Né Ulisse né i nodi che lo legano sono perfetti

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Né Ulisse né i nodi che lo legano sono perfetti
FAUSTO MARIA PICO
1. Democrazia costituzionale e Sovranità
1.1 Definizioni essenzialistiche e questioni di senso
Sembra un uso corrente, diffuso, quasi un dovere professionale, che in filosofia
giuridica e politica si finisca con l'adottare il "metodo essenzialistico che ricorre a
definizioni astrattive per discutere di questioni etico-politiche" (Melandri 1989, 192).
Si è dominati anche su questo terreno dal bisogno di affidarci a definizioni, ma il
lume dell’astrazione razionale,a differenza che in matematica, quì non constringe
sempre alla “riprova della sua contraria. Una volta partiti da un fatto per giungere
astrattivamente alla sua essenza, non si è più in grado di ritornare da quest’ultima al
punto di partenza.” (ibid., 197). Non andrebbe mai perso di vista , allora,il divorzio che
così si produce fra il concetto di obiettività e quelli di esistenza e di realtà
Prendiamo la nozione di Sovranità, di potere sovrano e notiamo come se ne
presuma l'intima aporeticità." Come categoria filosofico-giuridica la sovranità è una
costruzione di matrice giusnaturalistica che è servita di base alla concezione
giuspositivistica dello Stato e al paradigma del diritto internazionale moderno; dunque
un relitto premoderno che è all'origine della modernità giuridica e insieme con essa
virtualmente in contrasto" (Ferrajoli 1996, 20). Ma Sovranità, si aggiunge, è anche una
"metafora antropologica di stampo assolutistico".
In quanto metafora la si è potuta coniugare a differenti e contrastanti immagini
dello Stato e del politico, "dall'idea della sovranità come attributo del princeps alle
concezioni giacobine, organicistiche e democratiche dapprima della sovranità nazionale
e poi della sovranità popolare, fino alla dottrina giuspubblicistica ottocentesca dello
Stato-persona e della sovranità quale attributo o sinonimo dello Stato" (ibid.).
Una categoria-metafora, dunque che ha una storia il cui andamento si presenta
come asincrono sui versanti interno ed esterno, una storia con un esito che sarebbe
iscritto proprio nello statuto aporetico della dottrina della sovranità per i "molteplici ed
eterogenei materiali-giusnaturalistici, giuspositivistici, contrattualistici, idealistici e
spirirtualistici che nel corso di quattro secoli l'hanno alimentata" (ibid.).
Il vizio di aporeticità dapprima viene individuato nella categoria “Sovranità” poi
viene ascritto alla dottrina, più precisamente al suo essere inclusa in diverse e
contrastanti teorie del pensiero giuridico e politico che si incontrano seguendo la
scansione storica della modernità.
E’ improprio assegnare il disvalore di aporeticità ad una categoria,in quanto per
aporetico intendiamo un pensare problematico, critico, dubbioso, e una categoria è
oggetto di pensiero e non un pensare. Si puo certamente sostenere che una teoria o una
dottrina sia aporetica. Tuttavia essa può sempre trattenere nelle proprie nervature una
qualche residua fecondità. Magari proprio sul versante dell’uso metaforico di una
nozione, uso e nozione di cui però sbrigativamente ci si vuole disinteressare. Le dottrine
e le teorie spesso poggiano su metafore e producono metafore. E queste conservano
fecondità rispetto alle stesse definizioni concettuali delle corrispondenti categorie,
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perché ne estendono o ne approfondiscono le possibilità di “determinazione”. In questo
senso “potere sovrano” è un concetto comprensibile in una dottrina democratica solo
attraverso la metafora della sovranità popolare. Se una categoria può essere vista
invecchiare, essa attraverso una metafora può ringiovanire.
Tuttavia si è detto che la nozione di Sovranità, da un lato, quello interno,
verrebbe progressivamente limitata e dissolta dal formarsi dagli "stati costituzionali e
democratici di diritto" dall'altro, ossia sul versante esterno, coincidendo il suo apice nel
nostro tempo con gli esiti catastrofici delle guerre mondiali, starebbe ora percorrendo il
tratto discendente della sua parabola, segnato dalla crisi irreversibile della sovranità
degli Stati.
Sovranità, insomma, sarebbe, in quanto metafora, solamente uno pseudoconcetto, ma come categoria sarebbe "anti-giuridica" e storicamente perdente poiché,
seguendo il metodo essenzialistico, “la sovranità è assenza di limiti e di regole, cioè il
contrario di ciò in cui il diritto consiste. Per questo la storia giuridica della sovranità è la
storia di un' antinomia tra due termini - diritto e sovranità - logicamente incompatibili e
storicamente in lotta tra loro" (Ferrajoli 1996, 61-2).
E’ preferibile, invece, parlare di “paradosso della sovranità” la cui formulazione
dice: "il sovrano è, nello stesso tempo, fuori e dentro l’ordinamento giuridico". Così,
richiamandosi a C. Schmitt, Giorgio Agamben propone la sua riflessione sulla topologia
implicita del paradosso, al cui centro è la nozione di “eccezione” con la sua capacità di
rendere, schmittianamente, palese, ma con assoluta purezza “un elemento formale
specificamente giuridico: la decisione” (Schmitt 1998, 39).
Il paradosso affermando che “il sovrano, avendo il potere legale di sospendere la
verità della legge, si pone legalmente fuori della legge”, può essere anche così
formulato: “la legge è fuori se stessa", ovvero: "io, il sovrano, che sono fuori legge,
dichiaro che non c’è un fuori della legge” (Agamben 1995, 19). È manifeso come in
questa dizione siano impliciti esiti teorici del tutto diversi da quelli che si possono
derivare sostenendo semplicemente il carattere aporetico della nozione di sovranità.
Infatti “se l’eccezione è la struttura della sovranità, la sovranità non è, allora, ne un
concetto esclusivamente politico, ne una categoria esclusivamente giuridica, ne una
potenza esterna al diritto (Schmitt), ne la norma suprema dell’ordinamento giuridico
(Kelsen): essa è la struttura originaria in cui il diritto si riferisce alla vita e la include in
sé attraverso la propria sospensione” (ibid., 34). Questa non-appartenenza esclusiva,
questo non essere riducibile ad alcuna delle prospettive dottrinali o scientifiche, mi
sembra la miglior ragione che consente ad Agamben di concludere affermando che “la
prestazione fondamentale del potere sovrano è la produzione della nuda vita come
elemento politico originale e come soglia di articolazione fra natura e cultura, fra, zoé e
bìos” (ibid. 202) e il suggerimento più suggestivo per la prosecuzione della nostra
indagine sulla struttura metaforica della sovranità.
Del Diritto stesso, proseguendo, "possiamo farci un'idea essenzialistica e
astrattiva e identificarlo con l'idea di regola, di norma, di vincolo, oppure di "ragione
artificiale". Comunque esso, così configurato, viene presentato come necessariamente
confliggente o anche solamente contrastante con quella di Sovrano.
Rispetto alla crisi epocale dello Stato si finisce allora con l’indicare alla cultura
giuridica e politica il “compito di far leva su quella "ragione artificiale" che è il diritto, e
che già in passato ha modellato lo Stato nelle sue relazioni interne, per orientarne le
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forme e i percorsi ... attraverso il superamento della forma stessa dello Stato nazionale e
la rifondazione del diritto internazionale non più sulle sovranità deli Stati ma sulle
autonomie dei popoli" (Ferrajoli 1996, 66).
Il rapporto fra Costituzione e Sovranità però può essere configurato secondo
prospettive diverse da quelle di Ferrajoli, tenuto conto che nel percorso per il
superamento della crisi dello Stato egli stesso adotta, come paradigma, lo "stato
costituzionale di diritto consegnatoci dall'esperienza delle moderne democrazie” (ibid.).
Ma occorre tener presente che è più difficoltoso adottare una nozione astattiva
che ci dia l’essenza di Costituzione. Sinteticamente e con efficia Roberto Bin
circoscrive a tre grandi "oggetti" l'area semantica del termine "Costituzione".
Il primo attiene al "modo in cui si organizzano il potere, la sua distribuzione tra
organi diversi o tra centro e periferia, i rapporti che sono istituiti fra il palazzo e i
cittadini, il ruolo e le garanzie assicurati a questi ultimi". Nella costituzione trovano la
loro configurazione la "forma di stato" e la "forma di governo", i rapporti fra governanti
e governati, i rapporti fra gli organi di governo.
Il secondo possibile significato è quello di "documento", "il documento
fondamentale che segna il trionfo di un ideale, sancisce la vittoria di una visione tutta
politica dell'organizzazione sociale e della sua forma istituzionale.
E' un documento solenne proiettato verso il futuro, pieno di promesse di
cambiamento, di programmi e di speranze, con l'indicazione delle soluzioni istituzionali
necessarie alla realizzazione degli obiettivi voluti.
Da ultimo, "la costituzione è anche un testo normativo, una fonte del diritto (la
più importante delle fonti, anzi) da cui derivano diritti e doveri, obblighi e divieti
giuridici, attribuzioni di poteri e regole per il loro esercizio" (Bin 1998, 3-6).
Le Costituzioni dunque sono anche esiti di una scrittura, "testi", oggettivanti la
manifestazione di una soggettività politica intenzionale, che ha agito, prodotto questi
testi. Allora, interpretare, applicare o addirittura "riscrivere una <costituzione >" pone
problemi di senso. Uno dei più rilevanti problemi di senso è proprio quello del
costituzionalismo contemporaneo. E’ il problema attraverso il quale la Sovranità, data
per esaurita in uno Stato costituzionale, sembra riprendere forma nel rapporto con la
democrazia dei moderni e con la nozione di Sovranità popolare.
E’ una indicazione che ricaviamo dallo stesso sottotitolo di “Costituzione e
Sovranità” di Gianluigi Palombella: "il senso della democrazia costituzionale". Il
bisogno di decifrarne lo stato problematico è impostio secondo la tesi di Palombella, da
una "tensione teorica", rintracciabile nello "statuto semantico" delle Costituzioni proprie
dei sistemi politici liberal-democratici. I nostri, per chi vive in questa parte del mondo.
Non si tratta però solo di formule concettuali, di categorie disciplinari sempre un
pò algide nella loro astrazione formale, "essenzialistiche”; non si tratta di nomi sospesi,
ma di concrezioni di storia reale.
In ragione di ciò, non a caso, “Costituzione e Sovranità” si interroga con dovuta
inquietitudine sulla distanza che vede allargarsi fra cultura costituzionale prevalente e
sistema democratico.
Non si ferma ad una lettura fenomenologica di questa distanza, non prende atto
semplicemente di come il gioco delle polarità unilaterali non dia luogo a composizioni o
sintesi.ma,mettendo a fuoco e sostenendo la necessaria dis-crasia fra i poteri costituiti e
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la sfera pubblica, si propone di lanciare un ponte che colleghi ciò che resta separato
nella democrazia dei moderni: l'istituente e l'istituito.
E’ significativo come in questo percorso, attraverso critiche puntuali, emerga
l’insufficenza e l’inadeguatezza del costituzionalismo contrapposto alla democrazia, dei
diritti contrapposti alla sovranità e viceversa, contrapposizioni che il dominio adialettico, cioè, di una categoria del pensiero giuridico e politico sulle altre finisce con il
produrre, mostrandosi poi incapace di superare.
Centrale nel libro di Palombella sembra la riproposizione del tema della
Sovranità, ma da una prospettiva consapevolmente antidogmatica, che consente di
disegnare l'abito giuridico e politico che può assumere la Soggettività nella sua azione
costituente. Abito che, oggi, come in altri passaggi storici della modernità politica,
diverse prospettive teoriche, importanti, forti, vorrebbero invece in qualche modo
dismesso o dismissibile. Magari proprio "in nome di una versione della democrazia
costituzionale fondata sulla teoria dei diritti" (Palombella 1997, 11).
E già in questa succinta formulazione è contenuta e si manifesta tutta quella
"tensione teorica" in cui si annida, in cui è in gioco la questione di senso.di una
democrazia costituzionale. Da un lato il polo della Soggettività, dall'altro quello della
teorica dei diritti, secondo cui "ha priorità logica" il loro essere "inviolabili”.
Come tali, ossia inviolabili, i diritti finiscono per imporsi alle diverse
generazioni di cittadini dei sistemi politici democratici. Essi integrano con la loro
"corporeità" il modello procedurale-parlamentare; e le Costituzioni, come esiti di una
storica scrittura, si trasformano allora in esiti di una storica "trascrizione", trasposizione,
traduzione dei “diritti”. Esse hanno qualcosa di originariamente passivo: sono ciò che
risulta da una ormai compiuta e perciò definitiva dettatura.
Le Costituzioni, raccogliendo valori assoluti, assurgono ad una funzione
descrivibile come "argine assoluto alla vecchia pretesa di illimitata rifondazione della
politica" (Palombella 1997, 12). Come sponde invalicabili di "garanzie e assunzioni di
principio", ormai date e acquisite, in quanto risultato storico, prodotto di una dolorosa
selezione progressiva, consentirebbero, allora, "la definitiva esclusione dal lessico
ammissibile, entro gli stati costituzionali di diritto, sia della sovranità sia del potere
costituente" (ibid.). Il che varrebbe come indice di quel paradosso che viene individuato
nel fatto che le costituzioni,pur scaturendo dalla dinamica storico-politica, “non hanno e
non vogliono avere una storia alle loro spalle ma si propongono di fare la storia del loro
futuro" (Zagrebelsky & Portinaro 1996, 53).
Nozioni terribili quali quelle di sovranità e di potere costituente possono però
essere rigettate, possono essere facilmente disancorate dallo stesso concetto di
democrazia? E' la questione su cui si incardina la riflessione di Palombella. Non tanto,
si può rispondere, se è vero che la Costituzione "predispone non soltanto la procedura
del gioco politico e non si esaurisce nel disegno di governo, ma contiene normalmente
anche un quadro programmatico per i contenuti della politica".1
Forse il concetto "puro e radicale di democrazia" contiene in sè la "pretesa di
illimitata rifondazione politica" ma la cancellazione di quei terribili concetti, secondo
Palombella, finisce per rendere "sempre meno pregnante e meno comprensibile la ratio
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P.P.Portinaro op cit p 27
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degli impegni che le stesse costituzioni assumono nei confronti della democrazia e della
stessa libertà politica" (Palombella 1997, 12).
Secondo una ispirazione ideale sicuramente ambiziosa si sostiene, inoltre, che,
seguendo la divaricazione fra Sovranità e Costituzione, l'orizzonte potrebbe apparire più
limpido, lo sguardo si farebbe capace di travalicare la ristrettezza degli ambiti territoriali
di validità di un certo testo-dettato costituzionale e di estendersi al confronto-conflitto
dei modelli di civiltà. E sarebbe proprio lo sguardo della giuridicità, della "tersa
razionalità delle norme costituzionali di principio", l’unico sguardo in grado di staccarsi
dalla torbida-incontrollabile volontà politica e di consentire, perchè in se stesso ne
avrebbe il senso e la scaturiggine, il linguaggio dell'universalità.
Da molti viene dunque opposta a quella di Sovranità l’idea giuridica di matrice
illuministica di una ragione universale dei diritti. Però ci si può chiedere se questa idea
da sola possegga “una forza assoluta e un'efficacia trainante dei nostri processi di
civilizzazione" (ibid., 13).
