RAPPORTO DI PRIMAVERA 2002 Previsioni, Regole di bilancio e Politica fiscale Maggio 2002 www.freefoundation.com 1 INDICE PARTE PRIMA: ................................................................................... 12 LE PREVISIONI .................................................................................. 12 1. Fattori macroeconomici e strutturali alla base della Previsione ................................................ 13 1.1 Il ciclo economico............................................................................................................. 13 1.2 USA .............................................................................................................................. 13 1.3 Il successo delle politiche anti-cicliche........................................................................... 14 1.4 L’Europa ...................................................................................................................... 16 1.5 Il divario di produttività e il ritardo delle politiche ......................................................... 16 1.6 L’Italia........................................................................................................................... 16 1.7 Le debolezze strutturali ..................................................................................................... 18 1.8 Le prospettive dell’economia italiana nel periodo 2002-2005. ............................................ 20 PARTE SECONDA: ............................................................................ 29 L’EVOLUZIONE CONGIUNTURALE ............................................ 29 1. La Congiuntura Internazionale................................................................................................ 30 1.1 Stati Uniti.......................................................................................................................... 31 1.2 Giappone .......................................................................................................................... 34 1.3 Area dell’euro.................................................................................................................... 34 2. La congiuntura in Italia ........................................................................................................... 39 2.1 L’offerta ............................................................................................................................ 40 2.2 La domanda interna .......................................................................................................... 41 2.3 Il Mercato del Lavoro e l’Occupazione ............................................................................. 45 2.4 L’inflazione ....................................................................................................................... 46 2.5 Gli scambi con l’estero ...................................................................................................... 48 PARTE TERZA: .................................................................................. 50 LA POLITICA FISCALE ANTICICLICA .......................................... 50 1. Disciplina fiscale e ciclo economico ........................................................................................ 51 1.1 Cosa sappiamo sull’efficacia della politica fiscale ............................................................... 55 2. E’ possibile una gestione più flessibile della politica fiscale? .................................................... 58 3. Una proposta d’innovazione istituzionale................................................................................ 60 4. Il patto di stabilità e crescita e la politica fiscale di stabilizzazione............................................ 64 PARTE QUARTA: ............................................................................... 67 LE REGOLE DI BILANCIO.............................................................. 67 1. Verso la legge di stabilità ......................................................................................................... 68 1.1. L’iniziativa del governo .................................................................................................... 68 1.2 Il dibattito parlamentare .................................................................................................... 70 1.3 Le posizioni della maggioranza e della minoranza ............................................................. 71 1.4 Una possibile sintesi .......................................................................................................... 73 1.5 Scenari di riforma di medio-lungo termine ........................................................................ 76 Approfondimento 1: ................................................................................................................ 78 La rilevanza delle regole di bilancio secondo la teoria ...................................................................... 78 Approfondimento 2: .................................................................................................................... 80 Come il bias fiscale e’ contenuto in Europa ...................................................................................... 80 2 2. Le regole di bilancio e performance finanziaria nei paesi dell’unione europea ......................... 81 2.1 Lo stato dell’arte nella ricerca ............................................................................................ 81 2.2 Descrizione delle procedure di bilancio dei paesi UE ........................................................ 83 2.3 Risultati delle verifiche empiriche ...................................................................................... 88 2.4 Conclusioni ....................................................................................................................... 91 Al Rapporto FREE Primavera 2002 hanno collaborato: Renato Brunetta, Stefano Da Empoli, Ernesto Felli, Fabiano Padovano, Giovanni Tria. Il modello econometrico NEMO è stato realizzato da Ernesto Felli e Giovanni Tria. I testi e l'editing sono stati curati da Silvia Carnini Pulino. 3 SOMMARIO Le prospettive dell’economia italiana nel periodo 2002-2005 1. Come il Rapporto FREE dello scorso settembre aveva ipotizzato, gli effetti dell’11 settembre sono stati transitori e il potenziale di crescita dell’economia americana non sembra essere stato intaccato in modo permanente dallo shock negativo. L’economia americana ha reagito all’indebolimento dei fattori che ne avevano guidato la lunga fase espansiva – la più lunga dal dopoguerra - meglio e più rapidamente del previsto. Non c’è dubbio che le politiche economiche hanno aiutato l’economia americana a reagire alla decelerazione del ciclo e agli eventi sfavorevoli. 2. Nell’area dell’euro la crescita del PIL nel 2001 è stata maggiore di quella degli USA (1,5% contro 1,2%), ma la decelerazione rispetto al 2000 (+3,3%) non meno brusca. A differenza però di quanto è accaduto oltreoceano, il PIL non ha registrato recuperi congiunturali e il 2001 si è chiuso con un’ulteriore anche se contenuta riduzione del tasso di crescita. La ripresa in Europa appare più lenta e graduale. Né la politica monetaria né l’operare degli stabilizzatori automatici sembrano in grado di stimolare l’attività economica che rimane fiacca così come lo stato della fiducia della famiglie e dei loro consumi. 3. Gli effetti del rallentamento internazionale non potevano non estendersi all’Italia. Tuttavia, le ultime informazioni indicano che il “fondo della recessione” è stato ormai raggiunto e che l’economia ha ripreso slancio nei primi mesi di dell’anno in corso: nel primo trimestre del 2002 il PIL è tornato a crescere in termini congiunturali (+0,2%). 4. Anche se la performance congiunturale delineata non appare particolarmente brillante, non è l’evoluzione ciclica dell’economia italiana a destare preoccupazione. Il ritmo della ripresa acquisterà vigore e solidità sempre più velocemente nel corso del 2002, collocando il tasso di crescita tendenziale vicino al tre per cento nell’ultimo trimestre. Secondo le previsioni FREE, la crescita media dell’economia italiana nel 2003 tornerà ai livelli del 2000 (+2,8% circa), ossia al risultato raggiunto prima del rallentamento del biennio 2001-2002. Tuttavia, come abbiamo spiegato nei precedenti rapporti, l’evoluzione di medio periodo dell’economia italiana è in linea più con lo standard di crescita bassa del biennio 2001-2002 e di tutti gli anni novanta che con le impennate 4 del 2000 e del 2003 (se la nostra previsione sarà confermata). La previsione è condizionale all’invarianza della legislazione vigente al momento dell’effettuazione delle simulazioni (metà maggio 2002) e alle ipotesi di un risveglio della domanda mondiale nel 2003 e di una stabilizzazione del tasso di cambio dollaro-euro intorno a 0,90 (Tabella 3). 5. Secondo la nostra previsione di base, la causa predominate della dinamica del PIL nel prossimo quadriennio dal lato dell’offerta sarà la crescita dell’occupazione; l’accumulazione di capitale manterrà comunque un apporto positivo. La domanda aggregata influenzerà questa dinamica soprattutto nel 2003, attraverso il contributo della componente interna, ed in particolare del processo di ricostituzione delle scorte. Le esportazioni nette non daranno un contributo positivo, con la parentesi del 2003. L’esaurirsi del dinamismo dell’occupazione causerà il rallentamento del ritmo di crescita nel biennio 2004-2005. Gli andamenti suddetti si realizzeranno in un contesto d’inflazione stabile e di graduale miglioramento dei conti pubblici. 6. Secondo le nostre simulazioni, l’obiettivo del pareggio di bilancio sarebbe raggiunto non prima del 2004. La gradualità di tale evoluzione - il disavanzo delle Amministrazioni Pubbliche è pari all’1 per cento del PIL nel 2002 e allo 0,4% nel 2003 - deve essere valutata non solo in relazione al previsto comportamento meno virtuoso di altri paesi dell’UE, ma anche alla luce delle correzioni degli stabilizzatori automatici provocate dall’andamento ciclico. I nostri risultati, d’altra parte, non contraddicono le analisi di sensitività del Ministero del Tesoro, secondo le quali una crescita inferiore all’obiettivo programmatico (1,5 contro 2,3%) comporterebbe nel 2002 un rapporto indebitamento/ PIL pari allo 0,9% . 7. Nel 2002 il tasso di variazione dei prezzi al consumo scenderà al 2,0% e rimarrà sostanzialmente bloccato a questo livello negli anni successivi. Si noti che, invece, l’inflazione “interna” misurata dalle variazioni del deflatore del prodotto interno, pur essendo più elevata, esibisce un profilo lievemente declinante. 8. Lo scenario che emerge dalla previsione di base deve far riflettere. Sebbene il prodotto pro-capite registri incrementi positivi anche di fronte alla tenuta dell’occupazione, in assenza di cambiamenti strutturali o innovazioni istituzionali e di modifiche della legislazione vigente, la dinamica del PIL è insoddisfacente e per di più declinante: 5 nell’ultimo anno della previsione l’economia italiana è ricondotta al di sotto della crescita potenziale. In sostanza, i risultati della previsione di base indicano che, in assenza di shock positivi, un’attenuazione del dinamismo della componente estera è sufficiente a spingere l’economia italiana su ritmi di crescita modesti. 9. La parte terza e quarta del Rapporto affronta alcuni temi cruciali del dibattito relativo alle politiche di bilancio nel quadro del Patto di stabilità e crescita (PSC): il possibile uso di una politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo e le condizioni per la sua efficacia; il dibattito parlamentare sulla necessità di trasformare la legge finanziaria in una “legge di stabilità” per rendere più efficiente e trasparente il processo di formazione della legge di bilancio ed il rispetto del PSC; la relazione tra regole di bilancio e propensione alla disciplina fiscale. La politica fiscale anti-ciclica 1. Nella parte terza del Rapporto viene proposto come tema di dibattito una innovazione istituzionale tesa a consentire una maggiore flessibilità fiscale discrezionale per la correzione del ciclo nel nuovo contesto europeo. La proposta, di recente avanzata in un contesto non europeo, è incentrata sull’idea di superare alcune cause di inefficacia della politica fiscale nella regolazione di breve periodo della domanda affidandone la gestione ad autorità dotate di un relativo grado di indipendenza, secondo il modello prevalente nella gestione della politica monetaria. FREE la propone come interessante oggetto di dibattito in un contesto europeo. 2. Una politica fiscale più flessibile ai fini della stabilizzazione del prodotto e dei prezzi sarebbe più desiderabile qualora fossero eliminati i ritardi connessi alla sua attuazione e risolti i problemi di credibilità circa la propensione alla disciplina fiscale dei titolari della responsabilità fiscale, governo e parlamenti. 3. Questi obiettivi potrebbero essere ottenuti affidando ad una autorità fiscale dotata di un certo grado di indipendenza dal governo la responsabilità di decidere limitate variazioni temporanee a qualche aliquota fiscale. La temporaneità dell’azione e la limitazione della sua intensità dovrebbe essere garantita dall’obbligo di agire in modo simmetrico nelle varie fasi del ciclo ed in ogni caso sotto il vincolo che l’obiettivo di bilancio strutturale - e 6 la composizione del bilancio in termini di livello della spesa su cui questa autorità fiscale non avrebbe facoltà di azione - nel medio periodo rimanga invariato. 4. Il fatto che questa responsabilità fiscale sia affidata istituzionalmente ad una autorità indipendente dal governo, sul modello ormai comunemente accettato dell’indipendenza dell’autorità monetaria, dovrebbe garantire la credibilità dell’impegno ed il fatto che esso non venga disatteso in base a logiche di convenienza politica dei governi e delle maggioranze parlamentari. Il recupero delle caratteristiche della tempestività e credibilità conferirebbe alla politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo anche la caratteristica dell’efficacia. Sarebbe interessante considerare la possibilità che l’istituzione dotata di indipendenza e credibilità, oltre che di capacità tecniche, cui affidare il compito di gestire la politica fiscale di stabilizzazione sia proprio la Banca Centrale o una agenzia ad essa collegata. 5. La proposta non porrebbe in discussione in alcun modo il Patto di stabilità e crescita (PSC). Quest’ultimo richiede che i conti pubblici siano, in media , in pareggio nel corso del ciclo economico ma non esclude, anzi prevede, che si possano avere avanzi o disavanzi limitati nelle varie fasi del ciclo. Verso la legge di stabilità 1. Il vincolo esterno, rappresentato dai Trattati europei, spinge nella direzione di una maggiore standardizzazione dei bilanci pubblici, da redigere in base a criteri più uniformi. Il vincolo interno e la devoluzione di parte dei poteri dello Stato ai governi locali, costringe all’adozione di un nuovo regime contabile che tenga conto del processo di decentramento ma anche degli obblighi finanziari che derivano dal Patto di stabilità e crescita e della necessità per lo Stato di continuare a svolgere un’azione di coordinamento per conseguire una politica fiscale efficace. Per queste ragioni, la legge finanziaria dovrebbe trasformarsi in legge di stabilità. 2. Nelle intenzioni espresse dal Governo, la legge di stabilità dovrebbe assolvere alle seguenti funzioni: o Fissare il tetto complessivo delle entrate e delle spese (non limitandosi a considerare soltanto i saldi, che hanno perso di significato in vista del 7 pareggio di bilancio e che non tengono conto del livello della spesa e delle entrate). o Stabilire il riparto di responsabilità relativo all’attuazione del Patto di stabilità tra lo Stato e gli altri enti. o Rivedere le procedure inerenti la presentazione degli emendamenti. o Rimodulare le modalità dell’informazione resa da parte del Governo al Parlamento. 3. La legge di stabilità sarebbe quindi uno strumento allo stesso tempo più agile e più completo dell’attuale legge finanziaria. 4. Dalle risoluzioni di maggioranza e minoranza approvate in sede di dibattito parlamentare emerge, sia pure con accenti diversi, la comune volontà di snellire la legge finanziaria, concentrandola soltanto sugli aspetti rilevanti della manovra di bilancio. Così come c’è concordia nel ritenere che gli emendamenti proposti dal Governo debbano passare attraverso il vaglio preventivo del Consiglio dei ministri. Una possibile convergenza può essere individuata anche nell’esigenza di perfezionare il monitoraggio dei conti della Pubblica Amministrazione, rispetto al quale sono stati fatti molti passi in avanti negli ultimi mesi, e di cercare un migliore raccordo tra le nozioni di competenza e di cassa (che eviti anche la tentazione di percorrere le strade pericolose della “finanza creativa”, contribuendo così ad una maggiore trasparenza del bilancio, obiettivo condiviso da tutti). Regole di bilancio e disciplina fiscale 1. Nell’ultima parte del Rapporto viene esaminato come diverse regole di bilancio producano un diverso effetto vincolante sulla propensione alla disciplina fiscale misurata dal rapporto deficit/PIL, dal rapporto debito/PIL o dal rapporto spesa pubblica/PIL. Sulla base di questa informazione si può realizzare una riforma delle procedure di bilancio specifica per l'obiettivo di disciplina fiscale che si vuole raggiungere. 2. Le stime dirette a misurare gli effetti delle diverse regole di bilancio sugli indicatori di finanza pubblica sopra indicati sono state effettuate identificando le diverse procedure di bilancio con riferimento a 5 stadi della formulazione della proposta di bilancio: 8 la formazione della proposta di bilancio all’interno dell’esecutivo la discussione, modifica e approvazione del bilancio nel parlamento il grado di trasparenza del documento di bilancio la flessibilità nell’attuazione della legge da parte degli organi amministrativi dello stato il grado di vincolo del documento di bilancio pluriennale Tabella 1: Europa e Resto del Mondo, Indicatori Macroeconomici (tassi di variazione % sull’anno precedente) 2000 2001 2002 2003 2004 2005 3.3 1.5 1.4 2.8 2.8 2.7 3.5 1.1 1.3 2.9 3.0 3.1 USA 4.1 1.2 2.2 3.3 3.1 3.2 Esportazi 12.9 0.4 3.3 8.3 6.5 6.5 28.3 25 24 25 25 25 0.9 -4.2 -1.6 1.5 2.5 2.0 0.92 0.89 0.89 0.90 0.90 0.90 PIL: Area Euro Area OECD oni mondiali PREZZI: Petrolio ($/barile) Materie prime ($) CAMBI (livelli): Euro/$ 9 Tabella 2 – Previsione di base Tassi di variazione % sull’anno precedente 2000 2001 2002 2003 2004 2005 PIL 2,9 1,8 1,4 2,9 2,2 1,4 Domanda aggregata* 4,0 1,8 1,2 2,1 1,7 1,4 Variazione delle scorte** -0,2 -0,1 0,1 0,3 0.7 0.6 Unità di lavoro 1,8 1,6 1,3 1,2 0,9 0,4 Stock di capitale 3,1 3,0 2,9 2,8 2,8 2,7 Produttività del lavoro 1,1 0,2 0,1 1,7 1,4 0,9 Spesa per consumi 2,7 1,1 1,2 1,9 1,9 1,7 Investimenti 6,5 2,4 2,0 3,0 3,5 3,0 Esportazioni 11,7 0,8 3,0 6,5 5,9 5,0 Importazioni 9,4 0,2 3,1 6,3 7,0 6,3 Costo del lavoro 3,1 3,0 2,5 2,8 3,1 2,9 Costo d’uso del capitale*** 0,6 1,0 -0,8 0,1 0,2 0,2 Prezzi al consumo 2,6 2,7 2,0 2,0 2,1 2,1 Deflatore del PIL 2,1 2,6 2,6 2,4 2,4 2,3 Mark-up -1,0 0,3 0,3 1,2 0,7 0,4 Saldo AP** -0,5 -1,4 -1,0 -0,4 0,4 0,2 Pressione fiscale -1,1 -0,1 -0,4 -0,7 -0,6 -0,6 * al netto della variazione delle scorte **livello in rapporto al PIL ***variazioni assolute in punti percentuali 10 11 PARTE PRIMA: LE PREVISIONI 12 1. Fattori macroeconomici e strutturali alla base della Previsione 1.1 Il ciclo economico Come sempre accade in questi casi, è il dissiparsi stesso delle cause del recente rallentamento del ciclo economico internazionale a dare slancio alle economie dei paesi più avanzati e a indirizzarne il cammino verso la ripresa. Negli Stati Uniti, dove aveva avuto origine questa flessione, i segnali di un’inversione dell’andamento negativo sono evidenti anche se non univoci. C’è ancora incertezza sulla rapidità e sull’omogeneità della ripresa in atto. Ancora una volta gli Stati Uniti guidano la svolta. In Europa il ritmo della ripresa appare più lento. Un anno fa le aspettative erano completamente diverse: i margini del prodigioso ciclo espansivo americano sembravano esauriti e l’Europa della moneta unica era giudicata pronta ad afferrare il testimone dell’ideale “staffetta” della crescita economica. Al contrario, nel 2001 l’economia mondiale è stata colpita da un brusco rallentamento che ne ha arrestato il ciclo espansivo. Il commercio mondiale che nel 2000 aveva sfiorato una crescita del 13 per cento, nel 2001 è stato stazionario (solo + 0,4% l’aumento in volume), mentre il prodotto interno lordo mondiale ha visto più che dimezzarsi rispetto al 2000 il tasso di crescita (2,0% contro 4,5%). 1.2 USA L’inversione del ciclo economico internazionale è stata innescata dagli Stati Uniti con il drastico ridimensionamento della crescita degli investimenti. L’esplosione della bolla speculativa legata alla valutazione dei titoli high-tech nei primi mesi del 2001 ha fornito il combustibile che ha alimentato la progressiva perdita di slancio dell’economia. L’attacco terroristico dell’11 settembre ha ulteriormente indebolito una fiducia già scossa dal crollo degli investimenti nelle tecnologie dell’informazione e comunicazione (ICT – information and communication technologies) e dall’offuscamento del mito della new economy. In realtà, come il Rapporto FREE dello scorso settembre aveva ipotizzato, gli effetti dell’11 settembre sono stati transitori e il potenziale di crescita dell’economia americana non sembra essere stato intaccato in modo permanente dallo shock negativo. L’economia americana ha reagito all’indebolimento dei fattori che ne avevano guidato la lunga fase espansiva – la più lunga dal dopoguerra - meglio e più rapidamente del previsto. Sono stati così smentiti i timori del partito dei pessimisti, lo stesso che oggi, di fronte agli eccezionali dati del primo trimestre 2002 (+ 5,8% la crescita congiunturale annualizzata del PIL, + 8,6% quella della produttività oraria), 13 rimane scettico ed evoca il rischio di una ricaduta nella recessione (double-dip recession ). La fiducia è invece tornata più rapidamente di quanto ci si aspettasse: la recessione del 2001 è stata la più breve e la più leggera della storia americana – in senso tecnico è stato solo un rallentamento e non una recessione vera e propria, visto che si è verificata una sola variazione congiunturale negativa (-1,3% nel III trimestre) e non le due richieste dalla definizione convenzionale, e nel complesso dell’anno la crescita è stata comunque positiva anche se modesta (+1,2%). 