CGIL CISL UIL CONVEGNO “Piccola impresa: qualità dello sviluppo e diritti nel mercato globale” Relazione di Giovanni Guerisoli Segretario Confederale CISL Bologna, 12 giugno 2000 1 “I cambiamenti epocali che stiamo vivendo, la rivoluzione tecnologica, le grandi trasformazioni dei sistemi produttivi, della distribuzione, del commercio e delle comunicazioni, ci rivelano un quadro complesso di indubbio sviluppo, soprattutto economico. L’incremento e l’efficacia dei sistemi economici, l’aumento del commercio mondiale e della produzione, il miglioramento dei prodotti e la riduzione dei prezzi e dei servizi hanno beneficiato una massa crescente di consumatori. Tutto ciò è indubbio ed avviene nel quadro della globalizzazione dell’economia mondiale. E tuttavia, ad uno sguardo «più a freddo» vediamo che camminano assieme, crescita economica e polarizzazione sociale, spettacolari arricchimenti e impoverimenti persistenti, esplosione delle tecnologie e degli strumenti per la comunicazione tra gli uomini e aumento dell’esclusione e della frammentazione sociale. È questo proditorio dualismo che ci obbliga a pensare e ripensare la globalizzazione perché questa attuale non è l’unica possibile ed occorre intervenire per governare e modificare la sua ratio e la sua cultura e le regole di fondo. Ma, al di là delle potenzialità e dei rischi, è evidente che la globalizzazione pone oggi impellenti interrogativi dai quali non è possibile ai governi fuggire. I partiti, il mondo associativo, le diverse culture 2 economiche e sociologiche devono cimentarsi nella ricerca di risposte a quesiti ogni giorno diversi. Quali forme di conflitto e di nuove regolazioni della realtà essa porta con sé? Come può la globalizzazione conciliarsi con le particolarità culturali dei popoli? Qual è la qualità dello sviluppo che essa ci impone ogni giorno quale cultura dei diritti? È possibile ricostruire una nuova egemonia della politica sull'economia? Ma, soprattutto, è possibile governare la globalizzazione? Anche il Papa con forza ha espresso il suo no palese e chiaro alla natura dell’attuale globalizzazione. E la condanna è chiara: «se la globalizzazione, egli dice, è retta dalle pure leggi del mercato, applicate secondo la convenienza dei potenti le conseguenze non possono che essere negative». Per lo stesso motivo, la Chiesa contrasta le pretese del capitalismo proclamando «il principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale», poiché l’attività umana è «sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, essendo l’insieme di mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale» del processo di produzione. 3 Crescono contemporaneamente ricchezza e povertà Ciò che colpisce è la contemporanea crescita dello sviluppo e della povertà. E dunque con l’attuale modello di globalizzazione non si sta dando risposta ai problemi che affliggono i meno protetti, i deboli, anzi la situazione, come lo dimostrano importanti studi e ricerche, peggiora persistentemente. Nel XX secolo i consumi sono cresciuti a ritmi senza precedenti. Il rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite (Undp) segnala che nel 1998, i consumi pubblici e privati hanno raddoppiato il livello raggiunto nel 1995 e sono aumentati di ben sei volte rispetto a quello del 1950. Ma mentre il 20% degli abitanti dei paesi più ricchi realizzano l’86% del consumo totale, il 20% del mondo più povero ne realizza appena l’1,3%. Più concretamente la quinta parte più ricca della popolazione mondiale consuma il 45% di tutta la carne e il pesce, mentre la quinta parte più povera ne consuma appena il 5%. Negli Stati Uniti, «un bambino su quattro nasce in povertà, un operaio su cinque è senza assicurazione contro le malattie». Allarmata, la prestigiosa rivista americana Foreign Affairs afferma che con la globalizzazione «abbiamo creato un mondo con troppi poveri» e che rischia di esplodere e si chiede: «cosa succederà ora?». 4 A livello mondiale, l’85% della popolazione dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina è esclusa dai processi di globalizzazione. In questo contesto finora i maggiori beneficiari della globalizzazione sono gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa occidentale. La globalizzazione liberista è l'unica possibile? Uno degli aspetti che più risalta nella storia recente della globalizzazione è la sua subordinazione alla logica e all’orizzonte del neoliberismo. È questa la globalizzazione d’oggi, è la globalizzazione neoliberista, con la sua eccezionale asimmetria, che la rende inaccettabile. È l’asimmetria tra perdenti e vincenti, tra ciò che gli americani chiamano «avere» e «non avere» che smarrisce le coscienze e genera rifiuti e violenze. Le asimmetrie sono tante, ma una, in crescita allarma il mondo del lavoro nei paesi industrializzati: il divario tra investimenti finanziari e speculativi e la perdita di posti di lavoro. Sono numerosi gli esempi di listini in ascesa nei titoli d'aziende che annunciano licenziamenti di lavoratori. Non è l’unico né il più clamoroso, ma è rimasto nella memoria il caso della fusione della Chase Manhattan Bank e Chemical Bank: l'annuncio che la fusione avrebbe provocato il licenziamento del 16% del personale fece schizzare il valore in borsa di oltre l’11%. 