La costruzione del razzismo di Étienne BALIBAR 1.Il razzismo tra storia e avvenire Perché classifichiamo una serie di comportamenti sotto la comune categoria di «razzismo»? Per quale motivo un insieme di discorsi, estremamente diversi tra loro, che tendono a isolare, a stigmatizzare, a minacciare, a discriminare dei gruppi umani o sociali, sono considerati come razzisti? Perché qualifichiamo come «razziste» pratiche differenti — alcune spontanee, altre istituzionali — che hanno in comune il fatto di generare l’oppressione, l’ostilità, la sfiducia reciproche, che possono sfociare nella violenza estrema e che sono comuni a tutte le società, a quelle contemporanee come a quelle sviluppatesi nel corso della storia? Con mia grande sorpresa, la copiosa letteratura che oggi si consacra allo studio del «razzismo» discute del carattere antico o moderno del «fenomeno razzista», delle sue variazioni quantitative e qualitative, ecc., ma non si pone quasi mai questa domanda. Essa tende a considerare la risposta come acquisita, facendo della categoria di «razzismo» uno strumento il cui utilizzo nell’analisi sociologica e politica non pone alcun problema. Si passa direttamente alla discussione delle differenti definizioni, delle teorie concorrenti e dei loro limiti di validità. Alla base di questo atteggiamento è la convinzione che vi sia un fatto incontestabile: da un tempo più o meno lungo, esiste un fenomeno cui è dato il nome di razzismo; le sue manifestazioni sono molteplici; esso si trasforma con il passare del tempo senza tuttavia coincidere con ogni forma di violenza, né con ogni manifestazione di odio collettivo. Ma non sarebbe forse il caso di domandarsi da cosa deriva quest’evidenza? È opportuno che ci poniamo questa domanda, anche perché, nella maggior parte delle società contemporanee, il razzismo è oggetto di un divieto che produce conseguenze giuridiche, benché queste siano differenziate e si discuta della loro legittimazione, delle loro modalità d’applicazione e dei loro limiti. Si può dire, nel corso di una campagna elettorale, che ci sono «troppi immigrati» o «troppi immigrati extracomunitari», o troppi «neri», o troppi «arabi», o troppi «musulmani», o troppi «ebrei»? O affermare che essi sono «non assimilabili» ai modelli culturali e alle istituzioni di «casa nostra»? O ancora affermare che, sotto questo o quell’aspetto, la loro «cultura» è «inferiore»? Sono problemi che si pongono quotidianamente, in termini non soltanto morali e politici, ma anche giuridici. Il fatto che il razzismo in quanto tale sia ormai vietato limita molto i dibattiti sulle sue origini, sulla sua natura e sui suoi effetti. C’impedisce di considerare che il significato del termine «razzismo» è una questione di pura convenzione e che ciascuno potrebbe definirlo in base ai propri preconcetti o ai propri postulati di ricerca. La necessità di porsi il problema delle origini e del significato della categoria «razzismo» è resa più stringente dal fatto che veniamo sollecitati da valutazioni contraddittorie del ruolo del «razzismo» nelle società contemporanee. Questo problema non è soltanto formale e comporta conseguenze politiche e istituzionali. Alcuni analisti e saggisti vedono nel razzismo un fenomeno del passato, sempre più marginale, che tenderebbe naturalmente ad affievolirsi se non fosse «artificialmente» rinvigorito da strategie controproducenti e dagli «effetti perversi» di definizioni e interventi istituzionali quali l’affirmative action praticata negli Stati Uniti e le misure più o meno equivalenti di lotta contro le discriminazioni adottate in altri paesi. Non sono solamente i conservatori o i neoconservatori, come il sociologo statunitense Dinesh D’Souza, autore di un libro-manifesto sulla «fine del razzismo» pubblicato nel 1995, che credono di poter fare uso del concetto di «razza» o di «differenza razziale», affermando al contempo che le società moderne stanno superando i pregiudizi e le discriminazioni (2). Anche alcuni intellettuali di sinistra non esitano ad affermare che le differenze professionali, o le differenze di generazione o di sesso, tendono oggi ad assumere, all’interno della conflittualità sociale, il ruolo che ieri era proprio delle differenze razziali, in particolare nei paesi segnati dal colonialismo e dalla schiavitù. Essi si presentano come i difensori di un universalismo repubblicano che teme che la difesa delle minoranze e dei gruppi oppressi degeneri in rivendicazioni «comunitariste», oppure cercano di elaborare una politica di emancipazione «post-coloniale» e «postmoderna» che permetta di passare dal discorso della razza e del razzismo a quello delle identità multiple «nomadi» o «diasporiche», che sovvertono le tradizionali concezioni eurocentriche della comunità (3). Un’ampia gamma di discorsi sembra suggerire che, per ragioni differenti, la problematica del razzismo non può avere, oggi, che una portata storica e retrospettiva. Ma altri discorsi suggeriscono il contrario, in modo altrettanto insistente: non soltanto diverse tipologie di razzismo sono più vivaci e letali che mai, ma hanno davanti – non dobbiamo avere paura di dirlo – un brillante avvenire, che nulla avrà da invidiare al loro passato. Può darsi che oggi, a causa delle forme assunte dalla globalizzazione e dell’indebolirsi delle forze politiche che in tempi recenti ne hanno garantito la sconfitta, il razzismo divenga dominante nelle nostre società, al Nord come al Sud e all’Est come all’Ovest. Questa prospettiva inquietante, tuttavia, può realizzarsi in modi differenti. Essi confermano il carattere conflittuale della semantica del razzismo. Molti ricercatori insistono sul fatto che gli sviluppi contemporanei si basano su uno spostamento dei bersagli, delle intenzioni, dei discorsi, benché tutto resti all’interno dei limiti generali di un paradigma di esclusione dell’altro, sia sociale sia simbolico (4). Questa constatazione porta alcuni autori a sviluppare la tematica detta del «razzismo culturale», del «razzismo differenziale» – o «differenzialista» – e persino, per sottolineare il paradosso, del «razzismo senza razze». In Francia studiosi come Pierre-André Taguieff – prima di passare a un altro tipo di discorso, più militante, a proposito della nuova «giudeofobia» (5)– hanno attirato l’attenzione sugli effetti perversi delle politiche e dei discorsi «antirazzisti» che trascurano o eufemizzano le forme «non biologiche» o «non gerarchiche» del discorso razzista, fondate sull’essenzializzazione della differenza culturale. Ciononostante, man mano che dei conflitti a carattere etnico-religioso situati nel Nord come nel Sud – quando non traducono la interpenetrazione fra queste due dimensioni geografiche – generano genocidi e politiche di sterminio, come nella ex-Yugoslavia e in Africa orientale e centrale, o proiettano nel mondo intero i fantasmi della cospirazione e dello scontro di civiltà – come nel caso del conflitto israelo-palestinese – si diffonde l’idea che il razzismo in quanto tale è un fenomeno permanente, il cui ritorno periodico tradurrebbe l’incapacità delle società di «progredire» nella civiltà o la loro insuperabile dipendenza dalle strutture arcaiche della mentalità collettiva. Si può allora pensare che i dibattiti attuali attorno all’uso e alle applicazioni della categoria «razzismo» non soltanto comportano tensioni estreme, ma rischiano di generare confusione. Una confusione che non ha solo risvolti epistemologici, poiché il razzismo è, prima di tutto, un oggetto politico e gli aspetti della teoria e della lotta sono indissolubilmente legati. Ogni modalità di utilizzazione pubblica della nozione di razzismo produce immediatamente effetti a catena. È sufficiente ricordare che cosa ha scatenato la conferenza organizzata a Durban nel 2001 sotto i comuni auspici dell’UNESCO e della Commissione dell’ONU per i Diritti dell’Uomo. Si trattava, con la partecipazione delle delegazioni ufficiali di tutti i paesi, ma anche di numerose organizzazioni non governative – e in un luogo altamente simbolico della lotta contro le peggiori discriminazioni ereditate dalla colonizzazione – di dare un nuovo slancio alla lotta contro i pregiudizi razziali che costituiscono la maggiore preoccupazione della politica dei diritti umani (6). La conferenza, tuttavia, invece di giungere a una piattaforma d’azione comune, o perlomeno a una delimitazione dei problemi principali, non poté che lacerarsi di fronte a una serie di problemi. C’erano delegazioni che reclamavano l’inclusione del sionismo all’interno delle ideologie razziste, mentre altre difendevano l’idea che l’anti-sionismo è la forma moderna dell’antisemitismo. Alcune delegazioni sostenevano che le conseguenze economiche e culturali della schiavitù e della tratta dei neri dovevano dar luogo agli stessi «indennizzi» previsti per il genocidio e soprattutto per lo sterminio degli ebrei d’Europa, mentre altre rifiutavano questa idea. Alcune delegazioni volevano che le discriminazioni di casta nei paesi dell’Asia Sud-orientale – India in primis – fossero incluse tra le manifestazioni di razzismo, mentre altri vi si opponevano. E così via. Le conseguenze di questo fallimento sono disastrose. Non si tratta di un episodio politico tra tanti altri nella storia delle organizzazioni internazionali. È il segno di come sia urgente ripensare che cosa intendiamo con il termine «razzismo», come articoliamo questo fenomeno in rapporto agli altri che, storicamente, lo intersecano, come il nazionalismo, l’imperialismo, l’intolleranza religiosa. E per prima cosa occorre esaminare criticamente la storia intellettuale che ha prodotto questa categoria. Come introduzione preliminare, vorrei interessarmi non a quella che è stata chiamata da certi autori «l’invenzione del razzismo», in quanto fenomeno moderno o, al contrario, antico – posizione che dà per acquisita la categoria generale, soprattutto quando si assume che la realtà precede le parole (7)– ma all’elaborazione della categoria stessa. Questa ha coinciso, infatti, con il cambiamento dell’idea stessa d’umanità, dove l’accento era ufficialmente posto sull’uguale dignità degli esseri e sull’indivisibilità della specie umana. Le conseguenze epistemologiche di questo gesto politico sono inseparabili da un mutamento dell’antropologia stessa. Si tratterà di descriverne il senso, sempre sottolineando l’importanza delle resistenze che questo mutamento ha innescato e che testimoniano che esistono altri modi per teorizzare i fenomeni in questione. Potremo così darci, almeno in teoria, gli strumenti per comprendere meglio le tensioni interne al paradigma antropologico, dalle quali alla fine deriva la sua disintegrazione, in particolare con l’emergere dell’idea di «razzismo differenziale» e di una nuova problematica dell’inclusione interna. 