1.3 Il successo delle politiche anti-cicliche Non c’è dubbio che le politiche economiche hanno aiutato l’economia americana a reagire alla decelerazione del ciclo e agli eventi sfavorevoli. Non può sfuggire anche al più freddo dei “non-interventisti”, il ruolo giocato dal mix di politiche anticicliche: la tempestiva ed energica azione monetaria svolta dalla Fed e lo stimolo fiscale (quasi l’uno e mezzo per cento del PIL) voluto dal governo federale. L’esperienza americana fornisce un esempio pratico dell’uso che si può fare della politica fiscale anti-ciclica, quando la politica monetaria non ha più efficacia – in corrispondenza di bassi tassi nominali d’interesse e di eccessi sia di capacità produttiva sia d’indebitamento; ossia in condizioni d’inflazione bassa e stabile. L’esperienza americana può essere d’insegnamento per l’Europa? In Europa le condizioni di sfondo sono differenti: i tassi d’interesse nominale sono più alti e non esistono surplus di bilancio. Tuttavia, il perseguimento di un bilancio in pareggio dovrebbe essere un obiettivo di medio periodo e, quando le circostanze lo richiedono, si potrebbe rinforzare o non neutralizzare l’azione degli stabilizzatori automatici. Il Rapporto FREE ne discute più avanti nel capitolo dedicato alla politica fiscale, alle regole di bilancio e alla riforma della legge finanziaria. Sebbene l’apparente contraddittorietà delle informazioni congiunturali mantiene una certa incertezza sulle caratteristiche della ripresa economica Usa, e se l’eccezionale aumento congiunturale del PIL americano nel primo trimestre di quest’anno – un + 5,8% su base annua corrispondente allo 1,4% non annualizzato - appare difficilmente sostenibile, la ripresa ciclica è ormai acquisita. È probabile che l’esaurimento della spinta proveniente dalla spesa pubblica e dal ciclo di rifornimento delle scorte, e gli stessi timori di una debolezza del dollaro e di pressioni inflazionistiche con le connesse aspettative di possibili interventi restrittivi dell’autorità monetaria, sospingeranno l’economia su di un sentiero di crescita più regolare nella seconda metà dell’anno. In verità, gli aspetti negativi che pure sussistono in questo scenario, sono legati a fattori che si possono definire di credibilità del sistema: lo scalpore suscitato dagli scandali Enron e Arthur 14 Andersen e la crisi d’immagine delle banche d’investimento hanno messo in luce un punto debole delle istituzioni del capitalismo “popolare” americano, nel quale metà delle famiglie detiene azioni delle corporation della old e della new economy. Per il momento l’economia reale non ha subito i contraccolpi di queste défaillance. Lo stesso lieve peggioramento del tasso di disoccupazione in aprile (6,0% contro il 5,7 di marzo), deve essere visto come la conseguenza dello straordinario miglioramento della produttività. Come mostra la Figura 1, la crescita continua della produttività caratterizza tutti gli anni novanta. Ma è degno di nota il fatto che la produttività, solitamente una variabile relativamente pro-ciclica, anziché flettere nel 2001, quando l’economia statunitense ha registrato l’interruzione del lungo ciclo espansivo, sia cresciuta senza sosta. Dopo l’insignificante peggioramento del I trimestre (-0,1%), la produttività ha mostrato un profilo crescente nel corso del 2001, culminato in un incremento del 5,5% nell’ultimo trimestre al quale ha fatto seguito l’eccezionale balzo di quasi il 9% nel primo trimestre dell’anno in corso. L’andamento della produttività ha permesso di tenere sotto controllo le pressioni sui prezzi, contenendo la crescita dei costi unitari di produzione delle imprese. L’inflazione è scesa di sei decimi di punto (dal 3,4% del 2000 al 2,8 del 2001).È il segno che la new economy non è un fenomeno fittizio e che il meccanismo della crescita sostenuta non inflazionistica non è un miraggio. Fig.1: USA - Produttività oraria - variazioni congiunturali annualizzate 10 8 6 % 4 2 0 -2 -4 -6 1992II III IV93 III III IV94 III III IV95 II III IV96 II III IV 97 II III IV98 II III IV99 II III IV00 II III IV01 II III IV02 I I I I I I I I I 15 1.4 L’Europa Nell’area dell’euro la crescita del PIL nel 2001 è stata maggiore di quella degli USA (1,5% contro 1,2%), ma la decelerazione rispetto al 2000 (+3,3%) non meno brusca. Il meccanismo di propagazione è stato simile a quello degli Stati Uniti, in quanto gli stimoli recessivi sono stati trasmessi dalla flessione degli investimenti, anche se in Europa il contributo della componente estera è rimasto positivo. A differenza però di quanto è accaduto oltreoceano, il PIL non ha registrato recuperi congiunturali e il 2001 si è chiuso con un’ulteriore anche se contenuta riduzione del tasso di crescita. La ripresa in Europa appare più lenta e graduale. Né la politica monetaria né l’operare degli stabilizzatori automatici sembrano in grado di stimolare l’attività economica che rimane fiacca così come lo stato della fiducia della famiglie e dei loro consumi. 1.5 Il divario di produttività e il ritardo delle politiche II ritardo congiunturale accumulato dalle economie europee sarà parzialmente eliminato nei prossimi mesi, ma rimane preoccupante il divario strutturale con gli Stati Uniti in termini di produttività e potenziale di crescita. Per eliminare o almeno attenuare questo divario sono necessarie azioni politiche decise. I progressi raggiunti in alcune aree sono ancora largamente insufficienti: sia i mercati dei prodotti, sia quelli del lavoro, sia i mercati finanziari richiedono riforme per migliorarne l’integrazione e la competitività 1.6 L’Italia. Gli effetti del rallentamento internazionale non potevano non estendersi all’Italia, anche se sono stati relativamente più blandi rispetto alla media europea: nel 2001 il tasso di crescita del PIL (+1,8%) si è ridotto di oltre un punto rispetto al brillante risultato del 2000 (+2,9%), ma è rimasto superiore di tre decimi di punto a quello dell’area euro (+1,5%), dopo che per l’intero quinquennio 1996-2000 il divario di crescita era stato negativo. Tuttavia l’inversione del differenziale si realizza in una fase di decelerazione dell’attività economica e di difficoltà di alcune economie chiave come quella tedesca. L’arretramento dell’economia italiana nel 2001 è dovuto principalmente al rallentamento della domanda interna, ma anche la componente estera si è progressivamente indebolita pur proseguendo a fornire un contributo positivo. L’evoluzione congiunturale ha mostrato un progressivo deterioramento nel corso del 2001, culminato nella variazione negativa del quarto trimestre (-0,2%) che ha portato la variazione tendenziale del PIL al di sotto dell’un per cento (+0,6%). 16 Le ultime informazioni indicano che il “fondo della recessione” è stato ormai raggiunto e che l’economia ha ripreso slancio nei primi mesi di quest’anno: nel primo trimestre del 2002 il PIL è tornato a crescere in termini congiunturali (+0,2%). Tuttavia la ripresa è ancora modesta e il tasso tendenziale di crescita del PIL si è ulteriormente indebolito (+0,1%). Anche tenendo conto del calcolo a parità di giorni lavorativi (nel I trimestre del 2001 erano stati uno in più) la crescita tendenziale - circa 0,3% secondo l’ISTAT, anziché 0,1% - sarebbe la metà di quella raggiunta sul finire dell’anno passato. I dati del marzo 2002 sugli andamenti degli indici del fatturato e degli ordinativi (+1,8% e +2,0%, rispettivamente) confermano che il recupero congiunturale è di una grandezza insufficiente a determinare un miglioramento degli andamenti tendenziali - che registrano ancora variazioni negative rispetto ai corrispondenti periodi di un anno fa. Fig.2 - Produttività del lavoro - tassi di variazione % 9 8 USA* 7 Italia** 6 5 4 3 2 1 0 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 *produttività oraria, settore privato extragricolo; 2002: I trimestre. ** produttività per occupato, intera economia; 2002: previsioni FREE Il disegno dello stato psicologico delle famiglie, che si ricava da indicatori come il clima di fiducia dei consumatori elaborato dall’Isae, non contraddice l’interpretazione dei dati relativi al PIL, di cui si è appena detto. Nei mesi di marzo ed aprile 2002 il clima di opinione delle famiglie è stato riveduto al ribasso, dopo che in febbraio aveva toccato i livelli massimi degli ultimi anni, a conferma del perdurare di fattori di incertezza sulla solidità e soprattutto sull’intensità della 17 ripresa congiunturale. Gli altri indicatori ciclici disponibili, sia qualitativi (come il clima di fiducia delle imprese, in rialzo ad aprile) sia quantitativi (l’indice della produzione industriale e l’indicatore anticipatore Isae-Banca d’Italia) confermano il superamento della fase di decelerazione dell’attività economica. La ripresa guadagnerà d’intensità nei prossimi mesi, man mano che si rafforzerà la fiducia dei consumatori e delle imprese, riacquisterà dinamismo la domanda interna (ricostituzione delle scorte, spesa per consumi e per investimenti) e si faranno sentire attraverso il canale estero gli effetti della spinta dell’economia americana sul commercio internazionale. 1.7 Le debolezze strutturali Tuttavia, le opportunità di rilancio sono condizionate da alcuni elementi di debolezza strutturale che minano la competitività del nostro paese indipendentemente dal contesto macroeconomico. La Figura 2 mette in luce uno di questi fattori: il differenziale negativo di produttività che ha caratterizzato per tutti gli anni novanta, con l’eccezione del triennio 1993-95, l’evoluzione dell’economia italiana (e in genere l’area dell’euro) rispetto a quella statunitense. Il grafico segnala un sintomo ma non fornisce una spiegazione. Dal momento che non esiste una causa unica del basso dinamismo della produttività, la spiegazione del fenomeno non è semplice. Produttività del lavoro - 2001 Portogallo Grecia Svezia Spagna Regno Unito Germania Finlandia UE-15 Danimarca Italia Francia Austria Irlanda Belgio Olanda Lussemburg USA 0 20 40 18 60 80 100 120 Le specificità del sistema economico italiano cui attribuire un’eventuale responsabilità non mancano; è importante provare ad individuare le più probabili perché le abilità competitive dipendono in primo luogo dalla produttività. Le caratteristiche peculiari dell’apparato produttivo italiano, che lo differenziano sia dagli Stati Uniti sia dal resto dei paesi europei (come viene ribadito anche nel recente Rapporto annuale dell’ISTAT), suggeriscono una chiave interpretativa. L’Italia ospita un numero elevato di imprese attive, oltre 4 milioni - circa ¼ di tutte le imprese industriali e circa 1/5 di quelle dei servizi dell’Unione Europea. Tuttavia, una quota elevata di esse ha una dimensione piccola (da 1 a 9 addetti) o addirittura piccolissima (1-2 addetti). La produttività è correlata positivamente alla dimensione: le imprese con meno di 10 addetti ottengono livelli di produttività del lavoro che sono pari a meno della metà (il 44,3%) di quelli delle imprese di dimensioni grandi (con almeno 250 addetti). I guadagni di produttività derivanti dall’ampliamento della scala sarebbero d’entità tale da più che compensare l’incremento dei costi del lavoro, con conseguenti effetti benefici sulla profittabilità. Tuttavia, le implicazioni delle caratteristiche della struttura microeconomica non sono univoche –la dimensione aziendale non è rilevante dove operano le economie di rete – e non è detto che abbiano a che fare con il fenomeno macroeconomico della crescita lenta Secondo il rapporto sulla competitività in Europa a cura della Commissione Europea, la produttività del lavoro dell’Italia era nel 2001 superiore alla media dei paesi della Unione Europea, come si può vedere dall’istogramma. È confermato anche da questa evidenza empirica che, in ogni caso, la performance dei paesi dell’UE è inferiore a quella degli Stati Uniti (con l’eccezione del Lussemburgo). I precedenti rapporti FREE hanno posto l’accento su di un approccio interpretativo diverso, non necessariamente incompatibile con quello appena delineato, nel tentativo di spiegare il divario di produttività. Nel breve periodo i fattori macroeconomici, ed in particolare le oscillazioni del ciclo economico, tendono ad avere un impatto comune nelle economie che hanno caratteristiche simili, come ad esempio i paesi OECD. Tuttavia, nell’aggiustamento di medio periodo, quando in assenza di shock la crescita si riporta sul sentiero determinato dal prodotto potenziale, giocano un ruolo decisivo le specifiche istituzioni e regole del gioco di un paese – come ad esempio quelle che modellano il grado di competitività e di flessibilità dei mercati dei prodotti, dei mercati finanziari e del mercato del lavoro. L’interazione tra i fattori 19 macroeconomici e i fattori istituzionali influenza non solo la velocità dell’aggiustamento ma anche i costi (in termini di divario tra il prodotto effettivo e quello potenziale) e altera lo stesso prodotto potenziale. 1.8 Le prospettive dell’economia italiana nel periodo 2002-2005. Anche se la performance congiunturale delineata non appare particolarmente brillante, non è l’evoluzione ciclica dell’economia italiana a destare preoccupazione. Il ritmo della ripresa acquisterà vigore e solidità sempre più velocemente nel corso del 2002, collocando il tasso di crescita tendenziale vicino al tre per cento nell’ultimo trimestre. Secondo le previsioni FREE, la crescita media dell’economia italiana nel 2003 tornerà ai livelli del 2000 (+2,8% circa), ossia al risultato raggiunto prima del rallentamento del biennio 2001-2002. Tuttavia, come abbiamo spiegato nei precedenti rapporti, l’evoluzione di medio periodo dell’economia italiana è in linea più con lo standard di crescita bassa del biennio 2001-2002 e di tutti gli anni novanta che con le impennate del 2000 e del 2003 (se la nostra previsione sarà confermata). Infatti, come mostra la Fig.3 e la Tabella 1, nel biennio successivo il ritmo di crescita decelererà tornando nel 2005 al di sotto del potenziale (+1,3%). L’arretramento del tasso di crescita al di sotto del potenziale è anche la conseguenza del ridimensionamento della domanda aggregata che scaturisce dalle ipotesi condizionali della nostra previsione di base e di cui si dirà più avanti. In queste condizioni, il pareggio di bilancio sarà raggiunto solo nel 2004 in un contesto di sostanziale controllo dell’inflazione. PIL Domanda aggregata* Tabella 1 – Previsione di base-Sintesi Tassi annuali di variazione percentuale 2000 20001 2002 2003 2,9 1,8 1,4 2,9 4,0 1,8 1,2 2,1 2004 2,2 1,7 2005 1,4 1,4 Prezzi al consumo 2,6 2,7 2,0 2,0 2,1 2,1 Saldo AP** -0,5 -1,4 -1,0 -0,4 0,4 0,2 * al netto della variazione delle scorte ** in rapporto al PIL Tuttavia, è lo stesso tasso di crescita del prodotto potenziale ad essere insoddisfacente. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che, a causa dei ritardi strutturali dell’economia italiana, ogni evoluzione negativa del ciclo economico, che interessa tutti i paesi, tende a lasciare effetti 20 permanenti nel nostro, riducendone il potenziale di crescita, mentre ha effetti transitori sulle economie delle istituzioni più flessibili. Le simulazioni compiute con il modello econometrico Nemo e riportate nei precedenti rapporti hanno confermato quest’interpretazione. Gli effetti quantitativi delle modifiche strutturali sono ampi e duraturi; soprattutto quando gli interventi ipotizzati rendono più dinamiche e favorevoli allo sviluppo della produttività le istituzioni dalle quali dipende l’aggiustamento di medio periodo (e quindi la crescita di lungo periodo) rispetto alle inevitabili e spesso imprevedibili oscillazioni cicliche di breve periodo. Fig. 3 - PIL e domanda aggregata. T assi annuali di variazione .05 .04 x100 .03 .02 .01 previsioni .00 -.01 92 93 94 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04 05 PIL Domanda aggregata al netto delle scorte Gli shock strutturali simulati in precedenti rapporti da FREE hanno riguardato vari aspetti: il cambiamento delle regole del mercato del lavoro in modo da ridurne il grado di corporativismo e di centralizzazione, l’attenuazione permanente della pressione fiscale, il rinnovamento del capitale pubblico di infrastrutture di base, il miglioramento del capitale umano e degli incentivi agli investimenti ICT, la liberalizzazione dei mercati delle utilities. I risultati ottenuti indicano che questi interventi riescono ad aumentare in modo significativo la produttività totale dei fattori, e a spingere l’economia su di un sentiero di crescita stabilmente più elevato e non inflazionistico. 21 Tabella 3: Europa e Resto del Mondo, Indicatori Macroeconomici (tassi di variazione % sull’anno precedente) 2000 2001 2002 2003 2004 2005 PIL: Area Euro 3.3 1.5 1.4 2.8 2.8 2.7 Area OECD 3.5 1.1 1.3 2.9 3.0 3.1 USA 4.1 1.2 2.2 3.3 3.1 3.2 Esportazioni 12.9 0.4 3.3 8.3 6.5 6.5 mondiali PREZZI: Petrolio ($/barile) 28.3 25 24 25 25 25 Materie prime ($) 0.9 -4.2 -1.6 1.5 2.5 2.0 CAMBI (livelli): Euro/$ 0.92 0.89 0.89 0.90 0.90 0.90 Secondo la nostra previsione di base, la causa predominate della dinamica del PIL nel prossimo quadriennio dal lato dell’offerta sarà la crescita dell’occupazione – nel nostro modello il volume della produzione è funzione delle unità di lavoro; l’accumulazione di capitale manterrà comunque un apporto positivo. La domanda aggregata influenzerà questa dinamica soprattutto nel 2003, attraverso il contributo della componente interna, ed in particolare del processo di ricostituzione delle scorte. Le esportazioni nette non daranno un contributo positivo, con la parentesi del 2003. L’esaurirsi del dinamismo dell’occupazione causerà il rallentamento del ritmo di crescita nel biennio 2004-2005. Nell’anno in corso l’economia italiana si svilupperà in linea con la media dei paesi dell’area euro: il tasso di crescita sarà compreso tra l’1,2 e l’1,4 per cento (Tabella 4). Il limite inferiore è rappresentato dalla dinamica della domanda aggregata al netto delle scorte, che risente pienamente degli effetti dell’involuzione del ciclo economico; il limite superiore è associato alla crescita del PIL, che nel modello NEMO è determinato dal lato dell’offerta, ossia dipende dalla quantità degli input (lavoro, capitale fisico, capitale umano) e dal livello della tecnologia, e quindi è meno soggetto agli effetti di breve periodo delle fluttuazioni. La discrepanza tra il PIL e la domanda aggregata è “eliminata” attraverso il meccanismo-cuscinetto delle scorte. Come si può notare osservando la Tabella 4, nella previsione per il 2002 il contributo dell’accumulazione di scorte torna ad essere positivo, dopo un biennio di smaltimento della capacità produttiva in eccesso. Il processo di ricostituzione delle scorte verso i livelli desiderati non si completa 22 rapidamente e, come implica la crescita del PIL più accelerata rispetto a quella della domanda aggregata, caratterizzerà l’aggiustamento dell’economia per tutto il periodo della previsione. Tabella 4 – Previsione di base Tassi di variazione % sull’anno precedente 2000 2001 2002 2003 PIL 2,9 1,8 1,4 2,9 Domanda aggregata* 4,0 1,8 1,2 2,1 2004 2,2 1,7 2005 1,4 1,4 Variazione delle scorte** -0,2 -0,1 0,1 0,3 0.7 0.6 Unità di lavoro Stock di capitale 1,8 3,1 1,6 3,0 1,3 2,9 1,2 2,8 0,9 2,8 0,4 2,7 Produttività del lavoro 1,1 0,2 0,1 1,7 1,4 0,9 Spesa per consumi Investimenti Esportazioni Importazioni 2,7 6,5 11,7 9,4 1,1 2,4 0,8 0,2 1,2 2,0 3,0 3,1 1,9 3,0 6,5 6,3 1,9 3,5 5,9 7,0 1,7 3,0 5,0 6,3 Costo del lavoro Costo d’uso del capitale*** Prezzi al consumo Deflatore del PIL Mark-up 3,1 0,6 2,6 2,1 -1,0 3,0 1,0 2,7 2,6 0,3 2,5 -0,8 2,0 2,6 0,3 2,8 0,1 2,0 2,4 1,2 3,1 0,2 2,1 2,4 0,7 2,9 0,2 2,1 2,3 0,4 Saldo AP** Pressione fiscale -0,5 -1,1 -1,4 -0,1 -1,0 -0,4 -0,4 -0,7 0,4 -0,6 0,2 -0,6 * al netto della variazione delle scorte **livello in rapporto al PIL ***variazioni assolute in punti percentuali Gli andamenti suddetti si realizzeranno in un contesto d’inflazione stabile e di graduale miglioramento dei conti pubblici. Secondo le nostre simulazioni, l’obiettivo del pareggio di bilancio sarebbe raggiunto non prima del 2004. La gradualità di tale evoluzione - il disavanzo delle Amministrazioni Pubbliche è pari all’1 per cento del PIL nel 2002 e allo 0,4% nel 2003 - deve essere valutata non solo in relazione al previsto comportamento meno virtuoso di altri paesi dell’UE, ma anche alla luce delle correzioni degli stabilizzatori automatici provocate dall’andamento ciclico. I nostri risultati, 23 d’altra parte, non contraddicono le analisi di sensitività del Ministero del Tesoro, secondo le quali una crescita inferiore all’obiettivo programmatico (1,5 contro 2,3%) comporterebbe nel 2002 un rapporto indebitamento/ PIL pari allo 0,9%. Nel 2002 il tasso di variazione dei prezzi al consumo scenderà al 2,0% e rimarrà sostanzialmente bloccato a questo livello negli anni successivi. Si noti che, invece, l’inflazione “interna” misurata dalle variazioni del deflatore del prodotto interno, pur essendo più elevata, esibisce un profilo lievemente declinante. Nel periodo di previsione, il mark-up medio dell’economia (misurato dal rapporto tra il prezzo del valore aggiunto ai prezzi base e il costo medio di produzione), che storicamente ha mostrato un andamento moderatamente anticiclico, mima le oscillazioni del prodotto. La modifica nel movimento durante il ciclo del mark-up potrebbe riflettere il ripiegamento delle imprese su strategie di breve periodo. Quando la percezione dell’evoluzione macroeconomica non autorizza comportamenti più lungimiranti, le imprese sono tentate di sfruttare i guadagni di produttività per aumentare i profitti. É interessante notare che la riduzione nel 2002 del costo d’uso del capitale (su cui influiscono gli incentivi fiscali), e la successiva evoluzione moderata, non sembrano sufficienti a dare particolare vivacità alla spesa per investimenti. Sembrerebbe confermata la regola secondo la quale gli investimenti sono più sensibili ai profitti, alle aspettative e alle deviazioni della capacità produttiva dai livelli desiderati piuttosto che a tagli permanenti delle imposte sulle società. Gli investimenti fissi lordi mostrano, in ogni caso, una dinamica stabilmente positiva nel triennio 2003-05, dopo il rallentamento di quest’anno. Lo scenario che emerge dalla previsione di base deve far riflettere. Sebbene il prodotto procapite registri incrementi positivi anche di fronte alla tenuta dell’occupazione, in assenza di cambiamenti strutturali o innovazioni istituzionali e di modifiche della legislazione vigente, la dinamica del PIL è insoddisfacente e per di più declinante: nell’ultimo anno della previsione l’economia italiana è ricondotta al di sotto della crescita potenziale. Dopo il picco del 2003 (+ 2,9%), il tasso di variazione annuale del PIL si riduce velocemente scendendo nel 2005 all’1,4 per cento (Figura 3). Il rallentamento della domanda aggregata al netto delle scorte è meno marcato, e nel 2005 il relativo tasso di crescita converge a quello del prodotto. In sostanza, i risultati della previsione di base indicano che, in assenza di shock positivi, un’attenuazione del dinamismo della componente estera è sufficiente a spingere l’economia italiana su ritmi di crescita modesti. 24 I risultati della previsione di base forniscono un nuovo tassello alla spiegazione del “caso italiano” delineata nelle pagine precedenti. La crescita effettiva non solo tende ad abbassarsi al di sotto del trend di lungo periodo, ma è lo stesso ritmo del prodotto potenziale che si contrae. La Figura 4 mostra che il trend di lungo periodo (misurato dagli incrementi annui del PIL potenziale) si avvia su di un percorso declinante nella seconda metà degli anni ottanta 1. La successiva stabilizzazione al di sotto del 2% del ritmo della crescita potenziale, determinata dall’evoluzione irregolare ma in media anemica degli anni ‘90, rischia di protrarsi e persino di peggiorare nei primi anni del nuovo millennio. Figura 4. Crescita effettiva e potenziale tassi di variazione annuale .04 previsioni .03 x100 .02 .01 .00 -.01 86 88 90 92 94 PIL effettivo 96 98 00 02 04 PIL potenziale In conclusione, l’economia italiana ha bisogno di cambiamenti strutturali che la mettano in condizione di sopportare meglio le conseguenze di shock negativi e di sfruttare più a fondo le opportunità favorevoli, in modo da mantenere più elevato e stabile il suo ritmo di crescita. Nei ’70 il potenziale cresceva ad un tasso superiore al 3%, negli ’80 ad un tasso superiore al 2%. Negli anni novanti il tasso di crescita scende all’1,7%. 