seconda dei punti di vista, molti passi avanti)
rispetto alla legge 208 del ’99, che ha fatto nuovamente della finanziaria un provvedimento
omnibus, utilizzato anche a fini diversi da quelli di bilancio, come vera e propria corsia
preferenziale per provvedimenti che altrimenti si troverebbero imbottigliati nel traffico
parlamentare.
74
Dalle due risoluzione emerge, sia pure con accenti diversi, la comune volontà di snellire
la legge finanziaria, concentrandola soltanto sugli aspetti rilevanti della manovra di bilancio. Così
come c’è concordia nel ritenere che gli emendamenti proposti dal Governo debbano passare
attraverso il vaglio preventivo del Consiglio dei ministri.
Una possibile convergenza può essere individuata anche nell’esigenza di perfezionare il
monitoraggio dei conti della Pubblica Amministrazione, rispetto al quale sono stati fatti molti
passi in avanti negli ultimi mesi, e di cercare un migliore raccordo tra le nozioni di competenza e
di cassa (che eviti anche la tentazione di percorrere le strade pericolose della “finanza creativa”,
contribuendo così ad una maggiore trasparenza del bilancio, obiettivo condiviso da tutti).
Lo scopo di rendere il budget più leggibile dovrebbe portare ad una sensibile
diminuzione dei capitoli di bilancio, da aggregare secondo un approccio funzionale (per il quale
due spese con finalità identica fatte da due ministeri diversi rientrano nello stesso capitolo,
aiutando così il cittadino a formarsi un giudizio più compiuto sui risultati dell’azione di governo).
Si andrebbe così verso una scelta compiuta recentemente in Francia (vedi il box 2), in linea
quindi con il processo di armonizzazione dei principi contabili a livello europeo.
Al fine di cercare una possibile intesa con le opposizioni su alcuni punti cardine della
riforma, si potrebbe raccogliere l’idea lanciata nella risoluzione della minoranza a favore di un
rafforzamento del Servizio Bilancio della Camera e del Senato, che potrebbero svolgere un ruolo
istruttorio per i Presidenti delle rispettive Assemblee nei casi potenziali di stralcio e
inammissibilità degli emendamenti ed in prospettiva, come si dirà nel paragrafo successivo,
rappresentare una garanzia per il ruolo del Parlamento, qualora si procedesse ad una restrizione
dell’emendabilità, a tutto vantaggio del potere esecutivo.
Inoltre, sembra auspicabile che i collegati siano resi più coerenti con gli obiettivi di
finanza pubblica, da cui molto spesso si discostano perché vengono differiti temporalmente
rispetto alla sessione di bilancio a cui si dovrebbero riferire. Sarebbe quindi sensato anticipare il
termine di presentazione del 15 novembre, previsto dalla legge attuale.
Un altro motivo di scostamento dei collegati rispetto agli indirizzi di bilancio è
determinato da una sostanziale vaghezza del loro contenuto all’interno del Documento di
programmazione economico-finanziaria. Occorrerebbe scendere in dettagli maggiori in sede di
preparazione di DPEF, anche al fine di evitare successivamente spiacevoli sorprese.
Infine, va evitata, tranne che per circostanze al di fuori del controllo del Governo (come
un repentino cambiamento della congiuntura internazionale), la possibilità di un forte
75
scostamento tra gli obiettivi di finanza pubblica enunciati nel DPEF e nella legge finanziaria
(tutti ricorderanno che l’entità della manovra prevista dalla finanziaria del 1997 risultò il doppio
di quella annunciata dal DPEF). Anche questo gioverebbe ad un confronto più sereno e meno
emergenziale durante la sessione di bilancio.
1.5 Scenari di riforma di medio-lungo termine
La legge di stabilità vuole apportare cambiamenti sufficientemente incisivi alla
legislazione vigente in tempi rapidi. Piuttosto che confrontarsi con i tempi lunghi di una
modifica costituzionale, il Governo ha infatti scelto uno strumento più rapido, una legge
ordinaria, per incominciare a porre mano ai problemi posti contemporaneamente dagli impegni
presi con i nostri partner in sede europea e con i livelli inferiori di governo in sede di costituzione.
Anche per questo, la legge di stabilità deve rappresentare un primo passo verso una
riscrittura più complessiva ed organica delle regole del gioco, per ridefinire i rapporti tra poteri
dello stato secondo criteri di maggiore efficienza.
Qualsiasi tentativo di riforma costituzionale del bilancio dello Stato deve passare
attraverso l’articolo 81 della Costituzione italiana, fortemente voluto da Luigi Einaudi ed Ezio
Vanoni. Il terzo ed il quarto comma sono i più significativi, laddove affermano che “con la legge
di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra
legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Anche grazie all’attività di moral suasion svolta da Einaudi durante il suo settennato,
l’interpretazione dell’art.81 fu inizialmente piuttosto rigida. Il rapporto deficit/PIL si mantenne
fino alla fine degli anni Sessanta su livelli intorno al 2.5% (quindi in linea con il criterio sul deficit
fissato a Maastricht, che alcuni decenni dopo avremmo così faticato a rispettare).