5 Per quanto ci riguarda anche l’andamento borsistico della Good Year è stato positivo dopo l’annunzio della chiusura dello stabilimento di Latina. Altra asimmetria dell'attuale globalizzazione è il diverso modo di dislocare i punti di crisi all'interno del sistema. I paesi in via di sviluppo, anche se hanno comportamenti economici virtuosi, sono sempre e comunque più esposti agli effetti domino delle crisi economiche internazionali. Fra le tante asimmetrie quella che colpisce di più è l'asimmetria che esiste nella distribuzione dei vantaggi e dei privilegi. La tremenda disuguaglianza nell'accesso alle nuove tecnologie informatiche ne è solo un esempio. Un computer, segnala l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, costa all’abitante medio del Bangladesh oltre otto anni di reddito, quando per l’americano medio vale lo stipendio di un mese. Ma le disuguaglianze e le asimmetrie si sono trasferite anche all’interno delle singole nazioni, in particolare quelle più inserite nei processi di globalizzazione. Negli Stati Uniti d’America il 5% dei nuclei familiari più ricchi hanno avuto un incremento della propria quota parte sul Pil dal 1516% al 21-22% nel 1996, «lo stesso reddito diviso tra 50 milioni di famiglie» più povere. 6 E dunque le asimmetrie non riguardano solo il rapporto tra perdenti e vincenti, tra ricchi e poveri, tra paesi forti e paesi deboli, tra imprese grandi e imprese piccole, ma si sta trasferendo anche al rapporto tra gli stessi paesi industrializzati. Riflettendo sul differenziale d'occupazione tra l'Europa e gli Stati Uniti, lo stesso Luttwak ha provato a vedere questo rapporto dal punto di vista dell'occupazione, arrivando a risultati sorprendenti. Per un'azienda americana, egli dice, è molto meno costoso assumere e retribuire 95 lavoratori su 100 disponibili (lasciando in questo modo il tasso di disoccupazione residuo al 5%) a 7,66 dollari l'ora, pagando quindi un totale settimanale pari a 29.108 dollari, rispetto a quanto costi ad un'azienda europea dare lavoro a 90 dipendenti (lasciando il tasso di disoccupazione al 10%) a 20 dollari l'ora, cioè 72.000 dollari a settimana. Se le aziende europee potessero reperire forza lavoro a 7,66 dollari l'ora, indubbiamente assumerebbero anch'esse 95 dipendenti, e magari 100 in un bel gesto di generosità a buon mercato. L’asimmetria più devastante sul piano etico è che la globalizzazione colpisce più forte e con minore generosità coloro che sono già fragili e più esposti. Se è vero che la globalizzazione è inarrestabile, ineluttabile e forse anche necessaria, è anche vero che quella attuale non è l’unica 7 globalizzazione possibile. La globalizzazione porta con sé l’idea di un'integrazione e convivenza universale che promette speranze e ottimismo alle grandi maggioranze, l’idea dell’uguaglianza, della giustizia sociale e soprattutto, l’idea della solidarietà. Invece quella dei nostri giorni corre come un treno imponendo uniformizzazione, passività sociale, esclusione ed emarginazione quasi non ci fosse alternativa culturale al darwinismo economico e sociale che essa ovunque sta imponendo. Le crisi ricorrenti e gli effetti sui sistemi economici mettono in luce un’ulteriore asimmetria e cioè i paesi poveri o meno sviluppati debbono affrontarle con conseguenze devastanti in termini di distruzione di capitale e di ridistribuzione perversa della ricchezza. Quasi ovunque il pensiero unico ha proposto, e quando ha potuto, imposto, un modello fondato su alcuni capisaldi quali: una massiccia deregulation della economia; un’ampia autonomia del settore finanziario sia rispetto alla produzione di beni, sia rispetto al commercio, un’apertura rapida, massiccia, non bilanciata, dell’economia, un’esclusione delle Organizzazioni sindacali dai processi decisionali. La politica dello Stato minimo e leggero e lo spazio dato alla mano invisibile del mercato; il rifiuto dello Stato quale agente d’integrazione attraverso le politiche sociali, la flessibilizzazione preferibilmente non 8 contrattata del mercato del lavoro e dunque al di là da ogni ragionevole misura; l’attacco al Welfare; il riorientamento delle politiche pubbliche nella definizione tra vincenti e perdenti, ecc. tutto ciò è la conseguenza di un paradigma che si fa sempre più ideologia. Alla visione mercantilista della globalizzazione, non poteva certo sfuggire il mercato del lavoro: questi non ha altra via che adeguarsi alle regole del mercato globale. Paesi piccoli e grandi, provvisti e non di una qualsiasi forma di protezione o di welfare debbono funzionare sotto l’egida della flessibilità selvaggia