1 25 Approfondimento 1: Sensibilità del rapporto disavanzo/PIL alla crescita economica Le differenze tra le previsioni dei principali centri di ricerca, sia interni che internazionali , e gli obbiettivi del Governo variano tra 0,8 ed 1 punto di PIL, per quanto riguarda la crescita, e tra 0,5 e o,8 punti di PIL, per quanto riguarda l’indebitamento della P.A. Tra le due indicazioni esiste una differenza che non è solo terminologica. Le previsioni riguardano l’evoluzione più probabile delle variabili in oggetto dato l’andamento dell’economia mondiale e la “legislazione vigente”. Le indicazioni programmatiche vogliono invece incidere sulle aspettative degli operatori, nel tentativo di orientarle al meglio. Il Programma di stabilità ha tuttavia elaborato delle analisi di sensitività per misurare quali saranno le conseguenze finanziare di un eventuale divario tra il tasso di crescita del Pil previsto dal governo e quello effettivo. Sono stati effettuati in particolare due esercizi sulla sensibilità del rapporto indebitamento netto/PIL alle diverse ipotesi di crescita economica. Per entrambi gli esercizi l’impatto della crescita economica sull’avanzo primario in rapporto al PIL è calcolato utilizzando la stima dell’elasticità del saldo di bilancio alla crescita fornita dalla Commissione Europea (Public Finances in EMU 2000). Si ipotizza inoltre che il costo medio del debito non dipenda dal tasso di crescita del PIL reale. Il primo esercizio illustra l’effetto di diverse ipotesi di crescita nel periodo 2003-2005 sul rapporto disavanzo/PIL. L’esercizio ipotizza una crescita del PIL minore o maggiore di mezzo punto percentuale in ciascun anno del periodo 2003-2005 rispetto alle previsioni presentate nelle sezioni precedenti, con effetti cumulati quindi sul livello del PIL e di riflesso su quello delle entrate tributarie. Come illustrato nella Tavola , nel 2005 la minore crescita si riflette in un maggior disavanzo che si attesta allo 0,5 per cento del PIL, a fronte di un leggero avanzo previsto dallo scenario di base. La sensibilità del disavanzo in rapporto al PIL è la stessa ottenuta nel precedente aggiornamento. Ciò significa che l’attuale sentiero di riduzione del debito pubblico e il livello dell’avanzo primario sono tali da non alterare la sensibilità del disavanzo in rapporto al PIL alle diverse ipotesi di crescita garantendo così la prosecuzione del processo di aggiustamento della finanza pubblica. Il secondo esercizio, circoscritto al 2002, prevede un peggioramento del tasso di crescita in tale anno di 1,1 punti percentuali2. La minore crescita economica si tradurrebbe in un disavanzo di circa un punto percentuale nel 2002. Di conseguenza, anche uno scenario di forte rallentamento per il 2002 non comprometterebbe la 2 Tale scenario corrisponde a quello più pessimistico attualmente previsto dalle organizzazioni internazionali. 26 riduzione del saldo di bilancio, in rapporto al PIL, in termini sia strutturali sia effettivi.” Sensibilità del rapporto saldo di bilancio/PIL alla crescita del PIL (valori percentuali) Tasso medio di crescita del Indebitamento netto/PIL PIL periodo 2003-2005 2005 Ipotesi di base 3,0 0,2 Ipotesi di minore crescita 2,5 -0,5 Ipotesi di maggiore crescita 3,5 0,9 Nel programma di stabilità si fa riferimento all'output gap ed alla componente ciclica del saldo di bilancio. Quest'ultima è considerata al lordo delle misure una tantum, cioè delle operazioni di cartolarizzazione, nonché tutte quelle di carattere straordinario che non sono ripetibili: le one-off measures, nella terminologia dell'OCSE. Se si tenesse conto di questa seconda componente il deficit strutturale risulterebbe più elevato: di un valore che oscilla tra 0,5 ed 1 punto di PIL. Come risulta dall'evidenza statistica, operando una regressione fino al 1998, data di nascita dell'UME. Un secondo esercizio di sensitività ha riguardato la dinamica del tasso di interesse. A settembre 2001, la struttura del debito era caratterizzata da una quota di titoli a tasso fisso pari a circa il 70 per cento del totale e da una vita media pari a circa 5,8 anni. Di conseguenza, nell’ipotesi di una variazione di un punto percentuale di tutta la curva dei rendimenti rispetto allo scenario centrale a partire da gennaio 2002, l’impatto sulla spesa per interessi in rapporto al PIL sarebbe pari allo 0,18 per cento nello stesso anno, allo 0,38 per cento nel 2003, allo 0,49 per cento nel 2004 ed allo 0,54 per cento nel 20053.” Questa seconda analisi è particolarmente importante alla luce di quanto si è verificato nel corso del 2001. Nel corso dell'esercizio, secondo quanto scrive la Relazione generale sulla situazione del paese, il rapporto debito PIL è stato pari al 109,4 per cento, contro il 110,6 per cento dell'anno precedente. Con una differenza pari a 1,2 punti percentuali. Decisamente al di sotto di quel 3 per cento che costituisce il fondamento degli accordi sottoscritti in sede europea. Fenomeno dovuto “alla modesta crescita del PIL - com'è scritto nel documento - e all'accentuazione della stagionalità del fabbisogno che ha reso necessario un elevato livello di emissioni fino ai primi giorni di dicembre”. Spiegazione opportuna, ma solo in parte convincente. Più che di stagionalità del fabbisogno si dovrebbe infatti parlare della sua crescita abnorme –1 punto di PIL, nel 2001 ed addirittura 2 nel E’ opportuno sottolineare che il presente esercizio ha come oggetto di analisi la spesa per interessi al lordo delle ritenute d’imposta. In particolare, non si considerano gli effetti della variazione dei tassi né sull’attività economica né sulle entrate tributarie relative ai redditi da capitale (imposte sui rendimenti dei titoli a reddito fisso e sui depositi bancari 3 27 2002 rispetto all’indebitamento della P.A. - in corso d'anno. Fenomeno che si è accentuato nei primi mesi del 2002. E' pertanto prevedibile, per l'anno in corso, un aumento della spesa per interessi dovuto all'aumento del fabbisogno, cui si potrebbe aggiungere l’effetto di un possibile aumento dei tassi di interesse con l'avvio della ripresa. Il fenomeno non è allarmante, ma va tenuto sotto controllo. che sono positivamente correlate con il rialzo dei tassi di interesse). Pertanto dai risultati presentati non è possibile desumere automaticamente la sensibilità del complessivo saldo di bilancio alla variazione dei tassi di interesse. 28 PARTE SECONDA: L’EVOLUZIONE CONGIUNTURALE 29 1. La Congiuntura Internazionale Le più recenti informazioni congiunturali attestano un significativo miglioramento ciclico dell’economia internazionale e un diffuso, sebbene cauto, ottimismo sulle prospettive a breve. I preoccupati giudizi sollevati da parte di molti analisti, e imprese al sincronico rallentamento delle principali economie sviluppate, aggravati dai timori e dall'incertezza di una degenerazione degli equilibri politici internazionali dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre, si sono capovolti nel volgere di pochi mesi. In questo mutato quadro internazionale, l'elemento di maggiore conforto è costituito dal ritrovato dinamismo degli scambi commerciali, sul quale i principali paesi industrializzati, con l’unica eccezione degli Stati Uniti, ripongono le ambizioni di crescita di breve periodo. Il commercio internazionale rappresenta ancora il meccanismo di trasmissione di diffusione più rapida della ripresa economica nelle economie avanzate, a conferma del ruolo ancora predominante che gli Stati Uniti rivestono nell'influenzare il ciclo internazionale. La crescita americana del primo trimestre dell'anno in corso e, forse ancor di più, l'inattesa performance nel quarto trimestre dello scorso anno hanno dimostrato l'efficacia e il rapido effetto delle politiche anti-cicliche con un'intensità cui non si era più abituati da tempo. Nonostante l’infittirsi dei segnali positivi non va sottaciuta l’incertezza sui tempi e sull’intensità della ripresa economica negli Stati Uniti e di conseguenza in Europa e Giappone. Come sottolineato da molti osservatori l’accelerazione dei progressi nell'attività produttiva, e in particolare il recupero in termini di occupazione e investimenti, i veri motori della crescita nel lungo periodo, potrebbero avvenire con un certo ritardo temporale o non essere sincronizzata tra le principali aree economiche. Elementi di fragilità di carattere strutturale specifiche di alcune economie potrebbero frapporsi nel breve periodo posticipando il pieno dispiegarsi della ripresa. Come già rilevato in altre occasioni appare evidente l'incapacità dei paesi appartenenti all'area dell'euro di promuovere una crescita autonoma, basata su una forte domanda interna, in grado di rappresentare sotto il profilo economico l'obiettivo di lungo periodo di un'area valutaria comune. Il miglioramento del quadro congiunturale per i paesi europei ha così assunto fino a 30 oggi toni molto meno marcati caricando di maggiori incertezze le previsioni di crescita nel breve periodo. In Giappone, nonostante un recupero delle esportazioni, la situazione appare ancora fragile e condizionata pesantemente dalle difficili condizioni strutturali in cui versano tanto il settore delle imprese manifatturiere quanto il sistema finanziario e il bilancio statale. Per quanto riguarda le economie emergenti, i paesi asiatici, per quanto danneggiati dal forte rallentamento degli USA durante lo scorso anno, hanno registrato, grazie al volano degli scambi commerciali, una sostanziale stabilizzazione del ciclo economico già nel quarto trimestre 2001. A questo proposito il miglioramento, in particolare, delle condizioni del settore tecnologico ha svolto un ruolo cruciale. Segnali positivi si avvertono anche in America Latina sebbene persistano situazioni difficili sotto il profilo politico e finanziario in Argentina e Venezuela, la cui soluzione di certo non appartiene a uno scenario di carattere congiunturale. Il mancato verificarsi di significativi effetti di contagio fortemente temuti, come nel caso dell'Argentina, ha rappresentato un positivo risultato innanzi tutto per il sistema finanziario internazionale. 1.1 Stati Uniti Negli Stati Uniti, dopo la caduta del PIL nel terzo trimestre del 2001 (0,3% rispetto al trimestre precedente) l’attività produttiva ha registrato, contrariamente alle attese degli analisti, una variazione positiva nel quarto trimestre, cui è seguita una crescita ancor più intensa nel primo trimestre del 2002. L’incremento di 1,4% del PIL è attribuibile per intero alla dinamica della domanda interna (con un contributo al netto delle scorte pari allo 0,9%) trainata principalmente dai consumi delle famiglie (0,8% la variazione congiunturale) e dalla spesa pubblica in consumi e investimenti. La componente più dinamica dei consumi è stata quella dei beni durevoli, automobili in testa, conseguita in virtù degli incentivi finanziari introdotti a ottobre e di un elevato ricorso all’indebitamento delle famiglie. Proprio questa caratteristica rappresenta un elemento di fragilità per le prospettive a breve dell’economia americana lasciando intravedere qualche rischio circa la tenuta di ritmi così intensi dei consumi nel corso del 2002. Dalle informazioni congiunturali più recenti, emerge una situazione di crescita sostenuta dei consumi anche nel secondo trimestre dell'anno: l'indice delle vendite al dettaglio rivela incrementi significativi delle vendite anche nei comparti dei beni non durevoli. Fino a questo momento la caduta dei prezzi dei prodotti 31 energetici e il conseguente aumento del reddito disponibile hanno più che bilanciato il deterioramento del mercato del lavoro sulle decisioni di spesa delle famiglie. La spesa pubblica, per la tempestività con cui è stata utilizzata dall’Amministrazione dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre scorso, costituisce l’altro fattore cui ricondurre il miglioramento del tono congiunturale. Alle decisioni di spesa bisogna, però, aggiungere le misure d'espansione del reddito disponibile definite nel maggio 2001, durante la campagna elettorale. Nelle settimane scorse, ad esempio, è stato approvato un consistente pacchetto di misure fiscali a sostegno dell'agricoltura che dimostra come siano tuttora in pieno svolgimento le misure previste dall'Economic Growth and Tax Relief Reconciliation Act. Secondo quanto si deduce da queste informazioni lo stimolo fiscale dovrebbe produrre effetti consistenti fino al termine del terzo trimestre. Il valore totale dei provvedimenti di spesa e di riduzione delle entrate fiscali si aggira attorno a una cifra che rappresenta il 2% circa del PIL. S T A T I UN IT I C O N T R IB UT I A LLE V A R IA Z IO N I C O N G IUN T UR A LI D A T I D E S T A G IO N A LIZ Z A T I A P R E Z Z I C O S T A N T I 3.0% 2.5% 2.0% 1.5% 1.0% 0.5% 0.0% -0.5% -1.0% -1.5% -2.0% Q1 2002 Q4 2001 Q3 2001 Q2 2001 Q1 2001 Q4 2000 Q3 2000 Q2 2000 Q1 2000 Q4 1999 Q3 1999 Q2 1999 Q1 1999 INVESTIMENTI FISSI LORDI PRIVATI VARIAZIONE DELLE SCORTE E RESIDUO ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI CONSUMI FINALI DELLE FAMIGLIE CONSUMI E INVESTIMENTI PUBBLICI PIL 32 Un contributo positivo alla crescita è stato offerto anche dalla variazione positiva delle scorte (il contributo è stato dello 0,9%), dopo la pronta correzione avvenuta nel corso del 2001 quando si erano manifestati i primi segnali di rallentamento. La cautela sulla situazione economica americana mostrata nelle dichiarazioni ufficiali di molti rappresentanti della FED evidenzia come, sebbene la ripresa sia ormai avviata, permangano rischi legati alla stagnazione degli investimenti e all’elevato grado di indebitamento delle imprese. Una concausa del mancato riavvio del processo di accumulazione del capitale è individuabile anche nella manovra di stimolo fiscale. L’elemento del pacchetto fiscale approvato a marzo più interessante per le imprese era rappresentato dalla deduzione fino al 30% del costo complessivo dell'investimento nel primo anno e dall’accelerazione dell’ammortamento nei tre anni successivi all’11 settembre 2001. La percezione, largamente condivisa tra gli analisti, è che le imprese aspettino il netto miglioramento degli utili aziendale per usufruire delle agevolazioni. Inoltre, un recupero della domanda di investimenti è previsto non prima della fine dell’anno in corso a causa dei ridotti livelli attuali della capacità produttiva utilizzata, comuni alla quasi totalità dei settori produttivi, e dei tempi lunghi di validità degli incentivi fiscali (tre anni appunto). La stagnazione degli investimenti è confermata dalla sostanziale stabilità della domanda di prestiti bancari. Poiché, infine, gli investimenti negli Stati Uniti dipendono anche molto dall’andamento quotazioni di borsa, l’evoluzione congiunturale di questa componente della domanda aggregata sarà funzione anche di come si risolverà il dibattito aperto su caso Enron dopo il fallimento della terza più grande società nel settore energetico, che può avere risvolti anche sulle regole di funzionamento del mercato finanziario. La debolezza degli investimenti e la necessità di registrare presto miglioramenti della profittabilità delle imprese sono alla base di un orientamento della politica monetaria rivolto per quest’anno alla stabilità dei tassi di interesse. Le tensioni registrate tra marzo e aprile sulla struttura a termine dei tassi di interesse, in particolare sui rendimenti delle attività con scadenze più inoltrate, sembrano essere rientrate anche in virtù di una dinamica inflazionistica sostanzialmente sotto controllo. L’indice dei prezzi al consumo di aprile è atteso in lieve riduzione: dovrebbe raggiungere l’1,4% su base tendenziale. La tendenza di medio periodo 33 definita dalla cosiddetta “core inflation”, l’indice depurato delle componenti più volatili (alimentari ed energia), è invece dato in lieve risalita fino alla fine dell’anno. 1.2 Giappone Fra i maggiori paesi industrializzati, il Giappone ha maggiormente risentito del rallentamento del quadro internazionale nel corso del 2001. Il PIL ha registrato tre contrazioni congiunturali consecutive, a sintesi di una flessione tanto della domanda interna, quanto delle esportazioni nette. La domanda interna è stata caratterizzata da una debole dinamica dei consumi, negativi nei trimestri centrali a causa di una perdurante deflazione che induce le famiglie a procrastinare continuamente i propri piani di spesa, e un crollo degli investimenti. Il forte regresso nel processo di accumulazione è stato causato dal deterioramento del conto economico di molte imprese e dal sostenuto aumento dei fallimenti aziendali. La situazione finanziaria di molte imprese già molto indebitate nei confronti del sistema bancario a causa della tendenza discendente dei prezzi si è aggravata producendo effetti anche sul mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione, nonostante la contrazione dell'offerta di lavoro è salito ormai stabilmente al di sopra del 5 per cento. Il rallentamento dell'economia americana e della dinamica degli scambi commerciali nel 2001 hanno prodotto riflessi negativi sulle esportazioni del paese, il cui tasso di variazione congiunturale è risultato negativo in tutti i trimestri del 2001 e di entità superiore alla contrazione delle importazioni. In questo quadro poco incoraggiante, gli spazi per effettuare azioni di politica economica appaiono molto ridotte: la politica monetaria appare completamente inefficace nonostante l'azzeramento del tasso di interesse nominale, mentre la politica fiscale rimane gravata da un rapporto debito PIL e da un disavanzo di bilancio corrente entrambi molto elevati. Nonostante un recupero delle esportazioni dovuto al deprezzamento dello yen nei primi mesi dell'anno in corso le prospettive per il 2002 restano ancora negativamente impostate. 1.3 Area dell’euro Nell’area dell’euro, la fase discendente del ciclo economico, avviatasi dal secondo trimestre del 2000, sembra aver toccato il suo punto di minimo nel quarto trimestre del 2001. Ai maggiori stimoli provenienti dal quadro internazionale si contrappone una debole dinamica della 34 domanda interna che ha determinato la flessione sperimentata dal PIL europeo alla fine dello scorso anno Le indicazioni favorevoli provenienti dai principali indicatori anticipatori fanno ritenere probabile un lento rafforzamento dell’attività economica con l’inoltrarsi dell’anno in corso. Resta al momento centrale per il consolidamento della ripresa economica il contributo delle esportazioni perché può rappresentare un decisivo stimolo alla crescita della domanda di investimenti privati. L’aumento dei consumi appare ancora frenato, all’inizio del 2002, dal riacutizzarsi delle tensioni inflazionistiche derivante dai rincari del prezzo del petrolio e delle altre materie prime. I dati di contabilità nazionale a tutt’oggi disponibili hanno reso evidente la recessione dell’economia tedesca, che, dopo una crescita nulla nel secondo trimestre del 2001, ha accusato nel terzo e nel quarto trimestre due flessioni consecutive del PIL rispettivamente dello 0,2% e dello 0,3%. La frenata dell’economia, nell’ultimo trimestre dello scorso anno, è stata determinata dal contributo congiunturale negativo fornito tanto dalla domanda interna che dalla domanda estera, compensato solo parzialmente dall’apporto della variazione delle scorte. Nell’ambito della domanda interna, alla flessione congiunturale dei consumi privati si è accompagnato un nuovo calo degli investimenti fissi lordi, il quinto consecutivo, particolarmente allarmante per le possibili ripercussioni sul potenziale di crescita nel medio termine. La crescita dell’economia tedesca nel 2001 è risultata pari allo 0,7 per cento. Relativamente meno grave è apparsa la performance dell’economia francese che, per la prima volta dalla fine del 1996, ha accusato nel quarto trimestre una flessione congiunturale del prodotto interno lordo dello 0,1%, ma che ha comunque conseguito in media d’anno una crescita del 2%. Grazie alla tenuta dei consumi delle famiglie, che hanno segnato nel quarto trimestre un incremento dello 0,2%, la domanda interna ha continuato a fornire un contributo congiunturale positivo al PIL, a fronte di un contributo negativo proveniente dalla variazione delle scorte. Per quanto concerne l’interscambio con l’estero, entrambi i flussi hanno registrato una contrazione, più ampia nel caso delle importazioni (-4,7%) rispetto a quella delle esportazioni (-3,8%). L’apporto della domanda estera netta è pertanto risultato positivo. L’economia spagnola ha registrato nel quarto trimestre 2001 un incremento congiunturale del PIL dello 0,2%, dopo lo 0,9% del terzo trimestre. A fronte di un contributo negativo fornito dalla domanda estera netta (-0,4 punti percentuali) e dalla variazione delle scorte (-0,1%), la 35 domanda interna ha continuato a sostenere la crescita del PIL, con un apporto positivo pari a 0,7 punti percentuali. Particolarmente significativo, rispetto ai partner, è apparso il progresso dei consumi delle famiglie che, con un incremento congiunturale dell’1,4%, hanno fornito il maggior contributo (0,8) all’incremento del PIL. Per quanto riguarda i primi mesi dell’anno in corso, le informazioni delle inchieste qualitative nell’area dell’euro sembrano anticipare risultati più favorevoli. In particolare, l’indicatore che sintetizza il clima di fiducia nell’industria ha mostrato un rafforzamento sia in Germania sia in Francia. Il recupero di ottimismo degli imprenditori tedeschi e francesi è, però, il risultato non tanto di una positiva valutazione della situazione presente, quanto di un miglioramento delle aspettative di breve termine. L’incremento tendenziale dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo nell’insieme della zona euro si è portato in aprile al 2,2% inferiore alla media registrata nel primo trimestre dell'anno (2,5%). Successivamente al rialzo dei prezzi in gennaio - generato da un insieme di circostanze quali l’impatto del changeover, fattori stagionali ed erratici, aumenti fiscali in alcuni paesi, nonché l’effetto delle cattive condizioni meteorologiche sui prezzi dei prodotti ortofrutticoli - la discesa dell'inflazione ha assunto un'intensità inferiore alle attese, in parte a causa della turbolenza delle quotazioni dei prodotti petroliferi e delle altre principali materie prime. L'inflazione dovrebbe comunque scendere nell'anno in corso al di sotto del 2% come indicato dall'indicatore di "core inflation". L'aspetto preoccupante dell'inflazione e che ne potrebbe in parte spiegare la lentezza del processo di rientro riguarda la divergente dinamica dei prezzi dei beni e dei servizi; mentre la variazione tendenziale dei primi, dopo la fiammata di gennaio, si è ridotta attorno al 2%, quella dei servizi mostra un trend crescente e superiore alla soglia del 3 per cento. 