Successivamente il meccanismo costituzionale si rivelò molto meno robusto del previsto. Un
cambiamento di paradigma economico-culturale non trovò molta resistenza in un principio
costituzionale vago come l’art.81.
Infatti la sua formulazione, interpretata alla lettera, prevede la copertura per le spese
previste durante l’esercizio in corso, non per quelle degli esercizi successivi. Perciò è stato facile
aggirare il divieto, prevedendo spese minime per l’esercizio in corso e spese maggiori per gli
esercizi successivi. Tanto più dopo che la Corte Costituzionale ha avallato tali pratiche.
L’articolo 81, peraltro, non teneva nel dovuto conto il profilo finanziario degli entitlements
(pensioni, sussidi, etc.), che hanno determinato esborsi crescenti a parità di quadro normativo. In
altre parole l’espansione del welfare state fu il cavallo di Troia utilizzato per espugnare l’art.81 e
76
renderlo inoffensivo. Una volta caduto il principio del pareggio di bilancio, fu facile
sbarazzarsene del tutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.
Una defaillance a cui occorrerà porre rimedio, dunque. Meglio obiettivi più modesti ma
chiari e trasparenti piuttosto che regole facilmente aggirabili.
Non è un caso che in altri paesi dell'Unione, come Francia e Germania, il bilancio in
pareggio sia stato garantito anche da regole procedurali chiare. Dunque, se non esiste un vero e
proprio equivalente dell’art.81 in altre costituzioni europee, i sostituti sono risultati però più che
efficaci.
Basti pensare all’art.113 della Legge Fondamentale tedesca, laddove afferma che “le
deliberazione del Bundestag e del Bundesrat che aumentano le spese proposte dal Governo
federale nel bilancio preventivo, o che comportano, subito o in prosieguo di tempo, nuove
spese, necessitano del consenso del Governo federale”. Oppure il già citato art.40 della
Costituzione francese, rafforzato dalla norma anch’essa di rango costituzionale secondo la quale
“il Parlamento vota i disegni di legge attinenti al bilancio dello Stato nei modi previsti da una
legge organica” (art.47, Cost.fr.), il che vuol dire, tra le altre cose, che “in mancanza di accordo
tra le due assemblee, il testo non può essere adottato dall’Assemblea nazionale in ultima lettura
se non a maggioranza assoluta dei suoi membri” (art.46, Cost.fr.).
Nel caso francese e tedesco, la robustezza delle norme costituzionali viene garantita
anche dalla chiara indicazione del responsabile di eventuali sforamenti di bilancio, cioè il potere
esecutivo. “Senza dubbio con quel disposto un paese può ancora spendere, tassare ed
indebitarsi; ma con quella norma i Governi non possono più giocare a scaricabarile, incolpando i
Parlamenti di demagogia finanziaria. Ora sappiamo in modo certo, dalla stessa Costituzione, che
è il Governo e solo il Governo ad essere responsabile del debito pubblico” (Sartori, 1994 7).
Sappiamo, quindi, che in questo caso le condizioni necessarie perché le regole costituzionali
siano rispettate sono fondamentalmente due: regole procedurali chiare e incentivi dei governanti
compatibili con la stabilità finanziaria. L’italica frammentazione delle responsabilità e, quindi,
delle colpe, unita all’opacità del dettato costituzionale, non ha giovato alla fortuna dell’art.81
della nostra Costituzione.
Una modifica costituzionale del processo di bilancio che dia al Governo poteri di veto
(almeno sospensivi) oppure anche solo una variazione dei regolamenti parlamentari che riduca
sensibilmente l’emendabilità dei provvedimenti di bilancio comporterebbero una ridefinizione
7
Sartori, G., Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna, 1994.
77
piuttosto radicale dei rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo. Sembra difficile che una
riforma di questo genere possa avvenire ceteris paribus, cioè lasciando tutto il resto così com’è.
L’empowerment del Governo a discapito del Parlamento in materia di finanza pubblica
comporterebbe comunque uno stravolgimento della costituzione materiale. Tale da richiedere
che si rimetta in moto il cammino inceppato delle riforme istituzionali, al di là di una nuova
configurazione del processo di bilancio. Riforme informate comunque dagli stessi principi, in
particolare dalla riaffermazione della weberiana “etica della responsabilità”. Un Governo che
governi ed un Parlamento che controlli rappresenterebbero il superamento dell’italico
malcostume delle responsabilità indivise, dove tutti i soggetti in campo rispondono in solido dei
risultati. Una chiara separazione delle responsabilità comporterebbero allo stesso tempo un
rafforzamento della legittimazione democratica delle istituzioni politiche italiane e della loro
efficienza.
Purtroppo, data l’esperienza passata di riforme lungamente discusse ma mai varate (a
parte la riforma del titolo V della Costituzione, tutt’altro che risolutiva), non è facile che una
prospettiva di questo genere possa avverarsi nell’orizzonte immediato.
In un’ottica di medio termine, in attesa delle necessarie riforme istituzionali, si potrebbe
comunque pensare ad una compensazione immediata per la parziale cessione delle prerogative
parlamentari in materia di bilancio, attraverso l’istituzione di un ufficio del budget parlamentare
(sul modello del Congressional Budget Office americano), magari partorito dalle costole degli
attuali Servizi bilancio della Camera e del Senato.