e non contrattata, la magica bacchetta creatrice di lavoro e di ricchezza. In realtà anche la flessibilità, se contrattata tra, e con, le parti sociali può essere un utile strumento di creazione di occupazione e di ricchezza, ma questo è valido solo laddove vi sono forti organizzazioni di rappresentanza e degli interessi: laddove, invece, tali organizzazioni di rappresentanza non esistono o sono deboli, la flessibilità diviene un ennesimo strumento di sopraffazione e di dominio sociale. Un altro concetto importante del pensiero unico è quello del primato dell’economia sulla politica; il concetto essenziale della modernità selvaggia è l’autonomia del mercato. Per i neoliberisti, in sostanza, è il mercato che ripartisce nel migliore dei modi le risorse, gli investimenti e 9 il lavoro, «mentre la beneficenza e il volontariato privati devono sostituire la quasi totalità dei programmi politici destinati ai gruppi socialmente meno favoriti». La globalizzazione e la politica Da più parti si sostiene che l’affermarsi della globalizzazione comporta la sconfitta o la crisi della politica. Se così fosse per la società civile la globalizzazione rappresenterebbe non più una «opportunità» e nemmeno una sfida, bensì una minaccia. La sconfitta della politica e soprattutto il trionfo della globalizzazione economica di stampo neoliberistico può rappresentare una forte crescita delle disuguaglianze di reddito e dell’esclusione sociale. È inevitabile che la sola focalizzazione sul piano economico finirà per accrescere la domanda di governance, così come l’Unione europea dovrà, se vorrà consolidare le conquiste storiche dell’Unione monetaria, approfondire e consolidare una maggiore integrazione politica. In questo senso la visione ottimista della globalizzazione vede l’egemonia dell’economia come una fase di transizione che inevitabilmente sfocerà in una qualche forma di governo globale. Dopo tutto, dice Robert Bellah, «l’economia deve essere il nostro servo, non il nostro padrone». 10 Invece il compito della politica, consiste nel rendere chiaro all'opinione pubblica che la globalizzazione non può significare lasciar tutto in mano alle forze del mercato. Ma chi può esercitare capacità di governo e di controllo, si chiede Alain Touraine, quando costantemente si insiste su una realtà ormai discussa da pochi, e cioè la perdita di potere degli Stati nazionali? Se la rivoluzione tecnologica e la libertà di movimento dei capitali massacrano lo Stato, si chiede Mitchel Cohen, cosa si può fare dello Stato? Che ruolo può avere nella globalizzazione? Dov’è oggi, si chiede, Ralf Dahrendorf l’equivalente di quello che è stato il movimento operaio del diciannovesimo secolo? Come conciliare, si domanda Stefano Zamagni, l’idea dell’universalità dei diritti umani con la particolarità culturale dei popoli diversi? Le risposte ai quesiti appena esposti li può dare solo la politica, magari rinnovata nelle forme, nei concetti e nei contenuti. Ma è un compito che attiene alla politica. Ma anche il sindacato ha un ruolo da giocare e va espresso non solo attraverso la vigilanza e la mobilitazione sociale, che sono pure importanti, ma soprattutto su partecipazione e consapevolezza della gente. 11 Piccola impresa, sostenibilità e diritti La globalizzazione dei mercati, la liberalizzazione degli investimenti ha prodotto e continuerà a produrre straordinari cambiamenti nella struttura e nelle strategie produttive a livello locale e internazionale. Alla fine del 1999 gli investimenti diretti sono aumentati complessivamente del 25 % rispetto all’ano precedente per un totale di 827 miliardi di dollari, con un incremento non solo nei paesi industrializzati ma anche nei paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione, che hanno raggiunto un totale di 198 miliardi di dollari pari ad un aumento del 15 %, di cui solo 40 miliardi in Cina. L’Italia non è solo il quarto paese esportatore in Europa ed il sesto nel mondo, ma anche il sesto investitore in Europa e l’ottavo nel mondo. Secondo il rapporto Italia Multinazionale, la crescita degli Investimenti Diretti Esteri ha prodotto anche un aumento degli addetti legato alle nuove partecipazioni, pari a circa 110 mila lavoratori con circa 150 PMI, che per la prima volta hanno avviato attività produttive all’estero. Ma i dati relativi alla crescente presenza delle piccole e medie imprese, sia come esportatrici che come investitrici all’estero, 12 soprattutto nei settori direttamente produttivi mostrano un quadro del tutto parziale. I dati disponibili pubblicati da Simest, registrano a nostro avviso solo una parte della realtà quella che ha ottenuto in vario modo un sostegno istituzionale alla esportazione o alla internazionalizzazione. Moltissime piccole e medie imprese infatti tendono tutt’oggi a sviluppare in modo del tutto autonomo una loro presenza nei paesi terzi anche perché non raramente tale presenza nasconde pratiche scarsamente