36 PIL e componenti di spesa per Euro11 UE15 e principali paesi industrializzati (variazioni congiunturali a prezzi costanti, dati destagionalizzati) Consumi delle famiglie PIL Euro-12 UE15 2001 I II III 0,5 0,1 0,2 0,5 0,1 0,2 Germania Francia Italia Spagna UK 0,4 0,4 0,8 1,0 0,6 USA Giappone 2002 IV I I -0,2 na 1,0 -0,1 na 1,0 0,0 -0,2 -0,3 0,2 0,5 -0,1 0,0 0,1 -0,2 0,2 0,9 0,2 0,5 0,4 0,0 na na 0,2 na 0,1 1,0 1,3 0,1 2,4 1,0 2001 II III 0,5 0,1 0,5 0,2 IV 0,1 0,3 Investimenti Fissi Lordi Variazione delle scorte (% del PIL) 2002 2001 2002 2001 2002 I I II III IV I I II III IV I na -0,4 -0,7 -0,3 -0,4 na 1,2 -0,5 -0,4 -0,6 na na -0,9 -0,5 -0,4 -0,1 na -0,2 -0,1 -0,2 -0,5 na 0,7 -0,3 -0,5 0,3 1,1 0,2 0,4 -0,2 0,2 0,2 -0,8 1,4 1,0 1,0 0,9 na na na na na -2,2 0,5 1,3 0,8 -3,9 0,8 0,7 0,2 1,7 1,9 -1,1 -1,7 1,9 Esportazioni 2001 I II III IV -0,2 -0,7 -0,4 -1,2 -0,1 -1,0 -0,7 -1,1 0,8 na 0,3 -2,8 -1,6 -2,7 0,0 -0,2 -0,3 -0,4 -1,1 -0,2 Euro-12 UE15 0,3 0,1 -0,3 0,4 1,4 1,0 -1,2 -0,5 -1,2 na Domanda Interna 2001 2002 I II III IV I -0,1 0,2 -0,2 -0,1 na 0,0 0,3 -0,1 0,0 na Importazioni 2002 2001 2002 I I II III IV I na -1,9 -0,2 -1,5 -1,0 na na -1,4 -0,5 -1,7 -0,7 na Germania Francia Italia Spagna UK 0,3 0,9 0,6 1,8 0,4 0,1 -0,6 -0,3 0,2 0,8 0,1 0,3 0,0 0,2 0,4 -0,1 0,7 0,7 0,3 1,0 na na na na na 0,1 0,6 0,1 -1,8 1,4 0,6 -1,1 -1,4 -3,8 -2,4 0,2 0,4 0,1 -2,4 -1,2 na na na na na -5,4 -2,2 0,4 0,4 1,1 USA Giappone 0,8 0,1 -0,1 1,1 0,8 -0,3 -3,3 -5,1 -2,8 -1,8 -4,9 -3,0 -2,7 1,5 na -1,3 -2,2 -3,4 -1,9 3,5 -0,4 -2,6 -4,2 -2,0 na 0,3 -1,7 0,1 -0,1 -2,8 37 -1,5 -0,2 0,2 0,4 0,5 1,1 -1,2 0,9 1,0 -1,5 -1,5 0,3 0,4 1,0 -1,2 -1,7 -1,8 -2,7 -1,3 -2,4 -0,9 -0,1 -0,1 -1,0 0,7 0,0 -4,7 -1,1 1,5 0,2 na -0,8 -0,6 -1,0 -0,6 na 0,0 0,2 -0,3 -0,7 na 0,1 0,0 0,0 -0,7 na 0,1 0,3 0,7 0,6 na 0,2 0,3 0,3 -0,3 na na na na na na na na na na G E R M A N IA C O N T R IB UT I A LLE V A R IA Z IO N I C O N G IUN T UR A LI D A T I D E S T A G IO N A LIZ Z A T I A P R E Z Z I C O S T A N T I 3.0% 2.0% 1.0% 0.0% -1.0% -2.0% -3.0% Q4 2001 Q3 2001 Q2 2001 Q1 2001 Q4 2000 Q3 2000 Q2 2000 Q1 2000 Q4 1999 Q3 1999 Q2 1999 Q1 1999 CONSUMI FINALI INVESTIMENTI FISSI LORDI VARIAZIONE DELLE SCORTE ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI PIL FRANCIA CONTRIBUTI ALLE VARIAZIONI CONGIUNTURALI DATI DESTAGIONALIZZATI A PREZZI COSTANTI FONTE INSEE 3.0% 2.5% 2.0% 1.5% 1.0% 0.5% 0.0% -0.5% -1.0% -1.5% -2.0% Q4 2001 Q3 2001 Q2 2001 Q1 2001 Q4 2000 Q3 2000 Q2 2000 Q1 2000 Q4 1999 Q3 1999 Q2 1999 Q1 1999 CONSUMI FINALI INVESTIMENTI FISSI LORDI VARIAZIONE DELLE SCORTE ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI PIL 38 2. La congiuntura in Italia Anche in Italia, i più recenti indicatori congiunturali hanno mostrato, all’inizio del 2002, un progressivo miglioramento. Nei primi tre mesi dell’anno l’attività economica è tornata ad aumentare seppure a ritmi molto blandi: la stima preliminare del PIL riporta un incremento congiunturale dello 0,2% (0,1% su base tendenziale). Le uniche informazioni disponibili indicano un lieve aumento del valore aggiunto dell'industria e dei servizi e una crescita più sostenuta dell'agricoltura. ITALIA CONTRIBUTI ALLE VARIAZIONI CONGIUNTURALI VALORI DESTAGIONALIZZATI A PREZZI COSTANTI 3% 3% 2% 2% 1% 1% 0% -1% -1% -2% -2% Q1 2002 Q4 2001 Q3 2001 Q2 2001 Q1 2001 Q4 2000 Q3 2000 Q2 2000 Q1 2000 Q4 1999 Q3 1999 Q2 1999 Q1 1999 CONSUMI FINALI INVESTIMENTI FISSI LORDI VARIAZIONE DELLE SCORTE ESPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI IMPORTAZIONI DI BENI E SERVIZI PIL Sulla dinamica del prodotto ha certamente inciso l’eredità del rallentamento subito nel corso di tutto il 2001 e, in particolare, della contrazione registrata nell’ultimo trimestre. L’asfittica performance dell’economia italiana durante lo scorso anno è sottolineata dal fatto che il segno della variazione congiunturale del prodotto è stato determinato largamente dai processi di accumulo e decumulo delle scorte. 39 Sebbene il dettaglio dei conti per il primo trimestre non sia al momento disponibile si può sostenere che gli elementi che hanno portato a una variazione positiva del PIL provengono probabilmente dalla domanda interna. L’accelerazione di quest’ultima, coerentemente agli altri principali paesi europei, su ritmi in grado di garantire una forte ripresa è attesa nella seconda metà dell’anno. Le componenti della domanda finale interna e, in particolare, le spese per investimenti dovrebbero guadagnare maggiore vivacità quando le prospettive di ripresa dell’economia internazionale si saranno consolidate e le favorevoli attese delle imprese, emerse all’inizio dell’anno, avranno trovato una conferma negli andamenti effettivi dell’economia. Un secondo fattore in grado di innescare una ripresa nel 2002, presumibilmente in anticipo rispetto agli altri fattori della domanda interna, è costituito dal processo di ricostituzione delle scorte dopo la marcata flessione registrata nell’ultimo trimestre del 2001. 2.1 L’offerta L’indice generale della produzione industriale rilevata dall’ISTAT mostra, al netto della stagionalità, una sostanziale stabilità nel confronto tra il primo trimestre dell’anno in corso e il quarto dell’anno precedente (105,2 contro 105) dopo le perduranti flessioni congiunturali registrate nel 2001. Le più recenti informazioni riportano il dato provvisorio di marzo che segna rispetto al mese precedente una flessione di 0,7 punti percentuali. Il dato di marzo segna una battuta di arresto nel lieve miglioramento riscontrato tra gennaio e febbraio. Secondo quanto emerge dalle inchieste congiunturali dell’ISAE la flessione dell’ultimo mese potrebbe essere dovuta alla contrazione degli ordini dall’estero, in quanto la domanda proveniente dall’interno risulta, nei giudizi degli imprenditori, sostanzialmente stabile da febbraio. A livello disaggregato, il rallentamento di marzo è attribuibile principalmente al comparto dei beni intermedi che, con maggiore intensità aveva mostrato segnali di ripresa successivamente al punto di minimo ciclico di novembre 2001. Tra i beni intermedi quelli a destinazione mista e per beni di consumo segnalano i tassi tendenziali meno negativi (circa il 3%), mentre la quota del comparto che si rivolge alle attività di produzione di beni di investimento ha subito, nell’ultimo anno, la maggiore contrazione di output (all’incirca il 6% su base tendenziale). I comparti dei beni di consumo e di investimento mostrano una sostanziale stabilità dell’attività produttiva a sintesi di andamenti alquanto divergenti dei settori che li compongono. Nel settore dei beni di investimento, i mezzi di trasporto e le macchine e attrezzature, che hanno subito forti arretramenti dell’attività, da un anno a questa parte mostrano una maggiore vivacità, 40 mentre nei beni finali di consumo una migliore impostazione ciclica si segnala nei durevoli e non durevoli rispetto ai semidurevoli. Se fossero confermate le aspettative espresse dagli imprenditori, nei mesi successivi dovrebbe verificarsi un miglioramento ciclico dell’attività produttiva trainata essenzialmente dalle scorte. I processi di decumulo delle scorte di prodotti finiti hanno, infatti, determinato in aprile un livello inadeguato del magazzino rispetto alle esigenze operative delle imprese. Sono proprio le attese degli operatori a influenzare positivamente l’indicatore sintetico del clima di fiducia delle imprese da dicembre del 2001 e non i giudizi sull’attuale condizione di ordini e produzione, in linea con quanto avviene anche in altri paesi europei. Nel corso del 2001, il terziario, all’interno di un quadro generale dominato da una forte erraticità, ha espresso andamenti congiunturali dell’attività non omogenei al suo interno. Il Commercio Alberghi e pubblici esercizi è cresciuto molto lentamente con ben due variazioni congiunturali del prodotto negative (nel secondo e nel quarto trimestre). Dalle più recenti informazioni, per quanto ancora molto scarse, ci si attende una lieve contrazione anche nel primo trimestre di quest’anno. Nel confronto tendenziale il movimento alberghiero è contrassegnato da flessioni sia in termini di arrivi sia di presenze determinato prevalentemente dalla domanda proveniente dall’estero. Il settore dei trasporti e delle comunicazioni ha fatto registrare incrementi in termini di valore aggiunto più pronunciati, riportando però la più consistente contrazione di prodotto nel terzo trimestre del 2001. Questo comparto, in quanto più strettamente legato da una parte all’andamento dei consumi e dall’altra all’attività produttiva, dovrebbe mostrare un progresso, seppur lieve sia nel primo sia nel secondo trimestre dell’anno in corso. 2.2 La domanda interna La debolezza della domanda interna ha rappresentato la caratteristica che ha dominato l’evoluzione congiunturale del 2001. Sia i consumi, sia gli investimenti hanno mostrato un andamento molto deludente, soprattutto se confrontato con la dinamica dei due anni precedenti. La crescita molto contenuta dei consumi (1,1%), paragonabile soltanto a quanto rilevato per la Germania tra i maggiori paesi europei, è stata conseguita a sintesi di un primo semestre più brillante cui ha fatto seguito un forte rallentamento. Tale profilo congiunturale è stato ottenuto nonostante il lieve miglioramento del reddito disponibile delle famiglie, legato alle positive condizioni del mercato del lavoro e della politica di bilancio, all’effetto favorevole derivante dalla 41 riduzione del prezzo del petrolio, nonché alla riduzione del tasso d’interesse reale. Tutti questi segnali sono stati rilevati puntualmente dal clima di fiducia delle famiglie che, difatti, era apparso in tendenziale aumento raggiungendo, in giugno, un massimo storico. Al prudente atteggiamento di spesa delle famiglie, potrebbero aver contribuito sia il calo dei mercati azionari sia la maggiore persistenza della dinamica dei prezzi dei servizi dopo lo shock petrolifero dell’anno precedente, che ha negativamente condizionato il processo di rientro dell’inflazione. Quest’ultimo, infatti, è proceduto a ritmi più lenti del previsto. CONSUMI PRIVATI VALORI DESTAGIONALIZZATI A PREZZI COSTANTI VARIAZIONI TENDENZIALI 4.5% 8.0% 4.0% 6.0% 3.5% 4.0% 3.0% 2.5% 2.0% 2.0% 0.0% 1.5% -2.0% 1.0% -4.0% 0.5% 0.0% -6.0% BENI DUREVOLI - dx Q4 2001 BENI NON DUREVOLI SERVIZI Q3 2001 Q2 2001 Q1 2001 Q4 2000 Q3 2000 Q2 2000 Q1 2000 Q4 1999 Q3 1999 Q2 1999 Q1 1999 CONSUMI PRIVATI - TOTALE Se si analizza la disaggregazione per tipologia di beni, si osserva come l’andamento complessivo dei consumi sia stato condizionato dalla cattiva performance dei beni di consumo durevole che hanno riportato, sin dal primo trimestre, variazioni congiunturali negative. Tra questi beni si osserva, in particolare, la crescita ancora sostenuta della spesa in computer, in ragione di un relativamente basso grado di diffusione di questa tipologia di consumi nel nostro paese, e la sostanziale stabilità della domanda d’auto fino a novembre cui è seguita una breve ma intensa crescita. 42 I consumi in servizi, sostenuti dalla dinamica ancora favorevole della spesa per comunicazioni, e in beni non durevoli, pur in progresso nel primo semestre hanno, successivamente, mostrato un profilo congiunturale negativo. Le più recenti informazioni non offrono un quadro positivo della domanda di consumi per il primo trimestre dell’anno in corso. L’indice delle vendite al dettaglio, tra gennaio e febbraio, ha registrato un incremento tendenziale inferiore al tasso di inflazione medio. Le immatricolazioni di auto hanno subito una caduta, tra gennaio e febbraio, che ha più che compensato l’incremento registrato in dicembre. Un auspicato recupero della domanda dei consumi, che si produrrà verosimilmente nella seconda metà dell’anno, trova ragioni nelle attese di una crescita del reddito disponibile reale delle famiglie a riflesso del più sostenuto rientro del tasso di inflazione, nell’ulteriore miglioramento delle condizioni del mercato del lavoro e, infine, nei rinnovi contrattuali nel pubblico impiego. La domanda di investimenti ha subito i contraccolpi del forte rallentamento che ha dominato lo scenario congiunturale internazionale e del clima di notevole incertezza conseguente ai tragici eventi dell’11 settembre. La flessione congiunturale del quarto trimestre, seguita a variazioni molto contenute degli investimenti nei due trimestri precedenti, è stata causata dalla forte riduzione della componente di impianti e macchinari. Meno pronunciato è risultato il rallentamento della domanda di mezzi di trasporto e, soprattutto, delle costruzioni. Tra queste ultime hanno registrato una dinamica sostanzialmente positiva quelle a carattere non residenziale. L’impatto degli incentivi fiscali inseriti nella cosiddetta "legge Tremonti bis" è stato sino ad oggi contenuto. Un insieme di fattori ne hanno condizionato il pieno dispiegarsi degli effetti. In primo luogo, il livello medio degli investimenti realizzato nei cinque anni precedenti il 2001, importante ai fini del calcolo dell’entità complessiva degli investimenti che può andare in detrazione al reddito imponibile di ciascun imprenditore, è stato molto elevato nonostante il realizzarsi di ben due fasi recessive (il 1995:4 1996:4 e il 1997:4 1999:1), entrambe di intensità molto contenuta. In particolare, l'accumulazione del capitale ha interessato il comparto dei prodotti in metallo e macchine. Sebbene, dunque, l'attuale sistema di detassazione abbia interessato una platea più ampia di operatori economici rispetto alla precedente legge Tremonti (giacché è stata estesa alle attività di servizi anche professionali), l'efficacia è stata molto inferiore 43 a causa del comportamento ciclico degli investimenti nel quinquennio precedente l’applicazione della norma. In secondo luogo, la fase depressiva del ciclo, al momento in cui è stata approvata la "Tremonti bis" non rappresentava un fenomeno in grado di produrre un consistente flusso di spesa in beni strumentali anticipata rispetto ai programmi originari degli operatori. In questo senso la legge ha prodotto un effetto anticiclico evitando le flessioni registrate in altri paesi europei come ad esempio la Germania. Infine, anche l'elevato grado di incertezza - determinato dai condizionanti risvolti politico-internazionali che hanno accompagnato tanto l’aggravarsi del rallentamento economico nell’ultimo trimestre del 2001, quanto il graduale miglioramento dell'attuale fase congiunturale - ha certamente pesato sull'efficacia della legge. INVESTIM ENTI FISSI LORDI VARIAZIONI TENDENZIALI VALORI DESTAGIONALIZZATI A P REZZI COSTANTI 25.0% 20.0% 15.0% 10.0% 5.0% 0.0% -5.0% MEZZI DI TRASPORTO Q4 2001 IMPIANTI E MACCHINARI COSTRUZIONI - TOTALE Q3 2001 Q2 2001 Q1 2001 Q4 2000 Q3 2000 Q2 2000 Q1 2000 Q4 1999 Q3 1999 Q2 1999 Q1 1999 INVESTIMENTI FISSI LORDI - TOTALE Elementi a favore di una positiva evoluzione degli investimenti sono individuabili soltanto nella seconda metà dell'anno, quando il ristabilirsi di un positivo sviluppo del commercio internazionale e il miglioramento del clima di fiducia sulle prospettive a breve dell’economia rappresenteranno uno stimolo e un'opportunità per le imprese di programmare un incremento della propria capacità produttiva. 44 I timidi segnali sin qui registrati, relativi al lieve recupero della domanda interna rivolta alle imprese di beni di investimento come rilevato dagli indicatori dell'ISAE, dovranno necessariamente consolidarsi per ottenere un positivo sviluppo della domanda aggregata. 2.3 Il Mercato del Lavoro e l’Occupazione Nonostante il deterioramento del quadro congiunturale nazionale e internazionale, nel corso del 2001, il mercato del lavoro ha mantenuto una positiva impostazione. Al forte rallentamento dell’attività produttiva in atto dal primo trimestre dello scorso anno, si è contrapposto l’emergere solo di qualche segnale di appannamento nel profilo congiunturale sia della domanda sia dell’offerta di lavoro. Quest’ultima da variazioni tendenziali di gennaio pari al 3,1% ha registrato incrementi dell’1,2% in ottobre, mentre la domanda dal 5,1% di gennaio ha conseguito in ottobre un incremento tendenziale del 2,5 per cento. Il progresso più sostenuto della domanda rispetto all'offerta di lavoro ha prodotto una riduzione del tasso di disoccupazione (dal 9,9% di gennaio al 9,2% di ottobre). Le più recenti informazioni, provenienti dall’indagine sulle forze di lavoro indicano un ulteriore miglioramento sia dell’offerta (0,8%) sia della domanda (1,7%). Le persone in cerca di occupazione si sono ridotte nell’ultimo trimestre di 31 mila unità (-1,4%), fenomeno dovuto, quindi, ad un incremento del flusso di uscita dalla disoccupazione verso l’occupazione. Le dinamiche descritte hanno permesso il mantenimento del profilo decrescente del tasso di disoccupazione (9,1%) iniziato più di tre anni fa. Le ripartizioni del centro e soprattutto del nord presentano ormai tassi di disoccupazione molto inferiori alle medie europee. Ormai la quasi totalità delle regioni del nord (con l’unica eccezione della Liguria) ha tassi di disoccupazione inferiori al 5% mentre nel centro (Lazio escluso) la media è di poco superiore. La situazione rimane critica nelle grandi regioni del Mezzogiorno dove le persone in cerca di occupazione rappresentano una quota tra il 15 e il 20% della forza di lavoro. Al netto delle componenti stagionali, il protrarsi della dinamica positiva dell’occupazione è stata determinata, su base congiunturale, dal settore dei servizi e dall’industria in senso stretto. La ripresa vivacità in quest’ultimo settore, ascrivibile per intero al progresso degli occupati dipendenti, potrebbe rappresentare il lieve miglioramento ciclico espresso dagli indicatori congiunturali ma non compensa le flessioni dell’occupazione avvenute nei trimestri precedenti per cui la variazione tendenziale risulta ancora negativa (-0,4%). Il settore delle costruzioni non 45 ha contribuito, rispetto alla precedente rilevazione, alla crescita occupazionale pur mantenendo un tasso di crescita tendenziale positivo. Gli incrementi di occupazione sono risultati abbastanza omogenei tra le diverse aree geografiche. Progressi di intensità lievemente inferiore, ma in linea con i ritmi di sviluppo emersi dalle precedenti rilevazioni, si sono manifestati nell’area del nord-ovest. Tra l’occupazione dipendente la crescita (350.000 unità rispetto a gennaio 2001) è attribuibile per la quota parte più consistente ai contratti standard, cioè a tempo pieno e indeterminato (301.000 unità), secondo una linea di tendenza che si è affermata nel recente passato, mentre la restante parte della crescita dell’occupazione è formata da contratti part time a tempo indeterminato (49.000 unità). Il tasso di occupazione è pari al 54,9%, 0,9 punti percentuali in più rispetto ad un anno fa: cresce in particolare il tasso di occupazione femminile, ormai prossimo al 42% (1,2 punti in più dello scorso anno), grazie anche all’espansione del part time a tempo indeterminato che si rivolge in maniera quasi esclusiva alle donne. 2.4 L’inflazione Il tasso medio di inflazione, misurato dall’indice dei prezzi al consumo si è attestato al 2,7% nel corso del 2001, coerentemente con quanto avvenuto nell’area dell’euro. La dinamica in corso d’anno dell’inflazione ha mostrato una forte accelerazione sino alla primavera per effetto di fattori di natura esogena, quali il rincaro delle quotazioni del greggio e il deprezzamento dell’euro. Successivamente, con l’esaurirsi delle tensioni sui mercati internazionali, si è assistito a un graduale rientro dell’inflazione, secondo un profilo congiunturale, però, meno intenso di quanto originariamente atteso. Tra il primo e il secondo semestre, nonostante una moderata dinamica salariale, approssimata dal costo del lavoro per unità prodotta, che ha contribuito in modo determinante al decremento delle variazioni dei prezzi al consumo, il differenziale rispetto agli altri principali paesi dell’eurozona si è ampliato. Da agosto in poi, a un differenziale nullo si è sostituito un valore positivo pari, in dicembre, a 0,7 e a 0,8 punti percentuali nei confronti rispettivamente della Germania e della Francia. Nello stesso periodo, la dinamica dei prezzi alla produzione è risultata particolarmente favorevole all'Italia, dove le variazioni tendenziali dell'indice mostravano più intense spinte deflative rispetto sia alla media UME sia ai principali paesi dell'area. Questo fenomeno appariva con maggiore forza nel comparto dei beni intermedi. Una 46 spiegazione riposa sul divergente andamento dell’inflazione dei beni e dei servizi dopo la manifestazione degli shock esogeni. Il comparto dei servizi ha mostrato una notevole stabilità della dinamica tendenziale su valori medi molto più elevati di quanto fatto registrare dal comparto dei beni. L’inerzia dell’inflazione nel settore dei servizi è spiegabile probabilmente con la prevalenza di forme di mercato contraddistinte da un basso grado di concorrenza interna e internazionale. Nei primi tre mesi dell’anno in corso, la dinamica dei prezzi ha mostrato nuovamente una brusca accelerazione attribuibile a diversi fattori tutti a carattere congiunturale: il rincaro dei prezzi del petrolio in gennaio ha ripreso vigore durante il mese di marzo, le sfavorevoli condizioni meteorologiche, che hanno esercitato pressioni al rialzo sui prezzi dei prodotti ortofrutticoli e, infine, l’effetto, seppure marginale, determinato dalla sostituzione del contante. In Italia, l’accelerazione delle variazioni dei prezzi ha interessato principalmente i servizi mentre i beni hanno mantenuto una dinamica attorno ai valori medi espressi negli ultimi mesi del 2001. D IF F E R E N Z IA LI D 'IN F LA Z IO N E F R A IT A LIA E P R IN C IP A LI P A E S I E UR O P E I 1.5% 1.0% 0.5% 0.0% -0.5% -1.0% -1.5% -2.0% apr-02 gen-02 IT - ES ott-01 47 lug-01 IT - FR apr-01 gen-01 IT - GER ott-00 lug-00 apr-00 gen-00 ott-99 lug-99 apr-99 gen-99 IT - UME IT - UE15 Anche negli altri paesi europei si è assistito a un’escursione molto accentuata dell’inflazione ma con un profilo congiunturale diverso: al forte incremento dell’indice dei prezzi in gennaio è subentrato un’altrettanto forte contrazione in febbraio. Sebbene il paragone dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo imponga maggiore cautela per l’anno in corso, in quanto in Italia sono state introdotte alcune importanti innovazioni nella rilevazione dei prezzi, si osserva che il differenziale si è mantenuto sostanzialmente inalterato su livelli molto bassi con la media UME ma ancora abbastanza elevati nel confronto con Germania e Francia. Le più recenti informazioni congiunturali confermano il processo di lenta riduzione del tasso dell’inflazione tendenziale: secondo le indicazioni provenienti dalle città campione la crescita dei prezzi al consumo si attesta al 2,3% contro 2,4% e 2,5% rilevati rispettivamente in aprile e marzo. 2.5 Gli scambi con l’estero Il rallentamento dell’economia e degli scambi internazionali nel corso del 2001 hanno prodotto una marcata contrazione dei volumi scambiati con un profilo congiunturale che denota un netto peggioramento tra il primo e il secondo semestre. Il rallentamento è risultato maggiore per le importazioni, poiché la riduzione dei volumi si è sommata al ridimensionamento dei valori medi unitari che ha permesso il recupero delle ragioni di scambio dopo la perdita registrata nel 2000. Le esportazioni sono diminuite dello 0,2 per cento a fronte di andamenti alquanto divergenti delle aree di destinazione delle nostre merci: alla flessione verso i paesi UE (-3,6%) si è contrapposto un progresso nei confronti dei paesi extra UE (3,5%). La debolezza dell’euro ha certamente influenzato il differente orientamento delle nostre esportazioni favorendo le aree esterne all’eurozona. Dalle più recenti informazioni congiunturali, che riportano l’interscambio a prezzi correnti con i paesi UE fino a marzo e con i paesi extra-UE fino ad aprile, si evince il persistere di una fase recessiva delle esportazioni, che in linea con quanto avvenuto nei mesi precedenti, sembra essere più intensa nei confronti dei paesi UE. La scomposizione in prezzi e quantità per il complessivo interscambio commerciale è, al momento, disponibile solo per il primo bimestre dell’anno e indica una flessione, in termini 48 tendenziali, del volume esportato più pronunciata verso i paesi UE (-7,5%), in particolare verso la Germania, rispetto a quanto registrato per l’area extra-UE (-4,9 per cento). Le importazioni hanno seguito, con riferimento allo stesso periodo, un andamento simile alle esportazioni ma meno pronunciato. Alla riduzione dei volumi importati dai paesi UE, tra i quali spicca un forte ridimensionamento delle importazioni dal Regno Unito a ragione di uno sfavorevole tasso di cambio, si è contrapposto un incremento dai paesi extra-UE sospinti dall’evidente compressione dei valori medi unitari. 