Potendo contare su un ufficio bipartisan e sensibilmente rafforzato, attraverso la fusione
dei due Servizi e l’ampliamento delle funzioni, il Parlamento potrebbe esercitare così un
controllo adeguato sulla politica di bilancio del Governo.
Con la legge di stabilità il Governo sta partendo bene e velocemente. Purché questa sia
una tappa di passaggio verso traguardi più ambiziosi.
Approfondimento 1:
La rilevanza delle regole di bilancio secondo la teoria
Nel corso di questo secolo, mano a mano che nei paesi più industrializzati le istituzioni democratiche si
andavano consolidando grazie ad una sempre più estesa partecipazione politica, è emerso un problema
78
fondamentale relativo alla politica di bilancio, ovvero una asimmetria tra la dinamica della spesa pubblica e
quella delle entrate dello stato.
Si è venuto sempre più evidenziando che nelle democrazie mature la spesa è più elastica verso l’alto del
gettito fiscale e, di conseguenza, la probabilità di saldi negativi di bilancio è aumentata considerevolmente.
Al singolo legislatore, che si assume massimizzi la probabilità di essere rieletto, conviene comportarsi da
free-rider, promuovendo programmi di spesa senza prevedere un aumento corrispondente delle entrate. L’aggravio
per i conti pubblici sarà probabilmente modesto ma la somma di tutti i comportamenti opportunistici
rappresenterà un aggravio consistente per le casse statali. Peraltro, in generale, il legislatore preferirà aumenti di
spesa a riduzioni delle imposte perché gli aumenti di spesa tendono a dare benefici più concentrati (sia
numericamente sia geograficamente) e quindi sono marginalmente più utili ai fini della rielezione. Infatti, a parità
di stanziamento, un esborso più alto a vantaggio di un numero più circoscritto di elettori tende ad avere più
impatto politico rispetto a esborsi minori ma più generalizzati (Olson, 19658).
In un sistema elettorale uninominale, peraltro, il bias fiscale può risultare ulteriormente aggravato dal
rapporto più diretto che si instaura tra istanze localistiche e rappresentanza politica.
Lo stesso potere esecutivo, peraltro, è soggetto al bias fiscale, laddove i singoli ministri di spesa hanno
l’incentivo a chiedere un incremento del proprio budget, senza tenere in considerazione l’impatto sul disavanzo. Per
questo, è importante che esista un punto di raccordo e di coordinamento tra le varie istanze all’interno del
gabinetto (assunta in generale, nei vari paesi, dal ministero delle finanze).
Dapprima una forte resistenza culturale all’idea di una finanza pubblica in disavanzo pose un argine ai
diversi fattori opportunistici che spingevano verso una eccessiva prodigalità fiscale. Minato a livello teorico dalle tesi
keynesiane in favore di politiche espansive della domanda e nella prassi politica dal bias fiscale, il rigore
finanziario divenne un retaggio del passato.
Dopo alcuni decenni di spesa pubblica in deficit, si è reso però necessario un riequilibrio delle finanze
statali. La non sostenibilità del debito pubblico e il crescente bisogno di rendere credibile la politica fiscale e la
politica monetaria al fine di mantenerne intatto l’impatto sull’economia costrinsero governi e parlamenti ad
intraprendere misure di risanamento. In Europa, un incentivo ulteriore e in molti casi più decisivo è stato dato dal
processo di convergenza verso i parametri fissati dal Trattato di Maastricht, propedeutico all’ingresso nell’euro.
Tuttavia, al di là di azioni contingenti, motivate dal raggiungimento di obiettivi di breve periodo, occorre
attrezzarsi per gettare solide fondamenta per una finanza pubblica virtuosa nel lungo periodo, disinnescando il
8
Olson, M., The Logic of Collective Action, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1965.
79
bias fiscale. In questo senso, la definizione di regole del gioco, quindi di un processo di bilancio il più possibile
ottimale, appare essenziale.
Approfondimento 2:
Come il bias fiscale e’ contenuto in Europa
Il confronto con le legislazioni vigenti nei paesi europei in materia di regole di bilancio, oltre ad essere
utile di per sé per eventuali spunti ai fini delle riforme da intraprendere nel nostro paese, è imposto dalla
inevitabile progressiva armonizzazione dei bilanci pubblici nell’area UE.
In Francia, l’art.40 della Costituzione limita il potere di iniziativa dei parlamentari in materia
finanziaria, prevedendo la non ammissibilità degli emendamenti nel caso in cui la loro adozione comporti una
diminuzione delle entrate o un aumento delle spese. Questo vale non solo durante la sessione di bilancio ma per
tutto l’anno finanziario.
La legge organica n.2001-692 del primo agosto 2001 ha introdotto diversi elementi di novità nella
struttura del bilancio francese.
Il bilancio statale, prima articolato in 850 capitoli, viene sostituito con una serie di stanziamenti
raggruppati all’interno di 100-150 programmi ministeriali. Si crea così una corrispondenza diretta tra
stanziamenti ed obiettivi dell’azione pubblica.