2. La «preistoria» della categoria storico-politica del razzismo Occorre prima di tutto ricordare, in maniera schematica, come è apparso il termine «razzismo». La maggior parte degli storici richiama l’attenzione sulla derivazione di «razzismo» da «razza», termine la cui etimologia è a sua volta controversa. I primi usi critici del termine «razza», durante gli anni Trenta del Novecento, provengono da autori tedeschi – in fuga dalle persecuzioni naziste – che scrivono o sono tradotti in inglese. In Race and Civilisation, pubblicato nel 1928, Friedrich Hertz utilizza ancora il termine «odio razziale», ma già nel suo libro del 1933-34, tradotto e pubblicato nel 1938, con il titolo di Racism, Magnus Hirschfeld utilizza il termine distinguendolo da «xenofobia» (8). Se rapportato al fenomeno oggettivo in quanto tale, l’uso del termine «razzismo» resta, sia chiaro, tardivo. Esso «naturalizza» l’espressione di Rassenlehre di cui si servivano i nazisti per fondare le loro categorizzazioni ereditarie e le loro persecuzioni. Da un punto di vista filologico, la tappa seguente sarebbe rappresentata dal dibattito proposto alla comunità scientifica da intellettuali come Julian Huxley – che sarebbe poi diventato il primo direttore generale dell’UNESCO –per stabilire se i nazisti hanno «deviato» dal suo legittimo uso il concetto biologico di «razza», che tuttavia deve considerarsi valido, o se al contrario, quella di razza è una pseudo-nozione scientifica: una costruzione «mitica» o una «superstizione» priva di valore esplicativo, ma capace di proiettare nella vita quotidiana differenze che sono essenzialmente culturali e linguistiche (Ariani e Semiti ecc.) (9). Infine, in un terzo momento, il dibattito si sposterebbe sul terreno dell’etnologia e dell’antropologia, trovatesi a far fronte alle vicende della colonizzazione e al carattere sempre più problematico della distinzione tra civiltà e barbarie. Un tipico esempio di questa generalizzazione – un esempio notevole per il perdurare della sua influenza – è l’opera di Ruth Benedict, Race and Racism, pubblicata nel 1942 (10). A partire da qui basterebbe fare un piccolo passo in avanti per giungere alle definizioni contenute nelle critiche «scientifiche» ufficializzate dalle dichiarazioni dell’UNESCO del 1950 e del 1951 sulla questione razziale, sulle quali si sono poi costituiti e basati tutta una serie di usi educativi e politici, che alcuni autori hanno descritto come un movimento di «inflazione permanente» del loro senso (11). Altri studi obbligano, tuttavia, a complicare un poco questa presentazione fin troppo lineare, utilizzando soprattutto fonti francesi (12). Il termine «razzismo», in un’accezione positiva, era già in uso tra la fine del diciannovesimo secolo e gli albori del ventesimo, presso quegli ideologi nazionalisti che volevano affermare la superiorità della «razza francese» rispetto ai nemici interni ed esterni, presentati come «corpi estranei» alla nazione, che ne avrebbero minacciato la decadenza. Questo utilizzo autoreferenziale fu abbandonato solo nel corso degli anni Trenta del Novecento, nel momento in cui sorse il bisogno di marcare la differenza con la Germania nazista: si parlò allora di «nazionalismo» per designare un insieme di valori politici, supposti come tipicamente «latini», in opposizione al «razzismo» presentato come «germanico». Taguieff sottolinea l’importanza di questo cambiamento per illustrare l’ambivalenza della nozione, oscillante tra un’identificazione autoreferenziale e un uso estrinseco e polemico, che tende a riprodurre come in uno specchio la logica di stigmatizzazione, al contempo presentata come il suo aspetto centrale – da questo punto di vista, diventa allora possibile caratterizzare in maniera essenzialista alcuni popoli, alcune nazioni, o alcuni individui, come intrinsecamente «razzisti», o come più naturalmente «razzisti» che altri. Personalmente ritengo che questi usi facciano parte di una fase preparatoria, di una «preistoria» della categoria storico-politica del razzismo. Il cambiamento decisivo mi sembra costituito dalla definizione di un «mito» o di un «pregiudizio» che, in quanto tale, coinvolgerebbe l’umanità intera nel corso della storia, e che sarebbe necessario eliminare o sradicare grazie a una politica dei «diritti dell’uomo», il cui cuore sia costituito dalla confutazione, con argomenti scientifici, dell’idea secondo la quale le disuguaglianze rimandano a differenze di razze interne all’umanità. Da qui il progetto di un’educazione universale, da svilupparsi grazie allo sforzo congiunto degli Stati democratici e delle istituzioni nazionali così come di quelle internazionali, contro il pregiudizio razziale e le discriminazioni fondate sulla «razza». Tutto questo non è mai esistito prima delle due dichiarazioni del 1950 e del 1951, redatte da un gruppo di famosi intellettuali – biologi, antropologi, sociologi e psicologi – riuniti grazie all’UNESCO su richiesta del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Queste furono seguite dalla pubblicazione nel 1956 di una serie di opuscoli esplicativi ideati dagli stessi autori – Juan Comas, Kenneth Dittele, Harry Shapiro, Michel Leiris, Claude Lévi-Strauss, L.C. Dunn, Otto Klineberg, ecc. – raccolti poi in una pubblicazione in francese, Le racisme devant la science, 1960 (13). Si tratta di una vera e propria «rottura epistemologica», destinata ad aprire un nuovo paradigma intellettuale, le cui importanti caratteristiche richiedono un esame più accurato. 3. Il paradigma antropologico Questo «evento» si produce all’interno di un campo di «potere-sapere», inteso à la Foucault. Certo lo statuto storico di istituzioni quali l’ONU o l’UNESCO è complesso e non privo d’ambiguità. La loro autorità deriva da una delega di potere da parte degli Stati-nazione ma non è puramente politica, senza per questo essere scientifica. Potremmo affermare che essa trae la propria legittimità dal potere disciplinare delle scienze – biologia, sociologia, antropologia, ecc. – ma allo stesso tempo ne rimette in causa i presupposti e le spinge a riformarsi per poter giocare un ruolo attivo nel processo di sviluppo politico dei diritti umani. Potere e sapere si rinforzano dunque reciprocamente e gli usi presenti o futuri della categoria «razzismo» sono interessati da questo processo circolare. È opportuno riflettere anche sul legame tra questo evento epistemologico, che è la «costruzione» o «l’invenzione» del razzismo, e una determinata congiuntura storica: quella che segue immediatamente la fine della Seconda guerra mondiale e vede il sorgere dei movimenti di liberazione dei popoli colonizzati e dei movimenti per i diritti civili nelle società sottoposte a segregazione razziale, come gli Stati Uniti d’America. Non dimentichiamoci che la creazione dell’UNESCO avviene all’indomani della definizione del nuovo crimine di «genocidio» fatta dal Tribunale di Norimberga e ripresa dalle Nazioni Unite nel 1948 (14). La nozione di «razzismo» costruita riunisce sotto un solo nome tre tipologie di situazioni, che appariranno di conseguenza come altrettante forme specifiche di «razzismo»: l’antisemitismo, di cui il nazismo tedesco costituisce lo sviluppo estremo; il razzismo coloniale, che implica la divisione dell’umanità in razze «superiori» e «inferiori», «civilizzate» e «barbare» – le subject races del colonialismo britannico –; e, infine, il pregiudizio del colore, legato alla segregazione e all’istituzione dell’apartheid nelle società post-coloniali che assegnano uno statuto inferiore ai discendenti degli schiavi. Sottolineiamo come questa ripartizione permetta di mettere in luce delle analogie di ordine sociale e ideologico. Essa ci porta a interrogarci sul legame esistente tra l’istituzione della disuguaglianza – institution de l’inégalité – e il fenomeno della violenza estrema, sia sotto la forma del lavoro forzato, sia sotto quella dello sterminio. Ma essa rappresenta anche una scelta presa in una congiuntura storica data: traduce una percezione e una selezione all’interno della molteplicità delle esperienze collettive costitutive della costruzione della nuova categoria di «razzismo». Da qui deriva un terzo aspetto dell’«evento»: si assume che le forme incluse sotto lo stesso nome – «razzismo» – derivino dall’applicazione di una stessa «teoria» – spesso designata come «mito» (15)– quella della biologia delle razze umane. Si tratta, più precisamente, di una combinazione tra l’idea che il motore dell’evoluzione sia la «lotta per l’esistenza», quella che le disposizioni culturali e le capacità intellettive abbiano un carattere «ereditario» e quella che sia necessario difendere, attraverso una politica eugenetica, la superiorità delle «popolazioni» dominanti dal pericolo della decadenza. È questa combinazione pseudoscientifica che avrebbe prodotto o legittimato, dapprima, la tesi della disuguaglianza delle razze che compongono la popolazione umana e, in particolare, quella della superiorità della razza «bianca» sulle razze di «colore»; quindi il terrore del meticciato; e, infine, l’immaginario della lotta tra gli «Ariani» e i «Semiti» per la dominazione del mondo. Al contrario, la critica di questa posizione implica il riconoscimento di un principio filosofico d’indivisibile unità della specie umana, che possiamo anche chiamare fondamento umanista dell’universalismo, in opposizione ai suoi fondamenti religiosi o scientifici. Esso si enuncia principalmente in forma negativa, divenendo così l’equivalente di un imperativo categorico: ogni divisione della specie umana in gruppi distinti, essenzialmente differenti, da un punto di vista culturale o da un punto di vista biologico, è allo stesso tempo impossibile e inaccettabile. Un’affermazione del genere, non nascondiamocelo, non ha nulla d’incontestabile. Occorre qui difendersi dall’illusione retrospettiva. Essa non soltanto si scontra con ataviche credenze, apparentemente inseparabili dalla stessa categoria di «civiltà», ma rappresenta un equilibrio instabile tra la negazione pura e semplice delle differenze interne alla specie umana e la loro interpretazione in termini essenzialisti e gerarchici. Le scienze positive tenteranno senza sosta di dimostrare che un tale equilibrio può assumere un contenuto preciso, ma il compito si rivelerà interminabile. Tuttavia si deve anche notare che la formulazione di questo paradigma, allo stesso tempo politico, filosofico e scientifico, portava con sé sin dall’inizio un conflitto latente che ne avrebbe indotto la modifica e la riformulazione, pur presentandole come un semplice «aggiornamento» scientifico. È ciò aveva mostrato subito lo stupefacente fatto che l’UNESCO non si era potuta accontentare di un’unica dichiarazione sulla «razza» e sul «razzismo», ma dovette pubblicarne due in successione (1950, 1951). Più di un organismo accademico – in particolare la British Royal Academy – aveva sollevato obiezioni contro la prima dichiarazione, sostenendo che essa andava «troppo oltre» nella confutazione dell’esistenza di determinanti biologiche della trasmissione dei caratteri fisici e intellettivi degli individui e che procedeva a un ribaltamento dell’idea individualista della «lotta per l’esistenza» in favore di un principio di «solidarietà» interno alla specie completamente privo di fondamento scientifico. In questa divergenza iniziale, resa manifesta dalla giustapposizione dei due testi, possiamo rintracciare il prototipo dei conflitti e delle riscritture che, fino ai nostri giorni, hanno fatto della critica del razzismo un processo inesauribile, all’interno del quale una molteplicità di discorsi «universalisti» si confrontano per modificare le politiche educative e le legislazioni «antirazziste». Per quanto marginali possano sembrare di fronte ai dibattiti attuali, queste considerazioni sono indispensabili per articolare tra loro tre tipologie di conseguenze di cui siamo gli eredi. Prima di tutto le conseguenze epistemologiche che riguardano la stessa organizzazione del sapere contemporaneo «sull’uomo»; quindi il sorgere di resistenze al paradigma dominante, che possiamo chiamare «umanista»; e, infine, la sua progressiva trasformazione in un paradigma diverso, quello del «razzismo senza razze» o «razzismo culturale» (razzismo «differenzialista»). Le conseguenze epistemologiche non solamente sono sorprendenti per la loro influenza sull’organizzazione delle scienze umane, ma soprattutto per la problematica del razzismo, interpretato filosoficamente come proiezione ideologica o mitica delle differenze naturali interne alla specie umana a discapito della sua essenziale indivisibilità, che viene così a trovarsi al cuore dei presupposti dell’antropologia, e non a derivare solamente da applicazioni specifiche. Parlerei allora di una rivoluzione copernicana nella storia dell’antropologia, che la fa passare da uno sguardo «oggettivista» a uno sguardo «soggettivista» nell’uso del concetto di razza. L’antropologia, in effetti, si distacca dallo studio delle differenze tra le razze e della loro disuguaglianza, considerate come fenomeni oggettivi di cui occorre rintracciare le conseguenze nel campo della politica e della cultura, per passare allo studio del «razzismo», ovvero di quella credenza soggettiva in una disuguaglianza fra le razze, che proietta una griglia d’interpretazione «razziale» sull’insieme della storia o riduce l’insieme delle differenze umane a un modello immaginario di supposte differenze originarie ed ereditarie. Un tale cambiamento di prospettiva modifica l’intera metodologia delle scienze umane, anche se non in maniera univoca. Il primato del determinismo biologico, e soprattutto del determinismo evoluzionista darwinista o pseudo-darwinista, è messo in discussione, ma non necessariamente la possibilità di includere alcune condizioni biologiche o la rappresentazione delle razze come concetto derivato, ossia come fenomeno di «popolazione», in programmi di ricerca in psicologia cognitiva e affettiva. Soprattutto esso non impone una direzione particolare nella quale ricercare le «radici» dei pregiudizi razziali: queste possono risiedere nelle strutture socio-economiche, in senso marxista – la divisione gerarchica del lavoro, più o meno funzionale, delle società capitaliste (16) – o nelle