trasparenti, che possono risultare poi in dumping ed in fenomeni di concorrenza sleale. I cambiamenti produttivi introdotti negli ultimi anni e la crescente spinta alla concorrenza in un quadro di assenza totale di regole di sostenibilità sociale, hanno prodotto sempre più fenomeni distorsivi di grande rilevanza con effetti non secondari sulla sopravvivenza di interi settori produttivi più esposti alla internazionalizzazione e alla concorrenza internazionale e con una forte presenza di piccole e medie imprese, meno attrezzate strutturalmente a contrastare tali fenomeni. Se da un lato questi ultimi anni sono stati caratterizzati fortemente da fenomeni di fusioni e acquisizioni e da forti processi di concentrazione societaria, dall’altro si deve constatare che un altro fenomeno altrettanto rilevante è quello del forte decentramento, delocalizzazione 13 e frammentazione dei processi produttivi o di importanti pezzi di produzione in paesi terzi. Tale fenomeno di decentramento, attraverso forme di appalto, subappalto, franchising etc. si basa prevalentemente sulle piccole e medie imprese, sino ad arrivare addirittura a forme estese di lavoro informale e di microimpresa o a nuove forme di piccola impresa se si tiene conto della struttura del management in rapporto alnumero dei lavoratori allargata ma con una forte caratterizzazione di informalità. Politiche nazionali, accordi bilaterali e multilaterali, ma anche le politiche dell’Unione europea e dell’OCSE hanno sino ad oggi teso a promuovere gli investimenti diretti esteri ed in questo quadro, la presenza delle piccole e medie imprese senza pero avere concepito contemporaneamente un sistema di regole e di incentivi tendenti a far rispettare e a valorizzare obiettivi di sviluppo e di sostegno sociale e di promozione dell'occupazione ma anche a scoraggiare la concorrenza leale. Un esempio molto inquietante è il forte proliferare delle cosiddette zone franche o ad economia speciale. Più di 840 in tutto il mondo, senza contare la Cina dove il loro numero è arrivato a 1000. In queste zone le legislazioni nazionali incoraggiano gli investimenti diretti esteri attraverso il varo di normative che oltre a garantire la sospensione delle norme fiscali, la possibilità di riesportare gli utili 14 prodotti in tali aree, vietano, nella maggior parte dei casi, la applicazione delle norme del lavoro in materia di libertà sindacale, contrattazione, sciopero etc. Riteniamo opportune ed anche necessarie le politiche tese ad aumentare la competitività delle PMI nel quadro della globalizzazione economica e facilitarne la crescita. Ma ancora una volta sembra che in seno all’OCSE, vi sia una visione parziale e strabica, che non ritiene di dover includere nella definizione delle politiche e degli strumenti in grado di sviluppare una competitivittà credibile, anche le questioni che attengono alla cosiddetta “sostenibilità sociale e ambientale della piccola impresa in una economia globalizzata. Questa visione strabica fa si che ancora una volta in una sede come l' OCSE vi sia una assenza di sinergia tra le diverse politiche di questa organizzazione. Da un lato si sta faticosamente cercando di arrivare ad un accordo dignitoso entro la fine di giugno sulle linee Guida per le multinazionali, che comprendono impegni chiari in materia di rispetto dei diritti umani e sindacali, in materia di occupazione e di relazioni industriali e di tutela dell’ambiente e dall’altro si costruisce una occasione importante per analizzare le strategie di crescita delle piccole e medie imprese, senza che vi sia un pur minimo accenno a simili questioni. 15 Occorre allora partire dal presupposto di una forte politica di sostegno alla piccola e media impresa in cui però si ritrovi a pieno titolo la dimensione sociale ed ambientale. I governi nazionali e le istituzioni internazionali non possono permettersi, pena la perdita di credibilità di agire in modo poco trasparente e poco aperto al contributo delle organizzazioni sindacali. Le sfide sono estremamente complesse e non è certo con iniziative chiuse al dialogo e alla concertazione sovranazionale che si riuscirà a trovare il bandolo della matassa. Se da un lato l’innovazione è il fattore fondamentale per la competitività sia nei settori tradizionali che in quelli innovativi, sicuramente altri fattori dovranno essere presi in debita analisi: il funzionamento del sistema istituzionale, le infrastrutture, le normative fiscali, ma soprattutto la stabilità politica e sociale dei paesi in cui si sviluppano gli investimenti. E non c’è dubbio che la stabilità sociale è garantita dalla presenza di forti regole sociali, dalla partecipazione delle organizzazioni dei lavoratori ai processi decisionali sia interni all’impresa che sul piano nazionale. Si tratta allora di definire regole, incentivi e strumenti in grado di promuovere un vero e proprio sistema in grado di sostenere la piccola e media impresa, anche