Viene inoltre istituito quello che si definisce uno chainage vertueux (concatenamento virtuoso) tra la lois
de règlement (il consuntivo) dell’anno precedente e la lois de finance (l’equivalente per certi versi della nostra legge
finanziaria) dell’anno successivo. Il dibattito parlamentare sull’efficacia dei risultati prodotti dagli stanziamenti
per l’anno in corso costituisce la base di partenza per la lois de finance per l’anno successivo.
Ai fini di una maggiore trasparenza del bilancio pubblico, viene previsto un rafforzamento del flusso
informativo che va dal Governo al Parlamento, con l’obbligo per il primo di motivare il superamento degli
stanziamenti previsti e di trasmettere i decreti di variazione e di trasferimento, prima della firma, alla
Commissione Finanze e alle Commissioni competenti.
In Gran Bretagna, il rapporto tra Governo e Parlamento in materia di spesa pubblica è chiaramente
sbilanciato in favore del primo, all’interno del quale il Cancelliere dello Scacchiere assume il ruolo di preminenza.
Alla Camera dei Comuni è consentito votare emendamenti che diminuiscano la spesa ma non emendamenti che ne
aumentino il limite massimo proposto dal Governo.
80
Al Parlamento, però, sono garantiti poteri di controllo successivo sull’efficacia della politica di bilancio, anche
grazie a strumenti come il National Audit Office (NAO), organo indipendente dal Governo guidato da un
funzionario della Camera dei Comuni.
In Germania, non vi è invece supremazia formale del Ministro delle Finanze sui ministri di spesa,
anche se, durante l’esame dei documenti di bilancio all’interno del Governo, il Ministro delle Finanze dispone di
un veto sospensivo. Che può essere superato solo dalla maggioranza dei ministri, a condizione che il Cancelliere si
schieri a favore di questa. In tal caso, quindi, il ruolo del Cancelliere risulta prevalente nel comporre gli attriti di
natura finanziaria all’interno del Governo.
La legge di bilancio viene approvata dal Bundestag con un voto preliminare ed uno conclusivo del
Bundesrat volto a verificare che i provvedimenti contenuti rispettino le competenze dei Laender.
Il procedimento si articola in tre fasi, di cui le ultime due corrispondono a norme diverse che regolano
l’emendabilità. Dopo la prima fase, con l’esame generale in Assemblea ed uno analitico in Commissione Bilancio,
si passa all’esame degli emendamenti che sono liberamente proponibili fino al voto sulle varie parti di bilancio.
Successivamente, e qui si passa alla terza fase, gli emendamenti sono ricevibili solo nel caso in cui siano proposti
dai gruppi parlamentari oppure da almeno il 5% dei membri del Bundestag e solo riguardo alle parti emendate
nella seconda fase. Il resto, approvato senza modifiche in prima lettura, non può più essere soggetto ad eventuali
cambiamenti.
2. Le regole di bilancio e performance finanziaria nei paesi dell’unione europea
2.1 Lo stato dell’arte nella ricerca
Una delle caratteristiche più interessanti dei ripetuti disavanzi di bilancio ed elevati rapporti
debito/PIL che contraddistinguono molti paesi, il nostro in primis, è che riguardano alcuni paesi
più di altri. Prendendo in considerazione economie con un elevato grado di integrazione ed un
simile livello di sviluppo, come i paesi OCSE, notiamo che alcuni sono sistematicamente
contraddistinti da disequilibri finanziari "esplosivi", come Italia, Belgio, Portogallo; altri invece
hanno sempre mantenuto gli squilibri di bilancio entro limiti accettabili, come la Francia o la
Svizzera. In quest’ultimo raramente il debito ha superato il 20% del PIL. La storia si ripete in
altri campioni di economie che sperimentano shock macroeconomici simmetrici, come i paesi
dell'America Latina e i 50 stati degli USA.
81
Come si spiega questa considerevole differenza tra paesi altrimenti simili? E’ possibile, da
un'eventuale spiegazione, trarre indicazioni che pongano il nostro paese su un sentiero di
performance di bilancio sistematicamente virtuoso?
Per rispondere a questi quesiti la ricerca scientifica si è concentrata sulle procedure di
approvazione del bilancio che caratterizzano e distinguono gruppi di paesi per altro
economicamente omogenei. L’idea alla base di questa letteratura è che i metodi decisionali tipici
dei sistemi democratici consentono ai policymakers di vedersi attribuire solo una parte dei costi
politici delle loro decisioni di spesa. Ne deriva una sorta di intrinseca, comune tendenza al deficit
spending (Alesina e Perotti, 1994). D'altronde, le diverse procedure di approvazione del bilancio di
ciascun paese pongono freni di diversa efficacia a questa tendenza comune. I risultati di bilancio
– la "performance finanziaria" di un paese – dovrebbero quindi essere correlati alla forza vincolante
delle procedure di approvazione del bilancio del paese stesso.