strutture simboliche e nei sistemi di rappresentazione proiettati nell’immaginario, secondo l’orientamento prediletto dai cultural studies, che non a caso si costituiscono a partire da una interpretazione del razzismo e più generalmente delle figure dell’alterità nelle società post-coloniali (17). Non dubito che questo cambiamento marchi un nuovo inizio nella storia della disciplina antropologica. Ma occorre domandarsi se non ci sia un elemento di continuità soggiacente al ribaltamento dell’oggettivismo in soggettivismo, benché le conseguenze pratiche siano opposte. L’antropologia è sempre un progetto di conoscenza e di riconoscimento di sé da parte dell’umanità o d’identificazione dell’umano nell’uomo. Essa cerca di rispondere al problema dell’identità e delle differenze interne al «mondo umano» come mondo storico, geografico, culturale. Chi siamo e dove siamo gli uni in rapporto agli altri? A questa domanda, dal diciottesimo secolo e fino alla metà del ventesimo, in un mondo dominato da una filosofia della storia euro-centrica, hanno preteso di fornire una risposta la storia naturale, la biologia e la psicologia delle razze. Dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante alcuni presagi della rivoluzione copernicana nella critica del determinismo biologico da parte del culturalismo – sarebbe utile qui concentrarsi particolarmente sugli Stati Uniti d’America, sulle opere simmetriche di W.E.B. Du Bois e di Franz Boas – la prospettiva diviene bruscamente quella dello studio del «razzismo» e della sua teorizzazione. L’umanità in quanto tale non è più quindi una specie il cui sviluppo è guidato dalle differenze di razza, ma una specie composta di individui e di gruppi capaci di sviluppare il razzismo, forse addirittura inevitabilmente condotti a costruire dei miti razzisti – e più generalmente delle illusioni «xenofobe», «eterofobe» – sotto l’effetto di una sorta di illusione trascendentale, o come conseguenza della propria organizzazione in culture, società e comunità separate da rapporti di dominazione oggettivi. È quello che potremmo chiamare «teorema di Sartre», pensando al modo in cui, nello stesso periodo, nelle sue Réflexions sur la question juive (1946), questi sosteneva che «l’Ebreo non esiste», ma che «è l’antisemitismo che fa l’Ebreo». Tuttavia, vediamo bene che, in entrambi i casi, si suppone che la «scienza» o la «conoscenza scientifica» ci diano la risposta definitiva. Formulare quest’osservazione, sia ben chiaro, significa non squalificare l’idea e la possibilità di una conoscenza scientifica, ma suggerire come la critica epistemologica applicata alle «teorie razziali» potrebbe rivolgersi anche contro i propri eredi, ossia contro le teorie del «razzismo storico». Significa soprattutto mettere in discussione il «doppio empirico-trascendentale» – ancora Foucault – che qui riguarda non l’individuo, ma il «genere umano» (Gattungswesen), partendo da un principio morale e filosofico dell’unità dell’umanità e assegnando alle discipline antropologiche il compito di spiegare il sorgere dei pregiudizi razziali, ovvero dei soggetti o delle soggettività «razziste». È chiaro che questa funzione è segnata da un’ambiguità alla quale è forse impossibile sfuggire. Conformemente a quello che era il programma iniziale delle istituzioni internazionali, essa s’iscrive in una prospettiva di progressiva abolizione del razzismo da parte della scienza e della volgarizzazione scientifica, della pedagogia e della legislazione, che riproduce l’ideale, derivato dall’Illuminismo, di auto-educazione dell’umanità. D’altra parte tuttavia, all’interno di società che potrebbero essere caratterizzate come «Stati razziali» – nel senso dato al termine da David Goldberg (18) essa s’iscrive in un programma di regolazione delle race relations, e dunque dei conflitti e delle rappresentazioni razziste. In questo senso tutti gli Stati contemporanei – anche se il razzismo non è istituzionalizzato come fondamento ideologico della cittadinanza – sono degli «Stati razziali», poiché comportano delle disuguaglianze e dei conflitti sociali rappresentabili in termini di differenza razziale o di suoi equivalenti – la differenza etnica, la condizione migratoria –, e, al contempo, sono impegnati in una lotta politica e giuridica di riaffermazione dell’uguaglianza, perlomeno formale. Si consacrano così al compito di «combattere il razzismo», di «estirparlo» dallo spazio pubblico e dalle istituzioni della comunità politica. Tutto ciò ha importanti conseguenze pratiche; basti pensare allo sviluppo di una giurisprudenza dedicata alle forme di discriminazione razziale e alle modalità del razzismo. Si potrebbe sostenere che questo è l’altro versante – quello istituzionale – della rivoluzione epistemologica prima illustrata. 4. Esempi di «resistenze» all’estensione universale del paradigma antropologico Per questo è importante, in conclusione, tentare di identificare questa rivoluzione epistemologica, che fa dello studio del «razzismo» in quanto fenomeno ideologico, il cuore della disciplina antropologica e allo stesso tempo assume che esso, nelle sue cause, nelle sue varianti e nelle sue trasformazioni storiche, deriva da una spiegazione antropologica – da modelli universali di strutture sociali e simboliche – dalle resistenze che suscita e dalle eccezioni che comporta. Queste sono tanto antiche quanto il modello antropologico stesso, di cui mettono in dubbio la validità e la legittimità istituzionale conferitagli dagli organismi culturali e politici (19). Esse propongono dei modelli alternativi per la comprensione dei comportamenti e delle rappresentazioni razziste e si interrogano sulla validità stessa della categoria di «razzismo» come categoria universalizzante. Avendo suggerito che il paradigma antropologico era legato a un «imperativo categorico» di carattere umanista, da cui deriva una rappresentazione della politica come «politica dei diritti dell’uomo», potremmo giustamente chiederci se le resistenze al paradigma antropologico e le critiche implicite alla sua validità, corrispondano in filosofia a una visione anti-umanista. Non penso tuttavia che le cose siano così semplici. Vorrei qui solamente suggerire che tali critiche devono, inevitabilmente, mettere in discussione la coerenza dei principi umanisti in filosofia e nel campo politico, a meno che non conducano, al contrario, a estremizzarli, il che significa che essi appaiono non più come delle «evidenze», come delle «verità indiscutibili» (self-evident truths), ma come dei postulati o delle ipotesi da verificare. Spendiamo qualche parola su quelle che sono apparse durante il periodo stesso di costruzione del paradigma dell’UNESCO, immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale. Vengono in mente molti casi, la cui differenza stessa è significativa. Pensiamo a scrittori come Robert Antelme in Francia – il suo L’espèce humaine, scritto nel 1947 fu pubblicato solamente nel 1957 (20)– o come Primo Levi in Italia, il cui Se questo è un uomo venne pubblicato anch’esso nel 1947 a Torino. Durante la loro ricerca di un’espressione «letteraria» dell’esperienza del sistema e dei campi di concentramento, capace di rendere percettibile, andando oltre le possibilità di una spiegazione causale, la loro disumanità, questi autori possono o meno fare uso della categoria del «razzismo» – è il caso di Levi, ma non di Antelme – ma in ogni caso – il titolo di Antelme non deve indurci in errore – il problema che pongono non ha nulla a che vedere con la problematica della divisione gerarchica della specie umana: esso riguarda la possibilità contraddittoria di negare a degli esseri umani la propria qualità di uomini o di «espellerli» dalla condizione umana, non solamente attraverso il discorso, ma anche attraverso la pratica. Si tratta di pensare un’esperienza-limite – quella della distruzione del legame d’umanità – che occorre invocare per riaffermare l’indivisibilità della specie umana in maniera problematica, forse disperata, quasi nei termini della scommessa di Pascal. L’opposizione al paradigma antropologico mi pare stia qui, nella constatazione che occorrerebbe ripartire da queste esperienze-limite per poter interpretare le potenzialità di sterminio legate alle culture o alle strutture razziste, mentre il paradigma antropologico, in un certo senso, si sforza di fare il contrario, ovvero di spiegare strutturalmente lo sviluppo del razzismo per ricercarne la «causa» e descrivere, a partire da questo, le condizioni di una trasgressione radicale dell’imperativo umano. Si potrebbe, poi, pensare all’esempio di Frantz Fanon ponendo particolare attenzione al suo primo libro, Peau noire, masques blanches, pubblicato nel 1952, nel periodo in cui l’autore, medico e scrittore francese nato in Martinica, veniva a insediarsi come primario presso l’ospedale psichiatrico di Blida, prima di unirsi alla lotta di liberazione del FNL algerino, per il quale avrebbe in seguito scritto il celebre saggio Les damnés de la terre (1961), pubblicato con una prefazione di Jean-Paul Sartre (21). Sotto molti aspetti l’opera di Fanon sembra apparire in maniera precoce come quel ribaltamento del ribaltamento che aveva fatto passare dall’analisi scientifica della «razza» a quella del «razzismo». Si tratta, evidentemente, non di ristabilire una definizione oggettiva della «razza», ma di sviluppare un uso che possiamo definire come «performativo» dei nomi della razza, quale per esempio quello di «negro» – già messo in atto dal discorso sulla «negritudine», che tuttavia è un termine molto più ambiguo, interno a un paradigma culturalista – in maniera tale da muovere la sfida al cuore stesso del discorso discriminatorio – che per il nero non è mai esterno, ma introiettato, costitutivo della propria «personalità» – e far sentire non solamente un «punto di vista», ma il tremare della voce (22). Nello stesso modo, contro le rappresentazioni asettiche della «società democratica» che trionfarono all’indomani della vittoria sul nazismo tendendo a oscurare la realtà persistente del colonialismo, Fanon insiste non soltanto sul fatto che il razzismo è una struttura sociale – e che gli individui sono «razzisti» perché le società stesse sono costruite sulla distinzione assoluta tra «padrone» e «schiavo» – ma anche sull’ambivalenza degli effetti psicologici di questo razzismo strutturale, che deve essere descritto fenomenologicamente. Quella che egli chiama alienazione è valida, lo sappiamo bene, sia per il colonizzato sia per il colonizzatore, anche se non nella stessa maniera: essa è imperniata sul fenomeno della coscienza condivisa e sulla perversione dei rapporti e dei fantasmi sessuali sfocianti a tratti nella psicosi, che impregnano le rappresentazioni reciproche del dominatore e del dominato e l’identificazione feticista con il proprio «colore» (23). È negli stessi anni, infine, che Hannah Arendt pubblica Le origini del totalitarismo (1951), nel quale è possibile ravvisare l’illustrazione di un punto di vista filosofico politico – nonostante le reticenze di Arendt a usare il termine filosofia politica nel senso accademico – di fronte al punto di vista antropologico (24). Arendt non s’interessa a una struttura, ma a una storia particolare dell’Europa nella quale «l’antisemitismo» s’incontra con il colonialismo e l’imperialismo, sviluppatisi in maniera indipendente, elaborando in tal modo una genesi empirica dello «Stato razziale» nella sua forma di stato d’eccezione. Questo la spinge a operare un’inversione del rapporto tradizionale tra «diritti dell’uomo» e «diritti del cittadino» o diritti politici: quello che potremmo chiamare «teorema di Arendt», da cui ha origine il suo soffermarsi sulla questione degli «apolidi», ovvero sugli individui e sui gruppi che vengono privati dei loro diritti fondamentali ed esclusi, in pratica, dalla condizione umana, dopo essere stati spogliati del loro status di persone giuridiche e trasformati in apolidi. Da qui il criterio del «diritto ad avere diritti», che resterà il cuore della sua concezione della comunità politica. Il razzismo – qui di nuovo visto in funzione delle sue norme di «sterminio» – affonda le radici nella storia imperiale e coloniale ed è da qui, e non dalle forme classiche dell’antisemitismo, che provengono i suoi modelli e le sue tecniche di massa, ulteriormente perfezionate e generalizzate poi dal nazismo. È un fenomeno istituzionale, riguardante la costruzione delle «comunità politiche», il che non è esattamente la stessa cosa che parlare di «società», anche