All'utopia, un pò troppo irenica per pretendere di avere la misura del realismo, di
un costituzionalismo universale, quello delle dichiarazioni dei principi e dei diritti, che
nella sua oikos-nomia, raccoglierebbe ogni "giustificata differenza" si può, con
Palombella, contrapporre la semplice osservazione che "innanzi alla logica dei diritti
universali si vedono levarsi legittime aspirazioni ad affermare il proprio radicamento,
culturale e politico inanzitutto.a esprimere il senso positivo di appartenenza ad uno
Stato a una nazione, e finanche a una regionee a una comunità" (ibid.). E allora non
servirebbe granchè limitarsi ad un semplice atteggiamento osservativo, rispetto
all'oscillazione del pendolo universalità-particolarità, globale- locale, il moto fra poli
opposti che caratterizza empiricamente il nostro tempo.
Ma l’astratta "ragione universale dei diritti" ha la presunzione di una "forza delle
cose" che farebbe la sua forza. Al prezzo, però, di rimuovere il carattere "locale" della
sua storia, quella che è storia della sua affermazione. Lì dove proprio le categorie
terribili di Sovranità e di Potere costituente sono state decisive. Così e non
diversamente, è improprio rimuovere la natura “locale” della stessa affermazione dello
Stato democratico costituzionale.
1.2. Polisemia e incremento di senso
Le categorie, pur nella loro astrattezza, hanno le stimmate della storicità.Questo farebbe
concludere: sono fungibili, sostituibili. E’ vero, ma solo in parte. Nella loro storicità è
iscritto anche il tratto della polisemia, che possiamo intendere come condizione di
trasformazione e trasmissione di senso oltre che di significati.
Avventurarsi, allora, con "le nozioni come popolo, consenso, democrazia,
sovranità, diritti" in un interpretazione pur "ragionevole", ma soprattutto "incrementale"
che valorizzi" la loro compresenza nel testo delle nostre costituzioni" è di per sè
stimolante e suggestivo, ma presuppone che ogni concezione di Costituzione come
semplice e definitiva "trascizione" di inviolabili diritti debba essere abbandonata perchè
finisce proprio per opporsi a una nozione dinamica ma non formale o procedurale di
Democrazia. Palombella, questo è il punto, ritiene che "la democrazia non solo è un
necessario presupposto della tutela dei diritti, ma che essa li custodisce, iscritti oggi
nella sua stessa grammatica" (ibid., 14).
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Per "ragionevolezza" intenderei la semplice avvertenza dei rischi che incombono
nel prendere posizione definitiva su uno dei poli dell'opposizione. Manifestazione cioè
di prudenza ragionevole.
Ed è ragionevole una interpretazione che ci consente di cogliere come "le nostre
costituzioni possono anche offrirci un quadro della democrazia e della sovranità ancora
vitale e incompatibile con ogni forma di totalitarismo" (ibid.).
Credo in effetti che si debba tener fermo che "teleologicamente parlando, con
democrazia" si può intendere "il superamento in praxi tanto del liberalismo quanto del
comunismo, la sintesi concreta delle libertà dell'uomo e dei diritti del cittadino"
(Melandri 1989, 205).
Alla nozione politica di democrazia non è attribuibile lo statuto di valore in sè,
poichè non possiamo scordare che "si tratta non di una democrazia ideale, ma di
compromesso, ricavata com'è da varie ricette che combinano secondo molteplici
alchimie concettuali il provento reale, perchè ripetibile e quindi in potere dell'uomo, di
quattro rivoluzioni sociali che appartengono alla storia mondiale: la rivoluzione inglese,
liberale e incruenta del 1688, la rivoluzione francese, giacobina ma transeunte del 1789,
la rivoluzione americana, jeffersoniana e puritana, del 1776, e la rivoluzione russa,
bolscevica ma revisionista in bene e in male del 1917" (ibid.).
Una interpretazione di democrazia che si proponga come “incrementale”
richiede inoltre che si parta dalla consapevolezza che essa "si è imposta non con le
lusinghe del sistema idealmente perfetto di governo, ma piuttosto come inevitabile
razionalizzazione dell'impossibilità di fare meglio. La democrazia è anzitutto
razionalizzazione secondo un profilo basso e decisamente non weberiano, lo è nel senso
della semplificazione rassegnata agli usi già in atto, ... nel senso più derogatorio e
perverso della pratica di accettare ... quanto dobbiamo accettare perchè soverchiati dal
numero" Quindi, dal punto di vista dei governanti "equivale al riconoscimento che si
governa nell'esatta misura in cui si è governati, secondo una dialettica servo-padrone
che non si rovescia perchè è già in corto circuito" (Melandri 1989, 206).
Da qui possiamo procedere con l’ulteriore avvertimento che ricaviamo da
Habermas, secondo cui la democrazia oggi “Non può più essere concepita sul modello
di un macrosoggetto, come un Leviatano curato da Rousseau che si dà da sè le leggi del
proprio agire.” L’approccio della teoria del discorso, da lui proposto, configura, invece,
la sola “questione della istituzionalizzazione di procedure e di circuiti di comunicazione
che rendano possibile una formazione più o meno discorsiva della volontà e
dell’opinione” (Habermas 1992, 128).
Si tratta, anche, di considerare che quel superamento in praxi che si è richiamato
precedentemente non è reso di certo eludibile e superfluo dal fatto che si sia estinto oggi
uno dei due universi opposti, che hanno segnato il nostro secolo breve. Resta ancor oggi
del tutto aperta la contraddizione iscritta nell'espressione propria delle costituzioni
liberali in cui si dice di "diritti dell'uomo e del cittadino". Non è questa una semplice
endiadi, che semplicemente raccoglie le due posizioni di “uomo” e di “cittadino” a
fronte del diritto,è una espressione che sottolinea piuttosto come "I diritti dell'uomo e
del cittadino segnano i limiti di adesione alla legge di chi sa che la forza,la libertà e la
proprietà son acquisizioni anteriori ad ogni diritto" (Melandri 1989, 193). Per questo,
secondo una formulazione piuttosto icastica ma concettualmente efficace, "Nelle
costituzioni liberali la clausola dell'uomo e del cittadino fa non a caso pensare alla
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riserva mentale di uno che si trovi ad essere cittadino di una repubblica della filibusta,
ma che conservi la speranza di poter fuggire un giorno col malloppo" (ibid.). E il tema
che oggi ci compete di affrontare non è quello del rapporto fra soggettività sovrana
rispetto a costituzioni liberali, ma rispetto a costituzioni liberali edemocratiche.insieme.
1.3. Paradossi e pensiero dialettico
Pensare allora teleologicamente la democrazia e la sua grammatica e quindi anche il suo
nesso con il costituzionalismo, comporta un atteggiamento non irretito nella semplice
manifestazione di astrazioni opposte e irriducibili fra loro, ma consapevole del ruolo
cruciale che svolgono i paradossi del pensiero e il concetto di complessità.
Allo stesso modo si orientano F.Ost e M. van de Kerchove (1997). Nel loro
"Pensare la complessità del diritto:per una teoria dialettica" sostengono con M DelmasMarty: "Che si tenti di prescrivere una norma, di interpretarla o di legittimarla
riferendosi a valori meta-giuridici, i nostri schemi di pensiero restano fortemente legati
a quelli dell'epoca dei Lumi. Regole precise, ragionamento sillogistico e valori
omogenei — insomma un ordine monologico — godono di gran lunga delle preferenze
dei giuristi.Tuttavia, è vero anche che il diritto non appartiene ai giuristi e che si è
evoluto senza di essi, talvolta malgrado essi,verso una complessità che non basta
deplorare ma che bisogna sforzarsi di pensare" (Ost e van de Kerchove 1997, 6). Qui
possiamo trascurare i temi delle regole precise e del ragionamento sillogistico, ma
quanto ai valori omogenei che cosa ne resta, si chiedono opportunamente Ost e van de
Kerchove," laddove le leggi devono fare i conti con i diritti degli individui e dei gruppi,
diritti essi stessi dilaganti in dipendenza della sempre maggior crescita, nella nostra
società, di interessi contemporaneamente individualistici e pluralisti" (ibid.).
Che cosa ne resta, insomma, degli schemi di pensiero legati all'epoca dei Lumi?
Una ragione che non voglia misurarsi con la paradossalità evita, al contempo, la
complessità e la sua scarsa prevedibilità, ma tradisce un alto tasso di "opportunismo"
Per il diritto la complessità "Nasce dal paradosso, quando non ci rendiamo conto che il
diritto non ha la matrice integrale del legale e dell'illegale ... che tuttavia regge" (ibid.).
Del paradosso non ci si può limitare a prendere semplicemente atto, quasi fosse
uno scacco del pensiero.Va invece esso stesso pensato, così come la complessità.
"L'affacciarsi di paradossi ci mette sul chi vive ... gran parte dei paradossi ...
sono artefatti della logica binaria. La quale, dopo essersi precipitata ad affermare il falso
come contrario del vero e il vero come contrario del falso, si trova a mal partito ad
affrontare questioni complesse, e va cercando ingenuamente il contenente nel contenuto,
l'insieme tra i suoi elementi, la cariola in mezzo alla segatura, non avendo terze
alternative (Sciacchitano 1997, 122). Ma il pensiero non si arresta, punta ad uscire dalla
costrizione delle coppie oppositive come quelle di "dentro/fuori, interno/esterno, al fine
di cancellare la costrizione dell'interno.” Anche perché, “A pensarci bene l'"interno" ha
senso solo all'interno della coppia interno/esterno" (ibid., 123). Pensare il paradosso che
nasce da opposizioni irriducibili insieme al ruolo della complessità è possibile se si
assume uno stile dialettico.
E’ la proposta di Ost e Va n de Kerchove. Se questa a taluno può apparire
inattuale è perche di un simile pensare più continuiamo a farne a meno, con maggiore o
minore consapevolezza metodologica, più cerchiamo di rimuoverne la pressione, più
finiamo, ricorsivamente, per assumerne se non l’incodificabile movimento, quantomeno
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l’istanza problematica. Di Dialettica se ne può parlare in molti modi e storicamente essa
ha assunto configurazioni diverse. Ost e Van de Kerchove,rifacendosi alle "avventure
della dialettica" di Merleau-Ponty propongono come "la sola buona" quella dialettica
senza sintesi,ossia quella che dopo ogni “arresto d’immagine” si volge continuamente al
movimento della vita e della storia.
Più precisamente: “questa dialettica senza sintesi è dinamica: il suo principio è il
movimento ricorsivo — l’iterazione se si preferisce — che si sviluppa fra i due poli in
tensione. Solo essa può assicurare "il ritorno del terzo", il terzo escluso dalla logica del
semplice: non "terza via" ex-machina che rigetta le altre due, ma terza via interna, come
terza dimensione emergente dal campo dialettico stesso". Campo dialettico che risulta
essere il "medio" ove si esercita il movimento del pensierio. Che richiede però una
capacità di saper camminare. Ossia un metodo in grado di "Porre in tensione
sistematicamente gli elementi complementari e pertanto antagonisti” in grado di
“Mostrare, perciò, che ogni termine contiene virtualmente il suo "altro" e che quindi
essi hanno sorte "vincolata"; (di) seguire i giochi dei loro aggrovigliamenti e,
letteralmente,delle loro trans-formazioni; (di) liberare dallo spazio mediano (nel suo
senso globale di "campo" e non nel senso aritmetico di "metà") dei loro rapporti le
proprietà emergenti e terze che contribuiscono alla loro riproduzione simile e pertanto
differenziata; (di) assumere il rischio dell'incertezza di questa genesi non programmata
che è quella della complessità, della vita e della storia; (di) liberare così la potenza
euristica dei paradossi che non cessano di "dar da pensare" (Ost & van de Kerchove
1997, 15).
E' proprio attorno al Paradosso, che finisce per assumere le fattezze obbligate di
un dilemma caratterizzante la teoria giuridica e politica delle democrazie occidentali,
che vedo, in vero, muoversi il problema del nesso fra Costituzione e Democrazia. E’ il
paradosso della opposizione tra la semantica del costituzionalismo e quello della
democrazia, ma che ad un'altra opposizione è riconducibile: quella fra soggettività
democratica, attuale, e norme o principi intangibili, dettati-positivizzati da una
soggettività trascorsa, riconoscibile, però, come anch’essa democratica.
1.4. Il dilemma e il concetto di limite
Ma come può configursi un reale dilemma fra costituzionalismo e democrazia? "Il
primo ", se visto nella sua fissità razionale, e non permeabile agli effetti (perversi?)
delle turbolenze democratiche, garantisce se stesso, in modo permanente, nelle forme
che ha raggiunto." (Palombella 1997, 17). Verrebbe cioè sottratto alla discussione
democratica, perchè "le costituzioni sono idee che non hanno gambe, una volta
ipostatizzate e rovesciate contro il proprio supporto democratico" (ibid.). Della seconda,
ossia della democrazia, può essere teorizzata la supremazia da chi nelle costituzioni
vede solo "la proiezione di una decisione storicamente determinata (anche se di portata
non contingente), di una filosofia di valori che può essere interamente riscritta, di un
assetto organizzativo che può prima o poi essere mutato" (ibid., 18).
Si viene così configurando la questione: una democrazia può essere solo
costituita o può costituirsi? Le costituzioni non potendo vantare alcun "privilegio di
ruolo", se disancorate dalla concretezza della volontà politica democratica finiscono per
non valere nella loro stessa funzione di argine, di impedimento a decisioni arbitrarie.
Ma dal lato delle democrazie, le costituzioni non possono valere come semplici costrutti
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teorici o impegni su principi soggetti ad ogni possibile re-interpretazione e ri-scrittura.
Esse, anzi, "spesso contengono i presupposti essenziali di una grammatica democratica
che appare indisponibile alla democrazia" (ibid.).
Una democrazia, allora, si può costituire come tale. Ma ne deve rispettare i
presupposti e i requisiti regolativi se non vuole negare se stessa. Requisiti e presupposti
che sono le sue fin troppo note figure grammaticali. Ma due concetti è opportuno non
perdere di vista, proprio per le loro implicazioni teoriche: quello di limite e quello di
garanzia.
Non andrebbe perso l'intreccio: le costituzioni garantiscono perchè limitano il
potere politico, e ciò che è oggetto di garanzia è proprio il tessuto dei diritti, ma parte
dei diritti e delle norme costituzionali "rappresentano una garanzia della democrazia e
certamente non un limite per essa (cioè non un limite esterno verso il "potere"
democratico)" (ibid., 19). In tal senso non la costituiscono, nè l’autorizzano a decidere
su ciò che è legittimo decidere.,ma la “dicono”. Il principio di auto-legislazione è
dunque essenziale per la sua sussistenza.
Concordando con le considerazioni di Palombella ritengo che nella nozione di
limite non andrebbe dunque, colto il motivo di impedimento, di argine rispetto al flusso
incontrollabile del potere di decidere, ma piuttosto quello di nesso interno, di “tessuto”,
di “bisogno”. Aggiungo che dovremmo intendere anche il motivo di profilo, di disegno,
di limite nella occupazione dello spazio delle possibilità. E’ un ulteriore aspetto che
viene suggerito dalla asserzione che sostiene: "Il limite - è questo il punto- non nasce
dalle costituzioni prima che dai diritti, è imposto dalla democrazia stessa, intesa nel suo
principio ispiratore, che è quello dell’autolegislazione” (ibid., 20) e dunque di auto
definizione, di auto dichiarazione.
2. La metafora di Ulisse e le corde
Si è visto: si ha a che fare con “metafore antropologiche”, oltre che con figure di una
grammatica.concettuale. Anche con paradossi,con posizioni di dilemmi. Sono quindi
possibili diversi stili di trattazione.