49 PARTE TERZA: LA POLITICA FISCALE ANTICICLICA 50 1. Disciplina fiscale e ciclo economico Il tema della crescita è stato al centro di tutti i rapporti FREE nella convinzione che il problema centrale dell’economia italiana sia quello di aumentare il tasso di crescita della produttività e con essa l’occupazione e gli investimenti. Al di là degli episodi espansivi e recessivi legati al ciclo economico che hanno caratterizzato l’ultimo triennio, l’Italia condivide infatti con buona parte degli altri paesi dell’Europa continentale una dinamica insufficiente del prodotto potenziale. L’attenzione agli aspetti microeconomici e di “offerta” della crescita è stato, quindi, prevalente rispetto all’attenzione rivolta alle politiche macroeconomiche di tipo tradizionale, monetaria e fiscale, di regolazione della domanda aggregata. La conseguenza è stata che i Rapporti FREE si sono soffermati maggiormente sulla necessità di interventi di policy dettati da considerazioni essenzialmente di tipo microeconomico: la riforma delle regole dei mercati, l’aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture diretti a sostenere la produttività del settore privato e quindi ad aumentare il rendimento dell’investimento privato, la riduzione consistente della pressione fiscale diretta a mutare gli incentivi al risparmio, all’investimento, al lavoro. Abbiamo sottolineato che conta la composizione del bilancio ed il modo in cui il consolidamento fiscale viene attuato. Non è la stessa cosa se la riduzione del disavanzo in rapporto al PIL, conseguibile solo attraverso un forte surplus primario dato l’alto livello di indebitamento, sia ottenuta con un aumento della pressione fiscale a spesa invariata o in crescita, o se venga conseguita attraverso una riduzione della spesa accompagnata da una riduzione della pressione fiscale e contributiva. Il richiamo costante alla necessità di una riforma del regime fiscale e le simulazioni effettuate sull’impatto positivo che ne sarebbe derivato sulla crescita, presentate nei primi rapporti FREE, erano inoltre basate su ipotesi di mantenimento del programma di consolidamento fiscale iniziato all’inizio degli anni novanta, poi accelerato in occasione dell’adesione dell’Italia all’Unione monetaria ed infine oggi dettatoci dal patto di stabilità e crescita che vincola i paesi dell’Unione monetaria europea. 51 La posizione assunta in favore del rispetto del sentiero concordato di consolidamento fiscale si fonda sull’implicita condivisione della tesi che una forte e persistente azione di riduzione del deficit pubblico e di riduzione tendenziale del rapporto/debito PIL, quindi la realizzazione di un mutamento strutturale della politica di bilancio e la conquista di credibilità sulla persistenza del mutamento, non avrebbe determinato un impatto negativo sulla crescita attraverso un effetto depressivo sulla domanda aggregata. In altri termini, abbiamo condiviso l’opinione che una forte riduzione del deficit di bilancio avrebbe potuto generare effetti nonkeynesiani, cioè una espansione e non una contrazione della domanda aggregata. Anche per questo abbiamo espresso fin dal primo Rapporto FREE il nostro disaccordo con coloro che imputavano il rallentamento strutturale dell’economia negli anni novanta principalmente al consolidamento fiscale, contraddicendo in tal modo l’argomentazione fondamentale che avrebbe dovuto giustificare il consolidamento fiscale stesso e creare consenso intorno ad esso, al di là delle imposizioni esterne. Tuttavia, il fatto che la nostra attenzione si sia concentrata sulle determinanti della crescita del prodotto potenziale e quindi meno sulle politiche macroeconomiche di regolazione del ciclo non significa che consideriamo morte o inutili le politiche monetarie e fiscali di stabilizzazione orientate al breve periodo. I periodi di recessione sono infatti costosi non solo nel breve periodo, ma, se prolungati, anche per gli effetti persistenti che si riflettono sulla crescita di medio-lungo periodo, così come gli episodi di inflazione sono costosi per le politiche deflazionistiche che essi possono rendere necessarie. Nel rapporto FREE pubblicato nel settembre 2001, quando era ormai documentato il rallentamento dell’economia, sottolineammo in particolare come tra gli Stati Uniti e l’Europa si stesse manifestando in modo chiaro un divario di efficienza nella gestione delle politiche economiche. Negli Stati Uniti si assisteva ad una forte e tempestiva azione anticiclica della Federal Reserve, memore anche degli errori di timidezza mostrati nel corso della precedente recessione dell’inizio degli anni novanta, e la politica fiscale si orientava anch’essa all’espansione, almeno negli annunci. In Europa, al contrario, la politica monetaria appariva impacciata e preoccupata di un’inflazione che non è mai apparsa un problema all’ordine del giorno, mentre la politica fiscale rimaneva ancorata, seppur in modo sempre meno credibile, solo agli obiettivi di consolidamento fiscale. In particolare, quando fu chiaro che la fase di rallentamento del ciclo 52 avrebbe determinato lo scostamento dagli obiettivi programmatici relativi al rapporto deficit/PIL nei maggiori paesi europei, nessun paese dichiarò apertamente di voler abbandonare gli obiettivi annunciati in precedenza, ma neppure chiarì che la politica fiscale avrebbe dovuto orientarsi in tal caso in senso pro-ciclico in modo da sterilizzare l’azione degli stabilizzatori fiscali automatici. Una condotta questa che ci è apparsa ambigua e quindi contraria alla necessità di ridurre il grado di incertezza che gli operatori devono fronteggiare. Si è trattato di un tipico caso in cui la scarsa flessibilità della politica fiscale opera nel senso di aumentare l’incertezza e non di ridurla. D’altra parte questa condotta aveva le sue motivazioni. Ciascun paese, se da una parte era tentato di orientare la politica fiscale alla regolazione di breve periodo della domanda, dall’altra si rendeva conto di correre il rischio, con un’azione non concordata di allentamento fiscale, di indurre i mercati a leggere l’intervento fiscale come un mutamento di indirizzo nella propria propensione alla disciplina fiscale. Questo mutamente di aspettative avrebbe reso inefficace il tentativo di sostenere la domanda nel breve periodo ed avrebbe avuto conseguenze negative nel medio-lungo periodo per l’aumento dei tassi di interesse di lungo periodo. Ovviamente questo pericolo sarebbe stato maggiore per i paesi con minore tradizione di disciplina fiscale. Nonostante la timida ripresa delle economie europee che attendono l’impatto di quella americana, il dilemma sembra oggi ben presente nelle posizioni assunte da paesi come la Francia e la Germania che, vicini a scadenze elettorali, sembrano inclini a lasciare salire il deficit oltre gli obiettivi concordati con la Comunità europea, rivendicando una maggiore flessibilità fiscale almeno per i paesi meno indebitati. Questa ultima argomentazione non ci sembra che abbia alcun fondamento scientifico, se non quello di affermare che questi paesi sono più credibili degli altri rispetto alla volontà di mantenere una disciplina fiscale almeno in termini di deficit strutturale, anche se adottano una maggiore flessibilità di bilancio al fine di stabilizzare il ciclo economico. La posizione ci sembra particolarmente debole soprattutto per paesi come la Germania la cui economia appare in difficoltà strutturale e per i quali quindi si rischia di confondere per componente ciclica del disavanzo un disavanzo strutturale causato dal rallentamento non-ciclico dell’economia. Tuttavia, il problema posto non è liquidabile come espressione di un nervosismo legato al ciclo politico. Il tema è rilevante e riguarda la desiderabilità o meno di una maggiore flessibilità della politica fiscale con l’obiettivo di ridare a questo strumento un ruolo nella stabilizzazione del 53 ciclo, ruolo che, secondo un orientamento che ha prevalso tra gli economisti nell’ultimo ventennio, dovrebbe essere prevalentemente affidato alla politica monetaria, ma che in Europa ci sembra nel complesso del tutto vacante non solo di fronte a shock asimmetrici. Questa sezione del presente rapporto intende contribuire alla discussione sul tema sollevato proponendo l’esame dei vantaggi e degli svantaggi di una innovazione istituzionale tesa a consentire una maggiore flessibilità fiscale discrezionale per la correzione del ciclo nel nuovo contesto europeo. La proposta, incentrata sull’idea di superare alcune cause di inefficacia della politica fiscale nella regolazione di breve periodo della domanda affidandone la gestione ad autorità dotate di un relativo grado di indipendenza, secondo il modello prevalente nella gestione della politica monetaria, è stata di recente riproposta in un contesto non europeo 4. Secondo FREE essa merita di essere approfondita per trarne suggerimenti in quello europeo. La proposta che intendiamo qui discutere si fonda sulla distinzione tra componente ciclica del saldo di bilancio e saldo strutturale, cioè il saldo di bilancio che, data la struttura del sistema fiscale e contributivo e della spesa pubblica, si realizza quando il livello dell’attività è al livello del prodotto potenziale. In pratica la misura dei due saldi è meno semplice della loro definizione perché richiede una corretta valutazione del prodotto potenziale e della sua dinamica. Il problema non è di poco conto perché uno sbilancio strutturale richiede una correzione strutturale del bilancio, cioè una correzione o del sistema di aliquote fiscali e contributive o della dinamica della spesa, in modo che il pareggio di bilancio sia il risultato previsto quando l’economia si trova lungo il suo trend di crescita. In presenza, invece, di una componente ciclica del disavanzo causata dall’agire degli stabilizzatori automatici, è necessaria da parte dell’autorità fiscale una scelta tra tre diverse opzioni: a) lasciare agire gli stabilizzatori automatici e permettere il manifestarsi di un disavanzo ciclico, b) correggere tale disavanzo con un’azione discrezionale che compensi l’azione degli stabilizzatori automatici, quindi attuando una politica fiscale discrezionale pro-ciclica (restrittiva nel corso delle recessioni ed espansiva nel corso delle fasi di accelerazione della crescita), c) adottare una politica discrezionale integrativa degli stabilizzatori automatici in modo che nel complesso la politica fiscale sia in grado di garantire una tempestiva ed efficace azione di controllo del ciclo. Vedi: “Avoiding boom/bust: macro-economic reform for a globalised economy”,Discussion Paper 2, New Directions, Business Council of Australia, ed il dibattito che ne è seguito. 4 54 Quello che in questo rapporto intendiamo discutere è il ruolo delle politiche fiscali discrezionali nella stabilizzazione dell’attività economica in aggiunta all’azione dei cosiddetti stabilizzatori automatici cioè alle variazioni del deficit di bilancio conseguente al fatto che le varie voci di entrata e di spesa delle Amministrazioni pubbliche variano nel corso del ciclo per il solo fatto che esse dipendono dalle variazioni dell’attività economica. Le voci di entrata perché il ciclo determina la variazione delle basi imponibili e contributive e quindi il gettito fiscale , le voci di spesa perché parte di esse sono legate ad un ruolo redistributivo ed assistenziale e parte sono indipendenti dal ciclo. 1.1 Cosa sappiamo sull’efficacia della politica fiscale Per lungo tempo è divenuto un common sense della letteratura economica che la politica fiscale discrezionale sia inadatta alla gestione di breve termine della domanda e che quindi è bene lasciare alla politica monetaria il perseguimento di questo obiettivo. Le argomentazioni a sostegno di questa posizione si possono distinguere in due gruppi principali. Il primo gruppo si basa su considerazioni relative alla efficacia delle politiche fiscali, il secondo gruppo su considerazioni riconducibili in generale ad un possibile “cattivo uso” di tali politiche da parte dei responsabili politici del bilancio. Definiamo in tal modo gli interventi fiscali dettati non dal ciclo economico ma dal ciclo politico e più in generale dalle regole della competizione politica nelle democrazie rappresentative. I governi sono tentati di forzare l’economia in prossimità di elezioni attuando politiche fiscali espansive imprudenti oppure si possono rifiutare di attuare politiche restrittive in fasi di eccessiva crescita della domanda aggregata sempre in prossimità di elezioni. Inoltre, il cumularsi di questi episodi determina la tendenza allo squilibrio strutturale della finanza pubblica, l’ampliarsi del debito pubblico e, nei casi più estremi, genera problemi di sostenibilità del debito di lungo periodo. Le argomentazioni che contestano l’efficacia delle politiche fiscali di regolazioni del ciclo sono peraltro in gran parte riconducibili a considerazioni riguardanti il contesto istituzionale entro cui le politiche di bilancio si determinano. Variazioni delle aliquote fiscali o della spesa richiedono infatti in generale una approvazione non solo delle autorità di governo ma un passaggio legislativo che determina forti ritardi tra il momento in cui vengono percepiti segnali di recessione o di surriscaldamento dell’economia, e quindi la necessità dell’adozione di provvedimenti di fine tuning nella politica di bilancio, ed il momento in cui i provvedimenti vengono di fatto adottati. Questi ritardi sono tanto più rilevanti quanto più i provvedimenti di 55 variazione della spesa o del gettito fiscale, implicando effetti distributivi cioè la determinazione di chi deve beneficiare o subire nel breve periodo gli effetti diretti dei provvedimenti, sono oggetto di complicati negoziati politico-sindacali. L’implicazione è che l’effetto della manovra di bilancio raramente si ha nel corso della fase del ciclo che si vuole smussare, e quindi spesso l’azione desiderata di stabilizzazione del ciclo si rivela pro-ciclica e quindi determina in modo perverso un approfondimento del ciclo. E’ tuttavia importante stabilire se accanto a questa inefficacia per motivi “istituzionali” della politica fiscale di stabilizzazione vi è una inefficacia legata alle funzioni di comportamento che legano le variabili di spesa o di offerta alle politiche di bilancio. In altri termini si hanno evidenze empiriche non ambigue che il moltiplicatore di breve e lungo periodo del PIL rispetto alle variabili fiscali sia nullo o negativo? La risposta a questa domanda è cruciale perché se fosse dimostrata questa inefficacia, il dibattito sul ruolo della politica fiscale nella stabilizzazione del ciclo verrebbe a perdere immediatamente di significato. La possibilità che una espansione fiscale condotta attraverso una riduzione delle tasse, o un aumento della spesa per consumi collettivi o investimenti pubblici, possa condurre ad effetti non-keynesiani, cioè ad una riduzione della spesa privata, è legata essenzialmente a due possibilità. La prima possibilità è che le famiglie percepiscano che la riduzione fiscale o l’aumento della spesa pubblica implica una riduzione e non un aumento del loro reddito permanente, cioè delle loro aspettative di reddito, e quindi reagiscano ad una politica fiscale espansiva riducendo i consumi. In particolare, le famiglie potrebbero reagire ad un aumento della spesa pubblica in deficit con una riduzione della spesa privata aspettandosi un aumento futuro della pressione fiscale necessario a riequilibrare i conti pubblici oppure, in caso di riduzione delle tasse, potrebbero non reagire con un aumento dei consumi all’aumento temporaneo del reddito disponibile quando una simmetrica variazione di segno contrario è attesa in un futuro abbastanza prossimo per il rispetto del vincolo intertemporale di bilancio da parte dello stato. La seconda possibilità che la politica fiscale possa generare un effetto perverso si ha quando una politica di deficit spending , o di riduzione della pressione fiscale, viene considerata dagli operatori come il segno di una destabilizzazione strutturale del bilancio. Ciò potrebbe determinare un aumento degli interessi reali di lungo periodo ed una diminuzione conseguente anche nel breve periodo sia degli investimenti, ben oltre il tradizionale effetto di crowding out 56 dovuto ad un aumento della spesa pubblica, sia anche dei consumi per l’effetto negativo dell’aumento dei tassi sulla ricchezza finanziaria. Quando ciò accade una espansione fiscale potrebbe avere un effetto di contrazione della domanda 5 o, simmetricamente, una politica fiscale restrittiva potrebbe avere un effetto espansivo. Evidenze empiriche di questi effetti non-keynesiani sono state trovate soprattutto con riferimento a situazioni in cui il rapporto debito/PIL è alto e crescente al momento dell’intervento fiscale (Sutherland 1995) o è già elevato il deficit strutturale, fatti entrambi che indicano un cattivo record delle autorità di bilancio e quindi segnalano anche problemi di credibilità. Altri studi hanno sottolineato come questi effetti dipendano dalla entità e persistenza dell’azione fiscale espansiva o restrittiva (Giavazzi e Pagano 1995; Giavazzi, Jappelli e Pagano 2000). Questi stessi studi mostrano tuttavia che un’azione fiscale limitata nell’entità e soprattutto nel tempo produce in generale gli effetti tradizionali: un’espansione della domanda aggregata in caso di una manovra di riduzione delle imposte ed una contrazione in caso un intervento fiscale restrittivo. Queste evidenze empiriche derivano d’altra parte dall’analisi di episodi storici di espansione e contrazione fiscale e dei loro effetti sulla crescita della spesa privata e del PIL. Poiché una contrazione o una espansione fiscale può includere un aggiustamento diretto alla stabilizzazione del ciclo o un processo di consolidamento o di destabilizzazione fiscale, l’interpretazione dell’episodio in un senso o nell’altro da parte delle famiglie e delle imprese è cruciale ai fini delle reazioni di spesa. Gli effetti individuati sono quindi strettamente legati alle condizioni di credibilità circa l’orientamento fiscale delle autorità dei vari paesi basate sui loro comportamenti storici. Ciò significa anche che le relazioni individuate a sostegno della tesi dell’inefficacia delle politiche fiscali sono in parte riconducibili a quello che abbiamo definito il “cattivo uso” delle politiche di bilancio. Allo stato delle conoscenze degli economisti possiamo quindi concludere che è in generale sconsigliabile l’uso della politica fiscale discrezionale per la gestione di breve periodo della domanda aggregata? Ci sembra che una risposta conclusiva affermativa non sia affatto scontata. Una argomentazione, parzialmente concorrente con quella esposta, del fatto che una politica restrittiva possa avere un effetto espansivo, si basa sull’ipotesi che i mark-ups reagiscano positivamente all’aumento dei tassi di interesse determinando quindi una riduzione dell’output offerto (vedi Phelps...). 5 57 2. E’ possibile una gestione più flessibile della politica fiscale? Vi è oggi un’ampia convergenza sul fatto che il ruolo della politica fiscale è quello di allocare le risorse nazionali tra settori pubblico e privato e che un suo cambiamento altera gli incentivi a consumare, a risparmiare ed a investire influenzando in tal modo il prodotto di lungo periodo. Essa più difficilmente è in grado di generare una variazione permanente della domanda aggregata. Ciò implica che la politica fiscale dovrebbe avere soprattutto un orientamento di mediolungo periodo e porsi come obiettivo principale quello di perseguire una struttura fiscale e della spesa che sia equa ed al tempo stesso efficiente e consistente con l’obiettivo del più elevato tasso di crescita del prodotto di lungo periodo. A ciò si aggiunga che la riduzione del deficit e del debito pubblico è stata per lungo tempo l’obiettivo prioritario in molta parte dei paesi industrializzati, soprattutto nei paesi dove la disciplina fiscale era stata una virtù meno seguita. In questo contesto storico, il problema del ruolo della politica fiscale discrezionale a fini di stabilizzazione del ciclo si è posto in modo rovesciato. La domanda infatti è stata: una politica fiscale discrezionale orientata a perseguire un obiettivo di medio termine di consolidamento fiscale deve anche compensare l’azione degli ammortizzatori fiscali automatici nel corso di un rallentamento dell’economia o al contrario è necessario che essa si astenga dall’annullare l’azione di questi stabilizzatori, o ancora deve essere in grado di integrarli nella misura in cui essi appaiono insufficienti alla stabilizzazione del ciclo? La risposta implica una riflessione almeno sui seguenti aspetti del problema. Primo. L’affermazione che la componente ciclica di un deficit non debba essere corretta, in altri termini che gli stabilizzatori automatici debbano essere lasciati liberi di agire, implica che si sia in grado di distinguere tra componente ciclica e componente strutturale di un deficit. Questo significa che si deve essere in grado di stimare correttamente il prodotto potenziale e soprattutto di riconoscere tempestivamente una variazione della sua dinamica. Come già si è detto, un rallentamento strutturale dell’economia potrebbe essere scambiato per un rallentamento ciclico e quindi il manifestarsi di un deficit strutturale potrebbe essere scambiato per un deficit di tipo ciclico. In questo caso una politica fiscale espansiva non solo rischierebbe 58 di prolungarsi troppo se i governi insistessero nell’azione espansiva, ma soprattutto sarebbe molto costoso, e quindi politicamente non attraente, successivamente ripianare il deficit perché ciò richiederebbe una forte restrizione fiscale da attuarsi in una economia che cresce a ritmi più lenti. L’ accumularsi del debito è in questo caso un accadimento probabile. La risposta agli shock di offerta degli anni settanta con politiche fiscali espansive sono un evento ormai lontano nel tempo ma i cui effetti sul debito non si sono ancora esauriti. Secondo. Se si ritiene che gli stabilizzatori automatici debbano essere lasciati agire allora non vi è ragione per non consentire anche una politica fiscale discrezionale di tipo anticiclico, se non quella della inefficacia legata ai processi “istituzionali” di tale politica, cioè l’inefficacia dovuta alla difficoltà di usare in modo tempestivo ed efficace la politica di bilancio per un’azione di fine tuning o al pericolo di un cattivo uso della politica fiscale discrezionale collegata al ciclo politico. Il fatto importante è che non è necessario che questi comportamenti non virtuosi delle autorità di bilancio vengano realmente adottati ma il fatto che essi siano possibili e che quindi una politica di stabilizzazione discrezionale venga interpretata come potenzialmente pericolosa in quanto non vi è sicurezza che essa non si traduca in una destabilizzazione fiscale ed in un aumento del debito. La conclusione cui si può giungere è che le argomentazioni portate contro l’uso di una politica fiscale discrezionale a fini di stabilizzazione del ciclo si fondano essenzialmente su una sua inefficacia dovuta agli aspetti istituzionali legati ai meccanismi decisionali che la sovrintendono o ad un problema di credibilità dei responsabili della politica fiscale, i governi ed i parlamenti titolari della sovranità fiscale, circa la loro volontà o capacità di limitare l’azione di stabilizzazione entro limiti che non conducano ad uno squilibrio strutturale della finanza pubblica. Anche il legame tra livello del debito pubblico o del deficit aggiustato per il ciclo e la possibilità che l’azione fiscale produca effetti non-keynesiani si basa infatti essenzialmente sul fatto che il livello del debito sembra essere un indicatore di credibilità delle autorità. Di fatto, una politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo che rispetti il vincolo dell’invarianza del rapporto deficit/ PIL nel medio periodo - o del suo ritmo di riduzione, sempre nel medio periodo, se il paese sta conducendo una politica di consolidamento fiscale non dovrebbe generare alcun impatto perverso sui tassi di interesse reali di lungo periodo 59 attraverso l’operare delle aspettative degli operatori, qualora l’impegno dei governi a mantenere invariato il deficit strutturale sia credibile. Il livello del debito preesistente, da questo punto di vista non ha alcun rilievo. Ha rilievo ovviamente la politica di bilancio strutturale, cioè il livello del deficit aggiustato per il ciclo deciso dal governo, che condiziona la sostenibilità strutturale del debito. 