di promuovere in modo 16 adeguato la ricerca e lo sviluppo, la formazione professionale continua e soprattutto politiche occupazionali sinergiche agli altri fattori produttivi. Occorre dunque che sia l’OCSE che i governi nazionali si impegnino perché tutti gli strumenti e le politiche che vengano definite al fine di promuovere la piccola e media impresa contengano "condizionalità" chiare sul terreno dei diritti del lavoro e dell’ambiente. Per quanto riguarda l’Italia significa che il cosiddetto “sistema paese” deve includere la promozione all’estero del nostro modello di relazioni industriali e di politica della concertazione soprattutto in tema di occupazione, formazione professionale, etc. E ciò significa che la cabina di regia presso il CIPE e gli strumenti connessi debbano imparare a dialogare con il sindacato e a individuare gli obiettivi, gli strumenti, gli incentivi, ma anche condizioni sociali ed ambientali da richiedere alle imprese che accedono ai crediti e alle agevolazioni. Solo quest’anno la Simest ha ricevuto una dote di 20.000 miliardi. E‘ chiaro che non è più derogabile la negoziazione delle modalità e dei criteri socio ambientali con cui vengono dati i crediti, la qualità del sostegno tecnico alle piccole e medie imprese e soprattutto gli strumenti di verifica e di monitoraggio successivi. 17 Come tutti sanno buona parte dei crediti alla esportazione si sono poi trasformati in debito pubblico dei paesi in via di sviluppo. Si tratta pertanto di avere altresì idonee garanzie perché i crediti alla esportazione e alla internazionalizzazione delle PMI, ma anche delle grandi imprese, siano date secondo criteri di affidabilità non solo economica dell’investimento ma anche del quadro politico e sociale. Onde evitare gli errori del passato Allora è necessario che tali crediti siano condizionati dalla democraticità dei paesi in cui si intende investire, alla accettazione da parte delle imprese di un vero e proprio codice di condotta che le vincoli al rispetto delle riconoscimento del norme del diritto alla lavoro e dell’ambiente, organizzazione quindi sindacale e al alla contrattazione. Promuovere “il sistema Italia” dovrebbe significare misure di promozione del dialogo sociale tra le piccole e medie imprese del settore o di zona secondo anche la esperienza radicata in Italia di comitati bilaterali territoriali su questioni quali la salute, la sicurezza e l’ambiente, la formazione professionale etc. Appare altrettanto evidente che gli incentivi e i crediti dovranno essere condizionati anche alla accettazione di controlli esterni da parte 18 delle imprese, che potranno, se piccole e media, usufruire di sistemi di supporto tecnico e finanziario per la attuazione delle nuove misure condizionali. Non si tratta infatti di appesantire il sistema e di renderlo inapplicabile, al contrario, si tratta di contribuire anche in questo modo alla diffusione di una competitività basata su regole democratiche e non sul dumping sociale e ambientale. Questa impostazione dovrebbe essere introdotta non solo per quanto attiene alle misure di incentivazione della internazionalizzazione nel nostro paese, ma anche sul piano internazionale. Una buona occasione ci viene data da questo convegno ma anche dalla discussine in atto in seno all’OCSE per la revisione delle norme OCSE relative al funzionamento delle Agenzie di credito alla esportazione. Un ulteriore importante strumento riguarda la cooperazione tecnica con i paesi terzi in particolare i paesi in via di sviluppo. Anche su questo terreno si tratta di individuare progetti comuni di promozione della piccola e media impresa che tengano conto delle questioni suddette. Sarà anche qui imprescindibile il pieno coinvolgimento delle parti sociali nella definizione delle linee politiche ma anche nella loro realizzazione. Un terreno concreto di lavoro per l’Italia è già oggi l’area del mediterraneo e i paesi dell’est Europa. Soprattutto in questi paesi, che da un lato 19 entreranno a far parte dell’UE e dall’altro (il mediterraneo) di un mercato comune sarà importante accanto alla promozione della imprenditorialità e della piccola e media impresa, garantire, e non in modo residuale, la dimensione sociale. Ciò non solo per tutelare i lavoratori e le lavoratrici italiane e dei paesi interessati, ma anche per evitare che si crei in questa area di lavoro una forte concorrenza sleale. Il lavoro, il sindacato È da diverso tempo che nella pubblicistica italiana e non solo nell'area del centro destra, circola l'idea che il sindacato sia "di per sé" conservatore; così Panebianco pensa che il sindacato, che era uno strumento della lotta di classe e delle relazioni sociali derivati dall'Ottocento, oggi, con la globalizzazione, non ha più ragione di essere. I teorici del neoliberismo poi pensano che la società moderna non ha bisogno del sindacato poiché il rapporto del lavoratore con il mondo della produzione in rapida