Scegliamo di raccordare gli elementi del confronto teorico in cui si pone
“Costituzione e Sovranità” all’immagine metaforica espressamente richiamata di
“Ulisse e le Sirene”, l’immagine in cui si configura nel modo più efficace il principio di
auto-obbligazione, di auto-legislazione. Ci riferiamo ad una “funzione conoscitiva”
della metafora e in questo ci raccordiamo ad una mossa del pensiero.che appartiene alla
nostra più radicata tradizione “Della funzione conoscitiva della metafora Aristotele
fornisce la conferma più luminosa quando la associa alla mimesi. Paul Ricoeur …
avverte che se la metafora è mimesi non può essere gioco gratuito. Nella Retorica
(14411b, 25ss.) non si lascia adito a dubbi: le metafore migliori sono quelle che
rappresentano le cose "in azione". Quindi la conoscenza metaforica è conoscenza di
dinamismi del reale …”, per cui “… le metafore migliori sono quelle che mostrano la
cultura in azione, i dinamismi stessi della semiosi” (Eco 1988, 164-5).
9
Un’assemblea costituente, dunque, costituisce per J. Elster “l’analogia sociale
più vicina a quello che doveva essere lo stato mentale di Ulisse in quella drammatica
fase delle sue peregrinazioni” (Elster 1983, 176).2
“...ma voi con legami strettissimi dovete legarmi, perchè io resti fermo, in piedi sulla
scarpa dell’albero; aquesto le corde mi attacchino. E se vi pregassi, se v’ordinassi di
sciogliermi, voi con nodi più numerosi stringetemi”3
Elster ci presenta un Ulisse non “pienamente razionale,poichè una creatura razionale
non avrebbe fatto ricorso a quello stratagemma, ma neppure soggetto passivo di desideri
“in quanto capace di conseguire con mezzi indiretti lo stesso fine che una persona
razionale avrebbe realizzato in maniera diretta” (Elster 1983, 65). Lo stratagemma di
Ulisse del farsi legare sarebbe un esempio di quella razionalità imperfetta che occorre
considerare perchè la debolezza della volontà può impedirci un comportamento
perfettamente razionale, ma oltre a questo, lo stratagemma rientra in uno schema
d’azione politica per la sua proprietà di modificare, tramite una decisione, il
comportamento pubblico,proprio e altrui. Ulisse è il solo infatti che può ascoltare il
canto delle sirene. Infatti ,va aggiunto, impone ai propri compagni una sequenza di
azioni inibendo loro l’unica che può essere fonte di alternative: l’ascolto da parte di tutti
di quel canto. Riduce così,drasticamente, con decisione imperativa le alternative, per sè
e per gli altri. Il suo farsi legare è fonte di obbligazione.E questo perché, secondo Elster,
Ulisse ha “la capacità di prevedere”, dispone cioè della condizione necessaria “ma non
sufficiente per il conseguimento dell’ottimo dinamico”. Occorre predisporre lo
stratagemma che eviti l’incertezza delle decisioni future, quelle presumibili che
deriverebbero dall’ascolto del canto. Nell’incertezza infatti incombe su Ulisse e i
compagni la possibilità di un esito disastroso. E, per Elster, l’ncertezza circa le decisioni
future può derivare da due distinte fonti”: la legge può essere ambigua ... oppure
cambiare costantemente” (ibid., 162). Ben poca ambiguità nella decisione di tappare le
orecchie ai compagni e di farsi legare! Resta il poter cambiare continuamente legge,
ossia adottare ulteriori e contrastanti decisioni.
La capacità di prendere decisioni fondamentali, difficilmente modificabili nel
tempo, fa ritenere ad Elster come sia solo un’assemblea costituente “il vero soggetto
politico, nel senso forte di politique politisante”, capace di vincolare le generazioni
successive alla sola funzione dell’adempimento delle regole del gioco che la politique
politisant ha fissato (ibid., 163). E tuttavia il paradosso si ripropone nel fatto che
"ciascuna generazione vuol essere libera di legare i suoi successori, mentre non vuole
farsi legare dai suoi predecessori” (ibid.), ossia nel fatto che ciascuna generazione non
intende rinunciare alla sovranità della politique politisant. La scansione temporale, il
succedersi delle generazioni di una stessa cittadinanza, rinvia alla validità razionale
della scelta di “seguire la linea retta”, pur nel quadro di una razionalità imperfetta, come
nello stratagemma di Ulisse di auto-obbligarsi. L’assemblea costituente,il vero soggetto
politico, per Elster, viene però ad assumere “un carattere unico e privilegiato, non per
diritto, ma per accidente storico. In situazioni storiche eccezionali ed imprevedibili … la
E in questo caso non andrebba scordato come “…anche in filosofia è segno di buona intuizione il
cogliere l’analogia tra cose molto differenti” : Aristotele, Retorica 1412a,11-12.
3
( Odissea…)
2
10
drastica rottura col passato la scia l’assemblea libera di legare il futuro” (ibid., 163-4).
Tuttavia non sfugge allo stesso Elster il “fastidioso problema” posto da W. James per
cui “la più nobile vita etica … consiste nel violare le regole che sono diventate troppo
strette”. Per “più nobile vita etica” possiamo intendere qùì il principio di libera capacità
di autonormazione di una democrazia, principio che non esclude affatto che un popolo
trovi giustificato, in un dato momento della sua storia, rompere deliberatamente con
quelle regole. Prima di quel momento, però, i nodi che legano Ulisse restano ben stretti.
2.1. Modificare se stessi
Ma la metafora di Ulisse-Assemblea costituente ha ulteriori implicazioni. Esse vanno
oltre il lato puramente esteriore dell’autobbligazione e riguardano la possibilità che in
questa sia anche in gioco la possibilità di modificare se stessi , il quadro delle proprie
credenze e dei propri valori. Per questo le riflessioni che qui si porpongono prendono
certamente lo spunto dall’uso che J. Elster fa della metafora, ma tendono a evidenziare
ulteriori stimoli di indagine sul tema del soggetto istituente, stimoli che è possibile
ricavare dalla ben più complessa analisi dello stesso mito qual è quella che ci offrono
Horkheimer e Adorno: "Il dodicesimo canto dell’Odissea - essi scrivono - narra del
passaggio davanti alle Sirene.La rentazione che esse rappresentano è quella di perdersi
nel passato. Ma l’eroe a cui la tentazione si rivolge è divenuto adulto nella sofferenza
…si è consolidata in lui l’unità della vita, l’identità della persona” (Horkheimer &
Adorno 1974, 40-1). Il valore del canto delle Sirene è la rievocazione del passato
salvandolo come vivente ,ma a prezzo della dissoluzione del Sè: “Se le Sirene sanno
tutto ciò che accade, esse chiedono in cambio il futuro e la promessa del lieto ritorno è
l’inganno con cui il passato cattura il nostalgico” (ibid., 43). E nel quadro delle presenti
riflessioni acquista centralità il fatto che “Gli stessi vincoli con cui (Ulisse) si è legato
irrevocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontane dalla prassi: la loro tentazione è
neutralizzata a puro oggetto di contemplazione,ad arte” (ibid.).
Non sussiste, dunque, il solo problema della debolezza della volontà, della sua
incostanza o della variabilità delle preferenza per un decidere secondo una razionalità
imperfetta. “Per sostenere questo tipo di strategia - ossia quella della linea retta occorre anche assumere che la prima decisione sia quella giusta, non si basi su
preferenze immotivate, non sia presa cioè a casaccio” (Garbolino 1983, 10). Si pone
cioè anche il problema dei presupposti conoscitivi di una decisione razionalmente
motivata, del punto di vista che adottiamo per affrontare situazioni critiche, della sua
giustificabilità. Si possono dunque avere dubbi sulla giustezza della prima decisione.
Nel quadro però di una teoria delle decisioni razionali non vale tanto il valore di verità o
falsità di ciò in cui si può credere, vale la coerenza dell’insieme di ciò in cui crediamo.
Sotto questo profilo svolge un ruolo cruciale l’argomento di Pascal da cui origina la
teoria soggettivistica delle decisioni razionali e in cui l’obiettivo di massimizzazione
dell’utilità attesa è sostenuto dal consiglio di manipolare se stessi: di mutare il proprio
punto di vista, di agire “come se”. Nella tematica pascaliana: di “ agire come se si
credesse per produrre la vera fede".
Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino, volete guardarvi
dalla mancanza di fede e ne richiedete i rimedi: imparate da coloro che sono stati legati
come voi e che ora scommettono tutti il loro bene ... Seguite il metodo con cui hanno
cominciato, facendo cioè tutto come se credessero ... In maniera del tutto naturale,
11
anche ciò vi farà credere e vi ristupidirà. “Ma è proprio quel che temo” E perchè? Che
cosa avete da perdere?”.4
Il valore dell’argomento di Pascal è riconoscibile nella indicazione della capacità
di modificare se stessi, il quadro delle proprie convinzioni, di fronte alla impossibilità o
incapacità di modificare le circostanze o le condizioni esteriori dell’agire.5
Ulisse che deve necessariamente transitare presso l’isola delle Sirene, a questo
punto, adotta lo stratagemma non solo di farsi legare, ma in questo, anche di
modificare se stesso.
La radicalità dell’argomento di Pascal è della stessa natura: ai nodi corrisponde il
rischio di quel “impecorimento” o “ristupidimento” che giustifica il naturale timore di
chi vorrebbe andare alla fede ma non ne conosce il cammino. Questi non ha altro di
fronte a sè che l’esempio di chi ha già compiuto il passo del “come se”.Non gli rimane
che provare, che farsi legare. Si è nell’ordine della contingenza delle circostanze
immodificabili ed è su questo piano ontologico che l’uomo pascaliano si manifesta
Sovrano.nella possibilità di decidere mutando, però, il proprio punto di vista. J.Elster
commentando la struttura argomentativa della “necessità della scommessa” osserva
opportunamente: "All’inizio non c’e ragione per credere, ma solo una ragione per farsi
credenti. L’efficacia causale di una credenza allo scopo di ottenere un certo fine non
può mai costituire una ragione per adottarla …Non di meno questa efficacia potrebbe
costituira una ragione per obbligarsi alla credenza, nel senso di stabilire una serie di
azioni che avranno come risultato prevedibile quello di portare a credere” (Elster 1983,
101-2). Non disponiamo, allora, di una Ragione assoluta, sciolta dai vincoli della prassi,
ma solo di più modeste “ragioni per” possibili e contingenti azioni orientate ad un fine.
E’, questo, il motivo della contingenza storica, quale possiamo ritrovare nel
patto costituente: “Le costituzioni sono affette in modi diversi dalla natura contingente
del patto costituente, ed esprimono...il carattere storicamente determinato e transitorio
dell’intesa che le sorregge” (Palombella 1997, 66).
Ma questo ci riporterebbe alla situazione del cambiare costantemente le
decisioni, se le costituzioni non formulassero impegni tali da resistere al continuo
riproporsi di eventi contingenti e agli attacchi di interessi particolari. Sovranità e potere
costituente possono valere come caratterizzazioni pubbliche del pascaliano “volere
andare” decidendo di seguire un metodo, una "linea retta" scommettendo su questa, non
certo sulla verità delle proprie credenze. E non è irrilevante per la costituzione di una
democrazia, che l’esercizio delle libertà non possa avvenire che in rapporto criticamente
consapevole a contesti dati, trasmessi, originati essi stessi in contesti contingenti.
Ritornando al modello pascaliano: non è uno solo che scommette, con atto originario,
4
B. Pascal Pensieri: Articolo III Della necessità della scommessa. trad. a cura di F.Masini e
E.Giovannini Masini Novara 1966 p.378
5
I curatori dell’edizione dei Pensieri di Pascal che abbiamo utilizzato, osservano che “il S’abetir è
per Pascal equivalente a “ritornare all’infanzia”, o meglio ad una condizione pratico-devozionale
contraddistinta da quell’automatismo del corpo (la bete) che precostituisce la possibilità della fede
svuotando la ragione e il suo orgoglio, la sapienza del “saeculum” in una cosciente “stultitia” di fronte al
mondo”. Il che sembra suggerire come per Pascal non ci possa essere decisione razionale che non passi
attraverso un paradossale “svuotamento” di “sapienza”.
12
unico, irripetibile. La scommessa è consigliabile a ciascuno perchè è suffragata
dall’esempio di chi ha già scommesso. Andare alla fede vuol dire farsi pecora. Non nel
senso sgradevole di omologarsi, perdere se stessi, la propria irripetibile identità, ma di
entrare nel gregge con la ricchezza interiore che viene dal coraggio della scommessa.
Atto a cui si consente, proprio perchè non è un atto dovuto per chi è in ricerca e non
possiede alcuna verità indiscutibile.su cui sostenersi.
“Accettare la contingenza dei punti di partenza significa accettare l’eredità dei
nostri simili e il dialogo con essi, come nostro solo criterio direttivo”. Così R. Rorty,
come viene significativamente richiamato in Costituzione e Sovranità (Palombella 1997,
68) per indicare che in una democrazia si è calati nella condizione storica di dialogo con
un dettato costituzionale “ereditato”, affetto dalla natura contingente della sua
scaturigine.
3. Motivi teorici e figure della metafora
3.1. Storia e poteri
Facciamoci più prossimi a come le argomentazioni si contendono il campo, là dove il
paradosso è più avvertibile, poichè non è sulla natura contingente dell’atto costituente di
una democrazia che si obbietta ma sulla interpretazione che ne deriva delle categorie di
filosofia giuridica e politica implicate.
Si sostiene in primo luogo che il Potere costituente sia una categoria ormai priva
di referenti, una semplice astrazione, un’immagine residuale della Storia. E
sembrerebbe che sia così se si considera che 1) “non tutte le tipologie costituzionali
contengono (o presuppongono) un potere costituente, poichè il concetto tradizionalistico
di Costituzione non contempla alcun atto costituente, nè alcun contratto e dunque
nessun ricorso al relativo potere”;
2) Costituzione dei diritti e potere costituente sono fra loro incompatibili: “delle due
infatti l’una: o ci sono i diritti, e allora non ci può essere potere costituente ... o c’è
potere costituente, ma allora non ci sono più i diritti” (Palombella 1997, 23).
3) Sono il riconoscimento successivo alla promulgazione delle Costituzioni, la loro
accettazione, l’elaborazione e lo sviluppo razionale dei principi di cui sono intessute
quanto consente di affermarne la validità.
Son argomenti questi che ammettono solo un potere di espansione, modifica,
revisione. Si sostiene infatti che quand’anche si esercitasse qualcosa come un Potere
costituente, questo o negherebbe i diritti precedenti per affermarne di nuovi, o li
riadotterebbe in altra scrittura costituzionale, ma così facendo non sarebbe vero potere
costituente ma potere di semplice revisione.
Non va perso di vista che a fondamento di tali argomenti c’è la lettura storica
che vede del potere costituente moderno, di natura rivoluzionaria il tratto affatto nonarbitrario, nel suo esprimersi “in una cornice predefinita dalle leggi di natura, che
pongono i diritti naturali come il più alto e più essenziale contenuto di positivizzazione
costituzionale”. Entro questa prospettiva, esplicitamente avversa al soggettivismo e al
suo abito volontaristico e irrazionalistico “il potere costituente, per il suo radicamento
nei diritti e per il collegamento funzionale con la loro realizzazione, se concepito come
continuamente attivabile nel ciclo delle generazioni, andrebbe oggi definito come potere
13
di revisione” (Dogliani 1995, 23). E qui andrebbe sottolineato proprio l’avverbio di
tempo con cui si vuole segnare una cesura storica.
Ne consegue che la validità di una Costituzione come questione giuridica e non
solo storica e sociologica è la sua riconosciuta efficacia ed effettività. L’ordine invalso,
funzionante, non trae legittimazione dalla fonte soggettiva che lo ha posto,cioè non dal
potere costituente che lo ha definito, ma dalla soggettivita successiva, quella che a
quell’ordine manifesta assenso operandovi e vivendoci, esercitandone i poteri costituiti.