3. Una proposta d’innovazione istituzionale La conseguenza di quanto detto fin qui è che una politica fiscale più flessibile ai fini della stabilizzazione del prodotto e dei prezzi sarebbe più desiderabile qualora fossero eliminati i ritardi connessi alla sua attuazione e risolti i problemi di credibilità circa la sua natura temporanea. Questi obiettivi potrebbero essere ottenuti affidando ad una autorità fiscale dotata di un certo grado di indipendenza dal governo la responsabilità di decidere limitate variazioni temporanee a qualche aliquota fiscale (relativa ad esempio alle imposte sui redditi delle persone fisiche, o delle persone giuridiche o alle imposte indirette) in più o in meno per qualche punto percentuale rispetto ai livelli proposti dal governo, ed approvati dal parlamento, in base ai suoi autonomi obiettivi di saldo di bilancio strutturale, di distribuzione del reddito e di dimensione della spesa pubblica. Questa autorità potrebbe agire rapidamente in base ad un monitoraggio delle condizioni dell’economia rispetto al sentiero di crescita normale del prodotto potenziale e l’obiettivo di inflazione. La temporaneità dell’azione e la limitazione della sua intensità dovrebbe essere garantita dall’obbligo di agire in modo simmetrico nelle varie fasi del ciclo ed in ogni caso sotto il vincolo che l’obiettivo di bilancio strutturale - e la composizione del bilancio in termini di livello della spesa su cui questa autorità fiscale non avrebbe facoltà di azione - nel medio periodo rimanga invariato. Questo significa che se per un periodo le aliquote vengono ridotte, nel periodo successivo il gettito dovrà essere recuperato anche con un aumento delle stesse aliquote al di sopra dei livelli “normali” se necessario. Il fatto che questa responsabilità fiscale sia affidata istituzionalmente ad una autorità indipendente dal governo, sul modello ormai comunemente accettato dell’indipendenza 60 dell’autorità monetaria, dovrebbe garantire la credibilità dell’impegno ed il fatto che esso non venga disatteso in base a logiche di convenienza politica dei governi e delle maggioranze parlamentari. Il recupero delle caratteristiche della tempestività e credibilità conferirebbe alla politica fiscale discrezionale di stabilizzazione del ciclo anche la caratteristica dell’efficacia. In tal modo non solo si potrebbe sollevare la politica monetaria dall’onere di perseguire da sola l’obiettivo della stabilizzazione del reddito ma potrebbe essere la politica fiscale ad aiutare la politica monetaria a perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Questo risultato sarebbe tanto più apprezzabile quanto più sono lunghi i ritardi con cui la politica monetaria raggiunge i suoi risultati, anche se è rapido il processo decisionale. L’osservazione degli ultimi episodi recessivi degli Stati Uniti mostrano come la leva monetaria debba essere usata in modo sempre più massiccio per ottenere dei risultati in tempi rapidi, mentre l’esperienza giapponese mostra come la politica monetaria si rivela scarsamente efficace soprattutto quando i tassi di interesse reali sono prossimi allo zero o negativi. Questa idea di innovazione istituzionale potrebbe quindi far sì che l’efficacia di una maggiore flessibilità fiscale sarebbe garantita proprio dalla disciplina fiscale assicurata da istituzioni indipendenti, condizione questa fondamentale in un mondo caratterizzato da libera circolazione dei capitali. In un sistema come quello abbozzato nelle linee generali, la sovranità fiscale rimarrebbe al parlamento e quindi al governo che in esso trova la maggioranza per governare. La natura essenzialmente politica delle decisioni relative alla politica fiscale non verrebbe toccata per ciò che riguarda il livello relativo delle differenti tasse e delle componenti di spesa, il saldo di bilancio strutturale ed il livello complessivo della spesa e della pressione fiscale di tipo strutturale con cui l’obiettivo del saldo viene assicurato. Ciò significa che i governi rimarrebbero interamente responsabili dei risultati della politica fiscale in termini di crescita economica di lungo periodo e di equità distributiva dal momento che rimarrebbero totalmente sotto la sua responsabilità le decisioni che attengono al ruolo distributivo della politica fiscale ed a quello connesso di determinazione degli incentivi microeconomici al risparmio ed agli investimenti. Il meccanismo istituzionale che potrebbe essere adottato per l’applicazione di queste idee può essere vario ed implica delle scelte in merito a: 61 il grado di indipendenza dal governo dell’autorità responsabile della gestione della politica fiscale, la sua composizione e la sua struttura; il grado di discrezionalità che ad essa verrebbe attribuito circa la forchetta di oscillazione delle aliquote fiscali rispetto al loro valore centrale o normale; la discrezionalità nella determinazione delle condizioni che autorizzano l’aggiustamento fiscale temporaneo; infine quali tipo di imposte (o anche di contributi) potrebbero essere soggette a flessibilità rispetto ai livelli fissati dal governo. Rispetto a quest’ultimo punto la scelta dovrebbe dipendere dalla concreta struttura fiscale del paese considerato, in modo da unire efficacia e semplicità amministrativa di attuazione. In generale ogni scelta può presentare vantaggi e svantaggi. Ad esempio, includere nel mix di aliquote soggette a possibili variazioni le imposte indirette sarebbe vantaggioso perché la loro base imponibile è ampia. Inoltre la temporaneità della correzione darebbe la massima efficacia all’effetto di correzione della spesa privata redistribuendola intertemporalmente in senso anticiclico. Tuttavia nei periodi di espansione, quando l’obiettivo è di contenere l’inflazione, l’aumento delle tasse indirette potrebbe generare, nel breve periodo, l’effetto indesiderato di creare maggiore crescita dei prezzi finali. La caratteristica di indipendenza e temporaneità dell’azione fiscale dovrebbe peraltro escludere un meccanismo di traslazione dell’imposta sui salari lordi e non dovrebbe porre in discussione gli accordi salariali fondati sul livello di aliquote normali fissate dal governo. Ci si può scandalizzare all’idea che il reddito disponibile possa essere influenzato da una autorità indipendente, che le imprese possano vedere la domanda dei loro prodotti improvvisamente variata da questi provvedimenti e più in generale preoccuparsi del fattore di incertezza immesso nel sistema dalla maggiore flessibilità fiscale. D’altra parte va considerato che l’azione fiscale sarebbe diretta a stabilizzare la domanda nel corso del ciclo, e ciò stabilizzerebbe le aspettative delle imprese relative alla domanda. Inoltre già oggi l’azione indipendente delle autorità monetarie agisce con lo stesso fine di regolazione della domanda e ciò viene comunemente accettato. Le variazioni dei tassi di interesse e dei cambi influenzabili dalla politica monetaria hanno conseguenze sui redditi forse meno immediatamente percepite da tutti gli operatori ma non meno rilevanti di quelle che si avrebbero con una maggiore flessibilità fiscale. 62 Il punto è se la flessibilità ed indipendenza della politica fiscale può rappresentare un’azione più efficace, e quindi garantire in media una minore variabilità del prodotto e dei prezzi ed a costi minori, rispetto alla politica monetaria. Si assuma un episodio di crescita eccessiva della domanda aggregata tale da generare un processo inflazionistico. E’ difficile immaginare un inasprimento fiscale teso a tagliare i consumi da parte di governi sempre alla ricerca di buoni risultati in termini di crescita di breve periodo e consapevoli della difficoltà di ottenere l’approvazione parlamentare in tempi utili. Aumenti della pressione fiscale sono stati infatti storicamente deliberati in genere solo al fine di contenere i deficit di bilancio in presenza di problemi di sostenibilità. E’ stata invece generalmente accettata una stabilizzazione dei prezzi perseguita frenando la spesa privata mediante un aumento dei tassi di interesse, i cui effetti tuttavia si producono lentamente, con effetti più persistenti sulla crescita e con difficoltà maggiore di graduare l’entità dell’azione monetaria rispetto agli effetti desiderati nei tempi voluti. Allo stesso modo potrebbe essere accettata un’azione fiscale da parte di un’autorità indipendente qualora fosse possibile ottenere gli stessi risultati in modo più efficace e con la possibilità di dimensionare in modo migliore l’intervento all’effetto desiderato. In presenza invece di un episodio recessivo sarebbe più facile politicamente per i governi adottare una politica fiscale espansiva, ma essa potrebbe risultare inefficace se i mercati registrassero l’azione come un abbandono strutturale della disciplina fiscale. Una politica fiscale al contempo flessibile ed indipendente potrebbe tuttavia, per i motivi sopra addotti, risultare efficace e non sarebbe necessario invocare a sostegno un allentamento della politica monetaria. Da questo punto di vista, sarebbe interessante considerare la possibilità che l’istituzione dotata di indipendenza e credibilità, oltre che di capacità tecniche, cui affidare il compito di gestire la politica fiscale di stabilizzazione sia proprio la Banca Centrale o una agenzia ad essa collegata. Coloro che hanno ipotizzato questa soluzione istituzionale hanno in genere anche sottolineato come in tal modo la politica monetaria e fiscale si sarebbero orientate in modo coerente in base agli obiettivi specifici loro assegnati nella stabilizzazione del ciclo. Altri tuttavia hanno visto in questa concentrazione degli strumenti fiscali e monetari un fatto negativo. Nel contesto europeo, in cui le Banche centrali nazionali non hanno più il controllo diretto della politica monetaria ma sono coinvolte negli indirizzi della BCE, l’ipotesi risulterebbe tuttavia interessante perché esse acquisirebbero il controllo diretto di uno strumento con cui affrontare 63 shock di domanda, anche asimmetrici, tenendo conto degli indirizzi complessivi della politica monetaria gestita a livello europeo. Nel caso italiano, la capacità tecnica della Banca centrale, forse al momento non pienamente utilizzata, non sembra inoltre una risorsa scarsa. 4. Il patto di stabilità e crescita e la politica fiscale di stabilizzazione. La discussione fin qui condotta dovrebbe rendere evidente che il domandarsi se un maggior uso della politica fiscale discrezionale per la stabilizzazione del ciclo sia desiderabile, non pone in discussione in alcun modo il Patto di stabilità e crescita (PSC). Quest’ultimo afferma che i conti pubblici siano, in media , in pareggio nel corso del ciclo economico ma non esclude, anzi prevede, che si possano avere avanzi o disavanzi limitati nelle varie fasi del ciclo. La richiesta che nelle fasi di espansione i bilanci siano tendenzialmente in surplus sono la conseguenza del principio appena esposto ed è diretta a consentire una maggiore flessibilità nel breve periodo alle posizioni di bilancio. Il PSC riguarda quindi essenzialmente le regole relative al saldo di bilancio strutturale, non la gestione di breve periodo delle componenti cicliche del saldo. La sovrapposizione dei due problemi è possibile nel corso di avvicinamento dei bilanci dei paesi che hanno sottoscritto il PSC al soddisfacimento della regola del pareggio di bilancio. Un possibile disavanzo ciclico può far allontanare il deficit effettivo dal sentiero prefissato di riduzione del deficit strutturale. E’ facile comprendere che la posizione più logica è quella di consentire di rallentare il processo di riduzione dei deficit di bilancio nelle fasi di recessione e di accelerarlo nei periodi di espansione, sotto il vincolo che in media il ritmo di riduzione non vari. Non è questo tuttavia l’argomento che qui ci interessa affrontare anche in considerazione del fatto che qualunque riforma nella gestione della politica fiscale si attuerebbe probabilmente quando l’obiettivo del pareggio sarà ormai raggiunto. iù interessante è invece discutere se il ruolo di stabilizzazione delle politiche di bilancio debba essere, anche nel quadro del PSC, assicurato dagli stabilizzatori automatici o se vi sia spazio anche per le politiche discrezionali. La posizione espressa dalla Banca Centrale Europea 6 è che si dovrebbe consentire l’azione degli stabilizzatori automatici, mentre è sconsigliabile ricorrere a misure discrezionali di stabilizzazione con le politiche di bilancio. Questa è 6“Il funzionamento degli stabilizzatori automatici di bilancio nell’area dell’euro”, Bollettino mensile della BCE, Aprile 2002. 64 l’affermazione che riteniamo che richieda un maggiore approfondimento o perlomeno un dibattito un po’ meno conformista. In realtà le argomentazioni addotte dalla BCE sono quelle consuete, richiamate in questo rapporto, e che in gran parte cadrebbero nell’ambito della proposta di assicurare una gestione “indipendente” delle misure fiscali di stabilizzazione. Val al pena d’altra parte che si prendano in considerazione non solo gli argomenti relativi alla cosiddetta inefficacia della politica discrezionale ma ci si interroghi anche sull’efficacia degli stabilizzatori automatici. E’ noto che l’efficacia degli stabilizzatori automatici vari in funzione non solo dell’intensità degli shock ma soprattutto della struttura delle entrate e delle spese pubbliche e della loro elasticità rispetto alle variazione della produzione e dell’occupazione. La struttura dei mercati, la struttura produttiva, il sistema di welfare, oltre che il sistema fiscale influenzano quindi questa efficacia. Vi sono d’altra parte due fattori generali che influenzano questa efficacia, il primo è l’entità del settore pubblico nell’economia, il secondo è il grado di progressività del sistema fiscale. Entrambi questi fattori dovrebbero ridimensionarsi in base non tanto ai programmi politici di particolari maggioranze ma agli indirizzi generali già espressi in sede comunitaria ed imposti dai problemi di competitività connessi ai processi di globalizzazione. Anche queste considerazioni suggeriscono di porsi il problema di un recupero della politica di stabilizzazione di tipo discrezionale. D’altra parte quando gli stabilizzatori automatici sono sufficienti, le fluttuazioni cicliche sono contenute e quindi non sono necessarie misure discrezionali aggiuntive. 65 Bibliografia - Giavazzi Francesco, , Pagano Marco (1995), “Non-keynesian Effects of Fiscal Policy Changes: International Evidence and the Swedish Experience”, NBER working paper 5332, November. - Giavazzi Francesco, Jappelli Tullio, Pagano Marco (2000), “Searching for Non-linear Effects of Fiscal Policy: Evidence from Industrial and Developing Countries”, NBER working paper 7460, January. - Sutherland Alan (1997), Fiscal Crisis and Aggregate Demand: Can High Public Debt Riverse the Effects of Fiscal Policy?”, Journal of Public Economics 65. 66 PARTE QUARTA: LE REGOLE DI BILANCIO 67 1. Verso la legge di stabilità 1.1. L’iniziativa del governo Nell’audizione tenutasi il 20 febbraio del 2002 presso la Commissione Congiunta Bilancio del Parlamento, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, On. Giulio Tremonti, e il Sottosegretario di Stato per lo stesso dicastero, Sen. Giuseppe Vegas, manifestavano l’intenzione del Governo di procedere al riordino degli strumenti normativi della manovra di bilancio. I più recenti interventi legislativi in materia (la legge n.94 del 1997 e la legge n.208 del 1999) si sono infatti rilevati tutt’altro che esaustivi. La legge 94 ha ridotto i capitoli del bilancio dello stato, aggregandoli con riferimento ai centri di costo. L’obiettivo era quello di aumentare la trasparenza del budget pubblico, creando un vincolo più diretto tra la spesa e gli effetti del suo utilizzo. In realtà, l’accorpamento per centri di costo non ha risolto, se non in misura marginale, la questione della frammentazione eccessiva delle voci di spesa, che ostacola la leggibilità del bilancio. Anche l’intento di passare ad uno zero base budgeting, che ridiscute criticamente ogni anno l’utilità di ogni singolo esborso, abbandonando il metodo del bilancio incrementale, che più o meno automaticamente aggiunge qualcosa ogni anno sul budget dell’anno precedente, non ha dato i frutti sperati. La legge 208 ha modificato invece la legge finanziaria, soprattutto al fine di ridurre l’uso strumentale ed abnorme dei provvedimenti collegati, che vengono impiegati per introdurre modifiche alla legislazione vigente che abbiano effetti indiretti di natura finanziaria. Per dare una dimensione quantitativa del fenomeno, basti pensare che nel 1993 il provvedimento collegato consisteva di 75 pagine e la Finanziaria di sole 8. Dato che durante la discussione parlamentare i collegati vengono continuamente aggiornati, questo rappresenta un ulteriore elemento di sfilacciamento delle regole di bilancio. Peraltro, molto spesso i collegati non sono approvati entro l’anno ma scivolano al successivo, affievolendo ulteriormente il legame con la manovra corrente di finanza pubblica. La legge 208 ha cercato di porre degli argini al dilagare dei collegati e delle deleghe contenute al loro interno. Anche qui l’innovazione non è stata particolarmente soddisfacente perché la Finanziaria è diventata di nuovo quel mezzo omnibus dei tempi precedenti alla legge 68 del 1988. Inoltre, la scadenza per la presentazione dei collegati (15 novembre) è spesso troppo dilazionata nel calendario per consentirne un’approvazione immediata. Nonostante le riforme degli ultimi anni, manca quindi ancora una cornice comune che consenta un coordinamento pienamente efficace degli interventi di finanza pubblica. Anche perché nuove circostanze, affacciatesi negli ultimi anni, impongono una visione unitaria e complessiva della politica di bilancio. E’ infatti questo lo spirito dell’iniziativa del Governo, che nasce da due considerazioni principali: Il vincolo esterno, rappresentato dai Trattati europei, spinge nella direzione di una maggiore standardizzazione dei bilanci pubblici, da redigere in base a criteri più uniformi. Si impone quindi una integrazione tra l’impianto normativo italiano, rappresentato in primis dall’art.81 della Costituzione, e quello europeo, a partire dal Trattato di Maastricht e dai regolamenti che disciplinano il Patto di stabilità e crescita. Il vincolo interno, cioè la devoluzione di parte dei poteri dello Stato ai governi locali, secondo il nuovo Titolo V della Costituzione, costringe all’adozione di un nuovo regime contabile che tenga conto del processo di decentramento ma anche degli obblighi finanziari che derivano dal Patto di stabilità e crescita e della necessità per lo Stato di continuare a svolgere un’azione di coordinamento per conseguire una politica fiscale efficace. Se è vero che le sanzioni previste a livello europeo colpiscono soltanto gli Stati nazionali, la grandezza contabile rilevante è l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, che comprende anche gli enti locali. Il Patto di stabilità interno, introdotto dalla legge 448 del 1998, impone dei vincoli agli enti locali sia sul piano delle spese (correnti) sia sul piano dei saldi finanziari. Occorre però irrobustirne meccanismi e monitoraggio, in un quadro di compatibilità generale. Per queste ragioni la legge finanziaria dovrebbe trasformarsi in legge di stabilità. Secondo le intenzioni espresse inizialmente dal Governo, la legge di stabilità dovrebbe assolvere alle seguenti funzioni: 69 Fissare il tetto complessivo delle entrate e delle spese (tralasciando i saldi, che hanno perso di significato con l’ormai prossimo pareggio di bilancio e che non tengono conto del livello della spesa e delle entrate). Stabilire il riparto di responsabilità relativo all’attuazione del Patto di stabilità tra lo Stato e gli altri enti. Fissare le altre misure necessarie per il rispetto del Patto di stabilità. Delineare gli ulteriori interventi necessari per attuare il programma di politica economica del Governo. La legge di stabilità sarebbe quindi uno strumento allo stesso tempo più agile e più completo dell’attuale legge finanziaria. 1.2 Il dibattito parlamentare Il Governo ha deciso di lasciare la materia del riordino degli strumenti di bilancio al dibattito parlamentare, in seno alla Commissione congiunta Bilancio. Il dibattito parlamentare, terminato il 10 aprile del 2002 con la replica del Sen. Vegas, ha in effetti evidenziato, all’interno di una eterogeneità pronunciata delle diverse posizioni, una base comune di critiche alla legislazione vigente e di proposte per un intervento di riordino: Gli strumenti della manovra di bilancio, così come sono oggi, non sono sufficientemente impermeabili a stravolgimenti dettati dalla scarsità di tempo a disposizione e dagli interessi di parte (vedi il box 1 sui fenomeni di free-riding che si verificano nella sessione di bilancio allorché emerge una distonia tra i benefici ed i costi di un certo provvedimento). Il riordino va compiuto rapidamente, attraverso una legge ordinaria, per consolidare il risanamento di bilancio. La riforma deve andare nella direzione di una maggiore trasparenza dei documenti di bilancio e quindi di un rafforzamento del controllo democratico. Dopo la fine del dibattito, le Commissioni Bilancio della Camera e del Senato si sono impegnate a votare una risoluzione d’indirizzo, di cui terrà conto il disegno di legge del Governo. 70 1.3 Le posizioni della maggioranza e della minoranza La risoluzione della maggioranza in seno alla Commissione Bilancio del Senato impegna il Governo a formulare un progetto normativo volto a: Ricalibrare le funzioni della legge finanziaria, da ridenominare legge di stabilità, sui vincoli interni ed esterni della finanza pubblica, tenendo conto in particolare dell’ordinamento comunitario nonché della necessità di disporre di norme di coordinamento della finanza pubblica. Rafforzare il divieto di introdurre con la legge di stabilità interventi di carattere localistico e microsettoriale. Introdurre disposizioni volte a rivedere, semplificare e rendere tempestive le informazioni del Governo al Parlamento sugli andamenti periodici della finanza pubblica, in particolar modo comunicando con cadenza mensile dati coordinati sull’evoluzione del fabbisogno ed ogni tre mesi, eventualmente nell’ambito della Relazione trimestrale di cassa, l’andamento del Conto economico della Pubblica Amministrazione, nonché il quadro di raccordo con il fabbisogno. Riordinare, con un’apposita delega, la materia trattata dai titoli IV e V della legge di contabilità n.468/78 (che ha istituito la legge finanziaria) e successive modificazioni, al fine di pervenire ad un’omogeneizzazione dei principi e della struttura dei bilanci degli enti pubblici e alla creazione di una rete telematica in materia che permetta di conoscere nel tempo più breve possibile l’andamento dei flussi finanziari della pubblica amministrazione. Disciplinare più puntualmente la generale attività emendativa, prevedendo che gli emendamenti da presentare a suo nome siano sottoposti alla previa approvazione del Consiglio dei ministri, su parere favorevole del Ministro dell’Economia nelle materie finanziarie. Avviare il riesame e la revisione dell’attuale struttura del bilancio dello Stato in vista di un miglioramento della trasparenza e della leggibilità dei relativi dati, in connessione con la riforma in atto della P.A. Per la maggioranza, appare inoltre necessario coinvolgere pienamente le regioni e le autonomie territoriali, attivando nella sua mutata composizione, in parte su base locale, la Commissione bicamerale per le questioni regionali. 