trasformazione è divenuto via via più individuale e i bisogni del lavoratore si esprimeranno sempre più in quanto cittadino e non più in quanto lavoratore. In realtà è proprio la globalizzazione che pone al sindacato nuove e maggiore sfide. La natura liberista dell'attuale processo di 20 globalizzazione assegna al movimento sindacale nuovi e più complessi compiti. Gli effetti della globalizzazione sul lavoro e sui sistemi di relazioni industriali sono alla luce del sole. Crisi degli stati nazionali, l'egemonia dell'economia sulla politica, la crescita contemporanea, soprattutto nei paesi non industrializzati polarizzazione sociale, le di ricchezza incontrollate e povertà, scorribande la crescente del capitale finanziario, etc sono solo alcuni degli effetti della globalizzazione liberista e senza regole dei tempi che corrono. Per il movimento sindacale internazionale, le politiche economiche, finanziarie e commerciali dell’economia globale sono considerate pericolose e persino nocive perché carenti di chiare forme regolative e perché ignorano la dimensione sociale. La globalizzazione pone al movimento sindacale la necessità di ripensare se stesso a cominciare dagli strumenti e dalle forme dell’azione sindacale; se la rivoluzione tecnologica ha posto l’esigenza di rappresentare le nuove professionalità, la globalizzazione richiede persino di ripensare le stesse forme della rappresentanza. Che l’esigenza di autoriforma sia qualitativa, lo dimostra il fatto che la globalizzazione richiede che i sindacati di aree geografiche diverse siano 21 posti davanti a problemi comuni dove emerge la necessità di rappresentare il lavoro in modo diverso, prima di tutto superando le stesse barriere nazionali nell’agire sindacale. Ritenendo che gli Stati nazionali e le stesse istituzioni finanziarie internazionali, finora non siano state in grado di governare la globalizzazione, il sindacato propone come lo strumento principe la partecipazione concertativa. E in questo senso vede nell’Oil la vera «sede della concertazione mondiale», come unico modo di espandere e creare consenso in favore della clausola sociale e dei concetti espressi nelle core conventions. Le esigenze di regolazione, di «governo della globalizzazione» prevalgono nel sindacalismo internazionale. Vi sono tuttavia ampi settori ostili alla stessa logica della globalizzazione. Tale ostilità deriva fondamentalmente dalle conseguenze che, nel breve periodo, derivano dalle politiche di libero commercio che finora ha avuto una logica asimmetrica. Molti sindacati vedono, nella richiesta di rispetto degli standard sociali e ambientali avanzata dai sindacati dei paesi industrializzati, una forma di protezionismo. Il sindacalismo europeo, in particolare quello italiano, non ha avuto dubbi in questi anni, nel considerare la globalizzazione come un fenomeno 22 positivo. Ma questo giudizio lo ha condizionato al superamento dell’esclusione «che colpisce due terzi dell’umanità» e al superamento della cultura del «pensiero unico» liberista incentrata nella prevalenza etica del mercato. Tuttavia la globalizzazione è ancora oggi un fenomeno politicamente e socialmente anarchico. Nei paesi industrializzati, il global market ha creato un triplice effetto negativo: un forte aumento dell’instabilità del lavoro e delle diseguaglianze salariali; una consistente riduzione della spesa sociale e dei consumi pubblici creando effetti depressivi ancor più consistente in quei paesi con scarsa mobilità di capitali; una crescita delle tensioni che tendono a degradare e deprezzare le norme di tutela sociale a livello nazionale, con l’obiettivo di affrontare gli effetti del dumping sociale che la globalizzazione porta con sé. E dunque anche nei paesi industrializzati che negli ultimi cinquant’anni hanno costruito la propria legittimità sociale su un ordine fondato sulla stabilità del posto di lavoro, sulla riduzione delle disuguaglianze e sulla sicurezza e protezione sociale, non c’è dubbio che le politiche liberiste, che vanno in senso opposto, creano le fondamenta per la crisi della coesione sociale. 23 In questo senso la globalizzazione, se non regolata e lasciata a briglia sciolta, può avere un carattere di vera e propria disintegrazione sociale. Più concretamente la globalizzazione, soprattutto attraverso la competizione internazionale, tende a ridurre la capacità sindacale di difesa dei livelli salariali e delle condizioni di lavoro; a ciò si aggiunga che, con la delocalizzazione, le imprese tendono alla ricerca di luoghi di investimento dove minore è la difesa sindacale e contrattuale. La globalizzazione è vista dal sindacato con criteri prevalentemente non ideologici valutando i rischi e le potenzialità sia sul piano della crescita che su quello dello sviluppo commerciale. Ma perché la globalizzazione non sia uno strumento di attacco alla coesione sociale il movimento sindacale è impegnato nell’affermazione di politiche tese alla creazione di regole che contrastino ogni forma di deregolamentazione selvaggia. L’azione sindacale, a cominciare dalla contrattazione, dovrà adeguarsi alle esigenze della globalizzazione che richiede forme più ampie e più articolate di negoziazione collettiva dove il livello nazionale e categoriale dovrà necessariamente combinarsi con quella regionale e sovranazionale, a partire dalle aree integrate. 