Il costituzionalista europeo come osservatore partecipante della democrazia europea1 Jörg Luther, Università del Piemonte orientale 1. La bonaccia precede la tempesta. Qual è lo stato della democrazia in Europa ? Se è uno stato non solo oggettivo, istituzionale, ma anche soggettivo, d’animo e d’identità, le domande devono essere poste in primo luogo agli Europei. Proviamo ad immaginare domande e risposte. Forse i più sarebbero d’accordo che siamo fieri di essere Europei, ma non di avere un’Unione europea. Alcuni esprimerebbero disagio, altri disinteresse. Forse i più direbbero che ci sentiamo meno sovrani nell’Unione che nel “proprio” Stato costituzionale. Forse i meno, magari qualche uomo politico o giudice costituzionale, si sentirebbero “signori” dell’Europa e della sua Unione, ma forse anche ai meno verrebbe di dire che lo Stato nazionale e la democrazia “siamo noi”. Forse non pochi si sentirebbero più osservati che osservatori. Se guardiamo in effetti all’eurobarometro2, la condizione meteorologica dell’Europa indica “bonaccia”. Già nell’autunno del 2008, solo 1 su 3 cittadini europei avevano intenzione di andare a votare. Nella primavera del 2009, la percentuale di coloro che credono di contare nel’Unione è salita dal 30 al 38 %.3 La percentuale cresce nei paesi più ricchi e scende in quelli meno ricchi. Il 40 % sceglie come simbolo dei valori europei l’Euro, solo il 37 % la democrazia.4 Il parlamento europeo gode sempre di una fiducia maggiore (48%) rispetto alla Banca centrale e simile a quella dell’intera Unione (47 %). La maggioranza assoluta crede tuttavia che l’Europa sia cresciuta troppo velocemente. Politicamente, la (stessa ?) maggioranza si collocherebbe più a sinistra (1-5) che a destra (6-10) (media europea: 5,2). Mentre il 15 % dei cittadini opterebbe per un recesso del proprio paese dall’Unione, l’81 % auspica una maggiore contributo dell’Unione alla promozione della democrazia nel mondo. Ai tempi della crisi finanziaria, l’Unione fa quindi sperare non solo l’industria automobilistica, ma non tanto in uno sviluppo della democrazia a livello europeo. Il giurista europeo non potrà certo creare il vento, né prevedere da quale direzione del cielo e della terra tornerà. Semmai può cogliere il momento per contribuire allo sviluppo di una cultura costituzionale europea in grado di resistere alle tempeste future. In questa ottica, le osservazioni che seguono focalizzano prima tre contributi giuridici alla teoria della democrazia, per affrontare poi tre questioni pratiche della democrazia nel diritto pubblico dell’Unione europea. 2. Rispettare la dignità del cittadino europeo sovrano. Secondo una felice intuizione di Peter Haeberle5, la democrazia è una conseguenza organizzativa e, si potrebbe aggiungere, una garanzia “politica” della dignità umana. La dignità umana va riconosciuta nella vita privata e in quella pubblica, è personale e sociale, civile e politica. Questo legame tra dignità e democrazia non crea diritti nuovi, perché la tutela giuridica della dignità umana non va disgiunta da quella dei diritti umani che la concretizzano, ma significa riconoscere anche il carattere fondamentale dei diritti politici. Questo non Versione rielaborata di un intervento presentato al convegno “La Construcción del Derecho Constitucional Europeo. Congreso Internacional en Honor de Peter Häberle, con motivo de su 75 aniversario”, Granada 14/ 15 maggio 2009, all’indomani delle elezioni europee e della sentenza del Tribunale costituzionale di Karlsruhe sul trattato di Lisbona. 2 Standard Eurobarometer n. 70 e 71, autunno 2008 e primavera 2009. 3 In alcuni paesi come Lituania, Romania e Italia, la percentuale di coloro che credono di contare politicamnte a livello nazionale è ancora inferiore. 4 Nella primavera 2009, alla domanda che cosa significa l’Europa per Lei personalmente, il 42% rispondeva libertà di circolazione, 33% l’Euro, 25% pace, 22 % democrazia, 19 % diversità culturale, 19% burocrazia, 13% disoccupazione. 