In un primo periodo questa letteratura ha sottolineato l’importanza di porre obiettivi
numerici in materia di variabili fiscali, come i deficit di bilancio, il debito e le spese pubbliche. Gli
obiettivi del Trattato di Maastricht e le regole di bilancio in pareggio adottate dalla maggioranza
degli stati USA sono espressione di questo filone di pensiero. Le verifiche empiriche di queste
teorie hanno però offerto risultati contradditori. Alcuni studi non trovano una correlazione
significativa tra misure di disciplina fiscale e singole regole di bilancio, quali il potere di veto
dell’esecutivo e l’obbligo di pareggio annuale del bilancio. Altri studi concludono che simili
regole “funzionano”, ma a patto che siano integrate da altri vincoli che limitino la discrezionalità
dei policymakers nei diversi passaggi che compongono l’approvazione di una legge di bilancio
(Padovano, 1998).
Tale contraddittorietà nei risultati ha spinto gli studiosi a spostare la loro attenzione dalle
regole di bilancio numeriche a quelle procedurali. Per queste ultime si intendono le procedure che
disciplinano ciascuna fase dell’approvazione della legge di bilancio, dalla formulazione della
proposta da parte del governo, alla sua discussione, modifica e approvazione da parte del
legislativo, alla sua attuazione finale da parte degli organi dello stato (Alesina e Perotti, 1996).
Questi modelli prevedono che le procedure di bilancio producono maggiore disciplina nella
misura in cui a) rafforzano il potere del primo ministro (o del ministro delle finanze) rispetto ai
ministri di spesa; b) limitano il grado di universalismo, reciprocità e le possibilità di
emendamento nelle sessioni parlamentari di bilancio e c) restringono la discrezionalità della
82
burocrazia nell’applicazione della legge di bilancio stessa (Baron, 1989, 1991; Baron e Ferejohn,
1989; von Hagen, 1992). Le analisi empiriche tendono a supportare queste previsioni: gli indici
di centralizzazione delle decisioni di bilancio sono negativamente correlati con i deficit di bilancio,
le spese pubbliche e il debito accumulato.
Per quanto incoraggianti, questi studi empirici soffrono di alcuni difetti metodologici che
rendono i risultati non così sicuri da farne, almeno allo stato attuale, una guida per una riforma
di bilancio.
Per superare questi limiti, Lagona e Padovano (2000) propongono un’analisi non lineare in
componenti principali (NLPCA) del rapporto tra regole di bilancio e performance finanziaria.
Anzitutto, NLPCA sintetizza le valutazioni numeriche delle singole regole in indici aggregati che
minimizzano la perdita di informazione derivante dal processo di sintesi secondo precise
procedure matematiche - la proiezione in componenti principali, appunto. In seconda istanza,
NLPCA mantiene la classificazione ordinale delle valutazioni delle regole - il contributo
accettabile dei precedenti studi - ma produce valutazioni numeriche che sono invarianti rispetto
a variazioni monotone delle valutazioni numeriche originali della forza vincolante delle regole. I
coefficienti stimati sulla base degli indici generati mediante NLPCA non sono quindi sensibili
alla metrica e quindi non producono risultati spuri. Infine, NLPCA specifica la tavola delle
corrispondenze tra le singole regole e le rispettive componenti principali. Sulla base di questa
tavola e dei coefficienti che legano le componenti principali ai singoli indicatori di performance
finanziaria, possiamo desumere in che misura ciascuna regola riesce a produrre un effetto
vincolante su, ad esempio, il rapporto deficit/PIL, piuttosto che su quello debito/PIL o spesa
pubblica/PIL. Sulla base di questa informazione si può realizzare una riforma delle procedure di
bilancio specifica per l'obiettivo di disciplina fiscale che si vuole raggiungere.
2.2 Descrizione delle procedure di bilancio dei paesi UE
Variabili indipendenti. Von Hagen (1992), corretto e integrato da de Haan e Volkerink
(1999) rappresenta tuttora la descrizione più completa e la più coerente codificazione delle
regole di bilancio adottate in 12 paesi dell’Unione europea durante gli anni ‘80 e ‘90.
Specificamente, questi paesi sono: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna,
Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna. Altre rassegne relative alle
regole di bilancio dei vari paesi sono state pubblicate (OECD 1987, 1995) ma offrono
un’informazione piuttosto sparsa e non codificata.