24 Un primo intervento il movimento sindacale lo ha identificato nell’estensione della contrattazione collettiva. È opportuno elevare i livelli contrattuali fino a superare le frontiere nazionali per arrivare a vere proprie forme di negoziazione internazionale e mondiale. Nell'ambito di una strategia che punti a realizzare una vera e propria forma di governo della globalizzazione lo strumento principe è quello della concertazione a livello internazionale ma ad essa occorre affiancare una serie di proposte, per una riforma delle organizzazioni internazionali che consenta la partecipazione delle parti sociali agli stessi processi decisionali. In sostanza occorre un impegno serio per dare avvio a politiche che creino sinergie tra le istituzioni internazionali, i governi e le parti sociali. Globalizzazione e piccola impresa in Italia La piccola impresa rischia di diventare un modello retorico, nel momento in cui ci si accorge che gran parte della nuova occupazione si genera nel suo ambito. Come sappiamo la grande impresa da anni perde occupazione, al ritmo del 2% ogni anno. Siamo alla retorica, perché non si distingue fra situazioni in cui validità economica, diffusione e possibili politiche di sostegno sono fra loro ben diverse : 25 imprese minori che già vivono o nascono come satelliti della grande impresa, come subfornitrici di componenti e servizi. Con la modifica dei modelli organizzativi delle imprese maggiori e la liberalizzazione di settori di pubblica utilità, il fenomeno dell’outsourcing è in espansione; imprese con produzioni di nicchia particolari, sia di prodotti tradizionali che di prodotti servizi innovativi; imprese a base giuridica e patto associativo molto diverso, come imprese industriali, dei servizi, artigiane e cooperative. Notiamo che è in crescita soprattutto la piccola impresa nei servizi, con problematiche peculiari, indipendenti dalla globalizzazione dei mercati; imprese di distretti industriali su produzioni particolari, come seta, mobili, ceramica, meccanica, lana, plastica, calzature, prodotti di oreficeria. I distretti sono un fenomeno tipico della base industriale italiana. Nei distretti la piccola impresa allo stesso tempo ha una identità propria e si comporta come una cellula specializzata di un organismo vitale e complesso, il distretto, che agisce come il prodotto di una intelligenza collettiva, con meccanismi di adattamento e strategie proprie. Malgrado le previsioni, molti distretti industriali, sostenuti dalla rete istituzionale locale ( poteri locali, camere di commercio, banche ) hanno resistito alle crisi e proseguito nella internazionalizzazione delle vendite. In molti casi 26 si sono difese ricorrendo largamente al sommerso ed alle risorse di una estrema flessibilità. In ogni caso hanno innovato, dando prova di una grande vitalità nutrita da culture locali. Il distretto industriale non è comunque riproducibile in laboratorio, in quanto frutto di una irripetibile storia locale, fatta di capitale scarso, di intelligenza collettiva, di propensione al rischio e trasmissione di modelli imprenditoriali. In ciò rappresenta l’antitesi degli esperimenti di creazione di impresa per mezzi di agenzie specializzate (oggi riunificate in Italia Sviluppo ), che pur hanno dato qualche risultato positivo nel rispondere a crisi occupazionali locali. Nei distretti si tratta in sintesi di operare in queste dimensioni: La Formazione Innanzitutto di migliorare il bagaglio di competenze degli imprenditori e dei lavoratori, sia quelle di base e tecnico professionali, sia quelle cognitive che consentono una miglior capacità di interpretare tempestivamente i mutamenti e le tendenze nel territorio e mercato di riferimento. Questo tema richiama quello della formazione continua, assai poco diffusa nei distretti. L’innovazione, la ricerca, il trasferimento tecnologico I distretti dovrebbero essere in grado di attingere rapidamente ed in anticipo sulle crisi delle possibilità di attingere alle innovazioni nel 27 macchinario, a nuove possibilità offerte dalla ricerca di enti pubblici (CNR, ENEA) ed Università e dalla possibilità di adattare ai loro bisogni tecnologie già disponibili e sperimentate da centri di ricerca e grandi imprese (è il caso ad esempio delle tecnologie a compatibilità ambientale). Per fare ciò, è importante costruire o rafforzare i legami di scambio fra distretti, centri di ricerca ed università, rafforzando il potere di iniziativa e promozionale di organismi intermedi, come le Camere di Commercio, i centri che