Aprendo una prima finestra sulla metafora:tutto ciò significa che interessa sì la
decisione di Ulisse di farsi legare e importa quali ne siano stati i motivi. Ma
interessa maggiormente il suo essere legato e inascoltato dai compagni che
continuano a remare. Questi intanto non odono nè le urla di Ulisse nè il canto
delle sirene. Interessa, insomma, l’assetto della nave prodotto, la salvezza del
suo carico umano.
Ma se “… la validità e l’obbligatorietà della costituzione non dipendono dalla
coincidenza della nostra attuale filosofia con quella dei padri costituenti, nè dalla
persistenza del gruppo politicamente e culturalmente egemone che produsse l’unità
testuale e semantica della costituzione, bensì semmai dal nostro appropriarci della
costituzione come un insieme che sentiamo di riconoscere” (Palombella 1997, 26) resta
il dubbio sulla asserita inutilità del concetto di potere costituente.in quanto tale. Dubbio
che si fa più pervicace a fronte di Costituzioni scritte, volute, là dove è comunque
leggibile il senso di un patto.dell’atto di una soggettività storica.
Non si può cioè sfuggire alla retroazione che va dal fatto che osserviamo così e
non altrimenti ordinata la navigazione di Ulisse e compagni, all’ascolto delle
parole con cui egli manifesta la sua decisione.
L’intentio lectoris, in questo caso, non sfugge alla dialettica con l’intentio operis, ma
questa è in interazione e non è solo semplicemente opposta all’intentio auctoris (cfr.
Eco 1995, 33-55).6
Ammettiamo pure che l’intentio auctoris, in questo caso il potere costituente alla
Sieyès,abbia inteso produrre “solo un’organizzazione politica per la tutela di una
dichiarazione dei diritti già data, implicita nel concetto di nazione” (Palombella 1997,
31) e che quindi in questo abbia esaurito la sua funzione. Ne discende necessariamente
che nazione e potere costitunte siano in opposizione o, non piuttosto, che il popolo,
“come una comunità di individui liberi e autonomi ha il diritto e il dovere di darsi ex
novo una costituzione che traduca in elementi istituzionali e positivi una fede razionale
in principi fondamentali di convivenza”? (ibid.).
La dialettica delle “intentiones” non può rapportarsi che in modo critico con assunzioni come quelle
che sull’ermeneutica di una Costituzione come “testo” sostengono che “ Se l’unità di senso non è data
<<prima>> all’interprete, deve essere ricostruita <<dopo>> dall’interprete stesso.” E questo poiché “-data
la scomparsa delle forze politiche che componevano l’architrave che reggeva la costituzione- la
possibilità di interpretare la costituzione stessa come un documento dotato ex se di senso è stata revocata
in dubbio” (Dogliani, Diritto costituzionale e scrittura. Quaderni costituzionali, 111).
6
14
E una volta avvenuta questa traduzione tutto si ferma? Pur restando lontani da
una semiosi infinita secondo l’intentio lectoris non rimane aperta la possibilità per il
lector di farsi, a sua volta, auctor, come starebbe a dimostrare la storia costituzionale
americana? In questa “si ammette pacificamente il pieno valore costitutivo sia con
riguardo all’organizzazione del Governement, sia, per effetto del successivo Bill of
Rights, ossia dei primi dieci emendamenti, del quadro comune di valori e di principi
fondativi attorno a cui avrebbe dovuto formarsi quella nazione che in Francia Sieyès
dava per presupposta” (Palombella 1997, 32).
Riaprendo, allora, la metafora: se Ulisse ha astuzia ed energia politica tale da
farsi legare, è difficile separare la sua astuzia, come qualità soggettiva, dalla sua
manifestazione, ossia dalla capacità di capire che le corde non servono a legare
solo oggetti esterni, ma anche la sua stessa volontà.
Se potere costituente è nozione che si connette strettamente a quella di
soggettività,come possibile espressione e manifestazione di questa, sul versante
giuridico si può parlare di una permanenza di questa nozione? Oppure,utilizzando la
metafora della “fonte di produzione normativa” è ammissibile immaginare il suo
esaurirsi o prosciugarsi, dopo che già ne siano sgorgate le norme costituzionali?
Convenendo con l’ipotesi che ricaviamo da C. Schmitt di una permanenza, in un
popolo, di uno stesso potere costituente rispetto a cambiamenti di costituzione quanto
interessa è la mossa argomentativa relativa alla tendenziosità che la tesi
dell’esaurimento del potere costituente non riesce a celare compiutamente. Chi ne può
giudicare l’esaurimento? Il popolo o i poteri costituiti, i Giudici, ad esempio? “Una
volta spostata la questione della validità dal piano normativo a quello dell’effettività e
dell’efficacia, allora la permanente validità della Costituzione dipende appunto dalla sua
effettività: dipende dalla permanente presenza nella comunità sociale di soggetti
(pensati come) capaci di riconoscere, o confermare la costituzione”) (Palombella 1997,
35). La vitalità di una costituzione può essere apprezzata solo da chi ha la titolarietà di
un potere costituente.
E’ Ulisse o sono le sue corde,insomma, che riconoscono, confermano l’essere
legati e decidono se valga ancora la pena di essere così?
Il motivo di tendenziosità che è implicito nella tesi dell’esaurimento del potere
costituente si manifesta più chiaramente sul versante ideologico che alla fine viene in
luce. Il Potere costituente infatti è visto come espressione della forza naturale,
dell’energia inconsulta del popolo. Un punto questo che a me pare un topos
argomentativo classico e che coinvolge la letteratura sempre sospettosa se non ostile
sulla stessa democrazia. A parte la combinazione discutibile in sede logica di
descrizione - valutazione che una definizione naturalistica del potere costituente
comporta, “essa sembra ripetere uno schema liberale moderno, che muove dalla
congerie di individualismi propri dello stato di natura, e si appaga di vederli stabilmente
riassunti entro il confine di un diritto non invadente, un limite tecnico, mera protezione
delle sfere di libertà dagli insulti esterni. I poteri costituiti sono visti solo quale argine al
15
ritorno verso una libertà astratta e arbitraria, verso uno stato pre-sociale, pre-giuridico”
(Palombella 1997, 37).
Insomma alla natura umana, alla sua inevitabile finitezza e immediatezza, alla
occasionalità e arbitrarietà delle sue espressioni viene opposta la “razionalità giuridica”.
Solo che della natura dell’uomo si propone una nozione ideologicamente
compromessa ma tale da offrire la base d’appoggio anche ad un’altra opposizione:
quella di diritto e politica. E così tutta la tendenziosità della tesi dell’esaurimento è
riconoscibile in una duplice negazione: 1) essa nega l’originaria composizione giuridico
– politica degli eventi rivoluzionari che è alla radice delle attuali Democrazie
Costituzionali, la loro fusione di garanzie giuridiche liberali con l’assetto politicoistituzionale democratico; 2) essa disconosce il ritorno di quella duplice radice nelle
Costituzioni del secondo dopo guerra, dopo l’esperienza storica dello stato liberale
europeo – continentale. In queste, infatti, ritroviamo riabilitata l’idea di sovranità
popolare, ma non solo, il tema dei diritti è diversamente formulato rispetto alla
precedente concezione di autolimitazione dello stato e, infine, è riconoscibile il quadro
etico-politico di una progettualità sociale.
L’argomento secondo il quale il potere costituente si sarebbe esaurito mostra il
vizio di assolutizzare una esperienza storica, avendo nel mirino quella della sovranità
dello stato-persona e della sua dogmatica. Così pur essendo un argomento carico di
significati storici finisce in una immotivata esaltazione della astoricità.
E tuttavia non può sfuggire l’ulteriore sottigliezza con cui quella tesi intende
recuperare su di un altro versante argomentativo la sua valenza di descrizione e
spiegazione storica. Lo fa asserendo il venir meno, l’esaurirsi della effettualità di quel
potere in favore dei contenuti stessi della decisione costituente. Nell’atto istitutivo,
secondo questa ipotesi, non solo dovrebbero fissarsi i contenuti irrevocabili, ossia i
diritti, ma anche il principio stesso della loro irrevocabilità. Sarebbe del tutto
inammissibile cioè, immaginare il permanere di un potere costituente a fronte della
irrevocabilità di quei diritti. Questo perchè il produrre un qualcosa è etraneo al prodotto
stesso. Il produrre vale come forza propulsiva o, al più, come azione strumentale. La tesi
dell’esaurimento verrebbe così a riassumere, descrivendolo, il percorso dinamico e
quindi la genealogia di una Costituzione, ma quando il fine è stato conseguito ci si può
sbarazzare del mezzo. Questo versante argomentativo non giunge a negare quindi che
storicamente si sia manifestato un simile potere, intende affermare più semplicemente
che il suo prodotto ne ha esaurito la funzione. L’azione si è esaurita in quello. Ma che
ne è a questo punto della natura del prodotto stesso? Il dato, la Costituzione in questo
caso è come un participio passato, è ciò che è stato dato. La storicità non sarebbe
dunque perduta, sarebbe solo diversamente declinata. L’oggetto, il prodotto di per sè
nega la soggettività e la sua manifestazione, concepibili solo come passate, ma poi si
propone diversamente ad una nuova soggettività. Dominandola questa volta.
Ci troviamo di fronte alla tradizionale opposizione di soggetto ed oggetto, con in
più la difficoltà di una proposta iper - realistica del primato dell’oggetto. Non occorre
inoltrarsi in una critica ad ogni forma di feticismo o soffermarsi sul potere seduttivo
dell’oggetto; basta cogliere, penso, quanto sia pertinente la differenza che passa fra il
“dare” e il “darsi” una Costituzione per non perdere la specificità della nozione di potere
costituente entro il quadro di una democrazia. E’ su questa differenza che insistono le
nostre riflessioni.
16
Che Ulisse cioè decida di farsi legare all’albero della nave ( autobbligarsi)
significa cosa esattamente opposta a quella di decidere di sbarcare e
abbandonare i propri compagni ai remi , dopo avergli dato la rotta e tappato le
orecchie.(obbligare) Questi non ascolteranno il canto delle sirene, forse si
salveranno , ma è Ulisse che non potrà ascoltare il canto delle sirene Si sarà
semplicemente sottratto alla prova. Così si perde il senso della metafora e la
morale della favola.
3.2. Costituzioni diritti soggetti
Sembra però difficile per la teoria giuridica e politica elaborare una definizione di
potere costituente del popolo che non sia demonizzante, ma che ne sottolinei invece il
valore di soggettività consapevole, nell’esercizio politico del darsi una Costituzione.
Forse ciò accade per un deficit di comprensione della questione stessa della Soggettività
in una fase di transizione storica quale è quella che abbiamo in sorte di vivere. Anche e
soprattutto in sistemi politici democratici. Ma in relazione a questi è del tutto
insoddisfacente l’opposizione teorica fra potere costituente concepito come forza,
arbitrio, potere di fatto e ordine costituito.
Diversamente da chi finisce per concepire le Costituzioni come una scrittura
data, dettata una volta per tutte, una teoria che le consideri come dettati normativi con
pretesa di indicare “un percorso assiologicamente progressivo” (Palombella 1997, 48) e
quindi capaci di durata, presuppone una Soggettività che possiamo riconoscere come il
popolo,ossia come quel soggetto “consapevole della propria libertà ... della propria
autonmia politica ... che intenda questa condizione di persone libere ed uguali in una
comunità come il progetto che abbisogna di una costituzione politico/giuridica” (ibid.,
49). Non una soggettività astratta da qualsiasi determinazione, dunque, irriconoscibile
perchè non identificabile,ma i cui tratti che la qualificano in quanto tale siano
riconducibili al suo potere di autonormazione.
L’astuzia di Ulisse, la sua capacità di interpretare la situazione altamente
problematica e di conoscere la natura dei mezzi disponibili, la storia e il senso
della sua azione, tutti questi insieme sono i fattori imprescindibili, anche se
diversamente analizzabili ,del suo auto-obbligarsi.e del suo auto-costituirsi.
Si tratta di non temere, dunque, i nodi teorici della soggettività. "L'idea di Soggetto non
definisce .. in alcun modo un ideale dell'io nè ha funzione di super-io. Men che meno
essa corrisponde a figure portatrici di valori, quali il santo, il saggio o l'eroe. Dal suo
orizzonte sono assenti dèi di qualsiasi sorta, e non esistono Soggetti sociali o nazionali".
Così A. Touraine (1997, 54) che così prosegue: "L'eliminazione di qualsiasi contenuto
concreto dalla categoria Homo, dev'essere completa. La fase finale e la più importante
di tale eliminazione è quella che riconosce che non esiste alcun Homo, che esistono
soltanto uomini e donne e che l'essere umano non ha forma più astratta, più universale
della dualità di uomo e donna" (ibid.). Per cui, conseguentemente, è “diventato
impossibile difendere il punto di vista dell'individualismo universalistico della filosofia
dei Lumi poichè esso traeva la sua forza dal dominio esercitato dalla volontà politica e
dall'ordine della legge sulle pratiche sociali" (Touraine 1997, 55).
17
Il tema della soggettività può apparire di certo o teoricamente sfuggente o troppo
carico di implicazioni ideologiche. Va però evitato l’esito opposto per cui si finisce sui
lidi della reificazione, dell’alienazione propria dell’ideologia dell’oggetto, sopprattutto
se per oggetto intendiamo un prodotto storico,sia esso un assetto istituzionale o un
quadro normativo. Non và dunque eluso il tema del soggetto, anche se incute sempre un
certo timore, una qualche apprensione per il troppo potere che siamo tentati di pensare
si trovi nelle sue mani. Compreso quello di suicidarsi, essendo titolare di un potere
normativo su se stesso.
Resta sempre aperta, è vero, la possibilità che il soggetto, in questo caso
qualificabile come democratico, giunga a negare, suicidandosi, le stesse condizioni della
propria autonomia pubblica, le condizioni di insieme di individui liberi ed uguali Solo
che una scelta in tal senso sarebbe ben poco autonormativa, poichè non prescriverebbe
per se stesso qualcosa nel futuro per disporne, ma solo per non disporne.
E’ il paradigma del contratto sociale di Hobbes, in tal caso, quello che
seguirebbe. Ma l’esito è conosciuto in partenza ed è esplicitamente anti-democratico.
Ben altra regola avrebbe potuto scegliere Ulisse. Quella di ascoltare,senza essere
legato e senza aver tappato le orecchie dei compagni, il canto delle sirene e
venirne soggiogato. Ma così avrebbe negato il suo potere autonormativo
generale in favore di una unica e definitiva decisione: perdere ogni potere.
Dunque la nozione di potere costituente non confligge necessariamente nè con la
nozione di Democrazia nè con quella di Costituzione. Come poi la soggettività politica
democratica, titolare di un simile potere, viva la processualità della propria
autonormazione. E' tema più di critica sistemica, capace di cogliere la maggior o minor
corrispondenza alle promesse contenute nell’ideale regolativo della democrazia, che di
qualificazione logica e ontologica.
Va ora esaminta una ulteriore duplice opposizione: quella fra Diritti e potere costituente,
nonché quella fra Diritti e Popolo, secondo cui la nozione di sovranità popolare, di per
sè, equivarrebbe a legittimare una rottura teorica con il quadro dei Diritti. Se si osserva
bene una opposizione reale si porrebbe solo fra i Diritti e il potere costituente di un
Macrosoggetto, poichè in tal caso sarebbe solo questo a non averne alcun bisogno.
Possiamo indubbiamente concepire i diritti umani come riducibili ai diritti di
individui privati e di minoranze sociali e culturali che fronteggiano poteri istituiti o
costituenti illimitati. Saremmo, in questo caso, sulla linea della tradizione liberale. Ma ci
resterebbe da chiederci poi se una simile posizione aderisca non solo alle trasformazioni
sociali e politiche intervenute ma se sia anche conseguente rispetto ai suoi stessi motivi
ispiratori.
