FAMIGLIA: moraceae GENERE: morus SPECIE: morus alba SPERMATOFITA DICOTILEDONE MORUS ALBA Quest’albero, probabilmente, fu introdotto nel Mediterraneo nel secolo XII, quando fu importato il baco da seta, perché le sue foglie rappresentano il quasi unico alimento di questi animali. Morus alba rappresentava un elemento caratteristico delle campagne italiane quando l’allevamento dei bachi da seta era praticato anche sul piano artigianale e familiare. PORTAMENTO TRONCO: irregolarmente ramificato,piuttosto grosso e basso. CHIOMA: allargata e di forma ovale. CORTECCIA: dapprima grigia poi bruna, fessurata longitudinalmente. FOGLIE: sono sostenute da un picciolo scanalato fornito di stipule caduche. Si presentano ovato-acute, talvolta lobate, irregolarmente dentate ai margini, di colore verde-chiaro. FIORI: i fiori maschili sono riuniti in amenti cilindrici, i femminili in amenti subglobosi. FRUTTI: infruttescenze bianche, rosa o violette dette “more di gelso”. USO: le foglie del gelso sono utilizzate come nutrimento per l’allevamento dei bachi da seta. Il Gelso Esistono due piante di gelso: il “Morus alba” o gelso bianco e il “Morus niger” o gelso nero; nessuno dei due ha origini italiane. Il Gelso bianco: Il gelso bianco, che si distingue da quello nero per le foglie lucenti e per il frutto bianco o appena rosato, è originario della Cina. Fu proprio una imperatrice cinese di nome Si - ling - chi che, nel 2700 a.C. ebbe l’idea di coltivare la pianta del gelso bianco per l’allevamento del baco da seta che, come tutti sanno, si nutre delle sue foglie. Grazie a lei i Cinesi divennero i più famosi produttori di seta e sia i Romani che i Bizantini affrontavano lunghi ed estenuanti viaggi per portare quel tessuto così raffinato in occidente pagandolo a peso d’oro. Per molti secoli i Cinesi custodirono gelosamente il loro segreto facendo credere ai mercanti occidentali che la seta fosse un filato vegetale come il cotone o il lino e che quindi fosse proprio l’albero del gelso a produrre i fili di seta. Solo nel 552 il mondo occidentale scoprì la verità: due monaci, inviati da Giustiniano in Cina con l’incarico di impadronirsi del segreto della seta, riuscirono a portare a Costantinopoli dei bozzoli nascosti dentro i loro bastoni. Nell’undicesimo secolo gli Arabi, che avevano diffuso la sericoltura in Persia, la introdussero nei loro regni spagnoli. Nel 1130 Ruggero II la importò in Sicilia e, dalla suddetta isola, la coltivazione del baco da seta si diffuse un po’ in tutta l’Italia e poi negli altri paesi europei. Va sottolineato che da quel momento in poi l’Italia divenne uno dei più importanti centri di produzione della seta tanto che il gelso fu definito “albero d’oro” per gli altri redditi che assicurava. Con l’avvento delle fibre sintetiche, l’industria della seta andò in declino e solo in questi ultimi decenni sembra essere rinato l’interesse per questa fibra tessile. Il Gelso nero: Originario della Persia, il “Morus nigra” , o gelso nero, fu introdotto in Europa dai Greci e Romani. Secondo una leggenda narrata da Ovidio - noto poeta latino, vissuto a cavallo tra la fine del primo secolo a. C. e l’inizio del primo secolo d.C., - in una delle sue opere più celebri: “ Metamorfosi”, il frutto del gelso nero era originariamente bianco e si trasformò in nero perché arrossato dal sangue di due giovani amanti: Tisbe e Piramo. Entrambi vivevano a Babilonia in due case contigue. Grazie a quella vicinanza ,i due giovani incominciarono a frequentarsi e, col tempo, si innamorarono. Essi si sarebbero sposati se i rispettivi padri non si fossero opposti: le loro famiglie si odiavano da sempre.; si trattava di odii antichi, feroci, trasmessi di padre in figlio, consolidati nel tempo, le cui ragioni, , sfuggivano agli stessi interessati. Una volta sorpresi a baciarsi, Piramo e Tisbe furono rinchiusi in due sgabuzzini nelle cantine del palazzo. Ciò nonostante, continuarono a sussurrarsi frasi d’amore: la parete divisoria che separava i due bugigattoli aveva una piccola crepa, una fessura invisibile a tutti fuorché ai due innamorati. Un giorno, stanchi di quella situazione, decisero di progettare un piano per fuggire: quando i rispettivi carcerieri sarebbero venuti a portar loro la cena, li avrebbero aggrediti di sorpresa e imbavagliati. Per Tisbe l’impresa si presentava abbastanza semplice in quanto si trattava di immobilizzare