83
Basandosi su questi studi, le caratteristiche delle procedure di bilancio sono riassunte in 5
gruppi, corrispondenti ad altrettanti stadi della formulazione della proposta di bilancio:
 la formazione della proposta di bilancio all’interno dell’esecutivo
 la discussione, modifica e approvazione del bilancio nel parlamento
 il grado di trasparenza del documento di bilancio
 la flessibilità nell’attuazione della legge da parte degli organi amministrativi dello stato
 il grado di vincolo del documento di bilancio pluriennale
Ciascuno di questi gruppi o fasi è caratterizzata dall’adozione, o meno, e comunque in
diverse varianti, di una serie di regole, per un totale complessivo pari a 24. In particolare per
quanto riguarda la formulazione della proposta di bilancio (stadio N) abbiamo informazioni a
proposito che essa preveda un vincolo sui totali di spesa e entrata (variabile N1), di chi ha il
potere di agenda (N2), se tale potere è esplicitamente menzionato nelle regole di bilancio (N3) e
su quale tipo di negoziazione produce come risultato la proposta di bilancio (N4). Della fase di
discussione, modifica e approvazione del bilancio (fase P) sono descritte cinque caratteristiche: il
potere di emendamento della proposta (P1), se gli emendamenti devono essere mutuamente
esclusivi (P2), se la loro approvazione implica la sfiducia per il governo (P3), se il parlamento
vota su tutta la legge o capitolo per capitolo (P4) e se è necessario approvare i totali di spesa e
entrata prima delle votazioni sulle singole disposizioni del bilancio (P5). Il grado di trasparenza
del documento di bilancio (fase I) è valutato in base alla presenza di fondi extra bilancio (I1),
all’esistenza di uno o più documenti di bilancio (I2), alla leggibilità del documento (I3), ai
riferimenti alla contabilità nazionale (I4) e all’inclusione dei prestiti governativi ad enti non statali
(I5). La fase di attuazione del bilancio (F) è disaggregata in 6 dimensioni: la possibilità del
ministro delle finanze di bloccare i provvedimenti di spesa (F1), l’esistenza di limiti di liquidità
per i ministri di spesa (F2), la necessità dell’approvazione di un organo indipendente per
l’esborso dei finanziamenti (F3), la possibilità di trasferire risorse tra capitoli di spesa (F4), la
possibilità di modificare il bilancio in fase di esecuzione (F5) e di trasferire fondi non spesi al
bilancio futuro (F6). Infine, l’informazione circa i documenti di bilancio pluriennali (fase L)
riguarda il tipo di variabili fiscali scelte come obiettivo (L1), la durata dell’orizzonte temporale
(L2), il metodo di previsione (L3) e il grado di impegno previsto dal documento (L4).
84
Ciascuna di queste variabili riceve un valore numerico crescente nella sua forza vincolante.
La tabella 2 riassume questi dati, mentre la tabella 3 illustra le regole adottate da ciascun paese.
Le variabili indipendenti scelte sono i seguenti quattro rapporti: deficit totale/PIL (TDEF);
deficit primario/PIL (PDEF); spese pubbliche/PIL (EXP) e debito pubblico/PIL (DEB). I dati
sono medie per gli anni ‘80 e ‘90.
85
Tabella 2
Regole di bilancio nei paesi UE
Fase
Simbolo
Struttura delle
N1
trattative all’interno
del governo
N2
Regola
Presenza di vincoli
sui totali di entrata
e uscita
Agenda setting
nelle negoziazioni
Riferimento a
regole di bilancio
nel potere di
agenzia
Struttura delle
trattative
Range
0-4
0
BEL, GRE, SPA
1
NET, POR
2
IRL, ITA
3
GER, LUX
4
DEN, FRA, UK
NET, POR
DEN, SPA
FRA, UK
0-3
GRE, IRL, NET
BEL, GER, GRE,
IRL, ITA,
BEL, DEN
NET, POR
FRA, GER, SPA,
UK
0-2
BEL, GRE, IRL,
SPA
ITA
DEN, FRA,
GER, NET,
POR, UK
P1
Emendamenti
0-1
BEL, DEN, GER,
GRE, POR
P2
Emendamenti
mutuamente
esclusivi
0-1
P3
Emendamenti
legati alla fiducia
0-1
P4
Tutte le decisioni di 0-2
spesa approvate
con voto singolo
Voto complessivo 0-1
sulle dimensioni
del bilancio
Inclusione di fondi 0-4
extra
BEL, GER, GRE,
IRL, ITA, LUX,
NET, POR, SPA,
UK
BEL, DEN, FRA,
GER, IRL, NET,
UK
BEL, GER, GRE,
IRL, LUX, POR,
SPA
BEL, DEN, GER,
GRE, IRL, ITA,
LUX, SPA
POR
FRA, IRL, ITA,
LUX, NET, SPA,
UK
DEN, FRA
N3
N4
Struttura del
processo
parlamentare
P5
Trasparenza del
documento di
bilancio
I1
I2
Bilancio in un solo
documento
0-4
0-2
GRE, IRE, ITA,
UK
86
5
?
LUX
LUX
LUX
GRE, ITA, SPA
LUX,
POR
FRA, ITA
DEN, NET, UK
POR
FRA, NET, UK
IRL, ITA
BEL, DEN,
BEL,
DEN, FRA,
GER, LUX,
NET, POR, SPA
GER, GRE, SPA
NET, UK
LUX
Fase
Simbolo
I3
I4
I5
Flessibilità
nell’esecuzione del
bilancio
F1
F2
F3
F4
F5
F6
Vincolo insito nei
documenti di
programmazione
pluriennali
L1
L2
L3
L4
Regola
Valutazione della
trasparenza del
bilancio
Riferimento alla
contabilità
nazionale
Government loans
to non-government
entities included in
budget draft
MF può bloccare le
spese
Range
0-2
ITA
0
0-3
0-2
0-1
FRA, GER, GRE,
LUX
Ministri di spesa
soggetti a vincoli di
liquidità
Erogazioni soggetti
a ad approvazione
MF o controllore
Trasferimenti di
spese tra capitoli
Cambiamenti nel
bilancio in fase di
esecuzione
Carry-over di fondi
non spesi
Variabile obiettivo
0-1
DEN, FRA, GER,
GRE, POR, UK
0-1
BEL, FRA, GER, ,
NET, POR
0-5
SPA
GER, GRE
DEN, UK
BEL, FRA
0-4
ITA
GRE
GER
BEL, DEN,
FRA, IRL,
POR, SPA, UK
0-3
FRA, NET, SPA, UK GER, POR
0-2
DEN, UK
GER, IRL, ITA,
NET
FRA,
DEN, GRE
GER, ITA, POR
FRA, GRE, IRL,
ITA, POR, SPA
FRA, SPA
DEN, NET
GER, UK
DEN, GRE,
POR
GER, IRL, ITA,
UK
Estensione
0-4
temporale del piano
(anni)
Metodo di
0-3
previsione
Grado di impegno 0-4
Fonte: von Hagen (1992).