71 La risoluzione della minoranza nella Commissione Bilancio del Senato afferma che: 1. E’ auspicabile il mantenimento della distinzione tra legge di bilancio e legge finanziaria, secondo lo schema definito con la legge 208 del 1999, che ha abolito il collegato di sessione. Piuttosto ne va rafforzata l’interpretazione stringente, laddove afferma che sono ammissibili soltanto emendamenti che contribuiscano allo sviluppo, portino ad un miglioramento dei saldi ovvero non siano microsettoriali. Inoltre, i Presidenti delle Assemblee parlamentari e delle Commissioni Bilancio devono avvalersi di una struttura tecnica rafforzata che istruisca le procedure di stralcio o di inammissibilità. Va poi definito un percorso certo per i provvedimenti collegati, che renda possibile la loro approvazione prima della presentazione del nuovo DPEF, ed il loro contenuto normativo deve essere definito più chiaramente. 2. Gli emendamenti del Governo alla legge finanziaria e al bilancio devono essere approvati dal Consiglio dei ministri, a pena di inammissibilità. Gli emendamenti presentati dal relatore debbono essere corredati da una relazione tecnica predisposta dalle amministrazioni competenti e verificata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. 3. Occorre affinare ulteriormente il processo di specificazione delle unità previsionali di base, individuando in modo più nitido le diverse unità amministrative in cui si articolano i vari centri di costo, e specificare meglio, potenziandolo, il grado di discrezionalità dei dirigenti delle varie unità amministrative nella gestione delle risorse finanziarie e strumentali. 4. Lo strumento più adeguato per definire regole certe relative al Patto di stabilità interno è la legge 468 del 1978, della quale vanno riformati i titoli IV e V, mentre la legge finanziaria può essere la sede annuale di definizione degli aspetti quantitativi. In particolare va inserita nella legge 468 una norma che espliciti per le leggi statati regionali il rispetto dei limiti del PSC e per le regioni la possibilità di accensione di debiti a medio e a lungo termine solo per fronteggiare spese di investimento, nei limiti stabiliti nell’ambito dell’Unione Europea. 5. Il Governo nazionale, responsabile del rispetto del PSC nei confronti dell’UE, deve essere messo nelle condizioni di ricorrere alla Corte Costituzionale, nel caso in cui una legge regionale contrasti con gli obiettivi fissati nel PSC. 6. Il saldo programmatico ai fini del Patto di stabilità interno va definito come differenza tra le entrate finali (al netto dei trasferimenti dallo Stato, dall’UE e dagli altri enti) e le uscite finali (al netto degli investimenti fissi lordi). 72 7. Un adeguato monitoraggio del rispetto degli obiettivi del Patto di stabilità interno è strumentale al processo concertativo e deve essere svolto dal Ministero dell’Economia, attraverso il sistema informativo del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato integrato dalle informazioni degli enti (in particolare sui saldi finanziari mensili). 8. Per il conseguimento degli obiettivi del Patto di stabilità interno è opportuno prevedere sanzioni ed incentivi al fine di evitare fenomeni di free-riding. 1.4 Una possibile sintesi Secondo FREE, la legge di stabilità rappresenta un adeguamento necessario dello Stato al duplice vincolo esterno ed interno. Da una parte, bisogna onorare gli impegni presi in sede europea all’interno del Patto di stabilità e di crescita (PSC). I documenti di bilancio del Governo si vanno quindi ad iscrivere in una cornice già stabilita a livello europeo e a cui non si può derogare, a meno che non ci si metta d’accordo con i nostri partner per stravolgere o eliminare il PSC (evento non solo improbabile ma neppure auspicabile secondo FREE, che anzi è a favore dell’inserimento del PSC nell’eventuale costituzione europea, ora in discussione presso la Convenzione). Dall’altra parte occorre tener conto della riscrittura del Titolo V della Costituzione, che ha assegnato nuovi poteri alle Regioni e alle autonomie locali. Tra questi il nuovo art.119 amplia l’autonomia finanziaria degli enti locali. In questa prospettiva non solo non viene meno ma anzi deve essere rafforzato il ruolo di coordinamento esercitato dalla politica fiscale statale. Va infatti evitato il pericolo di uno scollamento tra decisioni di politica fiscale prese a livello nazionale, in ottemperamento del PSC, e decisioni prese nella stessa materia a livelli di governo più bassi. L’assenza di un Patto di stabilità interno, come quello esistente nel nostro Paese, sta creando non pochi problemi alla Germania ai fini del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica stabiliti dal PSC. Proprio per questo occorre fare tutto il possibile per mantenere un assetto compatibile con l’equilibrio di bilancio, anche dopo che la riforma in senso federalista dello Stato sarà a pieno regime. Il Patto di stabilità interno prevede che, per l’anno corrente, le Regioni non possano destinare alle spese correnti una cifra superiore del 4.5% a quella iscritta in bilancio nel 2000 mentre per le Province e i Comuni con popolazione superiore a 5000 abitanti l’aumento della stessa voce non può superare il 6%. Per quanto riguarda i saldi, l’incremento (nel caso di disavanzo, viceversa nel caso di un avanzo) si deve fermare al 2.5%. 73 Alla nozione di disavanzo rilevante, si applica una golden rule allargata. Non vengono quindi sottratti solo gli investimenti ma anche gli interessi passivi, le spese sostenute sulla base di trasferimenti con vincolo di destinazione e le spese che per loro natura rivestono il carattere dell’eccezionalità. Probabilmente, sarebbe auspicabile arrivare a vincoli meno stringenti sulle voci di spesa dei governi locali, a fronte di una definizione più coerente di disavanzo con quella che vale ai fini del Patto di stabilità e di crescita, dove, almeno per ora, la golden rule, anche nella sua versione più ristretta, non si applica. Una volta che si consolideranno l’attuale fase di crescita dei poteri locali e la loro relativa autonomia impositiva, non è pensabile che lo Stato mantenga dei vincoli che non riguardino esclusivamente gli obiettivi. Per irrobustire la finanza locale, fermo restando il rispetto dell’equilibrio di bilancio complessivo, si potrebbe creare un mercato dei permessi di disavanzo. Che garantirebbe l’allocazione più efficiente delle possibilità di andare in deficit rispetto alle esigenze finanziarie dei vari governi. Acquisteranno i permessi quelli che prevedono di investire le risorse aggiuntive più produttivamente e di ripagare il debito contratto più facilmente. In questo modo, peraltro, sarebbero favorite le amministrazioni locali la cui domanda di investimenti è maggiore. Peraltro, se è vero che il sistema è stato proposto originariamente per i paesi aderenti all’Unione monetaria europea, funzionerebbe probabilmente meglio in un contesto come quello del Patto di stabilità interno perché il numero dei soggetti interessati potrebbe essere molto superiore e quindi assicurare maggiore competitività. Naturalmente, si potrebbero prevedere delle restrizioni, in funzione del record di bilancio di un ente o delle dimensioni del suo budget (limitando la partecipazione al mercato solo alle amministrazioni locali che possono garantire sufficiente affidabilità). Peraltro, coerentemente con il Patto di stabilità e di crescita, che prevede la possibilità di politiche anti-cicliche attraverso gli stabilizzatori automatici, si potrebbe pensare ad un ammontare di permessi che vari automaticamente a seconda delle fasi del ciclo. Tuttavia, la legge di stabilità non deve limitarsi a scrivere le nuove regole del gioco tra stato ed enti decentrati in materia di bilancio ma deve aggiungere altre novità significative. Si deve cercare di fare alcuni passi indietro (o, a seconda dei punti di vista, molti passi avanti) rispetto alla legge 208 del ’99, che ha fatto nuovamente della finanziaria un provvedimento omnibus, utilizzato anche a fini diversi da quelli di bilancio, come vera e propria corsia preferenziale per provvedimenti che altrimenti si troverebbero imbottigliati nel traffico parlamentare. 74 Dalle due risoluzione emerge, sia pure con accenti diversi, la comune volontà di snellire la legge finanziaria, concentrandola soltanto sugli aspetti rilevanti della manovra di bilancio. Così come c’è concordia nel ritenere che gli emendamenti proposti dal Governo debbano passare attraverso il vaglio preventivo del Consiglio dei ministri. Una possibile convergenza può essere individuata anche nell’esigenza di perfezionare il monitoraggio dei conti della Pubblica Amministrazione, rispetto al quale sono stati fatti molti passi in avanti negli ultimi mesi, e di cercare un migliore raccordo tra le nozioni di competenza e di cassa (che eviti anche la tentazione di percorrere le strade pericolose della “finanza creativa”, contribuendo così ad una maggiore trasparenza del bilancio, obiettivo condiviso da tutti). Lo scopo di rendere il budget più leggibile dovrebbe portare ad una sensibile diminuzione dei capitoli di bilancio, da aggregare secondo un approccio funzionale (per il quale due spese con finalità identica fatte da due ministeri diversi rientrano nello stesso capitolo, aiutando così il cittadino a formarsi un giudizio più compiuto sui risultati dell’azione di governo). Si andrebbe così verso una scelta compiuta recentemente in Francia (vedi il box 2), in linea quindi con il processo di armonizzazione dei principi contabili a livello europeo. Al fine di cercare una possibile intesa con le opposizioni su alcuni punti cardine della riforma, si potrebbe raccogliere l’idea lanciata nella risoluzione della minoranza a favore di un rafforzamento del Servizio Bilancio della Camera e del Senato, che potrebbero svolgere un ruolo istruttorio per i Presidenti delle rispettive Assemblee nei casi potenziali di stralcio e inammissibilità degli emendamenti ed in prospettiva, come si dirà nel paragrafo successivo, rappresentare una garanzia per il ruolo del Parlamento, qualora si procedesse ad una restrizione dell’emendabilità, a tutto vantaggio del potere esecutivo. Inoltre, sembra auspicabile che i collegati siano resi più coerenti con gli obiettivi di finanza pubblica, da cui molto spesso si discostano perché vengono differiti temporalmente rispetto alla sessione di bilancio a cui si dovrebbero riferire. Sarebbe quindi sensato anticipare il termine di presentazione del 15 novembre, previsto dalla legge attuale. Un altro motivo di scostamento dei collegati rispetto agli indirizzi di bilancio è determinato da una sostanziale vaghezza del loro contenuto all’interno del Documento di programmazione economico-finanziaria. Occorrerebbe scendere in dettagli maggiori in sede di preparazione di DPEF, anche al fine di evitare successivamente spiacevoli sorprese. Infine, va evitata, tranne che per circostanze al di fuori del controllo del Governo (come un repentino cambiamento della congiuntura internazionale), la possibilità di un forte 75 scostamento tra gli obiettivi di finanza pubblica enunciati nel DPEF e nella legge finanziaria (tutti ricorderanno che l’entità della manovra prevista dalla finanziaria del 1997 risultò il doppio di quella annunciata dal DPEF). Anche questo gioverebbe ad un confronto più sereno e meno emergenziale durante la sessione di bilancio. 1.5 Scenari di riforma di medio-lungo termine La legge di stabilità vuole apportare cambiamenti sufficientemente incisivi alla legislazione vigente in tempi rapidi. Piuttosto che confrontarsi con i tempi lunghi di una modifica costituzionale, il Governo ha infatti scelto uno strumento più rapido, una legge ordinaria, per incominciare a porre mano ai problemi posti contemporaneamente dagli impegni presi con i nostri partner in sede europea e con i livelli inferiori di governo in sede di costituzione. Anche per questo, la legge di stabilità deve rappresentare un primo passo verso una riscrittura più complessiva ed organica delle regole del gioco, per ridefinire i rapporti tra poteri dello stato secondo criteri di maggiore efficienza. Qualsiasi tentativo di riforma costituzionale del bilancio dello Stato deve passare attraverso l’articolo 81 della Costituzione italiana, fortemente voluto da Luigi Einaudi ed Ezio Vanoni. Il terzo ed il quarto comma sono i più significativi, laddove affermano che “con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Anche grazie all’attività di moral suasion svolta da Einaudi durante il suo settennato, l’interpretazione dell’art.81 fu inizialmente piuttosto rigida. Il rapporto deficit/PIL si mantenne fino alla fine degli anni Sessanta su livelli intorno al 2.5% (quindi in linea con il criterio sul deficit fissato a Maastricht, che alcuni decenni dopo avremmo così faticato a rispettare). Successivamente il meccanismo costituzionale si rivelò molto meno robusto del previsto. Un cambiamento di paradigma economico-culturale non trovò molta resistenza in un principio costituzionale vago come l’art.81. Infatti la sua formulazione, interpretata alla lettera, prevede la copertura per le spese previste durante l’esercizio in corso, non per quelle degli esercizi successivi. Perciò è stato facile aggirare il divieto, prevedendo spese minime per l’esercizio in corso e spese maggiori per gli esercizi successivi. Tanto più dopo che la Corte Costituzionale ha avallato tali pratiche. L’articolo 81, peraltro, non teneva nel dovuto conto il profilo finanziario degli entitlements (pensioni, sussidi, etc.), che hanno determinato esborsi crescenti a parità di quadro normativo. In altre parole l’espansione del welfare state fu il cavallo di Troia utilizzato per espugnare l’art.81 e 76 renderlo inoffensivo. Una volta caduto il principio del pareggio di bilancio, fu facile sbarazzarsene del tutto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Una defaillance a cui occorrerà porre rimedio, dunque. Meglio obiettivi più modesti ma chiari e trasparenti piuttosto che regole facilmente aggirabili. Non è un caso che in altri paesi dell'Unione, come Francia e Germania, il bilancio in pareggio sia stato garantito anche da regole procedurali chiare. Dunque, se non esiste un vero e proprio equivalente dell’art.81 in altre costituzioni europee, i sostituti sono risultati però più che efficaci. Basti pensare all’art.113 della Legge Fondamentale tedesca, laddove afferma che “le deliberazione del Bundestag e del Bundesrat che aumentano le spese proposte dal Governo federale nel bilancio preventivo, o che comportano, subito o in prosieguo di tempo, nuove spese, necessitano del consenso del Governo federale”. Oppure il già citato art.40 della Costituzione francese, rafforzato dalla norma anch’essa di rango costituzionale secondo la quale “il Parlamento vota i disegni di legge attinenti al bilancio dello Stato nei modi previsti da una legge organica” (art.47, Cost.fr.), il che vuol dire, tra le altre cose, che “in mancanza di accordo tra le due assemblee, il testo non può essere adottato dall’Assemblea nazionale in ultima lettura se non a maggioranza assoluta dei suoi membri” (art.46, Cost.fr.). Nel caso francese e tedesco, la robustezza delle norme costituzionali viene garantita anche dalla chiara indicazione del responsabile di eventuali sforamenti di bilancio, cioè il potere esecutivo. “Senza dubbio con quel disposto un paese può ancora spendere, tassare ed indebitarsi; ma con quella norma i Governi non possono più giocare a scaricabarile, incolpando i Parlamenti di demagogia finanziaria. Ora sappiamo in modo certo, dalla stessa Costituzione, che è il Governo e solo il Governo ad essere responsabile del debito pubblico” (Sartori, 1994 7). Sappiamo, quindi, che in questo caso le condizioni necessarie perché le regole costituzionali siano rispettate sono fondamentalmente due: regole procedurali chiare e incentivi dei governanti compatibili con la stabilità finanziaria. L’italica frammentazione delle responsabilità e, quindi, delle colpe, unita all’opacità del dettato costituzionale, non ha giovato alla fortuna dell’art.81 della nostra Costituzione. Una modifica costituzionale del processo di bilancio che dia al Governo poteri di veto (almeno sospensivi) oppure anche solo una variazione dei regolamenti parlamentari che riduca sensibilmente l’emendabilità dei provvedimenti di bilancio comporterebbero una ridefinizione 7 Sartori, G., Ingegneria costituzionale comparata, il Mulino, Bologna, 1994. 77 piuttosto radicale dei rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo. Sembra difficile che una riforma di questo genere possa avvenire ceteris paribus, cioè lasciando tutto il resto così com’è. L’empowerment del Governo a discapito del Parlamento in materia di finanza pubblica comporterebbe comunque uno stravolgimento della costituzione materiale. Tale da richiedere che si rimetta in moto il cammino inceppato delle riforme istituzionali, al di là di una nuova configurazione del processo di bilancio. Riforme informate comunque dagli stessi principi, in particolare dalla riaffermazione della weberiana “etica della responsabilità”. Un Governo che governi ed un Parlamento che controlli rappresenterebbero il superamento dell’italico malcostume delle responsabilità indivise, dove tutti i soggetti in campo rispondono in solido dei risultati. Una chiara separazione delle responsabilità comporterebbero allo stesso tempo un rafforzamento della legittimazione democratica delle istituzioni politiche italiane e della loro efficienza. Purtroppo, data l’esperienza passata di riforme lungamente discusse ma mai varate (a parte la riforma del titolo V della Costituzione, tutt’altro che risolutiva), non è facile che una prospettiva di questo genere possa avverarsi nell’orizzonte immediato. In un’ottica di medio termine, in attesa delle necessarie riforme istituzionali, si potrebbe comunque pensare ad una compensazione immediata per la parziale cessione delle prerogative parlamentari in materia di bilancio, attraverso l’istituzione di un ufficio del budget parlamentare (sul modello del Congressional Budget Office americano), magari partorito dalle costole degli attuali Servizi bilancio della Camera e del Senato. Potendo contare su un ufficio bipartisan e sensibilmente rafforzato, attraverso la fusione dei due Servizi e l’ampliamento delle funzioni, il Parlamento potrebbe esercitare così un controllo adeguato sulla politica di bilancio del Governo. Con la legge di stabilità il Governo sta partendo bene e velocemente. Purché questa sia una tappa di passaggio verso traguardi più ambiziosi. Approfondimento 1: La rilevanza delle regole di bilancio secondo la teoria Nel corso di questo secolo, mano a mano che nei paesi più industrializzati le istituzioni democratiche si andavano consolidando grazie ad una sempre più estesa partecipazione politica, è emerso un problema 78 fondamentale relativo alla politica di bilancio, ovvero una asimmetria tra la dinamica della spesa pubblica e quella delle entrate dello stato. Si è venuto sempre più evidenziando che nelle democrazie mature la spesa è più elastica verso l’alto del gettito fiscale e, di conseguenza, la probabilità di saldi negativi di bilancio è aumentata considerevolmente. Al singolo legislatore, che si assume massimizzi la probabilità di essere rieletto, conviene comportarsi da free-rider, promuovendo programmi di spesa senza prevedere un aumento corrispondente delle entrate. L’aggravio per i conti pubblici sarà probabilmente modesto ma la somma di tutti i comportamenti opportunistici rappresenterà un aggravio consistente per le casse statali. Peraltro, in generale, il legislatore preferirà aumenti di spesa a riduzioni delle imposte perché gli aumenti di spesa tendono a dare benefici più concentrati (sia numericamente sia geograficamente) e quindi sono marginalmente più utili ai fini della rielezione. Infatti, a parità di stanziamento, un esborso più alto a vantaggio di un numero più circoscritto di elettori tende ad avere più impatto politico rispetto a esborsi minori ma più generalizzati (Olson, 19658). In un sistema elettorale uninominale, peraltro, il bias fiscale può risultare ulteriormente aggravato dal rapporto più diretto che si instaura tra istanze localistiche e rappresentanza politica. Lo stesso potere esecutivo, peraltro, è soggetto al bias fiscale, laddove i singoli ministri di spesa hanno l’incentivo a chiedere un incremento del proprio budget, senza tenere in considerazione l’impatto sul disavanzo. Per questo, è importante che esista un punto di raccordo e di coordinamento tra le varie istanze all’interno del gabinetto (assunta in generale, nei vari paesi, dal ministero delle finanze). Dapprima una forte resistenza culturale all’idea di una finanza pubblica in disavanzo pose un argine ai diversi fattori opportunistici che spingevano verso una eccessiva prodigalità fiscale. Minato a livello teorico dalle tesi keynesiane in favore di politiche espansive della domanda e nella prassi politica dal bias fiscale, il rigore finanziario divenne un retaggio del passato. Dopo alcuni decenni di spesa pubblica in deficit, si è reso però necessario un riequilibrio delle finanze statali. La non sostenibilità del debito pubblico e il crescente bisogno di rendere credibile la politica fiscale e la politica monetaria al fine di mantenerne intatto l’impatto sull’economia costrinsero governi e parlamenti ad intraprendere misure di risanamento. In Europa, un incentivo ulteriore e in molti casi più decisivo è stato dato dal processo di convergenza verso i parametri fissati dal Trattato di Maastricht, propedeutico all’ingresso nell’euro. Tuttavia, al di là di azioni contingenti, motivate dal raggiungimento di obiettivi di breve periodo, occorre attrezzarsi per gettare solide fondamenta per una finanza pubblica virtuosa nel lungo periodo, disinnescando il 8 Olson, M., The Logic of Collective Action, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1965. 