se il riunirsi politicamente richiede delle basi e produce effetti sociali (25). La differenza tra queste «resistenze» all’estensione universale del paradigma antropologico – del quale esse non sono pure e semplici negazioni, permettendo piuttosto di pensarne i limiti – è evidente e mostra che sarebbe impossibile unirle per farne un paradigma alternativo coerente. Colpisce, tuttavia, che tutte pongano il problema della comunità umana, invece che quello della specie o del genere umano: una comunità paradossale, allo stesso tempo reale e, in qualche modo, impossibile in quanto tale, intendendola come «totalità» senza esclusioni o frontiere, situazioni che si manifestano precisamente nei casi limite, dove essa si trova confrontata alla minaccia della propria distruzione reale o immaginaria. Appare allora chiaramente come l’affermazione del principio umanista d’indivisibilità della specie non basti a determinare le condizioni grazie alle quali può esistere qualcosa come una comunità umana o universale. Questo principio non riflette che l’aspetto trascendentale: pone l’elemento «comune» a tutti gli esseri umani dal punto di vista dell’origine e della destinazione finale, senza farlo, con ogni evidenza, da quello delle strutture politiche o sociali reali. Inoltre, riflette solo la necessità d’immaginare un elemento comune, una comunità ideale, come un fine morale che sottende la costruzione delle comunità particolari chiuse su se stesse e che si escludono reciprocamente. Il limite di questo principio potrebbe derivare dal fatto che i principi che sottendono la definizione ufficiale del razzismo sono stati enunciati da un’istituzione che rappresenta degli Stati-nazione, portati dalle circostanze a tentare di sottomettere in modo più vincolante le proprie relazioni al diritto internazionale. È proprio questo modello, che associa una comunità umana privata di potenza istituzionale a delle comunità storico-empiriche – le nazioni –e destinata a elevare idealmente la rappresentazione politica al di sopra delle differenze antropologiche, delle «divisioni» dell’umanità – per quanto le si voglia pensare soggettive, ideologiche, immaginarie – che perde il suo senso negli «stati d’eccezione», quando gli Stati coloniali, i regimi d’apartheid, le politiche di sterminio prendono il sopravvento sulla forma dello «Stato di diritto». 5. Conclusioni provvisorie. Il criterio dell’esclusione Non si trattava certamente, in questa sede, di svolgere una presentazione completa del paradigma antropologico, dei problemi che esso pone o delle trasformazioni che subisce nel momento in cui la definizione del «razzismo» si trova di fronte a nuove situazioni storiche. Si trattava solamente di indicarne la necessità. Il problema che si pone è quello di sapere se la stessa categoria di razzismo non è oggi giunta a un punto di decomposizione e di decostruzione. I problemi epistemologici che si pongono sono due e occorre porli simultaneamente. Da un lato, all’interno dello stesso paradigma antropologico, la comprensione del razzismo evolve in direzione di un concetto di «razzismo culturale» o di «razzismo differenziale». In un certo senso, questo rappresenta la logica conclusione della frattura che aveva condotto ad abbandonare la visione naturalista in favore di quella storica e di analisi delle rappresentazioni collettive caratteristiche del paradigma antropologico. Tuttavia diventa improvvisamente problematico assegnare dei limiti alla categoria, limiti dai quali pure dipende il suo uso scientifico, il suo valore analitico: ogni fenomeno di discriminazione, ogni violenza simbolica sembrano esservi compresi. La reversibilità stessa del razzismo e del sessismo sembra perdersi nella loro equiparazione. D’altra parte nuovi «casi», nuovi «esempi» sembrano sostituirsi, almeno in parte, al sistema ternario che sottendeva la definizione iniziale: antisemitismo, colonialismo, apartheid. Allo stesso tempo la problematica delle discriminazioni istituzionali legate alla destabilizzazione delle comunità politiche – a partire dalle nazioni – si fa sempre più insistente nelle società post-coloniali e negli insiemi transnazionali o post-nazionali, lasciando in secondo piano il criterio della divisione «naturale» della specie umana, o delle credenze, dei miti che l’invocano. Altri criteri di definizione delle strutture, dei discorsi e dei comportamenti razzisti, quali il criterio di esclusione – o meglio dell’esclusione interiore – emergono in primo piano. Questi non hanno, almeno in apparenza, bisogno di riferirsi alle «razze». Occorrerebbe quindi esaminarne la costituzione e il funzionamento nelle ricerche contemporanee, ampliando l’analisi qui cominciata (26). 1) Riguardo al rapporto tra il modello statunitense e quello francese della politica di «discriminazione positiva», cfr. V. De Rudder, C. Poiret, F. Vourc’h, L’inégalité raciste. L’universalité républicaine à l’épreuve, PUF, Paris 2000. 2) D. D’Souza, The End of Racism. Principles for a Multiracial Society, The Free Press, New York 1995. 3) Penso in particolare ai lavori di Paul Gilroy, del quale si veda a titolo esemplificativo Against Race: Imagining Political Culture beyond the Colour Line, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2002. 4) Cfr. il mio saggio: Difference, Otherness, Exclusion, in «Parallax», 2005, XI (2005), n. 1, 19-34. 5) Cfr. il mio saggio: «Un nouvel antisémitisme?», in Antisémitisme: l’intolérable chantage. Israël-Palestine, une affaire française?, Editions La Découverte, Paris 2003, pp. 89-96. 6) Cfr. il volume ufficiale: United to Combat Racism, Dedicated to the World Conference against Racism, Racial Discrimination, Xenophobia and Related Intolerance, Durban, South Africa, 31 August-7 September 2001, prefazione di Koïchiro Matsuura e Mary Robinson, UNESCO, Paris 2001. Per una lettura critica fatta da uno dei protagonisti, discutibile, ma chiarificatrice, cfr. M. Banton, The International Politics of Race, Polity Press, Cambridge 2002. 7)Come mostra, ad esempio, la posizione di Christian Delacampagne ne L’invention du racisme. Antiquité et Moyen Age, Fayard, Paris 1983. 8) I riferimenti qui presentati sono tratti da R. Miles, Racism, Routledge, London 1989. 9) Tale concezione critica della nozione di razza come derivata da una «falsa scienza» porta, soprattutto da parte di alcuni studiosi, a chiederne il non utilizzo, anche in maniera negativa, all’interno di testi giuridici e politici, che contribuirebbero ad accreditarne l’illusione: in riferimento a questo si possono vedere gli interessanti interventi del convegno organizzato nel 1992 presso l’Università di Paris XII: «Sans distinction de…race», Le mot race est-il de trop dans la Constitution française?, in «Mots – Les langages du politique», (1992), n. 33. 10) R. Benedict, Race and Racism [1942], con una prefazione di John Rex, Routledge & Kegan Paul, London 1983. 11) Cfr. R. Miles, op. cit. 12) Cfr. P.A. Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme et ses doubles, Editions La Découverte, Paris 1988, pp. 122-151. 13) Le Dichiarazioni del 1950 e 1951 compaiono dapprima all’interno dell’opuscolo The race concept, UNESCO, Paris 1952; sono in seguito riprese nelle due edizioni successive – del 1964 e 1967 – del volume francese Le racisme devant la science, UNESCO/Gallimard, Paris 1960 – occorre notare come il contenuto vari sensibilmente tra le ristampe succedutesi, l’ultima delle quali è del 1975 – e in Four statements on the race question, UNESCO, Paris 1969. 14) Cfr.Y.Ternon, L’innocence des victimes. Regard sur les génocides du XXème siècle, Desclée de Brouwer, Paris 2001. 15) Cfr. Il titolo dello studio di Léon Poliakov, Le mythe aryen. Essai sur les sources du racisme et du nationalisme, Calmann Lévy, Paris 1971, che si riferisce a uno dei tre «miti razziali» identificati da Juan Comas all’inizio della pubblicazione dell’UNESCO, ma funge anche da eco al Mito del ventesimo secolo del teorico nazista Alfred Rosenberg. L’antropologo spagnolo Juan Comas (19001979), divenuto cittadino messicano nel 1940, ha giocato un ruolo determinante nel fenomeno di cristallizzazione di queste formulazioni. 16) L’opera di Immanuel Wallerstein – cfr. Race, nation, classe. Les identités ambiguës, in collaborazione con É. Balibar, Editions La Découverte, Paris 1988 – ne è una buona illustrazione, così come quella di Robert Miles: Capitalism and Unfree Labour, Routledge, London-New York 1987; Racism after ‘Race relations’, Routledge, London-New York 1993. 17) Vedi soprattutto l’opera di Stuart Hall. Rinvio in particolare al suo articolo Race, Articulation, and Societies Structured in Dominance, in Sociological Theories: Race and Colonialism, UNESCO, Paris 1980, pp. 305-345. Anche Lévi-Strauss, cercando di distinguere razzismo e xenofobia, si è mosso in questa direzione. 18) D. Goldberg, The Racial State, Blackwell, London 2002. 19) Cfr. quelli che, nel caso dell’UNESCO, possiamo senza esagerazioni chiamare «organismi filosofici» (P. Vermeren, La philosophie saisie par l’Unesco, UNESCO, Paris 2003). (20) Edizione rivista e corretta, Gallimard, Paris 1994. (21) F. Fanon, Peau noire, masques blanches, Seuil, Paris 1971. Vedi la recente biografia di Alice Cherki, Frantz Fanon, portrait, 1952. (22) Questa problematica è sviluppata oggi da parte di autori come Fred Moten, che ispira la decostruzione, in The Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition, Minnesota 2003. (23) La teorizzazione di Fanon, che attende ancora una valida disamina filosofica, va allo stesso tempo alla radice della fenomenologia hegeliana del «padrone» e dello «schiavo», attraverso la sua rilettura di Kojève, Sartre e Simone de Beauvoir – con riferimento a Le Deuxième sexe, 1949 – e della psicologia della «double consciousness» presente nell’opera di W.E.B. Du Bois – The Souls of Black Folk, 1903; Dusk of Dawn, 1940 – reinterpretata secondo la chiave psicanalitica della «scissione del sé». (24) È stato necessario aspettare il 2002 per la pubblicazione di una traduzione francese completa e affidabile di The Origins of Totalitarianism, a cura di P. Bouretz, Quarto-Gallimard. Tuttavia il suo saggio di «antropologia filosofica», The Human Condition (1958), era stato tradotto già nel 1961 con il titolo di Condition de l’homme moderne: consacrato per larga parte alla critica della filosofia marxista nel nome di un concetto neoclassico di praxis, non riguarda direttamente la problematica del razzismo e dunque non me ne occupo in questa sede. (25) Cfr. M.-C. Caloz-Tschopp, Les sans-Etat dans la philosophie de Hannah Arendt, Payot, Lausanne 2000. (26)Su questo tema si rinvia alle interessanti formulazioni fatte da Wulf D. Hund: Exclusion and Inclusion: Dimensions of Racism, in Max Sebastian Hering Torres e Wolfgang Schmale (a cura di), Rassismus (numero speciale della «Wiener Zeitschrift zur Geschichte der Neuzeit», III (2003), n. 1, pp. 6-19. Smascherando Heidegger Croce uncinata nel cuore di "Temps Modernes" E mentre accade che delle lamentele siano depositate contro dei disegnatori di croci uncinate, si può trovare nel cuore del numero 650 di Temps modernes dedicato a Heidegger ed alla questione del Luogo una "superba" croce uncinata heideggeriana. Ho sempre sostenuto, sul blog, che il Geviert (Quadripartito) di Heidegger era una versione "spirituale" della croce uncinata nazista. Grazie all'incoscienza di alcuni commentatori, la rivista di Sartre si è così macchiata con una croce uncinata di alta classe. Per capire come ciò sia stato possibile bisogna ammettere che, per Heidegger, il simbolo nazista doveva essere il sostituto autorizzato e giustificato della croce cristiana e, ciò, in vista di identificare una nuova civiltà in quanto fondata sulla "soluzione finale". È spregevole e delirante: filosofolle. Ma si capisce anche perché Heidegger si è compiaciuto a formulare una specie di misticismo ontologico della "razza". Bisognava produrre una versione "nuova università" del simbolo disegnato da Hitler. La croce uncinata dei braccialetti degli scalmanati non passa tra gli intellettuali. Ma delle belle pagine ontologiche sulla Terra, il Cielo, i Mortali, gli Dei-e sulla parola, l'essere, il tempo, lo spazio- ciò passa molto meglio. Da qui l'esercizio seguente, il quale consiste in una semplice "annotazione" di un passaggio di un articolo di J. F. Mattéi. Non effettuerò qui una lunga analisi. Ciò non mi appassionerebbe necessariamente oltre misura. O la frase seguente: "La temporalità che era, in Sein und Zeit, il fondamento della spazialità dello spazio, è ricondotta allo spaziamento originario dell'essere aperto attraverso la figura quadripartita del Geviert". Tra Sein und Zeit ed il Geviert c'è stato appunto Auschwitz, che è una realizzazione inscritta da molto tempo nella simbolica della croce uncinata. Rileggiamo ora la frase così tradotta: "La temporalità che era, in Sein und Zeit, il fondamento della spazialità dello spazio, è ricondotta allo spaziamento originario dell'essere aperto dalla croce uncinata, e soprattutto dal suo compimento in quanto soluzione finale, ad esempio adAuschwitz". Sostengo la tesi che sia questa la traduzione vera. Due indicazioni supplementari, prima di chiudere sul nauseabondo: 1) Nel furore del fondamento di Heidegger - il Reich, reale, simbolico, o reale-simbolico per 1000 annni! era coerente e necessario di ritornare sul luogo. Perché è "nel Luogo" che il Dasein - il Dasein tedesco naturalmente - fa l’esperienza di un'apertura all'Essere che gli assicura, allo stesso tempo del parlare della seconda lingua dell'Essere dopo il Greco, la sovranità assoluta. Egli può sterminare, può porre in schiavitù. 