Individuo privato o minoranza sociale o culturale non sono nozioni che valgono
in sè e per sè, essenzialisticamente chiuse e autoriflessive. Credo invece che proiettino il
loro significato sul piano più ampio della sfera pubblica.
Ma se restiamo, nel quadro delle costituzioni liberali i diritti dell’uomo - e va ora
operata l’escissione dei diritti del cittadino - prospettano solo una cittadinanza nella
repubblica della filibusta, dove c’è sempre qualcuno pronto e capace di fuggire con il
malloppo.
18
Chi protegge allora individui e minoranze incapaci o impossibilitati a fare
altrettanto? Si dirà: i poteri costituiti. Illuminazione, protezione e sviluppo dei diritti
umani, cioè dei diritti individuali e delle minoranze divengono così competenza di un
potere esterno, vengono sottratti alla disponibilità di una soggettività collettiva quale
quella che comunque è riassumibile nella nozione di cittadinanza,nella più compiuta
accezione liberal-democratica. Nozione che non è né riducibile, né assimilabile alla
semplice sommatoria di soggettività individuali o particolari ,portatrici di propri diritti.
Il risultato di tale sottrazione ad una soggettività collettiva, così intesa, è l’affermazione
del cosiddetto Governo di Custodi e la riproposizione della scissione
liberalismo/democrazia. Ponendosi, invece, in un’ottica incrementale della democrazia,
ossia sul lato opposto a quella scissione fra diritti-popolo-potere costituente, risulta
immediatamente intuitivo come quella scissione finisca per pregiudicare non solo la
democrazia ma i diritti stessi: Ed allora: "noi non possiamo aspettarci che una
democrazia svilita, in cui non siano posti in primo piano gli elementi di responsabilità
pubblica della cittadinanza e il valore del principio democratico di autolegislazione,
(quando esso non) sia e si conservi capace di una effettiva tutela dei diritti individuali e
in genere dei diritti umani” (Palombella 1997, 61-2).
Se i diritti individuali son intesi come i diritti di libera espressione e di libera
autedeterminazione di Ulisse e di tutti i suoi compagni ,potrebbe essere
spontaneo pensare che l’autobbligazione di Ulisse si risolva nella loro
negazione: nessuno ,lui escluso, può ascoltare il canto.Ulisse invece si sarebbe
posto in una posizione privilegiata. In realtà egli ha deciso di tutelare la
sopravvivenza dei diritti di tutti coloro che sono imbarcati sulla nave. I Nodi cui
è avvinto, ossia l’autonormazione, equivalgono alla definizione di di sè e di
quanti sono con lui come nautes.e alla preservazione,meglio, sopravvivenza di
ognuno.
3.3 Chi lascia e cosa a chi
Gli impegni normativi e soprattutto quelli costituzionali, proprio perché espressi in un
documento solenne, si proiettano verso il futuro. In tal senso il conflitto fra Diritti e
potere costituente viene portato sul versante dei rapporti che si instaurano fra
generazioni di cittadinanza. Di Popolo e di cittadinanza si propone diffusamente non
solo l’idea di semplice sommatoria di singoli individui, ciascuno portatore di diritti,ma
anche una sorta di “fermo immagine” destoricizzato. E destoricizzante. Tuttavia viene
osservato: “Se le generazioni hanno diritto di darsi una costituzione, come possono
essere vincolate dalle costituzioni approvate dalle generazioni precedenti?” (Palombella
1997, 63). Ritorna in versione di paradosso della temporalità storica la diversa
articolazione concettuale che è riconoscibile nella duplicità dei modi di coniugazione,
attivo- riflessivo, dello stesso verbo:"dare”.
Il paradosso dell’autonormazione viene così diversamente sviluppato. Ma la sua
soluzione tramite la neutralizzazione della sovranità e l’estinzione del potere costituente
è solo apparente, in quanto si riduce ad una eteronomia nascosta. Si tratta
dell’eteronomia di una Ragione extra-storica espressa storicamente da una data
generazione di cittadini, per cui “lasciare alle future generazioni Costituzioni in grado di
difendere la civiltà dei diritti, potrebbe sembrare come il miglior modo di proteggere i
19
nostri discendenti: contro se stessi, innnanzi tutto, e nel loro interesse” (ibid.). La
questione, tuttavia, si può sinteticamente formulare in questo modo: Chi lascia, che
cosa, a chi? Senza dimenticare la reciproca:Chi riceve, che cosa, da chi? Altrimenti
l’oggettivazione che viene dal passato deciderebbe della non ancora oggettività del
futuro. La sovranità delle generazioni future, principio cardine del giacobinismo
illuministico, verrebbe neutralizzata da un ragione illuministica che da antidogmatica
dogmatizza il proprio prodotto. “La ragione che invochiamo (e in gran parte nella
filosofia politica è il razionalismo kantiano) entra in contraddizione con se stessa
quando traduciamo i diritti e le costituzioni poste in limiti aprioristici all’esercizio delle
libertà e della razionalità dei nostri contemporanei” (ibid., 64).
E in questo caso sottolineerei proprio quel porre limiti aprioristici alla
razionalità, prima ancora che alla libertà. Nel motivo dei diritti come limiti apriori è
sempre avvertibile infatti quella sottile vena di pessimismo sospettoso che è una
caratteristica spesso rintracciabile nella letteratura sulla democrazia. Ma non è, invece,
una proprietà della democrazia dei moderni l’apertura alla dimensione di un pensiero
critico? La democrazia, allo stadio attuale della cultura politica e giuridica della
modernità, va pensata come altrettanto distante dai lidi opposti del fideismo e dello
scetticismo. Per cui è legittimo porre la questione: i valori assiologici o di verità di cui
consterebbero le regole costituzionali sarebbero tali di per sè o perchè sotto continuo
esame di un pensiero critico che si può esercitare in una “democrazia critica”?
Può essere immediatamente intuitivo, anche se per taluno non appagante, ma “la
democrazia non si piega a verità assolute, nè rifiuta la ricerca della verità” (ibid., 65).
La concezione della democrazia che trova alimento nelle nozioni di dubbio, di
tolleranza, di dialogo, di possibilità, solo in prima approssimazione può apparire poco
seducente.
Non propone una diversa tipologia delle forme di democrazia, semplicemente ne
riconosce alcune delle condizioni e non certo fra le meno rilevanti per la possibilità
stessa di essere esperita. Coerentemente rispetto alla sua imperfezione costitutiva e
ripugnandole l’imposizione di ogni solida verità dogmatica, non si dà democrazia se
non nei termini di comunicazione, confronto, ricerca di una pratica verità.
E sarebbe del tutto riduttivo pensare ciò in un “fermo immagine”, in una specie
di eterno presente. Occorrerebbe pensarlo in una sequenza dinamica,diacronica, ossia
trasmissiva. Rispetto al particolarismo e a possibili scelte contingenti sempre comunque
capaci di rovesciare l’impianto dei valori trasmessi in un ordinamento, è quindi
preferibile pensare un nesso di implicazione forte fra sovranità popolare e costituzione
che colga l’interazione fra generazioni.
Ma occorre che al “Chi da che cosa a chi?” segua la reciproca del “Chi riceve
che cosa da chi?” E un modo diverso di pensare la soggettività storica è che si riconosca
ad entrambi i “Chi” lo stesso statuto di autorevolezza.
Se dunque ereditiamo un dettato normativo e questo viene inteso come quel
contesto in cui vengono praticate le libertà, esso "rappresenta un legato giuridico e
politico che ci permette l’esercizio della sovranità e dei diritti a partire da uno stadio più
vanzato, più maturo” (ibid., 67).
Non immaginiamo nessun linearismo progressivo in tal caso, piuttosto pensiamo
a quella scala sulla quale siamo saliti e al non senso che sarebbe poi bruciarla.
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Finiremmo con lo scordarci sia del perchè ci siamo saliti, sia dell’esistenza stessa delle
scale.
Nel gioco della metafora. L’Ulisse dell’istante 1, quello in cui decide di
autolegarsi, trasmette all’Ulisse dell’istante 2 il principio autonormativo e così
negli istanti successivi. L’Ulisse degli istanti che seguono non ha obblighi verso
quello dell’istante 1, può vantare solo diritti all’esistenza.e alla consapevolezza
critica dell’esperienza vissuta. Che è esattamente quanto gli viene trasmesso.
Se i predecessori non possono rinunciare a fare delle scelte che legano il futuro,
altrimenti non formulerebbero neppure impegni normativi così rilevanti come le Carte
costituzionali, e se la “razionalità consapevole” delle generazioni che seguono si
esprime compiutamente in quanto sono esse che scelgono di non entrare in collisione,
come frecce direzionali di senso opposto, con i vincoli delle decisioni dei predecessori,
ciò accade proprio perchè in questi vincoli si trova affermato lo stesso diritto alla
libera, ulteriore determinazione. Si impone, allora, una più ravvicinata approssimazione
alla morale della metafora.
Partendo dall’affermazione per cui “Contro la semplificazione di una
soggettività arbitraria e volontaristica, milita proprio il concetto di razionalità di Ulisse
(farsi legare) e quello di auto-obbligazione” (Palombella 1997, 71) e osservando come
sia del tutto improprio attribuire ad una soggettività naturalistica una capacità di
governo di se stessa,cerchiamo di individuare il senso di una nozione come quella di
“sovranità su se stessi”.
3.4. Sovrani su se stessi
Ulisse è non-necessitato a produrre la norma di auto-obbligazione (farsi legare), lo fa
con astuzia. Ma così introduce nella sua esistenza quella cesura fra essere e dover essere
che riconduce a lui solo la responsabilità del suo agire “Proprio in quanto-tecnicamente
illuminato-si fa legare, Odisseo riconosce la strapotenza arcaica del canto”, la sua
astuzia gli detta il nomos, come artificio ma ad un tempo si costituisce come soggetto
libero, non naturale.78 E’ solo apparente il paradosso di Ulisse legato e allo stesso tempo
libero. La sua libertà e autoprodotta artificialmente, tramite l’autobbligazione. Questa si
oppone quindi alla necessità naturale che è individuata nella strapotenza arcaica del
canto delle sirene.
Il rapporto fra Ulisse, la sua “imperfetta” ragione e il canto delle Sirene, assume
una particolare rilevanza proprio in relazione alla cruciale nozione di “sovranità
su se stessi” per una democrazia costituzionale.che non è riducibile alla sola
esteriorità dell’atto di legare se stessi.
Cfr. Horkheimer-Adorno 1974, 66. “La ratio che scaccia la mimesi non è solo il suo opposto. E’
essa stessa mimesi: mimesi del morto. Lo spirito soggettivo, cche dissolve l’animazione della natura,
domina la natura disanimata imitando la sua rigidezza e dissolvendo come animistico anche se
stesso…Dominio della natura mediante questo adattamento è lo schema dell’astuzia di Odisseo”
8
“Egli osserva il patto della sua dipendenza (dalla natura..ma ha scoperto una lacuna nel contratto,
attraverso la quale, mentre adempie al decreto, nello stesso tempo gli sfugge. Nel patto originario non è
previsto se chi passa ascolterà legato o non legato il canto”: Horkheimer-Adorno 1974, 68.
7
21
“Dall’incontro felicemente mancato di Odisseo e le Sirene tutti i canti sono feriti, e tutta
la musica occidentale soffre dell’assurdità del canto nella civiltà, assurdità che è
tuttavia, ad un tempo, l’ispirazione di ogni musica d’arte” (Horkheimer-Adorno 1974,
69).
Il diritto, similmente, “istituendo giuridicamente la libertà umana” introduce una
ferita nella condizione umana, nella sua naturalità, che ben si coglie nell’inversione del
paradigma kelseniano rispetto a Kant: “noi non produciamo diritto perchè siamo
persone (e dunque) libere (Kant), ma siamo liberi perchè e nella misura ci troviamo in
quel mondo del Sollen, in quel mondo del dover essere che abbiamo prodotto”
(Palombella 1997, 73).
Il diritto introduce quella “cesura nella catena infinita della causalità naturale ...
così che (da un lato) “imputare” alla responsabilità umana alcuni eventi, come il diritto
consente di fare, significa ... impedire che ogni evento prodotto sia ridotto ad effetto
inevitabile di una “causa” pregressa. "Ma, più significativamente, il diritto consente
anche di "provare” la libertà umana come capace di produzione normativa” (ibid.). La
cesura non è soltanto fra mondo umano e non umano, riguarda l’ente uomo
direttamente. Una cesura che è equivalente ad una ferita. Palombella non considera
questa idea di ferita e preferisce attenersi all’”ubiquità tra causalità e libertà, tra
passioni o debolezze, naturalità, arbitrio, da un lato e responsabilità, scelte, regole,
dover-essere dall’altro” (ibid., 74).
Solo che la nozione di ubiquità descrive e manifesta proprio la scissione che la
capacità di produzione normativa ha prodotto. E in questa scissione la regola dimostra
di non saper assorbire e neutralizzare la naturalità, dimostra di non saper imporsi come
seconda natura o regola di natura.
Se si ascolta il canto delle Sirene senza rimanere soggiogati dal suo arcaico
strapotere, sorge il canto della “musica d’arte”, come canto ferito, che alla assurdità di
essere un canto nella civiltà, ossia nella artificialità delle relazioni umane, s’ispira. E
traendo ispirazione da una simile fonte non dovrebbe stupire che sorga anche il canto di
senso contrario, quello che pretende di difendere i diritti inalienabili concepiti e
formulati da generazioni precedenti da ogni possibile futura soggettività sovrana e
arbitraria. Tuttavia sarebbe sbagliato, fissando il nostro pensiero solamente sul motivo
della cesura introdotta, trascurare il vantaggio offerto dall'ottica kelseniana, se ci mette
"in condizione di tener conto in modo più facile e immediato dell'ubiquità umana"
(ibid.), ossia della manifestazione e del risultato, ad un tempo, dell'astuzia di Ulisse.
4. Sovranità plurale
4.1. Isegoria sovrana
Diffusamente e autorevolmente si constata come “Nel nostro secolo il concetto politicogiuridico di sovranità è entrato in crisi, tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico.
Sul piano teorico, col prevalere delle teorie costituzionalistiche; sul piano pratico, con la
crisi dello Stato moderno, ormai incapace di essere un unico e autonomo centro di
potere, il soggetto esclusivo della politica, il solo protagonista nell’arena internazionale”
(Matteucci 1993, 95-6). Per cui non rimarrebbe che un relitto, quello della “metafora
22
antropologica di stampo assolutistico” già richiamata e di cui si dichiara la posizione
antinomica rispetto al diritto.
Più esattamente, si sostiene che è il diritto che annulla la legittimità concettuale
dell'idea di Sovranità. Ma non si ha solo un'antinomia interna alla cultura politicogiuridica della nostra civiltà, si ha altresì una sintesi che emerge eccezionalmente nella
storia. Viene riconosciuto infatti che "la grandezza storica di tale concetto è di aver
portato a una sintesi di potere e diritti, fra essere e dover essere, una sintesi sempre
problematica e possibile, diretta a individuare un potere supremo e assoluto ma anche
legale, a cercare di razionalizzare, attraverso il diritto, il potere ultimo, eliminando la
forza dalla società politica" (ibid., 99).
Si sostiene inoltre come sia il tramontare del potere statale a trascinare
nell'oscurità anche il concetto di Sovranità, lasciando però irrisolta la questione di "una
nuova sintesi politico-giuridica, che razionalizzi e disciplini giuridicamente le nuove
forme di potere, i nuovi "superiori" che stanno emergendo" (ibid.).