79 bias fiscale. In questo senso, la definizione di regole del gioco, quindi di un processo di bilancio il più possibile ottimale, appare essenziale. Approfondimento 2: Come il bias fiscale e’ contenuto in Europa Il confronto con le legislazioni vigenti nei paesi europei in materia di regole di bilancio, oltre ad essere utile di per sé per eventuali spunti ai fini delle riforme da intraprendere nel nostro paese, è imposto dalla inevitabile progressiva armonizzazione dei bilanci pubblici nell’area UE. In Francia, l’art.40 della Costituzione limita il potere di iniziativa dei parlamentari in materia finanziaria, prevedendo la non ammissibilità degli emendamenti nel caso in cui la loro adozione comporti una diminuzione delle entrate o un aumento delle spese. Questo vale non solo durante la sessione di bilancio ma per tutto l’anno finanziario. La legge organica n.2001-692 del primo agosto 2001 ha introdotto diversi elementi di novità nella struttura del bilancio francese. Il bilancio statale, prima articolato in 850 capitoli, viene sostituito con una serie di stanziamenti raggruppati all’interno di 100-150 programmi ministeriali. Si crea così una corrispondenza diretta tra stanziamenti ed obiettivi dell’azione pubblica. Viene inoltre istituito quello che si definisce uno chainage vertueux (concatenamento virtuoso) tra la lois de règlement (il consuntivo) dell’anno precedente e la lois de finance (l’equivalente per certi versi della nostra legge finanziaria) dell’anno successivo. Il dibattito parlamentare sull’efficacia dei risultati prodotti dagli stanziamenti per l’anno in corso costituisce la base di partenza per la lois de finance per l’anno successivo. Ai fini di una maggiore trasparenza del bilancio pubblico, viene previsto un rafforzamento del flusso informativo che va dal Governo al Parlamento, con l’obbligo per il primo di motivare il superamento degli stanziamenti previsti e di trasmettere i decreti di variazione e di trasferimento, prima della firma, alla Commissione Finanze e alle Commissioni competenti. In Gran Bretagna, il rapporto tra Governo e Parlamento in materia di spesa pubblica è chiaramente sbilanciato in favore del primo, all’interno del quale il Cancelliere dello Scacchiere assume il ruolo di preminenza. Alla Camera dei Comuni è consentito votare emendamenti che diminuiscano la spesa ma non emendamenti che ne aumentino il limite massimo proposto dal Governo. 80 Al Parlamento, però, sono garantiti poteri di controllo successivo sull’efficacia della politica di bilancio, anche grazie a strumenti come il National Audit Office (NAO), organo indipendente dal Governo guidato da un funzionario della Camera dei Comuni. In Germania, non vi è invece supremazia formale del Ministro delle Finanze sui ministri di spesa, anche se, durante l’esame dei documenti di bilancio all’interno del Governo, il Ministro delle Finanze dispone di un veto sospensivo. Che può essere superato solo dalla maggioranza dei ministri, a condizione che il Cancelliere si schieri a favore di questa. In tal caso, quindi, il ruolo del Cancelliere risulta prevalente nel comporre gli attriti di natura finanziaria all’interno del Governo. La legge di bilancio viene approvata dal Bundestag con un voto preliminare ed uno conclusivo del Bundesrat volto a verificare che i provvedimenti contenuti rispettino le competenze dei Laender. Il procedimento si articola in tre fasi, di cui le ultime due corrispondono a norme diverse che regolano l’emendabilità. Dopo la prima fase, con l’esame generale in Assemblea ed uno analitico in Commissione Bilancio, si passa all’esame degli emendamenti che sono liberamente proponibili fino al voto sulle varie parti di bilancio. Successivamente, e qui si passa alla terza fase, gli emendamenti sono ricevibili solo nel caso in cui siano proposti dai gruppi parlamentari oppure da almeno il 5% dei membri del Bundestag e solo riguardo alle parti emendate nella seconda fase. Il resto, approvato senza modifiche in prima lettura, non può più essere soggetto ad eventuali cambiamenti. 2. Le regole di bilancio e performance finanziaria nei paesi dell’unione europea 2.1 Lo stato dell’arte nella ricerca Una delle caratteristiche più interessanti dei ripetuti disavanzi di bilancio ed elevati rapporti debito/PIL che contraddistinguono molti paesi, il nostro in primis, è che riguardano alcuni paesi più di altri. Prendendo in considerazione economie con un elevato grado di integrazione ed un simile livello di sviluppo, come i paesi OCSE, notiamo che alcuni sono sistematicamente contraddistinti da disequilibri finanziari "esplosivi", come Italia, Belgio, Portogallo; altri invece hanno sempre mantenuto gli squilibri di bilancio entro limiti accettabili, come la Francia o la Svizzera. In quest’ultimo raramente il debito ha superato il 20% del PIL. La storia si ripete in altri campioni di economie che sperimentano shock macroeconomici simmetrici, come i paesi dell'America Latina e i 50 stati degli USA. 81 Come si spiega questa considerevole differenza tra paesi altrimenti simili? E’ possibile, da un'eventuale spiegazione, trarre indicazioni che pongano il nostro paese su un sentiero di performance di bilancio sistematicamente virtuoso? Per rispondere a questi quesiti la ricerca scientifica si è concentrata sulle procedure di approvazione del bilancio che caratterizzano e distinguono gruppi di paesi per altro economicamente omogenei. L’idea alla base di questa letteratura è che i metodi decisionali tipici dei sistemi democratici consentono ai policymakers di vedersi attribuire solo una parte dei costi politici delle loro decisioni di spesa. Ne deriva una sorta di intrinseca, comune tendenza al deficit spending (Alesina e Perotti, 1994). D'altronde, le diverse procedure di approvazione del bilancio di ciascun paese pongono freni di diversa efficacia a questa tendenza comune. I risultati di bilancio – la "performance finanziaria" di un paese – dovrebbero quindi essere correlati alla forza vincolante delle procedure di approvazione del bilancio del paese stesso. In un primo periodo questa letteratura ha sottolineato l’importanza di porre obiettivi numerici in materia di variabili fiscali, come i deficit di bilancio, il debito e le spese pubbliche. Gli obiettivi del Trattato di Maastricht e le regole di bilancio in pareggio adottate dalla maggioranza degli stati USA sono espressione di questo filone di pensiero. Le verifiche empiriche di queste teorie hanno però offerto risultati contradditori. Alcuni studi non trovano una correlazione significativa tra misure di disciplina fiscale e singole regole di bilancio, quali il potere di veto dell’esecutivo e l’obbligo di pareggio annuale del bilancio. Altri studi concludono che simili regole “funzionano”, ma a patto che siano integrate da altri vincoli che limitino la discrezionalità dei policymakers nei diversi passaggi che compongono l’approvazione di una legge di bilancio (Padovano, 1998). Tale contraddittorietà nei risultati ha spinto gli studiosi a spostare la loro attenzione dalle regole di bilancio numeriche a quelle procedurali. Per queste ultime si intendono le procedure che disciplinano ciascuna fase dell’approvazione della legge di bilancio, dalla formulazione della proposta da parte del governo, alla sua discussione, modifica e approvazione da parte del legislativo, alla sua attuazione finale da parte degli organi dello stato (Alesina e Perotti, 1996). Questi modelli prevedono che le procedure di bilancio producono maggiore disciplina nella misura in cui a) rafforzano il potere del primo ministro (o del ministro delle finanze) rispetto ai ministri di spesa; b) limitano il grado di universalismo, reciprocità e le possibilità di emendamento nelle sessioni parlamentari di bilancio e c) restringono la discrezionalità della 82 burocrazia nell’applicazione della legge di bilancio stessa (Baron, 1989, 1991; Baron e Ferejohn, 1989; von Hagen, 1992). Le analisi empiriche tendono a supportare queste previsioni: gli indici di centralizzazione delle decisioni di bilancio sono negativamente correlati con i deficit di bilancio, le spese pubbliche e il debito accumulato. Per quanto incoraggianti, questi studi empirici soffrono di alcuni difetti metodologici che rendono i risultati non così sicuri da farne, almeno allo stato attuale, una guida per una riforma di bilancio. Per superare questi limiti, Lagona e Padovano (2000) propongono un’analisi non lineare in componenti principali (NLPCA) del rapporto tra regole di bilancio e performance finanziaria. Anzitutto, NLPCA sintetizza le valutazioni numeriche delle singole regole in indici aggregati che minimizzano la perdita di informazione derivante dal processo di sintesi secondo precise procedure matematiche - la proiezione in componenti principali, appunto. In seconda istanza, NLPCA mantiene la classificazione ordinale delle valutazioni delle regole - il contributo accettabile dei precedenti studi - ma produce valutazioni numeriche che sono invarianti rispetto a variazioni monotone delle valutazioni numeriche originali della forza vincolante delle regole. I coefficienti stimati sulla base degli indici generati mediante NLPCA non sono quindi sensibili alla metrica e quindi non producono risultati spuri. Infine, NLPCA specifica la tavola delle corrispondenze tra le singole regole e le rispettive componenti principali. Sulla base di questa tavola e dei coefficienti che legano le componenti principali ai singoli indicatori di performance finanziaria, possiamo desumere in che misura ciascuna regola riesce a produrre un effetto vincolante su, ad esempio, il rapporto deficit/PIL, piuttosto che su quello debito/PIL o spesa pubblica/PIL. Sulla base di questa informazione si può realizzare una riforma delle procedure di bilancio specifica per l'obiettivo di disciplina fiscale che si vuole raggiungere. 2.2 Descrizione delle procedure di bilancio dei paesi UE Variabili indipendenti. Von Hagen (1992), corretto e integrato da de Haan e Volkerink (1999) rappresenta tuttora la descrizione più completa e la più coerente codificazione delle regole di bilancio adottate in 12 paesi dell’Unione europea durante gli anni ‘80 e ‘90. Specificamente, questi paesi sono: Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna. Altre rassegne relative alle regole di bilancio dei vari paesi sono state pubblicate (OECD 1987, 1995) ma offrono un’informazione piuttosto sparsa e non codificata. 83 Basandosi su questi studi, le caratteristiche delle procedure di bilancio sono riassunte in 5 gruppi, corrispondenti ad altrettanti stadi della formulazione della proposta di bilancio: la formazione della proposta di bilancio all’interno dell’esecutivo la discussione, modifica e approvazione del bilancio nel parlamento il grado di trasparenza del documento di bilancio la flessibilità nell’attuazione della legge da parte degli organi amministrativi dello stato il grado di vincolo del documento di bilancio pluriennale Ciascuno di questi gruppi o fasi è caratterizzata dall’adozione, o meno, e comunque in diverse varianti, di una serie di regole, per un totale complessivo pari a 24. In particolare per quanto riguarda la formulazione della proposta di bilancio (stadio N) abbiamo informazioni a proposito che essa preveda un vincolo sui totali di spesa e entrata (variabile N1), di chi ha il potere di agenda (N2), se tale potere è esplicitamente menzionato nelle regole di bilancio (N3) e su quale tipo di negoziazione produce come risultato la proposta di bilancio (N4). Della fase di discussione, modifica e approvazione del bilancio (fase P) sono descritte cinque caratteristiche: il potere di emendamento della proposta (P1), se gli emendamenti devono essere mutuamente esclusivi (P2), se la loro approvazione implica la sfiducia per il governo (P3), se il parlamento vota su tutta la legge o capitolo per capitolo (P4) e se è necessario approvare i totali di spesa e entrata prima delle votazioni sulle singole disposizioni del bilancio (P5). Il grado di trasparenza del documento di bilancio (fase I) è valutato in base alla presenza di fondi extra bilancio (I1), all’esistenza di uno o più documenti di bilancio (I2), alla leggibilità del documento (I3), ai riferimenti alla contabilità nazionale (I4) e all’inclusione dei prestiti governativi ad enti non statali (I5). La fase di attuazione del bilancio (F) è disaggregata in 6 dimensioni: la possibilità del ministro delle finanze di bloccare i provvedimenti di spesa (F1), l’esistenza di limiti di liquidità per i ministri di spesa (F2), la necessità dell’approvazione di un organo indipendente per l’esborso dei finanziamenti (F3), la possibilità di trasferire risorse tra capitoli di spesa (F4), la possibilità di modificare il bilancio in fase di esecuzione (F5) e di trasferire fondi non spesi al bilancio futuro (F6). Infine, l’informazione circa i documenti di bilancio pluriennali (fase L) riguarda il tipo di variabili fiscali scelte come obiettivo (L1), la durata dell’orizzonte temporale (L2), il metodo di previsione (L3) e il grado di impegno previsto dal documento (L4). 84 Ciascuna di queste variabili riceve un valore numerico crescente nella sua forza vincolante. La tabella 2 riassume questi dati, mentre la tabella 3 illustra le regole adottate da ciascun paese. Le variabili indipendenti scelte sono i seguenti quattro rapporti: deficit totale/PIL (TDEF); deficit primario/PIL (PDEF); spese pubbliche/PIL (EXP) e debito pubblico/PIL (DEB). I dati sono medie per gli anni ‘80 e ‘90. 85 Tabella 2 Regole di bilancio nei paesi UE Fase Simbolo Struttura delle N1 trattative all’interno del governo N2 Regola Presenza di vincoli sui totali di entrata e uscita Agenda setting nelle negoziazioni Riferimento a regole di bilancio nel potere di agenzia Struttura delle trattative Range 0-4 0 BEL, GRE, SPA 1 NET, POR 2 IRL, ITA 3 GER, LUX 4 DEN, FRA, UK NET, POR DEN, SPA FRA, UK 0-3 GRE, IRL, NET BEL, GER, GRE, IRL, ITA, BEL, DEN NET, POR FRA, GER, SPA, UK 0-2 BEL, GRE, IRL, SPA ITA DEN, FRA, GER, NET, POR, UK P1 Emendamenti 0-1 BEL, DEN, GER, GRE, POR P2 Emendamenti mutuamente esclusivi 0-1 P3 Emendamenti legati alla fiducia 0-1 P4 Tutte le decisioni di 0-2 spesa approvate con voto singolo Voto complessivo 0-1 sulle dimensioni del bilancio Inclusione di fondi 0-4 extra BEL, GER, GRE, IRL, ITA, LUX, NET, POR, SPA, UK BEL, DEN, FRA, GER, IRL, NET, UK BEL, GER, GRE, IRL, LUX, POR, SPA BEL, DEN, GER, GRE, IRL, ITA, LUX, SPA POR FRA, IRL, ITA, LUX, NET, SPA, UK DEN, FRA N3 N4 Struttura del processo parlamentare P5 Trasparenza del documento di bilancio I1 I2 Bilancio in un solo documento 0-4 0-2 GRE, IRE, ITA, UK 86 5 ? LUX LUX LUX GRE, ITA, SPA LUX, POR FRA, ITA DEN, NET, UK POR FRA, NET, UK IRL, ITA BEL, DEN, BEL, DEN, FRA, GER, LUX, NET, POR, SPA GER, GRE, SPA NET, UK LUX Fase Simbolo I3 I4 I5 Flessibilità nell’esecuzione del bilancio F1 F2 F3 F4 F5 F6 Vincolo insito nei documenti di programmazione pluriennali L1 L2 L3 L4 Regola Valutazione della trasparenza del bilancio Riferimento alla contabilità nazionale Government loans to non-government entities included in budget draft MF può bloccare le spese Range 0-2 ITA 0 0-3 0-2 0-1 FRA, GER, GRE, LUX Ministri di spesa soggetti a vincoli di liquidità Erogazioni soggetti a ad approvazione MF o controllore Trasferimenti di spese tra capitoli Cambiamenti nel bilancio in fase di esecuzione Carry-over di fondi non spesi Variabile obiettivo 0-1 DEN, FRA, GER, GRE, POR, UK 0-1 BEL, FRA, GER, , NET, POR 0-5 SPA GER, GRE DEN, UK BEL, FRA 0-4 ITA GRE GER BEL, DEN, FRA, IRL, POR, SPA, UK 0-3 FRA, NET, SPA, UK GER, POR 0-2 DEN, UK GER, IRL, ITA, NET FRA, DEN, GRE GER, ITA, POR FRA, GRE, IRL, ITA, POR, SPA FRA, SPA DEN, NET GER, UK DEN, GRE, POR GER, IRL, ITA, UK Estensione 0-4 temporale del piano (anni) Metodo di 0-3 previsione Grado di impegno 0-4 Fonte: von Hagen (1992). 87 1 BEL, DEN, IRL, LUX, POR 2 FRA, GER, GRE, UK BEL, IRL, ITA DEN, GRE, LUX, POR, FRA, POR GER, GRE, IRL BEL, DEN, ITA, NET, UK 3 4 GER, NET, UK 5 ? SPA FRA, LUX, SPA GRE, IRL IRL LUX LUX IRL, NET, SPA, UK NET 2.3 Risultati delle verifiche empiriche NLPCA sintetizza le componenti principali delle 24 regole di bilancio sopra illustrate e consente di verificare quale di esse abbia un potere vincolante maggiore rispetto a ciascun indicatore di performance finanziaria. L’analisi viene condotta in due fasi: nella prima si offre una rappresentazione grafica del rapporto tra singole regole e indicatori di performance finanziaria; nella seconda si verifica il grado di significatività statistica di questi risultati tramite un’analisi di regressione della performance finanziaria sulle componenti principale delle 24 regole di bilancio. Analisi diagrammatica. I grafici 1-4 illustrano la relazione tra, rispettivamente, debito pubblico, spese pubbliche, deficit totale e primario (tutti normalizzati per il PIL) e le 24 regole di bilancio nello spazio definito dalle due loro componenti principali. Le linee originano dal punto (0, 0), gli angoli tra le linee indicano la relazione tra le variabili (180° indica una correlazione pari a –1, 90° significa indipendenza, 0° una correlazione pari ad 1); infine, la lunghezza delle linee è una misura di confidenza in quanto indica la varianza totale della trasformazione NLPCA delle singole variabili: più lunghe le linee, minore la varianza e più precisa la stima. In generale, gli indicatori di bilancio si collocano nel quadrante positivo dello spazio definito dalle componenti principali (con l’eccezione della regola F6, apparentemente un outlier), mentre le variabili di performance finanziaria si posizionano nel quadrante negativo. Questa separazione conferma la correlazione negativa tra regole di bilancio e discrezionalità fiscale che la teoria suggerisce. GRAFICO 1 REGOLE DI BILANCIO E DEBITO PUBBLICO 0.4 F5 F6 I3 F1 F4 F2 0.2 N3 P R IN 2 I4 N1 I2 F3 P2 0 N4 P3 N2 I1 P5 -0.2 P1 DEBGDP P4 I5 -0.4 -0.4 -0.3 -0.2 -0.1 0 0.1 0.2 0.3 0.4 PRIN1 In particolare, il grafico 1 indica che il debito pubblico è negativamente correlato con quasi tutte le regole, ma raggiunge una correlazione prossima a –1 con la maggior parte delle variabili F 88 (specialmente, F1, F2, F4 e F5) e I3 (trasparenza della legge di bilancio). Una possibile interpretazione di tale risultato è che livelli di indebitamento più elevati sono riscontrati nei casi in cui il potere di controllo del contribuente-elettore è relativamente inferiore. Ciò avviene nelle decisioni burocratiche, sottratte ad un processo di nomina elettorale, oppure quando i documenti di bilancio sono tali da offuscare le capacità di controllo degli elettori. Per quanto riguarda le spese pubbliche (grafico 2), la correlazione si avvicina al valore –1 nel caso della maggior parte delle regole F – un risultato in linea con la teoria economica della burocrazia – in particolar modo con la regola F2 (imposizioni di vincoli di liquidità ai ministeri di spesa) e di nuovo con la regola I3 sulla trasparenza. Anche un buon numero di regole N è caratterizzato da una correlazione negativa con le poste in uscita. A quanto pare, una debole prerogativa del ministro delle finanze o del primo ministro sui ministri di spesa tende a gonfiare i bilanci fin dalla fase di proposta; una rigida disciplina nella fase parlamentare (regole P e I) e postparlamentare (regole F) possono ridurre la crescita del bilancio, ma non le sue dimensioni una volta che è diventato legge. GRAPH 5.2 BUDGET RULES AND PUBLIC EXPENDITURES 0.4 F5 F6 I3 F1 F4 F2 0.2 N3 P R IN 2 I4 N1 F3 I2 P2 P3 0 N4 N2 EXPGDP I1 P5 -0.2 P1 P4 I5 -0.4 -0.4 -0.2 0 0.2 0.4 PRIN1 Anche il deficit totale si avvicina ad una correlazione pari a -1 con la maggior parte delle regole F e N ma, a differenza dei precedenti indicatori di performance finanziaria, anche due regole relative alla discussione della proposta di bilancio in seno al parlamento, P2 (necessità che gli emendamenti siano mutuamente esclusivi) e P3 (gli emendamenti sono legati a questioni di fiducia) risultano avere una correlazione negativa quasi perfetta con il deficit complessivo. Se ne deduce che una disciplina della possibilità di emendamento della proposta del governo che comporti il rispetto dei livelli di spesa e prelievo che il governo ha indicato e l’assunzione dei costi politici della 89 variazione della proposta governativa, tende a produrre una maggiore disciplina fiscale che non un divieto assoluto di emendamento (regola P1). Infine, il deficit primario presenta un profilo di correlazioni del tutto diverso da quello delle altre variabili. I governi tendono a prevedere disavanzi di bilancio al netto della spesa per interessi sul debito quando i disequilibri finanziari diventano severi; PDFGDP si mostra infatti ortogonale rispetto ad altre misure di performance di bilancio. Essendo uno strumento della politica fiscale del governo, i problemi per l’accumulazione di un surplus primario risiedono non nella negoziazione della proposta di bilancio all’interno del governo, ma nella sua discussione successiva da parte del parlamento: i deputati sembrano avere priorità diverse rispetto al governo in materia di politica fiscale (Crain e Tollison, 1979; Alesina e Perotti, 1994). Il grafico 4 conferma tale stato di cose; i deficit primari sono perfettamente correlati negativamente con le regole P, quelle che definiscono la struttura del processo parlamentare. GRAPH 5.3 BUDGET RULES AND TOTAL DEFICIT F5 0.4 F6 I3 F2 F1 F4 0.2 N3 PRIN 2 I4 I2 F3 N1 N4 P2 P3 0 N2 TDEFGDP I1 P5 -0.2 P1 P4 I5 -0.4 -0.4 -0.2 0 0.2 0.4 PRIN1 GRAPH 5.4 BUDGET RULES AND PRIMARY DEFICIT 0.4 F5 F6 I3 F1 F2 0.3 F4 0.2 P DEFGDP N3 F3 PR IN 2 0.1 I4 I2 N4 N1 P3 P2 0 N2 I1 -0.1 P5 -0.2 P1 -0.3 P4 I5 -0.4 -0.4 -0.2 0 PRIN1 90 0.2 0.4 Analisi di regressione. Allo scopo di corroborare i risultati illustrati nei grafici 1-4, (Lagona e Padovano, 2001) hanno stimato una serie di regressioni su ciascun indicatore di performance fiscale e le componenti principali delle regole di bilancio. Bisogna ricordare che, benché il modello di stima sia un OLS standard, che presuppone una relazione lineare, la trasformazione NLPCA delle regole per trovare le loro componenti principali è di tipo non lineare. Di conseguenza, la forma della corrispondenza complessiva tra le regole e gli indicatori di performance finanziaria è, in realtà, non lineare. La tabella 3 riporta i risultati delle stime. DEBGDP è negativamente e significativamente correlato con PRIN2, che coglie le regole che appartengono allo stadio F. Per quanto riguarda le misure di deficit e spesa, relazioni negative si riscontrano con le regole colte dalla loro prima componente principale. Quest’ultima che riassume le regole che, nei grafici 2-4, più approssimano una correlazione pari a -1. Il valore statisticamente significativo sui coefficienti di EXPRIN1, TDEFPRIN1 e PDEFPRIN1 rassicura circa la precisione delle stime disaggregate illustrate nei grafici. Tabella 3 DEBGDP EXPGDP PDEFGDP TDEFGDP Intercetta 66.62*** 49.59*** 0.53 6.26*** (4.51) (1.32) (0.76) (0.58) PRIN1 -2.90 (1.74) PRIN2 -6.32*** (2.17) EXPPRIN1 -1.64** (0.81) PDEFPRIN1 -1.04* (0.54) TDEFPRIN1 -2.13*** (0.37) Statistica F 5.62*** 4.14** 3.76* 33.76*** 2.4 Conclusioni Le informazioni più interessanti che emergono da questa ricerca comparativa, ai fini di una riforma delle procedure di approvazione di bilancio mirata a creare le condizioni per scelte fiscali più disciplinate, sono le seguenti: 91 non tutte le regole hanno lo stesso potere vincolante. Soprattutto, alcuni tipi di regole tendono a vincolare maggiormente certi indicatori di performance finanziaria piuttosto che altri. In particolare: Regole “off-government” e “off parliamentary”, come quelle che governano l'attuazione delle disposizioni di bilancio da parte della burocrazia e la trasparenza del documento di bilancio, mostrano un maggiore potere vincolante sulle spese pubbliche e sul debito. Le regole che invece disciplinano la negoziazione della proposta di bilancio all'interno del governo tendono ad avere effetti più forti sui deficit complessivi. Una limitazione della discrezionalità parlamentare sembra fondamentale nello sforzo di ottenere avanzi primari. 92 Bibliografia - Alesina A., Hausmann, R., Hommes, R. e Stein, E. (1996), “Budget Institutions e Fiscal Performance in Latin America”, NBER Working Paper, n. 5586. - Alesina, A. e Perotti, R. (1994), “The Political Economy of Budget Deficits”, IMF Working Paper n. 94/85. - Alesina, A. e Perotti, R. (1996), “Budget Deficits e Budget Institutions”, NBER Working Paper n. 5556. - von Hagen, J. 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