87
1
BEL, DEN, IRL,
LUX, POR
2
FRA, GER,
GRE, UK
BEL, IRL, ITA
DEN, GRE, LUX,
POR,
FRA,
POR
GER, GRE, IRL
BEL, DEN, ITA,
NET, UK
3
4
GER, NET, UK
5
?
SPA
FRA,
LUX,
SPA
GRE, IRL
IRL
LUX
LUX
IRL, NET,
SPA, UK
NET
2.3 Risultati delle verifiche empiriche
NLPCA sintetizza le componenti principali delle 24 regole di bilancio sopra illustrate e
consente di verificare quale di esse abbia un potere vincolante maggiore rispetto a ciascun
indicatore di performance finanziaria. L’analisi viene condotta in due fasi: nella prima si offre una
rappresentazione grafica del rapporto tra singole regole e indicatori di performance finanziaria;
nella seconda si verifica il grado di significatività statistica di questi risultati tramite un’analisi di
regressione della performance finanziaria sulle componenti principale delle 24 regole di bilancio.
Analisi diagrammatica. I grafici 1-4 illustrano la relazione tra, rispettivamente, debito pubblico,
spese pubbliche, deficit totale e primario (tutti normalizzati per il PIL) e le 24 regole di bilancio
nello spazio definito dalle due loro componenti principali. Le linee originano dal punto (0, 0), gli
angoli tra le linee indicano la relazione tra le variabili (180° indica una correlazione pari a –1, 90°
significa indipendenza, 0° una correlazione pari ad 1); infine, la lunghezza delle linee è una misura
di confidenza in quanto indica la varianza totale della trasformazione NLPCA delle singole variabili:
più lunghe le linee, minore la varianza e più precisa la stima.
In generale, gli indicatori di bilancio si collocano nel quadrante positivo dello spazio definito
dalle componenti principali (con l’eccezione della regola F6, apparentemente un outlier), mentre le
variabili di performance finanziaria si posizionano nel quadrante negativo. Questa separazione
conferma la correlazione negativa tra regole di bilancio e discrezionalità fiscale che la teoria
suggerisce.
GRAFICO 1
REGOLE DI BILANCIO E DEBITO PUBBLICO
0.4
F5
F6
I3
F1
F4
F2
0.2
N3
P R IN 2
I4
N1
I2
F3
P2
0
N4
P3
N2
I1
P5
-0.2
P1
DEBGDP
P4
I5
-0.4
-0.4
-0.3
-0.2
-0.1
0
0.1
0.2
0.3
0.4
PRIN1
In particolare, il grafico 1 indica che il debito pubblico è negativamente correlato con quasi
tutte le regole, ma raggiunge una correlazione prossima a –1 con la maggior parte delle variabili F
88
(specialmente, F1, F2, F4 e F5) e I3 (trasparenza della legge di bilancio). Una possibile
interpretazione di tale risultato è che livelli di indebitamento più elevati sono riscontrati nei casi in
cui il potere di controllo del contribuente-elettore è relativamente inferiore. Ciò avviene nelle
decisioni burocratiche, sottratte ad un processo di nomina elettorale, oppure quando i documenti di
bilancio sono tali da offuscare le capacità di controllo degli elettori.
Per quanto riguarda le spese pubbliche (grafico 2), la correlazione si avvicina al valore –1 nel
caso della maggior parte delle regole F – un risultato in linea con la teoria economica della
burocrazia – in particolar modo con la regola F2 (imposizioni di vincoli di liquidità ai ministeri di
spesa) e di nuovo con la regola I3 sulla trasparenza. Anche un buon numero di regole N è
caratterizzato da una correlazione negativa con le poste in uscita. A quanto pare, una debole
prerogativa del ministro delle finanze o del primo ministro sui ministri di spesa tende a gonfiare i
bilanci fin dalla fase di proposta; una rigida disciplina nella fase parlamentare (regole P e I) e postparlamentare (regole F) possono ridurre la crescita del bilancio, ma non le sue dimensioni una volta
che è diventato legge.