In quest'ottica andrebbe allora saggiata la puntualità critica di quelle teorie che
avendo per oggetto del loro attacco la nozione di Sovranità, intendono, in vero, colpire
un diverso e più specifico bersaglio ossia "la cosiddetta sovranità dello Stato-, Un
bersaglio di centrale importanza, certamente proprio per il suo profondo radicamento
nella cultura giuridica e politica europea, sopprattuto continentale. Ma così finiscono
per coinvolgere, come conseguenza e non si comprende quanto questa non sia voluta, la
stessa nozione di Sovranità popolare.
La nobiltà dell'intento non può essere disconosciuta. Risponde al bisogno di
razionalizzare e disciplinare le nuove forme di potere, e non è più l'endiadi dei diritti
dell'uomo e del cittadino che resta oggetto di tutela, quanto piuttosto i diritti dell'uomo,
semplicemente inteso, o della persona.
Fondandosi su cosa, però? Sul diritto stesso, sembrerebbe. Se si asserisce che il
fondamento dei diritti è nel diritto, questo vale in quanto capace di determinare e
garantire i valori, ed è così, dall'arbitrio degli stati sovrani. Un diritto che, al più, si
riconosce ispirato dal principio di autodeterminazione dei popoli.
Rispetto al bisogno di una nuova sintesi politico-giurica si prospetta l'idea della
differenziazione del diritto, cioè di un suo espandersi autonomo in quanto capace di
autoregolarsi e quindi di selezionare le risposte razionali ai bisognii di un nuovo, più
ampio e complessificato processo storico e sociale.
Il sostenere però una nozione di diritto differenziato ma che risulta indisponibile
per una diversa sintesi con i poteri reali e soprattutto con una diversa soggettività
politica e sociale non mi sembra sia in grado di risponde in modo perspicuo
all'immagine secondo cui "noi viviamo in una città planetaria, la quale somiglia più al
Pireo, che ad Atene" in cui, cioè, è in crisi non solo "lo Stato, questa orgogliosa
costruzione dei moderni" ma anche e contemporaneamente “è in crisi il diritto
internazionale che, nel passato, è stato sostanzialmente un diritto pubblico europeo".
Partendo dal presupposto che "siamo in una fase storica nella quale è necessario
ricostruire il nomos della terra ... un nomos che possa garantire la coesistenza fra diversi
nomoi..."convengo che"bisogna ritornare all'isegoria, alla eguale possibilità di accesso
all'arena o all'agorà del discorso, cioè alle esperienze reali degli uomini e non ai disegni
autoritari dei politici o alle fantasie degli intellettuali illuminati, che vogliono imporre il
loro sogno e non interpretare le esperienze comuni" (Matteucci 1993, 233) e non
23
astrattamente ispirarsi al principio di autodeterminazione dei popoli. Qual è, allora, la
polis, dove l'agorà, chi vi può accedere, chi è il titolare dell'isegoria?
L'argomento secondo cui la sovranità popolare non sarebbe altro che una
clausola di stile nelle Costituzioni finisce per rendere troppo sfocata l'immagine non
solo politica, ma anche giuridica di chi possa essere il titolare di quell'isegoria,
condizione che risulta alla fine imprescindibile perchè si produca un diverso nomos
della terra.
Ci si provi pur a separare i popoli dagli Stati. Ma se ai primi non viene
riconosciuta una capacità di esercizio della sovranità, che ne rimane della loro stessa
identità e dei diritti che si intendono dichiarare?
Puo sorgere il sospetto che ad altra qualificazione della soggettività si tenda.
"Sembra – ed è un sospetto che mi sento di condividere - che la logica dei diritti umani,
dei diritti individuali, come contenuto eminente del costituzionalismo universale, così
posta pieghi verso un principio di indefinita e reiterata rincorsa alla correzioni delle
diseguaglianze e alla soddisfazione delle pretese, un principio pensato in modo da
sfondare i contesti di valore cui di volta in volta è riferito, e che privilegia di fatto la
tendenza individualistica su quelle più complessa della convivenza tra uomini e
nell'ambiente esterno comune" (Palombella 1997, 98).
Ma così, sulla scala più complessa e differenziata del “Pireo” a noi sembra che si
riprodurrebbe la stessa repubblica della filibusta di matrice liberale in cui ogni cittadino
si ritiene, in interiore homine, autorizzato a fuggire col malloppo. Sempre che sappia
cogliere l'attimo.
Né credo sia irrilevante chiedersi se l'identificazione individuo-uomo, di cui si
vuole trattare il tema "diritti", identificazione non più basata sull'orientamento che va
dall'ente generico (l'uomo) alla specificazione individualistica, ma in quello opposto che
va dallo specifico isolato individuo, sempre più isolato, alla coscienza generico-generale
di umanità, sia in grado di raccordarsi in modo più congruo con le stesse tematiche delle
diverse generazionidei diritti. Anche chi prende posizione a favore dell’individualismo
metodologico non può trascurare che l’individuo “raggiunge la propria pienezza nella
società e nella politica”, per cui la sua difesa “no cancella gli altri due termini, ma li
postula”.
In mancanza di entrambi i presupposti, ossia l’individuo, da una parte, la società
e la politica, dall’altra, si ha solitudine e questa" quando non è un mezzo (il
raccoglimento), ma un fine ( l'isolamento) o un dato di fatto (L'emarginazione), è il
sintomo di una situazione malsana, sia per l'individuo, sia per il corpo sociale e politico"
(Matteucci 1993, 284).
Ne consegue che solo se ci pensiamo titolari e responsabili in tre tipi di azione
(morale, sociale, politica) che possiamo compiere negli spazi istituzionali
corrispondenti, la linea dei diritti può consentirci il passaggio dall'uno all'altro spazio
(cfr. Matteucci 1983, 260).
Dovremmo però evitare il gesto culturale che riconosce esclusivamente il valore
dei diritti individuali e trascura quei "diritti che non partono dall'esclusiva protezione
dell'individuo isolato, ma che hanno un ulteriore senso, in cui il cittadino privato diviene
parte di una complessa rete di interazioni, a partire dagli stessi diritti politici". In questa
prospettiva la nozione di Sovranità popolare non resta certo una semplice clausola di
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stile, ma polo opposto ad una diversa nozione : quella di "cittadinanza dell'uomo,una
cittadinanza solo giuridica, solo universale" (Palombella 1997, 97) e mai politica.
Può venire qualche dubbio sull'efficacia della scelta di Ulisse di autolegarsi se
fosse stato da solo; Egli ha bisogno non solo materialmente dei propri compagni,
ma perchè abbia senso l'intera vicenda del suo incontro con le Sirene, La
solitudine di Ulisse quì non è immaginabile poichè centrale diene la
condivisione da parte dei suoi compagni della decisione presa. Altre saranno le
prove che vedranno Ulisse solo, ma la morale sarà diversa.
4.2. Le corde della ragione
E' vero che "Riconoscere diritti dell'uomo in quanto tale presuppone che una qualche
"spoliazione" dell'uomo si sia verificata nelle pieghe di una scissione visibile tra essere
uomini e avere umanità "ed è vero anche che ciò significa "rivendicare per ogni singolo
uomo non soltanto il carattere di una oggettività inosservabile e fantasma, ma un vero e
proprio paniere di "possibilità" di azioni di uomini da far valere nei confronti di altri
uomini, spesso contro prepoteri" (Resta 1996, 15).
E' quanto non va perso, poichè alla radice delle moderne democrazie
costituzionali vi sono proprio le rivoluzioni liberali. Così come è vero però che "Quando
i "popoli" si affacciano sulla scena non sono soltanto portatori di ressentiment per i
privilegi accordati a pochi; devono farsi carico di un modello universale in cui non ci
siano più privilegi. E affidano tutto questo alla grammatica dei diritti" (ibid., 18). Una
grammatica che si è venuta componendo in un codice che Resta chiama “fraterno”, in
opposizione a quello paterno, cioè dato da un sovrano. E "una volta entrato nella storia
difficilmente ne esce".
Ma nella storia è entrata anche un'idea diversa di sovranità e proprio attraverso il
codice fraterno. "Non è un caso che tra uomini e popoli nella simbologia delle grandi
dichiarazioni settecentesche non c'è soluzione di continuità, nella formula fraternité
c'era un esplicito rimando alla condizione fraterna degli altri popoli e delle altre nazioni.
Fraternité si rivolgeva ad ogni altra sovranità popolare" (ibid.).
Proprio per queste ragioni non vedo una inconciliabilità di principio fra codice
fraterno e concetto di Sovranità. Piuttosto risultano contradittori gli esiti di possibili
declinazioni teoriche diverse.
Se, infatti,decliniamo la sola nozione di Sovranità nel senso di una soggettività
autarchica, di Megasoggetto che monopolizza avocando a sè il principio di legittimità
allora c'è contraddizione con l'idea di fraternité. Se, invece, decliniamo la sola nozione
di codice, abbandonando per strada il suo aggettivo qualificativo di fraterno, allora si ha
Sovranità del codice, come governo delle leggi e non degli uomini, o di un diritto senza
soggetto, oppure si ha sovranità dello Stato, oppure ancora -e ciò suona più rassicurantesovranità della Costituzione. In tal caso, e non vedo come ciò possa sfuggire, ci
troveremmo di fronte ad un diverso tipo di spoliazione di umanità nell'uomo.
Invece, "La Costituzione italiana, proprio parlando di sovranità popolare, più che
fare "omaggio alle carte rivoluzionarie, adottando così una clausola di stile, “perseguiva
un concreto intento, quello di spostare verso il popolo l'asse della sovranità,
sottraendolo alla dottrina dello Stato elitario e autocratico, ereditata dal secolo
precedente e dalla giuspubblicistica tedesca; faceva un bel salto di qualità proprio
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rispetto all'idea dello Stato-soggetto, dello Stato-persona, all'idea della sovranità dello
Stato" (Palombella 1997, 99).
Quando leggiamo nel dettato costituzionale che la sovranità appartiene al popolo
ma che questo l'ecercita nelle forme e nei limiti della costituzione, dovrebbe risultare
evidente come si tratti di autonormazione da parte di una riconosciuta, ossia individuata
soggettività politica. Non sarebbe la Costituzione a costituire la sovranità del popolo,
ma questo semplicemete la eserciterebbe in quella e non in altra forma.Sarebbe ben
strano poi che il popolo "una volta entrato nella storia" se ne esca, alienandosi,
assorbendosi in un testo.
E vero: Ulisse è avvinto alle corde, ma non si dà che si trasformi nell'"essere
legato", nè tantomeno che siano i nodi che lo stringono a renderlo come "Ulisse
che è legato".
Il conflitto teorizzato fra Sovranità e Costituzione esplicita un diverso e più
radicale conflitto. che attraversa non solo la storia della filosofia giuridica e politica,ma
anche la storia della filosofia tout court. E' il conflitto fra volontà e ragione, far
decisionismo e razionalismo, fra ordine costituito e potere creativo sovraordinato,
produttivo d'ordine, per cui "In linea di massima la perdita della sovranità è ritenuta una
conseguenza necessaria del superamento del decisionismo, a favore della ragione:
Questo diritto naturale positivizzato, che le costituzioni sono, è (visto come) il regno
della ragione" (Palombella 1997, 103). Se ogni evento umano, ogni espressione della
soggettività cade nel "cerchio della razionalità", quì trova il proprio destinale "buco
nero”. L’ordine razionale, politicamente positivizzato, decreta, con la sua instaurazione,
la morte della politica.
Le corde "legano" Ulisse, dopo che questi ha "deciso" di autolegarsi: Egli perde
la propria naturalità, essenzialmente.resta da ora un "legato" o non ha puttosto
modificato il suo essere naturale? Non andrebbe scordato come già
“naturalmente “Ulisse concepisca lo stratagemma.
E' ad un fermo immagine, posizione esplicitamente a-dialettica, che può ricondursi la
tesi del diritto che si auto-regola.e che è traducibile in una ulteriore metafora, ossia: "le
corde legano se stesse "L'immagine può risultare fuorviante solo se ci si limita a pensare
alla natura di "cosa" delle corde, alla specificità del loro essere oggetti inanimati,
materiali. Non è fuorviante se invece associamo all'idea di regola in genere e all'idea di
norma giuridica la capacità di legare,vincolare il comportamento, di funzionare proprio
come vincoli, perchè comunque si danno le corde. Si tratta di vedere non solamente
come funzionino,ma anche come siano logicamente e ontologicamente qualificabili.
Vediamo allora che vengono pensate come "sistema autonomo dotato di logiche
proprie: un'insieme di meccanismi neutri che si attivano indipendentemente dalla
particolarietà dei casi, che sono conoscibili preventivamente in modo oggettivo, certo"
(Palombella 1997, 101).
La mera datità formale, ma anche la capacità autopoietica del diritto, dunque,
vengono contrapposte ai più concretamente e pubblicamente apprezzabili valori di
giustizia. Ma è poi del tutto isolabile il "sistema delle corde" dall'ambito della loro
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utilizzabilità? Non credo si possa pensare veramente un diritto così isolato. Di fronte al
diritto costituzionale ci si trova a misurarsi, piuttosto, con un diritto "costantemente sul
punto di ridefinizione del significato delle sue norme, sempre alla ricerca di un criterio
(neutro)formale e quindi certo di selezione, impegnato dalla risoluzione di conflitti tra
valori, assediato, ad onta della positività precostituita delle sue norme, dalla pressante
normatività di altri sistemi, insidiato sul terreno dela decisione da ponderose spinte del
sistema politico..." (ibid., 102).
Le corde non si legano da sole. Il sistema dei vincoli che compongono è il frutto
sapiente di Ulisse tecnicamente illuminato: Reggono agli spasimi della sua
forza. Sono la barriera e il limite su cui si arresta il suo sforzo di andare più
vicino al canto delle Sirene. Questa la funzione per cui sono state predisposte,
questo il loro funzionamento.
Questa lettura della metafora sembrerebbe però confermare la tesi che il
costituzionalismo, avendo positivizzato i valori espressi da una sovranità democratica,
separandosi da questa, difenderebbe la sogettività da se stessa. In fondo anche Elster
asserisce che "Le costituzioni sono catene con le quali gli uomini legano se stessi nei
momenti di lucidità per non morire di mano suicida nei momenti di follia". In loro,cioè
negli uomini, si troverebbe il maggior pericolo per la loro stessa opera.
Ma chi avrebbe questa capacità di pre-vedere un simile pericolo? Separare
Costituzionalismo da Sovranità equivale non solo ad impedire ogni possibile
espressione di democrazia diretta o partecipata, ma, con più sottile malizia, a svuotare di
significato la nozione politica di opinione pubblica. Ma è “fiducia programmatica” sul
valore della soggettività, quanto motiva l’affermazione di un primato delle norme sui
soggetti. Un primato che viene ribadito proprio al fine di proteggere i soggetti da se
stessi. Solo che così si approda al primato di poteri costituiti e quindi al Governo dei
Custodi.
Primato sia degli istituti rappresentativi,certamente, ma anche di un potere che si
prospetta “sempre più arcano, sempre più complessom quanto alle forme dell’esercizio
e della decisione” (ibid., 106). Un potere, aggiungo, tanto arcano da non potervi
riconoscere altro che la Sovranità della Ragione.
Ovviamente così si chiude lo spazio e la necessità di qualcosa come la sovranità
popolare. Ma è una mossa decisamente confliggente non solo con i valori democratici
Questa volta anche con quelli liberali, se finisce con chiudere lo spazio a qualcosa come
la sovranità dell'opinione pubblica.
Il tema di uno Stato giurisdizionato e in quanto tale de-soggetivato che si
incardinerebbe sulla concezione ontologica del diritto autoevidente, lo possiamo
tradurre così nella metafora dell'auto legarsi.