una vecchietta mite, forse anche un po’ ingenua: la sua vecchia nutrice. Per Piramo la fuga era ancora più facile in quanto si era messo d’accordo, corrompendolo con il custode incaricato del turno di notte. I due giovani si dettero appuntamento presso un sepolcro che sorgeva vicino ad un grande albero, carico di bacche bianche come la neve: era un grande gelso; poco più in là si trovava una fonte. La prima ad uscire di soppiatto fu Tisbe, che, col volto velato, arrivò al luogo convenuto e, dal momento che il suo innamorato non era ancora arrivato, si sedette sotto il grande albero di gelso. Era lì da qualche minuto, quando la giovane vide avvicinarsi una leonessa col muso intriso di sangue; essa poco prima aveva sbranato dei buoi e si stava avvicinando alla fonte solo per dissetarsi. La giovane, spaventata, corse a rifugiarsi in una grotta che si trovava nelle vicinanze, ma, mentre fuggiva, le scivolò il velo dal viso. Intanto la belva, dissetatasi, stava ritornando nel bosco, quando si imbatté nel velo abbandonato; subito , con le sue fauci insanguinate, lo strappò e poi continuò per la sua strada. Quando Piramo giunse nel luogo convenuto - era in ritardo in quanto aveva dovuto attendere l’arrivo del carceriere con il quale si era messo d’accordo - non vedendo la sua amata, incominciò a preoccuparsi; poi scoprì le orme dell’animale e, quando vide il velo stracciato e macchiato di sangue, angosciato , incominciò a disperarsi; poi, raccolto i brandelli del velo ,e stringendolo al petto, afferrò il suo pugnale e lo affondò nel suo ventre. Ancora agonizzante , il giovane ebbe la forza di estrarlo dalla ferita; poi, cadde a terra supino. I frutti di gelso, spruzzati di sangue diventarono scuri . Anche le radici si inzupparono di quel giovane sangue e gli stessi grappoli di bacche si tinsero di rosso cupo. Intanto Tisbe, uscita dal suo rifugio, tornò al luogo dell’appuntamento. Ma, alla luce della luna, non riusciva più a distinguere la pianta del gelso perché il colore dei suoi frutti era cambiato. Mentre tentata di orientarsi, vide per terra un corpo agonizzante; spaventata, indietreggiò, ma quando si accorse che era il suo innamorato, urlò il nome del suo amato. Piramo, sentendo la voce della giovane riaprì gli occhi; ma fu solo un istante, perché subito dopo spirò. Fu allora che Tisbe si accorse del velo insanguinato e del pugnale; comprese l’accaduto e non potendo sopravvivere senza il suo giovane amato, decise di trafiggersi col suo stesso pugnale. Prima di farlo, però Tisbe rivolse ai suoi genitori la preghiera di seppellirla in un unico sepolcro con Piramo. Poi si rivolse agli dei e li supplicò di serbare quel colore cupo ai frutti del gelso in ricordo del sangue versato. Questa leggenda nel Medioevo divenne così popolare che anche lo stesso Dante la ricordò in una delle sue Cantiche: il Purgatorio. * Proprietà e credenze popolari: Sia il Morus alba che il Morus nigra erano alberi molto apprezzati dagli antichi; Castore Durante, vissuto nel Rinascimento, spiega che la seta oltre che essere indossata, veniva anche utilizzata in medicina. Relativamente al gelso nero, invece, sembra che esso fungesse addirittura da amuleto: si pensava, infatti che, portando sul corpo frutti acerbi che non avessero toccato terra, raccolti con la luna piena, si arrestassero le emorragie dalla bocca, dalle narici e quelle provocate da ferite. Plinio riferiva, inoltre, che dal succo di more misto a miele, agresto secco, mirra e zafferano, cotti a fuoco lento, si ricavava “ l’arteriace “, un medicamento molto popolare utilizzato per curare i mali della bocca, della trachea, dell’ugola e dello stomaco. Altro medicamento capace di cicatrizzare le ferite era la “stomatice” ottenuta facendo bollire i succhi del frutto maturo e quelli dell’acero fino a trasformarli in una specie di miele: curava il catarro pettorale, le ulcere corrosive e tutte le malattie in cui fosse richiesta un’azione astringente. Quanto al succo della corteccia di radice, bevuto nel vino o in acqua e aceto, combatteva con efficacia il veleno degli scorpioni. Oggi si sa che le more di gelso contengono circa il 10 % di zuccheri e le vitamine essenziali in piccola quantità; sono inoltre antidiabetiche, lassative, rinfrescanti. Le foglie, considerate una volta febbrifughe e astringenti, si usano ancora oggi nei Balcani per la loro virtù antidiabetica.