2) Il termine Ereignis designa molto precisamente il "lavoro della croce uncinata", il "lavoro del nazismo" in quanto appropria o ri-appropria. Intendiamo con ciò: il Volk ridiventa veramente se stesso- dopo Auschwitz naturalmente - e ritrova tutto il suo potenziale di dominio- la "razza superiore"- ma di un dominio appropriato e cioè, per l’essenziale, di un'altra natura della partecipazione a questo dominio- dominio dell'essente- che la tecnica offre. Quando, nel suo testamento, Heidegger si è felicitato che il nazionalsocialismo era andato nella buona direzione in quanto alla relazione dell'uomo con l'essenza della tecnica, ha effettivamente voluto significare che la politica di sterminio permetteva precisamente al Volk, nel suo "specifico", di non dissolversi nel progetto del dominio tecnico dell'essente. La camera a gas rimane anche, per Heidegger, la grande cosa del III Reich. Se avesse pensato il contrario mai avrebbe affiancato Essere e tempo con la croce uncinata del Geviert. Il paragrafo riprodotto è preso dall'articolo di J. F. Mattéi intitolato: Le lieu de l’étant et le milieu de l’être [Il luogo dell'essente e l'ambiente dell'essere]. Si trova, ahimè a pagina 137 del numero 650 di Temps modernes. C O M E H A P O T U T O E S S E R E N A ZI S T A ? di Luc Ferry Ci si ricorda dell'eclatante scandalo suscitato, nel 1987, dalla pubblicazione di un libro di Victor Farias che smascherava l'ampiezza dell'impegno nazista di Martin Heidegger. Come aveva potuto esserlo colui che molti considerano il pensatore del secolo? Due atteggiamenti, entrambi derisori, hanno allora occupato il proscenio. Il primo, sosteneva che Heidegger era stato indubbitabilmente nazista (il che è vero), concludeva che non poteva essere un grande pensatore (il che è falso). Questo era, in sostanza, l'opinione dei sociologi di orientamento marxista. L'altro, idolatrando il maestro, giudicava inconcepibile che avesse potuto essere nazista, e si affrettavano a camuffare i fatti. Le vere questioni furono così eluse, e soprattutto la sola che valga: come è filosoficamente concepibile che Heidegger sia potuto essere al contempo un grande pensatore ed un nazista molto fervente da tenere, durante gli anni trenta, delle affermazioni aggressivamente antisemite e, venti anni anche dopo la guerra, parlare della "grandezza" e della "verità" del nazismo? In alternativa, un'altra domanda, anch'essa accuratamente respinta, meritava di essere esaminata: cos'è che, nello stile del discorso inaugurato da Heidegger, aveva potuto affascinare a tal punto una certa intelligentsia francese da aver preferito, associando i riflessi staliniani meglio consolidati ad alcuni tic revisionisti, negare l'evidenza piuttosto di dover mettere in questione un pensiero di cui il meno che si possa dire è che esso non era affatto portato alla democrazia? Diciamolo chiaramente: la riunione, in un solo volume, dei principali testi politici di Heidegger non apporta rigorosamente nulla di nuovo. Si puà tuttavia sperare che essa darà l'occasione di prendere in conto questi interrogativi. Ecco alcune suggerimenti per contribuirvi. Sul primo versante, si deve riaffermare chiaramente che l'impegno nazista di Heidegger, senza essere una necessità, non ha nulla nemmeno di accidentale: per quanto strano o scioccante ciò possa apparire, è molto facilmente "giustificato" dalla sua filosofia della "decostruzione", con la quale forma un tutto coerente. Heidegger non ha cessato di vedere nel pensiero moderno un vasto e terrificante progetto di dominio, inaugurato dai Lumi, quando gli esseri umani, affascinati dal Progresso, investirono sulla scienza tutte le loro speranze. Il mondo della "tecnica", in cui questo progetto raggiunge il suo apogeo, avviene pienamente quando la volontà di dominare la natura o la società non è più sottoposta ad un obiettivo, ad uno scopo emencipativo, ma si trasforma in "fine in sé". La volontà di potenza diventa allora cieca, essa si fa "volontà di volontà", dominio per il dominio, ed è a questa follia devastatrice che è votato l'universo contemporaneo intero. Perché accanirsi a negare i fatti? È dunque la modernità nel suo insieme che si tratta di "decostruire"- da qui la simpatia di Heidegger per un movimento politico, il nazismo, che si voleva molto chiaramente antiliberale ed anticomunista perché vi si possa leggere un salutare sussulto reazionario contro le due possibili figure dei moderni tempi industriali. Ecco cosa Heidegger scrive a questo proposito in Introduzione alla metafisica (1953): "Quest'Europa che, nel suo incurabile accecamento, si trova sempre sul punto di pugnalarsi da sé, è presa oggi in una stretta tra la Russia da una parte, e l'America dall'altra. La Russia e l'America sono entrambe, dal punto di vista metafisico, la stessa cosa; la stessa frenesia sinistra della tecnica scatenata e dell'organizzazione senza radici dell'uomo normalizzato". C'è di tutto, sino alle premesse di un antisemitismo che vedrà nell'ebreo il simbolo dell'apatride, il prototipo dell'uomo senza nradici: la reazione di fronte alla disgregazione della tecnica russo-americana deve venire dalla "vera" Europa, dalla Mitteleuropa, in breve dalla Germania. È questa reazione che è stata incarnata agli occhi di Heidegger dal movimento nazionalsocialista. Senza dubbio quest'impegno non era necessario, anche a partire dalle posizioni filosofiche che erano le sue. Sarebbe assurdo pretendere che ogni critica della tecnica, sia al contempo antisovietica ed antiamericana, conduca al nazismo. Potrebbe portare anche versio l'ecologia radicale, come fu il caso nella Germania degli anni 70. Ma è tuttavia una possibilità "filosoficamente" fondata e, all'epoca in cui Heidegger si coinvolge in politica, una possibilità ben reale , non un accidente o una semplice "stupidagine", come vogliono farci credere oggi. Perché bisogna accanirsi a negare i fatti? Si dice a volte, bisogna augurarlo, a giusto titolo, che in politica gli intellettuali si sono ingannati molto, che alcuni di loro, e non dei minori, hanno dato il loro sostegno a dei regimi totalitari o autoritari; e ci si stupisce che tanta intelligenza abbia fiancheggiato così ciecamente. Ci si stupirebbe forse meno se si comprendesse infine che la funzione principale degli intellettuali in una società democratica è di incarnare l'istanza della critica, dunque di adottare volentieri delle posizioni antidemocratiche. Nel contesto del dopoguerra, le società occidentali erano doppiamente sospette: non avevano esse tollerato, cioè organizzato, il colonialismo all'interno ed il fascismo all'esterno? Queste società che si dicevano le più "civili" non avevano generato la barbarie? È in questo contesto, sicuramente, che il marxismo poté apparire alla stragrande maggioranza degli intellettuali come lo strumento ideale di una critica delle società democratico-liberali. Era in fondo la sola ideologia occidentale di grande durata a non essere affatto sospetta di compromissione con il nazismo ed il colonialismo. È la ragione per cui bisognava ritardare ad ogni costo l'inevitabile: la presa di coscienza cher il marxismo stesso era parte in causa con altre catastrofi totalitarie. L'"Heidegger pensiero" ha funzionato dopo l'affondamento dei marxismi come una seconda e più sottile matrice per una posizione critica rinnovata. Per molti aspetti, quel che accade oggi ai nostri heideggeriani riproduce una parte che si è già svolta nel dopo-68 con la presa in conto, tardiva ma infine pubblica, delle critiche del totalitarismo sovietico. Bisogna sapere, per afferrare l'ampiezza del sisma, che il pensiero di Heidegger procedeva segretamente da molto tempo nell'intellettualità francese: presso Sartre, certamente, ma anche presso Foucault, Merleau-Ponty, Lacan, o Levinas, per non dire di coloro che svolgono con delizia il gioco di un heideggerismo dissidente, che vuole "pensare con il maestro contro il maestro". Ecco il paradosso, che si dovrà decidersi una buona volta ad interpretare: il successo di Heidegger in Francia non è avvenuto malgrado il suo odio per la democrazia, bensì a causa di esso. Luc Ferry Il nazismo di Heidegger L’interpretazione che mutila i testi di Heidegger per umanizzarlo "L'ebraizzazione della nostra cultura e delle università è infatti orribile e penso che la razza tedesca dovrebbe trovare forza interiore a sufficienza per giungere al vertice" (Lettera di Heidegger a sua moglie, 1916). Poiché Heidegger è morto da molti decenni, è oramai un autore Storico. A differenza della maggior parte dei sociologi o filosofi storici, ha presentato le sue intenzioni soprattutto in testi estremamente e volutamente oscuri. Esisteuttavia un'eccezione: all'epoca del suo rettorato a Friburgo nel 1933-34, si è espresso bene sia politicamente sia filosoficamente in modo eccezionalmente trasparente e senza deviazioni. Questa contraddizione, non l'ha egli stesso spiegata. È per tutte queste ragioni che è necessario effettuare delle ricerche su Heidegger e di prendere ogni cosa seriamente, ciò che ha detto o fatto. A questo scopo, sono richieste molte altre cose: un largo fondamento metodologico, la considerazione di ogni genere di fonti e di omologhi intellettuali e dei principi di valutazione etiche riconosciute. I fatti stabiliti devono essere verificati, le relazioni scoperte devono essere chiare e distinte. Gli errori e gli inganni devono essere pubblicamente repertoriati e corretti. È secondo questi principi scientifici evidenti che Victor Farias, Hugo Ott, Jean-Pierre Faye, Hassan Givsan, Johannes Fritsche, Emmanuel Faye, io stesso ed altri ancora, conduciamo le nostre ricerche su Heidegger. I fatti stabiliti da noi grazie ad un lavoro autonomo producono un'immagine coerente del fenomeno Heidegger. Decidere di non prestare attenzione che alle affermazioni di Heidegger (pretese) puramente filosofiche, e di ignorare in compenso le posizioni (pretese) puramente politiche perché si giudica che esse non siano pertinenti, ecco un atteggiamento completamente illegittimo. Il filosofo non ha il privilegio di poter relativizzare i fatti storici e di aggiungere alle affermazioni attestate di un autore un senso opposto alla sua linea d'azione manifesta. Ora, è proprio ciò che pretendono i numerosi universitari e giornalisti del mondo intero dando fondo alla loro capacità di interpretazione ed insegnando un Heidegger che hanno essi stesso mutilato. Nessun altro filosofo può vantare, quando è letto, di vedere tanti dei suoi passaggi dei suoi testi coscientemente tagliati o semplicemente non percepiti, prima ancora che la considerazione delle altre fonti e che la valutazione etica delle conseguenze del suo pensiero non siano respinti come inutili o che le posizioni direttamente politiche di Heidegger non siano affrontate. Molti scritti di Heidegger, a dir il vero degli interi volumi delle sue opere complete, sono totalmente passati sotto silenzio, anche quando offrono elementi in rapporto con questo o quel aspetto studiato tematicamente. La sua frequentazione pubblica di filosofi umanisti come Husserl o Cassirer è presentata come un segno della sua statura di filosofo onesto, benché di fatto li abbia combattuti. Che Hannah Arendt, Karl Löwith, Herbert Marcuse ed altri l'abbiano considerato come un insegnate importante non cambia nulla al fatto che la sua opera ha seguito una direzione opposta alla loro nelle sue