L'autoevidenza dei diritti, come delle verità di ragione, non è che l'autoevidenza
del fermo immagine di "Ulisse legato all'albero della nave" Per cui non ci si
interroga nè sulla ragione, nè sul come nè, soprattutto, su chi sia quell'Ulisse
legato.Si presume di assumere la posizione che ha Minerva rispetto ad Ulisse,
ma ci si scorda che la dea, se comunque partecipe delle avventure del suo eroe
prediletto. non gli toglieva la "sovranità" delle decisioni.
27
4.3. I valori come corde
Un'ulteriore versione delle teorie della de-soggettivizzazione è quella che propone la
Sovranità dei valori. secondo la quale “la sovranità dei valori viene sorretta, di volta in
volta, da un soggetto istituzionale che in quel momento e in quella situazione incarna la
sovranità oggettiva. L'oggettivazione della sovranità comporta la relativizzazione
soggettiva" (Silvestri, 72).
In questo caso l'astuzia di Ulisse non è neppure immaginata e la nozione di
autobbligazione neppure concepita, e ciò, nonstante si riconosca il percorso parabolico,
di ascesa, culmine, declino e trasfigurazione della stassa nozione di Sovranità.
Si propone, così,come valore oggettivo il fermo immagine dell'essere legato.
Ulisse diventa "sede ideale" dello suo stato, della sua condizione.
La concezione ontologica dei valori viene poi proiettata sull’immagine delle costituzioni
come teatro del pluralismo e questo con l’intento di tutelare le diversità di posizioni
sociali e degli argomenti che ne sostengono le aspettative.
Anche in questa immagine però le costituzioni vengono intese in opposizione al
concetto di Sovranità. In quanto Custodi di una trama aperta di valori e nell'mpossibilità
di fissarne la disposizione gerarchica, le Costituzioni si offono in senso anti-sovrano. E
sono perseguite due diverse propspettive: una che ritiene razionalmente conoscibili e
applicabili i diversi contenuti di valore espressi nelle norme costituzionali; l’altra che
proietta il pluralismo come valore fondamentale sullo sfondo dell’idea di bene comune,
luogo di incontro della diversità di posizioni e di domande con il bisogno di tutela dei
diritti. Se già con difficoltà si cerca di rendere compatibili fra loro i molteplici e
differenziati valori, appare del tutto incongruo con questo sforzo concepire un
soggettività che domini e sovrasti la molteplicità stessa. L’incompatibilità di Sovranità
di un soggetto politico e pluralismo è affermata con grande chiarezza quando si sostiene
che "Le società pluraliste attuali, cioè segnate dalla presenza di una varietà di gruppi
sociali, portatori di interessi, ideologie e progetti differenziati, ma in nessun caso così
forti da porsi come esclusivi o dominanti e quindi da fornire la base materiale della
sovranità statale nel senso del passato, ...a ssegnano alla Costituzione il compito di
realizzare la condizione di possibilità della vita comune, non il compito di realizzare
direttamente un progetto determinato di vita comune" (Zagrebelski 1992, 9). In tal senso
le Costituzioni sono il prodotto della politque politisant, a cui non può che seguire la
politica ordinaria, politisée con la sua fisiologica e legittima competizione, "Questa è la
condzione delle costituzioni democratiche nel tempo del pluralismo. In questa
condizione, vi è stato chi ha ritenuto possibile sostituire, nella funzione ordinante, la
sovranità dello Stato ... con la sovranità della Costituzione" (ibid.).
Ma si sente come doverosa l'avvertenza secondo cui "la 'sovranità della
Costituzione' può essere ... una novità piena di significato, purchè non si pensi che il
risultato sia dello stesso tipo di un tempo, cioè la creazione di un nuovo centro di
emanazione di forza concreta, causa sufficiente dell'unità politica statale" (ibid., 10).
Si propone, piuttosto, di "pensare alla costituzione non più come centro dal quale
tutto deriva per irradiazione, attraverso la sovranità dello Stato cui si appoggiava, ma
come centro verso cui tutto deve convergere, cioè come centro da guadagnare piuttosto
che come centro da cui partire" (ibid.).
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Se ben comprendo con le costituzioni non si realizzerebbero progetti di vita, ma
diversi progetti di vita,incontrandosi, costruirebbero Costituzioni. Non casualmente in
queste affermazioni si sostiene una opposizione fra Sovranità dello Stato e Sovranità
della Costituzione.
In apparenza questa sembrerebbe una tesi non negativista in assoluto della
sovranità. Sembra piuttosto che ne persegua il progetto di de-soggettivizzazione,per
conseguire quelli che vengono rilevati essere spostamenti "sempre più in alto, verso
istituzioni sempre più universali, sempre più rarefatte, sempre meno "sovrane" e sempre
più (solo) "costituzionali dei luoghi politici della decisione" (Palombella 1997, 110).
Il che è esplicitamente riconosciuto:"In effetti, è a questa visione 'aperta' della
Costituzione, che si è affermata progressivamente in Europa ... che può essere ascritto il
merito ... di aver consentito di aprirsi all'organizzazione di un'autorità e di un'unione
europee, la cui stessa esistenza contraddice l'assolutezza del dogma della sovranità
statale.… Un'Europa che tutti vorremmo dotata di un diritto costituzionale vero e
proprio, ... ma che forse pochi vorrebbero dotata della sovranità, nel senso degli Stati
sovrani di un tempo" (Zagrebelski 1992, 10-1).
Così alla depoliticizzazione dei popoli corrisponde una dislocazione in sedi
sempre più irraggiungibili delle verità di diritto, dei principi. Sempre più irraggiungibili
per un contingente consenso politico, ma disponibili esclusivamente per atti conoscitivi
e applicativi. Solo che la costituzione, come modo di strutturazione, come tratto fisico,
della democrazia si fà ancor più rarefatta, sfumata, intangibile.
4.4. Luoghi e processi della sovranità
La teorizzazione della Sovranità della Costituzione produce però l’inquietante
dissociazione:di verità e consenso. E' una dissociazione che rinvia, come propria radice
alla opposizione Diritto- Politica, governo delle leggi-governo degli uomini.
Va tenuto ben fermo come "Lungi dal denotare una caratteristica esclusiva dei
moderni Stati democratici, il consenso è un elemento decisivo per spiegare in genere la
dinamica dei sistemi politici, da quelli antichi a quelli moderni ... In quanto tale è un
concetto persistente e ubiquo. Si può dire che abbia un'estensione semantica pari a
quella di "politica", nel senso che non c'è fenomeno, attività o rapporto del mondo della
politica che non presenti una qualche connessione con il problema del consenso.."
(Mura 1997, 157).
Per cui sono del tutto pertinenti le considerazioni secondo cui "nessuna verità
può essre proclamata apriori, apoditticamente, ed appare del tutto insufficiente una
concezione oggettivistica delle verità, morali o giuridiche che siano, qualora non
sostenute da una ricerca del consenso, da un incontro faticoso quanto necessario di
ragioni (e di pretese) argomentative" (Palombella 1997, 111).
Si manifesterebbe, in caso contrario, una contraddizione interna proprio a quel
costituzionalismo argomentato su basi pluralistiche.
Se non che il binomio verità e consenso può presentare punti di debolezza su
entrambi i lati.
Come si può affermare una verità senza avvertire il bisogno del consenso così si
può consentire a non verità. La verità, ci si può domandare, non è autoevidente, di per
sé, non richiede semplicemente che di essere riconosciuta, colta contemplata? Il
consenso in tal caso verrebbe richiesto solo per il percorso che si deve compiere per
29
giungere alla sua conoscenza. Il consenso varrebbe in primo luogo per la "teoria" con
cui la si enuncia.
La critica dal lato della "verità" si potrebbe formulare dunque con lo slogan:
“non si ammette Sovranità nel percorso verso la verità”. E questo per l'attenzione
necessaria alle ragioni plurali che ne motivano l'accesso. Così possiamo intendere la
proposta teorica di una Costituzione non irradiante, ma centro di convergenza dei
pluralismi. Però vale sempre la pena di chiedersi se coloro che procedono lungo il
cammino verso la verità non siano titolari di quella quota di sovranità su di sé, ossia di
autonomia, che consente loro di decidere e di incamminarsi.
Il nesso Costituzioni pluralistiche-società pluralistiche presenta un ulteriore e più
sottile filo argomentativo sull'anti sovranità se viene svolto in una concezione staticonon conflittuale. Costituzione e società qui si riflettono compiutamente e, sembrerebbe,
definitivamente. In questo rspecchiamento non vi è valore o posizione che possa dirsi
eminente. Quale sarebbe la sede più congrua, allora, in cui posizioni o valori nel loro
incontrarsi e possibile confliggere possono essere trattati e ridefiniti?
Due sembrano essere le possibili sedi: in una autorità giudicante o nella sfera
pubblica. Nel primo caso si conferma il quadro di un governo dei custodi o dei giudici,
in cui però il pluralismo della società viene interpretato, letto, ma anche fissato secondo
una sorta di verità, questa non più pluralista, non relativa.E tuttavia è manifesto come Il
pluralismo contrasti “con l'idea che nel diritto sia racchiusa la risposta sostanziale, la
decisione sui valori fondata nella verità. La ragione positivizzatasi nel diritto,
incarnatatasi nel diritto, non è in grado di fornire risposte pre-determinabili e
precostituite" (Palombella 1997, 112-3).
Come sede più opportuna e pertinente resta allora la “sfera pubblica”, come
"sede privilegiata per pensare i valori costituzionali, e tale può essere solo quella in cui i
valori stessi originano, in cui compaiono i soggetti medesimi dei valori in discussione"
(ivi). La sede più appropriata quindi per pensare le verità o ivalori, ma non solo, per
proteggerli anche, non può che essere quella sfera pubblica in cui è riconducibile la
nozione di sovranità popolare, in cui è attivabile e costruibile il consenso.
Se costituzione viene invece concepita come centro di convergenza, il fine
dell'espressione di un pluralismo "mite", il nesso Democrazia e Costituzione viene
fissato nella preminenza del valore-fine riconoscibile nella Costituzione. Lì l'azione
democratica realizzandosi esaurirebbe la propria funzione attiva. Nella Costituzione la
Democrazia si riconoscerebbe come compito svolto e la prima, realizzandosi a sua
volta nell'opera della autorità dei giudici proteggerebbe e rappresenterebbe sia la società
che la democrazia pluraliste.
Rimarrebbe senza risposta l'insistente e forse per taluno irritante domanda: "per
quale motivo il popolo dovrebbe rinunciare a priori alla decisione politica sui valori, se
in linea di principio non c'è un luogo nè un organo giuridico "privilegiato" che si possa
dimostrare immune dai limiti cognitivi della gente comune?" (Palombella 1997, 113). In
epoca di divisione del lavoro, oltre che dei poteri, la domanda indubbiamente può
risultare irritante, ma non fa altro che sollevare il velo dottrinale che copre la persistente
diffidenza su una nozione come quella di sfera pubblica o di sovranità popolare.
C'è dualità, ossia pluralità, di buone ragioni che muovono lo stratagemma di
Ulisse. Il bisogno naturale di salvarsi dall'incontro con le Sirene, l'altrettanto
30
naturale bisogno, o pulsione, di ascoltarne il canto.Razionalmente risolve, ossia
tratta il conflitto interiore, introducendo l'artificio del farsi legare. ma anche nel
suo stato di "essere legato" permane come uomo capace di pensare e di volere,
permane come "luogo di decisione politica sui valori", proprio perchè è stato
capace di quella prima decisione.
Al fin troppo diffuso il timore che il pluralismo dei valori e delle situazioni sociali
concrete sia così intimamente conflittuale da divenire seccamente e irrimediabilmente
antagonistico.si può contrapporre il motivo della dialettica, che, secondo sua natura
"mette in discussione l'idealismo del consenso stabile, e l'universalismo statico della
sfera pubblica ... la ragione "una", sostanziale, la verità chiusa e definita, che si sottrae
al dissenso (Palombella 1997, 114).
Non andrebbe scordato che il bisogno del consenso nasce dalla constatazione
dell'attuale o possibile dissenso. Per questo il consenso è l'esito di un difficile incontro
di ragioni. La difficoltà o l'imbarazzo mi sembra di scorgerle nel fatto che le posizioni
dissenzienti detengono un loro potere. Per questo "si tratta di preservare
l'indeterminatezza, l'apertura del confronto come valore della democrazia, e ciò
attraverso quel seguire le tracce del potere e dell'esclusione (come insiste la Mouffe).
ossia attraverso il costante tentativo di riavvicinare ciascuno, ciascuna parte, ciascun
gruppo a quella porzione ideale di sovranità che gli viene sottratta" (ibid., 115).
Se la decisione pubblica è il fine di una democrazia come processo aperto, non
necessariamente sempre tollerante, in un equilibrio la cui stessa instabilità è ciò che
detta le ragioni della sua riformulazione. proprio in quanto lì si giocano poteri diseguali
e comunque a rischio, Sovranità è allora nella dinamicità dello stesso processo del
confronto pubblico.Ma se così si è definito il luogo e il modo di espressione della
Sovranità in un sistema democratico, la sua titolarietà si fa complessa, plurisoggettiva.
Le obbiezioni a tutto ciò sono immaginabile: “che ne è allora del "bene
sostanziale" in cui si possono riconoscere i valori affermati nella Costituzione, quando è
la dinamica indeterminata delle parti ad avere il gioco in mano? La dialettica che rimane
sempre aperta non finisce per trascinare in un vuoto di esiti?”.
Se spostiamo l'accento sulla molteplicità di tensioni, pulsioni, bisogni, sulla
diversità di energia fisica e psichica che compongomo il "soggetto" Ulisse
diventa pensabile il prodursi sia della sua identità, sia di un punto di
convergenza intenzionale, in cui si ha il decidere di essere vincolato.E questo è
orientato sia ad ascoltare il canto delle Sirene, sia :ad evitare il naufragio.Ulisse
è lo stesso e non più lo stesso dopo aver superato la prova.
Così può essere inteso il non ridurre il gioco sociale ad una singola forza o valore, sia
esso l'interesse privato o il bene comune, riduzione che produrrebbe quel gioco a
somma zero che si paventa essere il rischio reale di un pluralismo avvolto su se stesso.
Un rischio che è reale se per pluralismo intendiamo il semplice rispecchiamento
dei più diversi particolarismi. E ben sappiamo come individualismo e particolarismo si
raccordino con difficoltà o confliggano apertamente con qualsiasi notazione di
universalità dell'agire politico. A proposito di questo principio di universalità è tutt’altro
che marginale l’osservazione secondo cui "Sin dalle forme post-medievali, la sovranità
31
si presenta come una affermazione del principio pubblico sulla particolarità delle istanze
individuali. Il contenuto della volontà sovrana è pensato come una proiezione di un
riferimento all'universalità" (Palombella 1997, 116).
Ritornando all'immagine di Ulisse in cui entrano in conflitto due opposti e
naturali impulsi, il suo autobbligarsi gli serve non tanto e non solo per
soddisfarli entrambi, ma anche per trascenderli.Trovando una soluzione che è
l'esito della loro manifestazione e della sua consapevolezza, Ulisse ascolta e si
salva, proprio in quanto si è posto in un luogo diverso dalla loro immediata e
reciprocamente esclusiva espressione.