GRAPH 5.2
BUDGET RULES AND PUBLIC EXPENDITURES
0.4
F5
F6
I3
F1
F4
F2
0.2
N3
P R IN 2
I4 N1
F3
I2
P2
P3
0
N4
N2
EXPGDP
I1
P5
-0.2
P1
P4
I5
-0.4
-0.4
-0.2
0
0.2
0.4
PRIN1
Anche il deficit totale si avvicina ad una correlazione pari a -1 con la maggior parte delle regole
F e N ma, a differenza dei precedenti indicatori di performance finanziaria, anche due regole
relative alla discussione della proposta di bilancio in seno al parlamento, P2 (necessità che gli
emendamenti siano mutuamente esclusivi) e P3 (gli emendamenti sono legati a questioni di fiducia)
risultano avere una correlazione negativa quasi perfetta con il deficit complessivo. Se ne deduce che
una disciplina della possibilità di emendamento della proposta del governo che comporti il rispetto
dei livelli di spesa e prelievo che il governo ha indicato e l’assunzione dei costi politici della
89
variazione della proposta governativa, tende a produrre una maggiore disciplina fiscale che non un
divieto assoluto di emendamento (regola P1).
Infine, il deficit primario presenta un profilo di correlazioni del tutto diverso da quello delle
altre variabili. I governi tendono a prevedere disavanzi di bilancio al netto della spesa per interessi
sul debito quando i disequilibri finanziari diventano severi; PDFGDP si mostra infatti ortogonale
rispetto ad altre misure di performance di bilancio. Essendo uno strumento della politica fiscale del
governo, i problemi per l’accumulazione di un surplus primario risiedono non nella negoziazione
della proposta di bilancio all’interno del governo, ma nella sua discussione successiva da parte del
parlamento: i deputati sembrano avere priorità diverse rispetto al governo in materia di politica
fiscale (Crain e Tollison, 1979; Alesina e Perotti, 1994). Il grafico 4 conferma tale stato di cose; i
deficit primari sono perfettamente correlati negativamente con le regole P, quelle che definiscono la
struttura del processo parlamentare.
GRAPH 5.3
BUDGET RULES AND TOTAL DEFICIT
F5
0.4
F6
I3
F2
F1
F4
0.2
N3
PRIN 2
I4
I2
F3
N1
N4
P2
P3
0
N2
TDEFGDP
I1
P5
-0.2
P1
P4
I5
-0.4
-0.4
-0.2
0
0.2
0.4
PRIN1
GRAPH 5.4
BUDGET RULES AND PRIMARY DEFICIT
0.4
F5
F6
I3
F1
F2
0.3
F4
0.2
P DEFGDP
N3
F3
PR IN 2
0.1
I4
I2
N4
N1
P3 P2
0
N2
I1
-0.1
P5
-0.2
P1
-0.3
P4
I5
-0.4
-0.4
-0.2
0
PRIN1
90
0.2
0.4
Analisi di regressione. Allo scopo di corroborare i risultati illustrati nei grafici 1-4, (Lagona e
Padovano, 2001) hanno stimato una serie di regressioni su ciascun indicatore di performance fiscale
e le componenti principali delle regole di bilancio. Bisogna ricordare che, benché il modello di stima
sia un OLS standard, che presuppone una relazione lineare, la trasformazione NLPCA delle regole
per trovare le loro componenti principali è di tipo non lineare. Di conseguenza, la forma della
corrispondenza complessiva tra le regole e gli indicatori di performance finanziaria è, in realtà, non
lineare.
La tabella 3 riporta i risultati delle stime. DEBGDP è negativamente e significativamente
correlato con PRIN2, che coglie le regole che appartengono allo stadio F. Per quanto riguarda le
misure di deficit e spesa, relazioni negative si riscontrano con le regole colte dalla loro prima
componente principale. Quest’ultima che riassume le regole che, nei grafici 2-4, più approssimano
una correlazione pari a -1. Il valore statisticamente significativo sui coefficienti di EXPRIN1,
TDEFPRIN1 e PDEFPRIN1 rassicura circa la precisione delle stime disaggregate illustrate nei
grafici.
Tabella 3
DEBGDP EXPGDP PDEFGDP TDEFGDP
Intercetta
66.62***
49.59***
0.53
6.26***
(4.51)
(1.32)
(0.76)
(0.58)
PRIN1
-2.90
(1.74)
PRIN2
-6.32***
(2.17)
EXPPRIN1
-1.64**
(0.81)
PDEFPRIN1
-1.04*
(0.54)
TDEFPRIN1
-2.13***
(0.37)
Statistica F
5.62***
4.14**
3.76*
33.76***
2.4 Conclusioni
Le informazioni più interessanti che emergono da questa ricerca comparativa, ai fini di una
riforma delle procedure di approvazione di bilancio mirata a creare le condizioni per scelte fiscali
più disciplinate, sono le seguenti:
91
 non tutte le regole hanno lo stesso potere vincolante. Soprattutto, alcuni tipi di regole
tendono a vincolare maggiormente certi indicatori di performance finanziaria piuttosto che
altri. In particolare:
 Regole “off-government” e “off parliamentary”, come quelle che governano
l'attuazione delle disposizioni di bilancio da parte della burocrazia e la
trasparenza del documento di bilancio, mostrano un maggiore potere vincolante
sulle spese pubbliche e sul debito.
 Le regole che invece disciplinano la negoziazione della proposta di bilancio
all'interno del governo tendono ad avere effetti più forti sui deficit complessivi.

Una limitazione della discrezionalità parlamentare sembra fondamentale nello sforzo di
ottenere avanzi primari.
92
Bibliografia
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Lo Faso (Eds.), “Le Regole della Costituzione Fiscale”, Notizie di Politeia, 49-50, 106-129.
93
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