5 Europäische Verfassungslehre 4° ed., Baden-Baden 2006, 295ss. 1 significa quindi desumere dal diritto alla dignità umana necessariamente un diritto alla democrazia, ma quanto meno il dovere di garantire dei diritti politici “dignitosi”. Coloro che non hanno scelta politica, ai quali si nega il diritto di voto, il diritto di petizione politica e il diritto di migrare, hanno una dignità disconosciuta. Anche la “dignità politica” è resa possibile dai diritti umani che sotto questo profilo precedono logicamente i diritti della “sovranità popolare”. La dignità umana non è un compito dello Stato, ma può essere solo compito del cittadino. La dignità politica è quindi rimessa alla ricerca d’identità di ogni cittadino. Le carte costituzionali europee liberano, promuovono ed orientano questa ricerca, offrendo anche con le garanzie dei diritti politici un minimo di speranza e di sicurezza, cioè sensori di ingiustizia e dispositivi di assicurazione. Nello spazio e ai tempi dell’Unione europea, i sensori e i dispositivi dell’assicurazione delle carte nazionali tuttavia non si limitano allo stato nazionale. Nella misura in cui legittimano anche l’integrazione europea e una politica internazionale, tali diritti politici si espandono e pretendono di valere anche su scala sopra- ed internazionale. Se il cittadino ha poca speranza e molta insicurezza di fronte alle “politiche” e alle istituzioni dell’Unione europea, i giudici costituzionali europei non possono ignorare questo stato d’animo quando giudicano questioni connesse ai sensori e ai dispositivi della politica. Ma non spetta loro la cura delle anime, né una giurisdizione volontaria nella politica europea, semmai la manutenzione dei sensori e dei dispositivi costituzionali dei cittadini. 3. Difendere il buon costume democratico europeo. Gustavo Zagrebelsky6 sostiene che la democrazia sia un conflitto perenne per l’inclusione, una lotta “contro le oligarchie sempre rinascenti nel suo interno”. La democrazia europea, come insegnano le esperienze del totalitarismo, va difesa dal “nichilismo del puro potere” non meno che dall’”assolutismo della verità dogmatica”. Anche contro coloro che con parole ingannevoli vorrebbero che la democrazia fosse solo “of the people”, una proprietà senza garanzia di rendita, o solo “by the people”, un’azione populista telecomandabile, o solo “for the people”, una tutela paternalistica. Si potrebbe aggiungere che il monito transatlantico del Lincoln di Gettysburg (“that government of the people, by the people, for the people, shall not perish from the earth”), lungi dall’invocare un presidenzialismo mondiale, ammonisce gli europei a non dimenticare mai la fragilità delle proprie culture democratiche. La democrazia non può vivere senza un ethos di civiltà repubblicana che per Zagrebelsky consiste nella cura della personalità individuale, nel senso dell’uguaglianza, nell’apertura verso la diversità, nell’atteggiamento sperimentale, nella diffidenza verso le decisioni irrimediabili, nel senso di responsabilità di maggioranza e minoranza, e in un atteggiamento di fiducia reciproca sulla quale dobbiamo fondare la fiducia in “noi”.7 Siccome i riti della democrazia non trasformano i sudditi automaticamente in cittadini, questo ethos democratico esige, se non una religione civile, quanto meno una educazione civica e una cultura (o patriottismo) costituzionale diffusa. Di fronte a questa pretesa, tuttavia, alcuni temono eccessi di moralismo, di censura e di egemonia culturale giacobina. A livello europeo, questi timori – non solo italiani - possono rafforzarsi se si dubita dell’esistenza di una sfera pubblica europea. Non è detto che tutti concordino ad assumersi sin da subito un dovere “civico” universale di ragionevolezza e mitezza di ogni cittadino europeo, essendo la ragionevolezza più una virtù dei governi che non un dovere dei cittadini. Tuttavia, è possibile individuare un comune denominatore minimo di buon costume democratico europeo secondo cui negli affari pubblici deve essere vietata ogni forma di “cinismo” distruttivo.8 I recenti casi europei della satira religiosa dimostrano che i contesti culturali nei quali si definiscono i casi di applicazione del “buon costume democratico” sono peraltro sempre meno nazionali e sempre più europei o globali. Il 6 Da ultimo: www.biennaledemocrazia.it/pdf/lezione_zagrebelsky.pdf (23. 4. 2009). Cfr. già G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Roma 2005, 27ss. 8 Cfr. P. Sloterdijk, Kritik der zynischen Vernunft, 1983, trad it. Critica della ragion cinica, Milano, 1993. 