Nel doppio movimento dialettico di cogliere e trascendere la particolarità si può radicare
il riferimento all'universalità. Né deve venir meno la consapevolezza dell'ambivalenza
per cui "Entro questo riferimento all'universalità si cela ... sia la legittimità del sovrano
(in quanto oltre le parti) sia l'inganno della sovranità (in quanto capace di elevare
all'universalità l'interesse di una parte) (Palombella 1997, 117). Come scoprire però
l'inganno sempre implicito' Come tutelarsi? L'ambivalenza è comunque scomponibile
sul versante di una concezione normativa della democrazia. "La dimensione (ideale,
semantica e) normativa della sovranità custodisce e preserva però il primo elemento che
entra a far parte della consapevolezza delle democrazie, e si oppone constantemente e
controfattualmente al secondo. Si può dire che le democrazie costituzionali vivono in
una costante e necessaria tensione critica tra questi due profili") (Palombella 1997, 118).
Non ci sarebbe bisogno alcuno di Costituzioni se non vi fosse una simile
tensione. Il termine superiorità altro non è infatti che una astrazione e
concettualizzazione dell'attributo "superiorem" nella formula "rex superiorem non
recognoscens in regno suo est imperator" che qualifica il principio per cui la sovranità si
esplicita nell'adozione di una regola o di una decisione per la ragion pubblica, ossia in
una prospettiva di universalità. Questa non va identificata però né con totalità, né con
insieme, nozioni che si pensano siano a danno della libertà dei singoli, degli individui.
La “sfera pubblica” che si intende individuare è per le democrazie costituzionali
quella prassi che avviene in luoghi istituzionali. Luoghi appropriati e definiti
normativamente per lo svolgimento di un confronto pubblico di argomentazioni
razionali, per cui. “Parlare di sovranità popolare significa poter valorizzare il confronto
condotto attraverso procedure che vincolano a presentare argomentazioni" (ibid., 119).
Insomma vanno congruamente pensate e individuate procedure connesse a
istituzioni, perchè l'antica nozione di sovranità possa passare, con minor ambivalenza
possibile, dalla figura individuale, carica di notazioni autoritarie e segnata
inesorabilmente dai valori negativi dell’arbitrio e del capriccio, al luogo dove sia
possibile l'espressione della soggettività plurale. Si ha così la nozione di sfera pubblica.
Ma questa è l'agorà dove non solo è possibile ma è necessaria l'isegoria.
C'è un qualche differenza fra l'Ulisse che precede quello che prende decisioni e
l'Ulisse che decide, fra il Soggetto, sans dire, e il Soggetto istituente? C'è
differenza, c'è passaggio da uno status ontologico ad un altro. L'Ulisse prima del
decidere è il luogo in cui ha sede la privatezza delle sue pulsioni, è l'Ulisse
uomo, individuo, numericamente pari ad ognuno dei suoi compagni: L'Ulisse nel
32
decidere è la sfera pubblica che elabora la "superiorità" della decisione rispetto
alla particolarità delle opposte pulsioni. E lo può fare perchè tecnicamente
illuminato: Sovrano allora non in un rito a lui esteriore, ma nella ritualità ove si
esplica la sua astuta decisione.
Se ci siamo riferiti al concetto di riualità è perché siamo convinti che l’antinomia
classica fra i principi di fondazione dell’ordine politico, la legge o gli uomini, che
ritroviamo nelle formule lex facit regem e rex facit legem, è solo apparente: Si può
osservare che quella del Sovrano sia una questione che esemplifica la categoria
dell’Eterno Ritorno. Tuttavia” è possibile osservare come questo non avvenga più
“all’ombra del Contratto, come nel pacificante e “addomesticante” modello hobbesiano:
E neppure dietro la garanzia del cristallino rigore di una forma giuridica intesa come
sistema di dispositivi razionali. Tale ricorso piuttosto “ha luogo”, trova cioè il suo
spazio proprio di espressione, all’insegna del Rito” L’apparente antinomia qui trova il
luogo di ricomposizione, ossia “…attorno ai “corpi” simbolici investiti dal rituale:Solo
la procedura ritualizzata consente di “incarnare”, rendere visibile, il presupposto latente
e di tradurlo in “presenza”” (Marramao, 335-6). Non credo che sia banalmente scontata
né tacciabile di ideologismo la ricostruzione che vede nell’apparente antinomia
null’altro che l’indicazione delle due “necessarie interfacce di una sola e medesima
origine” Secondo questa ricostruzione “il “Re” si è sempre legittimato attraverso rituali
giuridici e, per converso, questi ultimi si sono sempre retti (e logicamente razionalizzati)
su un principio di regalità – indipendentemente dall’incarnazione fisica e dalla
“localizzazione” del Sovrano - come norma di chiusura dell’ordinamento” (Marramao,
336). A fronte delle moderne democrazie costituzionali e , sotto questo profilo, in
continuità con la tradizione del diritto pubblico europeo-continentale “Il doppio della
norma fondamentale (della Norma sovrana…) non è rappresentato da altro se non dal
Rituale: ossia dai periodici cerimoniali in cui ha luogo l’identificazione del Popolo e
della Nazione…)" (ibid.). Ci preme sottolineare come questo sia un aspetto da non
trascurare.
4.5. Decisioni sovrane dei più
Dopo aver osservato ed esserci interrogati sulla scena di Ulisse che si fa legare all'albero
della propia nave, siamo giunti al punto in cui possiamo infine chiederci chi sia Ulisse, a
porci più direttamente la questione del “soggetto”.9 In quest’ultima domanda è
rintracciabile il tema del popolo, meglio, del popolo che si fa Sovrano.10
9
Di “impossibilità di rimuovere il soggetto dalla scena dei rapporti sociali” parla espressamente
Vincenzo Ferrari, il quale osserva come “Junger Habermas in Germania, Alain Touraine in Francia,
Anthony Giddens in Gran Bretagna, Achille Ardigò, Pierpaolo Donati, Luciano Gallino e Marino Livolsi
in Italia…concordano in sostanza nel rappresentare la società, in sé, come un’interazione permanente fra
strutture comunicative e azioni soggettive”: Ferrari 1997, 43.
10
In “società nazionali pluraliste e multietniche” ossia “frattali” nelle quali si propone di “pensare
alla costituzione non più come sistema di diritti/valori in grado di garantire un’integrazione sociale
unificante, ma come garanzia e stabilizzazione della differenziazione sociale”: Belvisi 1995, 263. E’
conseguente che in una concezione realista della politica e del diritto ispirata alla teoria sociologica dei
sistemi di matrice luhmanniana “Preso sul serio, il concetto di 'popolo' evidenzia il suo carattere
estremamente problematico. Il suo ambito di significato come fondamento delle costituzioni
democratiche-almeno della nostra- deve essere posto sotto condizione e quindi relativizzato” (ibid., 240).
33
Anche accettando che "Quel popolo che ha operato sulle scene storiche della
polis, nei comuni e ancora come terzo e poi quarti stato al tempo della Rivoluzione
dell'89, non esiste più.." (Sartori 1957, 18) e constatando pure come l’annotazione di
natura critica secondo cui "l'idea di popolo come corpo politico titolare della Sovranità
in uno Stato democratico può essere discussa in base all'osservazione di chi di fatto
partecipa alle scelte politiche in una democrazia rappresentativa” (Facchi 1997, 114)
non sia solo del senso comune, ma venga impiegata in sede teorica, pensare tuttavia la
nozione di democrazia senza ricorrere alla nozione impervia di popolo ci espone al
rischio di perdere l'oggetto stesso del nostro pensiero.
Occorre allora una nozione di soggettività attiva che non sia riducibile al solo
appartenere ad un unico ordinamento giuridico e politico. Da un lato nella prospettiva
giuspositivistica il popolo non è altro che l'insieme dei cittadini e la cittadinanza uno
status giuridico, ma dall'altro lato "la tradizione giuspositivistica eredita dal
giusnaturalismo razionalistico l'istanza della legittimazione del potere statale basato sul
consenso insieme alle due concezioni politiche - quella democratica e quella liberale che
da esso promanano" (Faralli 1997, 189).
Anche la nozione di popolo sulle sole basi positivistiche dello Stato di diritto
presenta aporie e difficoltà teoriche. In particolare quando sono i valori democratici e
liberali che si trovano a fronteggiare nuove sfide. Invece sulla scena internazionale si
osserva la tendenza riconosciuta come "beneficamente eversiva" "delle dichiarazioni
che superano la tradizionale concezione del diritto internazionale come diritto che
riguarda esclusivamente i rapporti fra gli stati e tendono invece a far emergere la
soggettività dei cittadini e dei popoli..) (Barbera 1997, 38). Sembrerebbe opportuno,
allora, rifuggire dall'idea di popolo come di un corpo, di una sostanza, di una somma, di
una composizione e pensare piuttosto a “luoghi” che determinano la possibilità di
esplicazione della soggettività politica plurale.
Si ha il luogo della privatezza, e qui incontramo il privato cittadino che agisce
"sottraendosi proprio a quella ispirazione all'universalità, o detto altrimenti alla visione
della vita politica come istanza sovraordinata rispetto a quella solamente privata"
(Palombella 1997, 120).
L’affermazione dell’ “idios” equivale ad un sottrarsi come possibile azione, ad
un abbandonare o ad un non-accedere al luogo, la sfera pubblica, dove si costituisce e si
esplica la soggettività del Popolo. Solo che quest’ultima nozione, “il Popolo”, è
concepibile se di tutta la gamma dei pronomi che nominano la soggettività possibile
scegliamo il pronome al numero plurale piuttosto che a quello singolare. Noi, il popolo:
Dunque l'io privato può operare secondo direttrici opposte: la sottrazione o la
partecipazione,cioè sottraendosi o partecipando. E' solo un "potenziale repubblicano" e
non quello continuamente attuale, fervente, dotato di inesausta energia e capacità di
mobilitazione e coinvolgimento attivo nelle questioni pubbliche quello a cui si può
realisticamente e non riduttivamente pensare. E’ accedendo alla sfera pubblica che
costituisce il demos; quando cioè coniuga il "Noi, il popolo" secondo un principio del
tutto politico. Ad una complessità socio-culturale che non solo “si immagina” ma anche
e più intensivamente “si rappresenta” politicamente come unità, è congruo far
corrispondere il principio politico proprio delle moderne “democrazie rappresentative”
della “maggioranza temperata”. Principio per cui si afferma che "la maggioranza ha il
diritto di prevalere nei limiti, e cioè rispettando i diritti e le libertà delle minoranze"
34
(Sartori 1993, 24). Partecipare o sottrarsi all’impegno attivo nella sfera pubblica non
equivale certo all’inclusione o all’esclusione dal Demos. Il partecipare, o accedere alla
sfera pubblica, o il sottrarsi nella propria privatezza di cittadino, sono comportamenti di
segno socio-politico opposto ma eticamente entrambi plausibili, poichè è in gioco "non
(la) cruda e cieca volontà, nemmeno (l') epistéme; ma (la) doxa, (l')opinione: niente di
più ma nemmeno, sottolineiamolo, niente di meno. E dunque è ben detto, e detto di
proposito, che la democrazia è governo di opinione, un governare fondato sull'opinione"
(ibid., 61).
Rimane sempre da affrontare la questione della possibilità concreta di questa
transizione, di come cioè possa rimanere sempre aperto il circuito che consenta di
"passare da privati cittadini a cittadini privati" (Palombella 1997, 130).
Oltre la nozione della duaslist democracy con cui Ackerman si propone di
"risolvere il contrasto e ottimizzare la conciliazione tra il versante liberale e quello
democratico, accettando che sia parte integrante della democrazia liberale anche
l'esercizio "alto della sovranità popolare, l'unica che sia in grado di scolpire nuovi
principi che guidino per lungo tempo la vita pubblica" (Palombella 1997, 127).
Palombella osserva come “non insistendo sulla ordinaria struttura deliberativa della
sfera pubblica si finisce per riversare su un’autorità giudicante il nucleo fondamentale
dei contenuti politici della cittadinanza, dando per interrotto il percorso che dovrebbe
condurci a passare da privati cittadini a cittadini privati” (Palombella 1997, 130).
Sul versante sociologico-politico intanto si constata che la "democrazia, che può
essre definita sociale o culturale, si contrappone alle concezioni sia liberali sia
rivoluzionarie per il fatto che non si richiama a una filosofia della storia, ma a una
filosofia morale ... a una concezione dei diritti dell'uomo che fonda tutta una serie di
diritti altrettanto universali di quelli del cittadino, ma che devono essere difesi in
situazioni sociali concrete, ossia di fronte a un avversario o a una controparte
socialmente definita" (Touraine 1997, 35).
La proposta possibile sul piano del pensiero giuridico e politico alle questioni
che si aprono in una simile “democrazia sociale o culturale” è quella di un “ponte” che
connetta i fianchi di entrambi i masicci montuosi della. Costituzione e della Sovranità,
ed è il ponte dei diritti costituzionalmente garantiti." Se vogliamo mantenere attiva la
forza delle nostre democrazie costituzionali dobbiamo riconoscere il punto in cui le
costituzioni si legano alle democrazie e si fermano innanzi ad esse, in cui la sovranità
popolare si lega alle costituzioni e si ferma innanzi ad esse" (Palombella 1997, 131-2).
Rinunciare al tema di una soggettività politica consapevole, significa rinunciare
ad una distanza ontologicamente vitale tra “istituente” e “istituito". E’ una distanza che
riproduce quella più radicale fra zoé e bìos, fra voce e linguaggio, fra nuda vita e pòlis
che è stata indicata da Airistotele e che rappresenta l’aporia fondamentale del pensiero
politico occidentale. Ma allora, ed è qui la vitalità del mantenimento di quella distanza,
“Il problema si sposta, così, dalla filosofia politica alla filosofia prima (o, se si vuole, la
politica viene restituita al suo rango ontologico" Sino a quando però “una nuova e
coerente ontologia della potenza ( al di là dei passi che in questa direzione hanno mosso
Spinoza, Schelling, Nietzsche e Heiddeger) non avrà sostituito l’ontologia fondata sul
primato dell’atto e sulla sua relazione con la potenza, una teoria politica sottratta alle
aporie della sovranità resta impensabile” (Agamben 1995, 51). Si tratta di una aporia il
cui senso passa dalla dimensione immediatamente politica a quella onto-logica e solo su
35
questo piano sembra trovare la possibilità di una soluzione, poiché “L’aporia metafisica
mostra qui la sua natura politica” (ibid., 56). Intanto e però, proprio per non svalutare le
conquiste e i travagli della democrazia moderna e il carattere vitale dell’ambivalenza
costitutiva del rapporto fra vità e città, assumendo che, se "la sovranità è la negazione di
una fondazione extra sociale della legge, la negazione di ogni autorità esterna e
trascendente” e, dall’altro lato, se”la democrazia è la forma di società che rende visibile
la possibilità che la società si dia "nuove leggi" e che le possa rimettere in discussione"
è solo un pregiudizio quello che alla democrazia come forma di società attribuisce i
disvalori di caos informe e di puro disordine e ne disconosce il carattere, invece, di
“processo che si <<struttura strutturandosi>>, che esiste esistendo, e proprio perciò non
si esaurisce mai nel già dato, nell’istituito”. Rovesciando l’ordine di qualificazione
logica fra il sostantivo e l’aggettivo della teoria dominante dello Stato che su quel
pregiudizio trova il proprio fondamento e secondo cui lo Stato è il prius e la democrazia
è solo un attributo possibile (“Lo Stato - vien detto - è anche democratico”) sono
rinvenibili anche “luogo” e“qualità primarie” della sovranità popolare. Essa “è
dovunque e in nessun posto: è il popolo che istituisce e continuamente prende le
distanze da ciò che istituisce. La sovranità popolare è la negazione di ogni autorità e
potere extra-sociale che siano la Ragione universale o il libro dei Profeti, che siano il
Calcolo economico ipostatizzato o i Vincoli (Barcellona 1998, 348-9).
Ulisse lo riconosciamo nel suo decidere di autolegarsi
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