intenzioni e che Heidegger li ha affrontati in modo totalmente ostile o ignorante. In compenso, si ricusa la presa in conto di autori pseudo-scientifici e innegabilmente favorevoli alla dittatura come Friedrich Gottl-Ott Lilienfeld, Graf Paul Yorck von Wartenburg, Karl Ernst von Baer, Eduard Spranger e Oskar Becker, benché Heidegger si riferisce esplicitamente ad essi ed integra i loro motivi teorici alla sua filosofia in modo essenziale. L'influenza del cattolicesimo estremista-völkisch (la sua culla spirituale), degli scritti di Max Scheler e Georg Simmel che glorificavano la guerra e del teorico razzista L. F. Clauß sul pensiero di Heidegger è di un'importanza assolutamente fondamentale. Questa ricerca del tutto naturale è tuttavia trascurata. Ne risulta che sono proprio i testi di Heidegger amputati o contenenti numerosi passaggi "oscuri" che sono ritenuti come la sua vera filosofia. i supplementi che lo spiegano concretamente e politicamente, apportati nel 1933 e 1934 allo scopo di rendere la sua filosofia trasparente ad un circolo più ampio di auditori, passano per essere il risultato di una irresponsabilità filosofica temporanea. Ma poiché non vi è alcun punto di intoppo né alcuna contraddizione tra questi supplementi ed i suoi teoremi costanti sino ad allora, non possono essere messi sul conto del momento. Se non li ha espressi in precedenza, è perché ciò gli sarebbe costato il suo posto all'università. A partire da una tale base testuale, non si possono trarre che delle interpretazioni che si allontanano ampiamente da Heidegger e ne divergono su molti punti, interpretazioni tra cui una di quelle proclamazioni heideggeriane passate sotto silenzio basta generalmente a mostrare l'assurdità. La mutilazione testuale di Heidegger corrisponde alla messa in scarto dell'applicazione sociale- che ha egli stesso evocato, espressa o vissuta- dei suoi teoremi. Essa è legata all'estrema incertezza riguardante il contenuto concreto dei suoi concetti centrali. È questo che fa sì che non si possa nominare l'oggetto del suo pensiero, anche sotto la sua forma più astratta, anche totalmente allontanata dall'azione. "Essere" e "Dasein autentico" appaiono come pure conchiglie vuote che ogni individuo può riempire come vuole. Eppure, non vi è nulla che Heidegger esponga in modo più appassionato della storicità del Dasein- cioè la forza del rovesciamento pragmatico e politico inerente agli individui. Non si trova che presso gli individui politicamente raggruppati e mai presso gli individui isolati. Heidegger si erige egli stesso in modo veemente contro ogni interpretazione esistenzialista. In precedenza, aveva distintamente spiegato che la filosofia non "si occupa dell'esistenza individuale dell'uomo individuale in quanto tale" (Die Grundfrage der Philosophie, 1933; Tr. it.: Le domande fondamentali della filosofia, Mursia). In Essere e Tempo, non troviamo una sola frase che vi andrebbe contro. Ogni preoccupazione, ogni sollecitudine, ogni affezione, ogni essere-gettato non ha senso che nel quadro dell'"con-essere" ogni volta in un "mondo", cioè in un insieme sociale globale, dell'essere del quale è in causa il Dasein. Il Dasein quotidiano dell'individuo è per lui "inautentico" e come esso decade (verfallendes), non è degno di alcun aiuto filosofico. Isolati, non possiamo diventare "autentici" che nell'afferramento risoluto della sua "possibilità più propria" nell'anticipazione assoluta della morte. Anche qui, non è più questione di un progetto e di una fioritura determinata. Heidegger spiega senza appello possibile che "la predonazione violenta di possibilità dell'eisitenza" è "metodicamente richiesta" e che essa deve essere sottratta all'"arbitrario" (Essere e tempo). In questo contesto, egli rinvia indiscutibilmente al fatto che "l'Interpretazione ontologica dell'esistenza del Dasein" poggia "su una concezione ontica determinata dell'esistenza autentica, un falso ideale del Dasein" (Ibid.). Quale? Quale mostruosità nell'interpretazione che si dà di Heidegger: si nasconde il fatto che un punto di vista concreto, non filosofico sull'esistenza autentica è esplicitamente la base di partenza della sua filosofia e si trova "dispiegato più radicalmente" da essa. La sua elevazione allo statuto ontologico mira a rendere l'"ideale" obligatorio. È sul suo metro che si deve agire, perché "l'appello della coscienza non rappresenta [per il Dasein] un ideale di esistenza vuoto, ma la pro-vocazione della situazione" (Ibid.). Ci torneremo sopra. Secondo la stessa logica di questi tagli considerevoli, non è mai possibile chiedersi se i suoi concetti in generale rappresentano positivamente qualcosa. L'idea del Dasein transindividuale e quindi in essenza particolare e le sue determinazioni come l'inevitabile preoccupazione, l'affetto, l'inautenticità, la scadenza, la nullità, l'essere-gettato, l'essere-per-la-morte, l'estasi, la reticenza, il superamento nella morte, il popolo, l'eroe, la ripetizione non sono in alcun modo degli oggetti e dei punti di vista generali che apporterebbero nuove conoscenze e che potrebbero entrare nel fondo del sapere dell'umanità. È quanto distingue l'heideggerismo da ogni filosofia classica. La sola enumerazione dei concetti ci illumina già sul fatto che si tratta qui di un negazionismo sistematico non soltanto del soggetto critico e responsabile di se stesso, bensì dell'individuo in quanto tale e del suo dispiegamento schiuso all'interno dello spazio sociale. Alcuni interpreti di rilievo si sono sforzati di distruggere i ponti eloquenti tra i teoremi centrali di Heidegger ed il suo sostegno teorico diretto al nazismo. Essi non sono riusciti a giungere ad alcuno risultato soddisfacente perché non hanno effettuato nessuna ricerca e non hanno acutizzato affatto lo sguardo sociologico. Così l'insegnamento di Heidegger poggiano sempre e sempre di più su delle versioni mutili e sulla separazione assurda tra un'opera falsamente vergine politicamente e la persona di Heidegger, idiota politico. Si aggirano così i doveri fondamentali di infomazione e di educazione. Una versione intellettuale e raffinata di questa "ermeneutica" ha degli effetti particolarmente distruttivi qui e nel campo giornalistico. Habermas, Derrida ed i loro sostenitori ammettono innanzitutto quanto abbiamo detto con un po' di dettagli e si avvalgono anche dei sostegni per questo lavoro di spiegazione dei ricercatori riguardante l'Heidegger direttamente politico. Essi affermano che il pensiero di Heidegger è capace del suo passaggio attraverso l'opzione nazista, alla quale ha dapprima condotto (!), ma può anche essere sottoposta ad un'altra spiegazione, che sfocia ad evidenziare qualcosa di valido e di tradizionale. Heidegger avrebbe riconosciuto i pericoli che fa pesare sull'umanità l'onnipotenza della tecnica e sarebbe riuscito ad identificare la sua causa spirituale: lo sviluppo della ragione dopo Platone. È quanto andrebbe "estratto" dal contesto ideologico (weltanschaulich)" dalle sue speranze poste nel nazismo. Quest'ultimi si sarebbero trasformati in deluzione completa duranet la seconda guerra mondiale, quando Heidegger avrebbe visto che la strategia di guerra dello Stato nazista non era che una sottomissione alla tecnica. Si tratta di una menzogna insolente, che si rifiuta di tener conto dei semplici fatti riguardanti Heidegger. È alla base di una logica drammatica. L'elemento pericoloso di questa versione si trova innanzitutto nell'affermazione da parte di Heidegger di un divenire criminale della ragione. Prende di mira Cartesio abusando della relativizzazione delle forze della comprensione effettuata da Kant. Heidegger torna ad una concezione dell'uomo anteriore nel momento in cui lo si pensa come critico, dotato di uno spirito universale, cercando delle conoscenze che possano tornare utili per tutti gli uomini. Se ciò fosse vero, se Heidegger rappresentasse un'avvanzata irreversibile, allora bisognerebbe dire che i diritti dell'uomo universale non esistono, non più della conoscenza e la tecnica umaniste, non più del freno posto dall'uomo all'omicidio dei suoi simili che non appartengono al proprio "Dasein". Allora non restano che i "modi di essere fondamentali": "l'esssere-Dio, l'essere-uomo, l'essere schiavo, l'essere padrone" (Vom Wesen dei Wahrheit, 1933-34). Per Heidegger, l'essere-uomo si declina obbligatoriamente secondo le categorie regionali völkisch e razziale. La sua critica della ragione non è minimamente indipendente dall'alternativa che egli offre, è costruita a partire da essa. Heidegger non rimprovera essenzialmente a Cartesio di incoraggiare il soggetto pensante da se stesso di onnipotenza smisurata, ma piuttosto al suo soggetto di essere "senza suolo"- cioè di non prendere le sue determinazioni regionali e völkisch- e di essere un quadro universale inesistente. Secondo Heidegger, non si può assolutamente nulla conoscere senza fare riferimento all'"essere", affidato ad un popolo storico che esso ha scelto. Va da sé che ogni pensiero particolare (matematica, biologia, ecc. tedesca) deve a sua volta essere sottoposta a questo popolo. L'intenzione e la comprensione rimangono "inautentiche", precarie e contingenti, tanto a lungo finquanto l'individuo non "avanza" nella morte, cioè finquando non si adatta estaticamente nella sfera dell'essere temporale e sovratemporale, attraversoi una separazione completa con tutti i vivi e gli essenti. Anche giunti a questo punto, il grande giorno non è ancora sorto, solo un raggio di luce (un "lucore") appare nell'oscurità eterna dell'anima, quell'anima che non può che "credere" o "tenere-per-vero" (perché per Heidegger, distinguere verità e falsità è diventato impossibile). Per Heidegger, lo schiudersi consiste in ciò che fa fremere ogni uomo risvegliato, in ciò che ogni uomo risente come uno spaventoso restringimento della vita: "il Dasein, fosse esso presente in una qualunque spiegazione mistica e magica, si è è ogni volta già compreso: senza ciò non "vivrebbe " affatto in un mito, non si preoccuperebbe affatto, attraverso il rito ed il culto, della sua magia". [Essere e Tempo]. L'uso del presente mostra che Heidegger considera una tale vita sociale come un ideale naturale sempre valido. Ha manifestamente improntato il suo contenuto all'iconografia kitsch della sua epoca riguardante l'esistenza (Dasein) "primitiva" ed il Medioevo cristiano, quei luoghi comuni che fanno di ogni realrà storica una brodaglia apparentemente omogenea. Infatti, si tratta giusto di ontologizzare una costrizione anti-individuale, rivelatrice dello pseudo-popolo (pseudo-volkstammlich) ed ostile alla razionalità, che non può effettuarsi che attraverso mezzi terroristici. Soltanto i nazional-socialisti hanno seguito un progetto di questa portata. E soltanto gli "intologi" favorevoli ad un'applicazione della violenza potevano affermare che l'abuso e la hybris risiedono nella ragione stessa, nella capacità di riflessione esigita da Descartes, nel compito di esaminare, la responsabilità dell'uomo. I suoi nemici pongono a carico della ragione stessa lo spettacolo dato dagli uomini irrazionale e spietati. Secondo essi, sono razionali. È per meglio eliminare la ragione in generale. Nessun pensiero riducendosi ad un'associazione vitale limitata e separata non può essere favorevole all'uomo! Dietro la volontà irresponsabile di "estrarre" dalla melmosa teoria della conoscenza di Heidegger un nucleo sussitente e legittimo, troviamo evidentemente una motivazione non filosofica. Il rigetto heideggeriano dell'universalismo occiden tale europeo deve permettere di raggiungere l'egemonia culturale, politica e economica dell'"americanismo". Questo rovesciamento rinvia a delle alternative potenziali, alle quali Habermas in particolare ha fatto appello nella sua reazione impossibile agli attentati te rroristi del 11 settembre 2001: la "religione" e la "civiltà" asiatica o araba. Su queste alternative, assolutamente nulla deve essere precisato in modo argomentato, ma sono opposte all'americanismo come riserva e minaccia. Perché anche i terroristi estremisti passano per religiosi e sembrano appartenere alla civiltà agli occhi di Habermas. Quando egli chiama ad un "dialogo" con essi, egli abbandona le sue esigenze democratiche a profitto della promessa di un agire comunicativo applicato. Se il diavolo è invitato nello scopo di vincere con la forza gli abusi di potere politici ed economici considerati come degli eccessi della ragione, non li eliminerà mai, si atterrà piuttosto al principio di una società aperta, ai poteri separati e che garantiscono i diritti fondamentali. La ripresa della critica heideggeriana della ragione nobilita la negligenza filosofica dell'ermeneutica corrente. All'opposto dell'assoluzione che Hannah Arendt aveva dato a Heidegger, questa critica sostiene concettualmente questa negligenza che considera l'impegno nazista di Heidegger come "poco morale" e lascia il nazismo apparire come gravido di una verità portatrice di avvenire. Era soltanto in un gesto di rinnegamento di sé ad eccitare proprio la pietà che Hannah Arendt aveva posto in ridicolo il mestiere di filosofo, facendo il favore ad Heidegger di considerare la propria cecità politica come una deformazione professionale. (Oggi, i difensori di Heidegger brandiscono fieramente la testimonianza ufficiale dello stesso genere attestando la sua invalidità mentale). L'applicazione delle analisi che lei ha sviluppato sul totalitarismo al pensiero di Heidegger è al contrario estremamente utile e fecondo. "Nell'essere dell'ente avviene il nullificare del nulla. [...] La negazione non è, infatti, che un modo del comportamento nullificante. [...] Più abissale del semplice aggiustamento della negazione pensante sono la durata dell'agire all'incontro e la lacerazione dell'esecrazione. Più pesante è l'asprezza della privazione" [Che cos'è la metafisica?, 1929: Im Sein des Seienden geschieht das Nichten des Nichts“. Die "denkende Verneinung“ ist" nur eine Weise des nichtenden … Verhaltens. … Abgründiger als die bloße Angemessenheit der denkenden Verneinung ist die Härte des Entgegenhandelns und die Schärfe des Verabscheuens. Verantwortlicher ist der Schmerz des Versagens und die Schonungslosigkeit des Verbietens. Lastender ist die Herbe des Entbehrens”. "Was ist Metaphysik? 