offrono servizi reali alle imprese, i poteri locali, gli sportelli di informazione e promozione. Le iniziative di cooperazione fra le imprese L’iniziativa a livello locale può favorire l’aggregazione di imprese per obiettivi comuni, in modo da superare i limiti della scarsità di risorse finanziarie, di competenze, di tempo a disposizione per nuove iniziative. Gruppi e consorzi possono nascere per sperimentare innovazioni tecnologiche ed ambientali, per risolvere con la ricerca un problema comune, per formarsi ed informarsi, per usufruire di un particolare servizio, per esportare, per partecipare a fiere ed EXPO, per promuovere un marchio di qualità e l’immagine di un prodotto sui mercati internazionali. In questi casi l’unione fa la forza competitiva, specie se il tessuto locale è favorevole e si adopera a favore. Anche questo è un 28 terreno in cui c’è molto da fare, specie per le iniziative di respiro strategico. Il commercio elettronico Il commercio elettronico è la novità che sta infiammando l’immaginazione dei governanti nei Paesi avanzati, percepito come mezzo per superare le barriere della distanza e del tempo nei Sud di tutto il mondo. Concertazione, dialogo sociale, partecipazione, patti territoriali, democrazia economica Lavorare con questi obiettivi sul territorio significa, anche in base alle esperienze già attuate, esplorare fino in fondo i percorsi di concertazione, partecipazione, dialogo sociali, spostandoli dall’ottica delle imprese a quelle del territoriali. Contratti d’area e patti territoriali, pur non adeguatamente sostenuti e gestiti dal governo e dalle istituzioni locali, sono un esempio delle potenzialità di intervento efficace nella realtà, se sostenuto da un metodo che rafforza la sinergia di comportamenti differenti indirizzati verso obiettivi condivisi dalle parti sociali e dal governo, nazionale e locale. Il tipo di partecipazione, spesso definito come "relazioni industriali partecipative", è la novità più rilevante del panorama delle relazioni industriali italiane dell'ultimo decennio. In essa si accentua la visione 29 delle parti sociali come soggetti responsabili, che pur facendo riferimento ad interessi diversi possono avere obiettivi comuni. Si va oltre l'ammissione reciproca del diritto all'esistenza per muoversi nel riconoscimento concreto della reciproca utilità sociale. Questa visione è confermata dalle moderne teorie d’impresa, dove il lavoratore, insieme agli azionisti ed alle comunità che gravitano intorno all’impresa nel territorio di riferimento, è considerato un attore alla pari degli altri, in grado di influenzare considerevolmente risultati e comportamenti delle imprese. A sette anni dall’accordo del Luglio 1993, che ha dato impulso a pratiche di partecipazione e concertazione, non possiamo ancora parlare di un modello italiano compiuto. E’ lontana da forme accettabili di democrazia del lavoro l’area delle imprese minori e dei servizi; stenta a decollare, anche dove le condizioni sarebbero favorevoli, qualsiasi forma di partecipazione. Riteniamo che lo sviluppo delle imprese minori a livello territoriale possa essere un banco di prova importante per la concertazione e la partecipazione; per rilanciare cioè la seconda parte dell’accordo ‘93 e dei successivi patti per i lavoro nel livello territoriale, forti del successo del contenimento dei costi e dell’inflazione, possiamo avere, come attori locali, le carte in regola nella promozione dello sviluppo e dell’occupazione. 30 Saranno questi gli argomenti sui quali si giocherà l’iniziativa e la credibilità del sindacato italiano nei prossimi anni. Considerazioni conclusive Il documento predisposto per la Conferenza non ci soddisfa perché contraddice totalmente le politiche dell’OCSE e quanto stabilito dalle linee guida sulle Multinazionali che prevedono un capitolo specifico sull’occupazione e sulle relazioni industriali oltre ad uno specifico sull'ambiente. La Carta non fa alcun riferimento alla necessità di sviluppare a livello OCSE nazionale e territoriale l’occupazione, il dialogo e la concertazione tra le parti sociali per la promozione delle PMI. Anche per quanto riguarda il coordinamento delle politiche delle PMI con le altre politiche governative, non c’è alcun accenno al sindacato. Tra gli obiettivi non c’è la promozione dell’occupazione né tanto meno la definizione di condizioni sociali (rispetto delle norme fondamentali del lavoro e dell’ambiente, corrette relazioni 31 industriali) per accedere a programmi e incentivi, agevolazioni fiscali e tariffarie. Infine, il documento presentato dal Governo italiano, l’11 febbraio scorso, ai governi dell’OCSE, per la creazione di un network per le PMI, è stato predisposto senza alcuna consultazione con il sindacato al pari di quanto accaduto negli altri Paesi europei. L’impegno di CGIL CISL UIL durante i lavori della Conferenza mirerà all’accoglimento nel documento conclusivo delle nostre priorità. 32