1929]. La redazione di questo testo è terminata il 27 gennaio 2007, giorno del 62° anniversario della liberazione del lager di Auschwitz. È dedicato alla memoria di tutte le vittime del nazional-socialismo. Per riferimenti completi e analisi più approfondite, rinvio al mio libro Bin ich, wenn ich nicht denke? (Io sono quando non penso?), Centaurus Verlag, Herbolzheim, 2003. HEIDEGGER di Georges Mietzenagora IV Dispositivo cognitivo dei contemporanei di Sein und Zeit Il pensiero di Kant ha dato luogo a due grandi correnti che prevarranno durante il XX secolo: L'empirismo, il positivismo logico, ecc. da una parte, la fenomenologia e gli esistenzialismi d'altra. Lo spirito è concepito oramai da queste scuole di pensiero come isolato da un reale indipendente che esso percepirebbe e potrebbe concepire. È a degli spiriti o a degli spiriti isolati in tal modo, privi di ogni riferimento all'essere indipendente da essi che un Heidegger porrà la "questione dell'essere"! 1. La nuova fisica e la nuova epistemologia positivista: Einstein ed il Cicolo di Vienna Ora che Einstein (1905) pone effettivamente la fisica sulla via designata dal neo-kantiano Ernst Mach, questa fisica abbandona la questione dell'essere indipendente delle cose naturali. Nel 1911, il Circolo Mach Ernst lancia un appello per la costruzione di una visione scientifica positiva [14], lancia quest'appello ai ricercatori scientifici delle differenti discipline. L'appello è firmato tra gli altri da Mach, Einstein, Hilbert ed anche da Freud. Mach, il filosofo fisico, fondatore dell'empiricriticismo; Einstein, che ha già posto il "quanto d'azione" al posto di un concetto della natura della luce; Hilbert, che chiede una formalizzazione logica metamatematica, richiesta a cui risponderà il teorema troppo famoso di Goedel. Nel 1929, diventato Circolo di Vienna (Wiener Kreis), l'Ernst Mach Verein pubblica il suo manifesto. La tesi machiana è fermamente adottata. Ogni allusione ad un'esistenza indipendente esterna alle sensazioni cioè ai fenomeni, è denunciata come priva di senso. Questa mancanza di senso è caratteristica degli enunciati metafisici o teologici, si dice in questo manifesto. Da questa tendenza degli spiriti alla metafisica e/o alla teologia, cioè alla mancanza di senso, il manifesto spera che la psicanalisi di Freud possa guarire. Freud aveva appena pubblicato lo stesso anno in cui apparve Sein und Zeit il suo L'avvenire di un'illusione. Descriveva la religiosità come una nevrosi universale e manifestava la speranza di una guarigione. 2. Abbandono dell'ontologia per la nuova fisica La nuova fisica priva la scienza della natura del suo oggetto indipendente, i corpi in movimento. La scienza fisica non ha più ontologia per gli esseri corporei in movimento che esistono indipendentemente dalla percezione. Husserl stesso esulterebbe nel suo testo Crisis per questo nuovo stato di cose. Infine avrebbe visto la concezione galileiana crollare dall'avvento della nuova meccanica subatomica, la meccanica quantistica. In breve, la questione dell'essere è abbandonata dalla nuova fisica ed il Mach Ernst Verein positivista se ne rallegra nel suo manifesto del 1929. Ora, kantiani come Mach o Mauthner, i filosofi atei sono rinchiusi nella scatolabianca della sensazione e devono riconoscere la necessità del corso stesso della sensazione. L'essere dei noein, cioè della sensazione, non dipende da se stesso, il machiano cioè l'empiriocriticista è obbligato di vedere infatto la sensazione portata da non si sa cosa che non è se stessa.La posizione della questione dell'essere e la descrizione heideggeriana dell'esistenza pretende supplire a questa carenza. La nuova fisica non offrendo più, interdendo persino, anche l'accesso all'essere indipendente dalla sensazione, questi spiriti sono pronti ad aspettare l'offerta di un altro accesso all'essere! La dottrina di Heidegger malintesa, si cristallizza sul difetto d'essere diventato generale nell'Alta Cultura filosofica e scientifica. È per questo che abbiamo degli heideggeriani di ogni orientamento! Dei pensatori che intendono la dottrina nella sua vera intenzione religiosa (come ad esempio Lowith e Gadamer), ogni genere di cattolici modernisti, naturalmente dei protestanti, dei teisti, ma anche degli Israeliti e presto dei marxisti insieme ad altri atei. La domanda d'essere è enorme e l'offerta Heidegger per quanto nascosta possa essere, sembra ad alcuni a questo proposito valere qualcosa invece di niente! Lo ristabilimento ontologico della fisica appare come il pharmakon sine qua non dello ristabilimento della cultura e del buon senso. V. Itinerario dell'impresa di Heidegger 1. Gli inizi della carriera universitaria di Heidegger [15] Heidegger è un cristiano fervente, educato dalle magistrali istituzioni cattoliche di formazione dello spirito e del corpo. Fallendo il suo ingresso in un ordine della Chiesa, passerà all'università ed alla biblioteca di filosofia contemporanea. All'università ascolta i corsi di matematica. Le questioni del matematico Hilbert sul fondamento formalizzabile delle matematiche possono contribuire a liberarlo da un'adesione a questo genere di scienze poiché essa stessa sembra mancare come le altre discipline di un proprio fondamento. Ascolta i corsi di fisica e ciò in un momento in cui questa scienza vacilla nell'adesione ai precetti di Ernst Mach. Scopre l'opera di Husserl e questo pensatore lo mette del tutto a suo agio nei confronti di ciò che le scienze positive sanno del mondo. In seguito compirà l'apprendistato a questa dottrina ed al suo metodo presso il suo creatore Husserl. Husserl non avrebbe dovuto dimenticare ciò che egli stesso aveva notato nel 1919 e cioè che con Ochsner, l'amico dell'epoca di Heidegger, ed con Heidegger, aveva a che fare con delle "personalità orientate verso la religione" [16]. A proposito di questa religiosità, nel 1917, Finke, che era allora un protettore di Heidegger, vedeva in quest'ultimo, a cui egli scriveva, "un eminente filosofo speculativo teista" [17]. La giovane età di Heidegger, delle circostanze accademiche particolari e forse anche la libertà presa con la teologia cattolica prevalente nella Friburgo universitaria impedirono Heidegger di occupare la cattedra di filosofia cattolica per la quale aveva posto la sua candidatura a Friburgo. L'ardore del militantismo religioso di questo figlio della Chiesa visibile non cedette davanti a questo insuccesso universitraio non più di quanto non aveva ceduto davanti al rifiuto dei Gesuiti di riceverlo tra di loro e quello dell'arcivescovo di impiegarlo presso di sé. Questi due ultimi rifiuti non essendo stati motivati che per i problemi cardiaci che degli eccessi sportivi avevano prodotto in Heidegger. Tutta l'impresa di Heidegger è da concepirsi a partire dal suo militantismo religioso. Invece di aver determinato, come avrebbe potuto sperarlo Husserl, nell'essitenza ordinaria dell'uomo concreto gli elementi originari di una "scienza rigorosa"- husserliana- capace di produrre delle verità eternesecondo l'ideale di Husserl- Heidegger vi stabilirà i determinanti eterni dell'uomo interiore, cioè i determinanti del divino in quest'uomo interiore. 2. Da Husserl al proto-teologico Un amico di Heidegger, Laslowski, aveva fatto pubblicare nel numero di marzo 1915 della rivista Heliand una poesia di Heidegger. La rivista Heliand era, come l'indicava il titolo, "la rivista mensile al servizio della vita religiosa dei cattolici colti" [sic] [18]. In questa poesia si legge: "Wie Gott es meint! -Auf ew'gerSpur Geh'n Engel werben.» Come Dio l'intende! Su un'eterna traccia Se ne vanno cercando gli angeli. La "meraviglia" [19] è che questa "traccia eterna" si troverebbe nell'"uomo concreto". Nell'uomo concreto, e nel fango in cui lo getta "la cura", "la paura", "la corruzione", "la decadenza", "l'abbandono" in questo fango in cui si affonda nel mondo per il mondo, in cui l'uomo si aliena, si perde, è là che giacciono le tracce eterne. Nella chiacchiera è l'angelo caduto del verbo. In questa cura di non morire, dell'uomo ordinario, si è pervertita la cura dell'anima per la morte. Nel suo libro L'ontologie politique de Martin Heidegger [Führer della filosofia? L'ontologia politica di Martin Heidegger, Il mulino, Bologna, 1989], Pierre Bourdieu constata in Heidegger una secolarizzazione dei temi religiosi: "... Heidegger fa entrare nella filosofia una forma secolarizzata dei temi religiosi [...]: come ad esempio la nozione di Schuld, colpa, costituita in modo d'essere del Dasein, o tanti altri concetti della stessa origine e stessa coloritura, Angst angoscia, Versuchung tentazione, Geworfenheit abbandono, Innerweltlichkeit intramondanità, ecc..." [20]. Nei fatti, si tratta più precisamente di divinizzare il secolare. Heidegger, cristiano modernista oramai ed in questo snso teista, rivela che la Rivelazione è presenza eterna nell'esistenza stessa dell'uomo interiore ordinario! Poiché i costituenti di Husserl corrispondono alle positività scientifiche, gli esistenziali di Heidegger corrispondono alle positività teologiche. La strada del metodo è il seguente: si parte dalle catergorie religiose positive verso la vita ordinaria. E là si cerca ciò che può corrispondervi. Ciò che si trovaed è qui la "meraviglia"- sarà allora l'originario di ciò di cui si cercava l'origine! Come pensatore religioso, Heidegger ha altre esigenze rispetto a quelle di Husserl che fa sue. Ha la preoccupazione della protezione della fede cristiana. Husserl separa francamente la sua fede in Dio dalla sua ricerca filosofica o per lo meno pretende di farlo. D'altronde, considerando le cose da un altro punto di vista, cosa c'è di meno straordinario di un discepolo che cerca di fare meglio nel campo in cui opera il maestro? Husserl crede di aver trovato il fondamento ultimo e pretende di elaborare la scienza suprema: la filosofia prima. Ebbene, il discepolo cercherà a sua volta il fondamento e questa volta si tratterà del fondamento che non conosce il maestro quello della propria impresa! Questi due generi di motivazione sono in sinergia: la fede in Dio e la fede in sé. Dal lato discepolo, più forte del suo maestro, Heidegger dichiara a Husserl: i vostri fondamenti non sono nulla, sono qualcosa dunque ed il loro essere a se stessi ecco dove è da cercare il fondamento del fondamento. Dal lato Dio della cosa l'essere ultimo del fondamento in causa è nella creatura fatta a somiglianza di questo Dio. Ed infatti, se questa creatura si dedica alle scienze, alla filosofia, ecc. questo è e non è altro che l'effetto di una scelta in cui si è impegnata la creatura. Da una parte è in se stessa in questa creatura nei suoi umori, le sue strutture, la sua vita interiore che deve risiedere il fondamento di queste scienze e filosofie, di queste fisiche, queste metafisiche. Ma d'altra parte tutto ciò non vale più della scelta che lo impegna. Questa scelta è cristianamente un falso passo e per fortuna questo falso passo è reversibile. Il lavoro di Heidegger in questo senso è in corso nel 1918, come testimonia la sua corrispondenza con Elisabeth Blochmann. Riesce a produrre un testo terminato al più tardi nel 1925/26. La sua pubblicazione nella rivista annuale del maestro e simultaneamente stampato a parte non può tuttavia effettuarsi che nel 1927. Questo testo è dunque sotto l abenevolenza di Husserl portato alla notorietà ed è ufficialmente dedicato inoltre ad Husserl in segno di venerazione. Il fatto che la distribuzione universitaria dei ruoli, a quest'epoca, costringe ognuno a mantenere il suo insegnamento nei limiti della disciplina, obbliga un professore di filosofia a non sconfinare sull'insegnamento della teologia. Questo fatto e l'insieme delle circostanze nelle quali il testo di Essere e Tempo fu pubblicato, spiegano perché il suo autore non enunci esplicitamente la vera portata della sua intenzione religiosa per non lasciare apparire che l'altro versante della sinergia ponendo la domanda dell'essere dei costituenti. Questa presentazione tuttavia non ingannò il primo alleivo di Heidegger a passare la sua abilitazione sotto la sua ferula, Karl Lowith, che nel suo testo Phanomenologische Ontologie und protestantische Théologie non vedeva in Essere e tempo che una "teologia camuffata" («sakularisiertechristliche Théologie») [21]. Nella sua corrispondenza con i suoi amici, Heidegger espone senza ambagia l'intensità della sua religiosità ed espone loro la natura del lavoro che egli ha intrapreso, il suo scopo, come aveva scritto ad Engelbert Krebs nel 1919: "... fare ciò che le mie forze mi permettono per la determinazione eterna dell'uomo interiore, e soltanto per questo, e giustificare così la mia esistenza e la mia azione davanti Dio stesso" [22]. E come dice sei mesi dopo, in una lettera ad Elisabeth Blochmann: "... al che si aggiungono delle costanti e nuove verso le vere origini, dei lavori preliminari in vista della fenomenologia della coscienza religiosa (religioses Bewusstsein)" [23]. E due anni più tardi, in una dichiarazione più esplicita ancora, per quanto concerne il metodo e la natura del suo lavoro, scrive a Karl Lowith, il 19 agosto 1921: "[...] non sono un filosofo [...] lavoro concretamente e fattivamente a partire dal mio io, a partire dalla mia origine intellettuale e del tutto fattuale, dal mio ambiente, dai contesti di vita ed a partire da qualsiasi altra cosa mi sia accessibile a partire da quest'ultimi in quanto esperienza vitale nella quale vivo... a questa fattualità che è la mia, appartiene ciò che io chiamo in breve il fatto che sono un teologo cristiano" [24]. 3. La domanda alla quale Heidegger vuole rispondere: a quale condizione un'interpretazione giusta della fede cristiana è possibile? Gadamer, che ottiene anch'egli la sua abilitazione con Heidegger, espone l'intenzione di Heidegger così: "Da quando conosciamo meglio i suoi primi corsi ed i suoi lavori che datano dall'inizio degli anni venti, è per noi evidente che la sua critica della teologia ufficiale della Chiesa cattolica romana della sua epoca lo costringeva sempre più a domandarsi a quali condizioni era giusta un'interpretazione della fede cristana, detto altrimenti, come ci si poteva difendere da quella forma di deformazione del messaggio cristiano da parte della filosofia greca che fondava sia la neo-scolastica del XX secolo sia la scolastica del Medioevo" [25]. Il cattolicesimo "modernista" è stato condannato da Roma e, nel 1910, il Papa esige dai professori cattolici un giuramento, il "giuramento anti-modernista". In un certo senso Heidegger sarebbe un cattolico modernista. Il cattolicesimo modernista consiste infatti, in alcune delle sue tendenze, a stabilire l'assise della fede in una specie di surnaturalità congenità dell'uomo. Sul versante protestante, Schleiermacher aveva insegnato questo genere di cose, più tardi ampiamente elaborato dal teologo Sören Kierkegaard. Heidegger si era iniziato al pensiero di questi due autori. Uno dei vantaggi di questo genere di religiosità risiede nel fatto che il corpus teologico del sapere religioso non è più l'essenziale. Il filosofo al servizio della fede di questa specie non è più imbarazzato dalla dogmatica delle false scienze adottate dalla Chiesa. Un altro vantaggio segue dal primo: non si deve più affrontare sul loro terreno le scienze positive. Il corpus dogmatico cattolico ufficiale è intimamente intrecciato con delle scienze positive. Specialmente le pseudoscienze di Platone e la fisica erronea di Aristotele ed anche i testi della filosofia prima di quest'ultimo (che è anch'essa teologica) intitolati Metà tà fusikà da cui è preso in origine la parola metafisica stessa. Da Copernico, poi Galileo Galilei, le scienze positive si opposrero a quelle della chiesa. Ed in campo cattolico il dogmatismo acquisito rimane lì e la sua difesa di fronte alle scienze è più che difficile. Sul versante filosofico protestante, dopo George Berkeley e Arthur Collier è stata costruita una filosofia più efficace contro le ingerenze delle scienze positive sulla dogmatica della fede. Leibniz poi Kant ed anche Schelling ed Hegel hanno confortato questa spiritualizzazione assoluta del reale. Per liberare il cristianesimo dal confronte con le scienze moderne, basta sgombrare la dogmatica cristiana da tutti questi saperi. Il cristianesimo non deve più includere la scienza di cui ha, sotto l'influenza della filosofia greca, fatto una parte essenziale della sua dottrina. Tutto lo sforzo filosofico protestante che trova il suo trionfo nel kantismo, deve essere messo a profitto. D'altronde , Heidegger studia Lutero, Schleiermacher, Kierkegaard, mentre, sul piano dei filosofemi, fa apprendistato del nato più ultra kantiano: la fenomenologia di Husserl. Il gesto di Heidegger consiste nello scartare non soltanto la pertinenza dell escienze positive, ma anche tutta la scienza dalla dogmatica cattolica. A partire da questo gesto il cristiano cesserà di fondare la sua fede nella conoscenza del mondo esterno o nella teologia teorica. È nel mistero della sua propria vita individuale che egli pianterà le tende con fermezza. È cercando di conoscersi che egli scoprirà le fondamenta della sua fede. È quanto Heidegger espone alla sua amica Elisabeth Blochmann nella sua lettera del 7 novembre 1918: "...Ciò che voi cercate, lo troverete in voi stessa, un cammino guidato dall'esperienza religiosa originale alla teologia, ma che non deve necessariamente condurre dalla teologia alla coscienza religiosa..." [26] e che egli reitera dieci anni più tardi nella sua lettera dell'8 agosto 1928: "La religione è una possibilità fondamentale dell'esistenza umana..." [27]. Il solo essere che oramai importa di conoscere, è quello del cristiano stesso. Tutto ciò che prima si pretendeva di conoscere attraverso tutti quei saperi qualunque essi siano , è annullato ed al posto di tutto questo una parola, una sola, l'essere. Tutto ciò che non è l'essere del cristiano spirituale, tutto ciò che non è l'uomo interiore cristiano, e ciò che è, sarà l'Essere con una maiuscola. Per sostituire i saperi greci, integrati al cristianesimo ed ora respinti, si ricorre ad alcuni relitti presocratici di cui si fa un uso discrezionale. Si mantiene così per lo meno il legame del cristianesimo con il mondo greco e si evita così di limitarlo alla sua fonte ebraica. Si salva Eraclito, Parmenide come un tempo si salvava Platone ed Aristotele. Vi fu una rivelazione in Grecia! l'Essere con la maiuscola si è svelato, rivelato, egli che fa officio nella dottrina cristiana di Heidegger come pilastro mediano del tempio a tre colonne: l'Esistenza, l'Essere, Dio! I Presocratici non hanno avuto accesso al "crucificato", forzatamente, ma avendo acceduto alla rivelazione del pilatro centrale Essere, essi hanno con lo stesso colpo acceduro al sacro. Oltre il sacro c'è la divinità che essi hanno, anch'essa, potuto percepire. Il loro sguardo ha dovuto arrestarsi a quest'orizzonte aldilà del quale, e soltanto là, la parola Dio può essere intesa in un senso cristiano del termine. Georges Mietzenagora 65 anni da Auschwitz: vergogna ad Heidegger Auguro innanzitutto al lettore che sono colpito da una strana malattia, quella di non poter leggere in altro nessun modo Heidegger se non come introduttore del nazismo nella filosofia. Bisogna ancora ripetere che una tale introduzione non poteva avvenire che alla condizione che fosse concepito un apparato retorico abbastanza potente affinché potesse essere sostenuto esattamente il contrario. Heidegger nazista... ma non ci pensate! Sono dunque 65 anni che Auschwitz è stato chiuso. Si poteva infatti, "liberare" il più di un milione di morti che la macchina di morte ha inghiottito nel cuore dell'occidente cristiano? Enuncerò ora, in alcuni punti, come si pone ai miei occhi la domanda che Auschwitz non cessa di porci. 1. La conoscenza del processo che ha reso possibile Auschwitz è ancora molto incompleto. 2. Per l'essenziale Auschwitz è un crimine dell'università. L'irregimentazione hitleriana dell'università non è stata soltanto effettuata da forze esterne. Numerosi elementi interni all'università hanno ampiamente facilitato il processo. Heidegger ha preso la testa, durante il suo rettorato, di questo processo di "irregimentazione". 3. Heidegger non ha mai cessato, sino alla sua morte, di pensarsi come il "rettore trascendentale" dell'università del III Reich. 4. Teologi, teorici ed "antropologi" della razza, archeologi, architetti, ingegneri, insegnanti, chimici, ingegneri dei trasporti, alta burocrazia, ecc. hanno apportato un concorso senza il quale il genocidio non avrebbe potuto aver luogo. Quando Marcel Conceh mette questo crimine esclusivamente sul conto di Hitler, il grande moralista ci tratta da imbecilli. 5. Heidegger, in Introduzione alla metafisica (1935), costruisce il "concetto" filosofico della "soluzione finale". Per lui la "filosofia del nazional-socialismo" è in effetti ridicola. Ma è perché innanzitutto nel 1935 è ancora impantanata in un anti-semitismo da "sotto-sviluppati" del "pensiero". Delle formule come "cominciamento originario" o "apertura determinata all'istanza dell'essere" nominano ciò che, presso l'Heidegger del 1935, costituisce già il progetto della soluzione finale. Fa impressione, no? È questa la "verità interna" e la "grandezza" del movimento. È il concetto stesso di Auschwitz. Sì è potuto a volte sostenere che Heidegger non era antisemita. Froment-Meurice dice di Heidegger che era un nazista radicale ma non un antisemita. Infatti non si trattava di passare il suo tempo a maledire gli ebrei: si trattava soltanto, in quanto radicale nazista, di distruggerli. Entrate dunque, sapete, non sono antisemita. 6. Sino alla fine Heidegger ha stimato che l'Aperto era stato in questo modo un po' gestito. 7. Heidegger ha fatto della croce uncinata, della svatica, la cifra simbolica di numerosi aspetti del suo "pensiero". Ad esempio il Quadripartito Cielo/Terra/Dei/Mortali. Perché non sono non importa cosa, i mortali. E soprattutto non coloro che sono "non morti" nelle camere a gas. Heidegger non ha mai in ciò "criticato" o rifiutato il principio dei campi. Ha al contrario ammesso che tale era la "verità dell'essere": coloro che sono deceduti nei campi erano ad ogni modo dei "non-morti". Sono stati deportati, condizionati e trasformati in cadaveri a questo fine o, piuttosto, per questa "ragione". La gerarchia nazi-heideggeriana è così: produce-seleziona da una parte dei mortali, dei veri mortali. Sono soprattutto le SA, le SS e affini. Dall'altra "condiziona" i non-morti; determina coloro che, attraverso e nei campi, saranno così votati all a"non-morte". Appoggiarsi su Heidegger al primo grado per analizzare e criticare il nazismo è uno scherzo macabro. Heidegger dice la verità del nazismo perché lo ha pensato e voluto come "utopia concreta". 8. Heidegger non si è allineato a Hitler per opportunismo, smarrimento passeggero e nemmeno episodico. Questo allineamento era in perfetto accordo e non ha mai cessato di esserlo, con la verità heideggeriana dell'analitica del Dasein e cioè sapendo che Dasein significa in realtà qualcosa di equivalente alla nozione più ideologica di "uomo superiore". "Dasein" è l'alibi filosofico di Ubermensch. 9. Philippe Sollers ha dichiarato su France-Culture che non era heideggeriano.