7 costituzionalista, da osservatore partecipante, non deve cedere al pessimismo cinico, ma confidare nella capacità dei cittadini di “farsi” democratici da sé, almeno in Europa. 4. Imparare la democrazia promessa e quella pretesa dagli Europei. Christoph Möllers9 cerca di contribuire alla cultura democratica l’idea che nella democrazia il posto della ragione viene occupato dalla volontà. Nella democrazia ci promettiamo (Versprechen) solo eguale libertà, non già una vita buona o una vita senza potere. La democrazia deve fondarsi sempre di nuovo su una volontà prodotta in procedure giuridiche che pretendono coraggio (Zumutung) e responsabilità, fiducia nella forza del buon argomento e umiltà tra egualmente deboli. L’ideale della democrazia non sarebbe il consenso implicito, perché l’identità democratica si formerebbe attraverso il conflitto esplicito. A queste tesi andrebbe obiettato che la necessaria volontarietà della democrazia, tuttavia, non deve escludere procedure “deliberative” diverse dalla decisione a maggioranza semplice.10 Né conviene concepire una democrazia fatta di soli cittadini egualmente liberi senza forme di pluralismo sociale e politico. Altrimenti si rischia di credere che l’Unione europea non possa trasformarsi in democrazia per via pattizia e che i referendum nazionali contro il trattato costituzionale siano stati “l’unica cesura democratica del processo costituente”. In effetto lo stesso Möllers riconosce che il federalismo democratico può promettere e produrre “eguale libertà” non solo tra Stati, ma anche tra cittadini, ad es. degli schiavi negli Stati Uniti o delle donne nell’Unione europea.11 A livello europeo egli ritiene pertanto possibile procedure che rendano il governo dell’Unione più democratico, anche senza trasformarla in una democrazia sostitutiva di quella nazionale. Non solo i parlamenti, anche i cittadini devono imparare la propria responsabilità democratica rispetto all’internazionalizzazione. Proprio a questo punto va aggiunto che questo esattamente è la volontà non solo della classe politica, ma anche dei cittadini degli Stati peraltro documentata da numerose riforme costituzionali. La volontà di imparare la democrazia, promettendosi eguale libertà non solo nello Stato nazionale ma anche in Europa, è una volontà dichiarata non solo dalla costituzione del popolo che costituirebbe numericamente la maggioranza relativa. Se con questa promessa avessimo preteso troppo da noi medesimi, dovremo dichiararci falliti come cittadini. La volontà di un’Europa più democratica non è una chimera e non viene revocata da chi si astiene dalle elezioni all’attuale Parlamento europeo. Ma il costituzionalista osservatore partecipante non può firmare una simile dichiarazione di fallimento, deve riflettere e consigliare il cittadino su come rafforzare i propri diritti politici.12 A questo riguardo occorre studiare innanzitutto il meccanismo elettorale, essendo lo stesso parlamento l’istituzione nella quale il cittadino pretende di trovare voice e modelli per imparare la democrazia. 5. Riformare il sistema elettorale europeo. Sappiamo che i partiti politici a livello europeo sono ancora deboli, che le campagne elettorali continuano a svolgersi più a livello nazionale che europeo e che l'affluenza generale alle elezioni del Parlamento è diminuita costantemente. In questo contesto problematico, l’art. 190 co. 4 TCE ha demandato al parlamento europeo il compito di progettare l’elezione a suffragio universale diretto secondo una procedura uniforme in tutti gli Stati membri o secondo principi comuni a tutti gli Stati membri. Il sistema elettorale proporzionale è oggi comune a tutti gli Stati membri (ad eccezione del Regno Unito), ma persistono divergenze nella configurazione 9 C. Möllers, Demokratie - Zumutungen und Versprechen, Berlin 2008. J. Elster, Torino talk on deliberative democracy, http://www.biennaledemocrazia.it/pdf/lezione_elster.pdf 11 C. Möllers, op. cit., 88ss. Cfr. ora anche la sua critica alla sentenza di Karlsruhe sul trattato di Lisbona in: Frankfurter Allgemeine Zeitung 16. 7. 2009. 12 Sotto questo profilo sia consentito il rinvio a J. Luther, The Union, States and Regions: ho do we develop multilevel rights & multilevel democracy ?, in: U. Morelli (ed.), A Constitution for the European Union, Milano 2005, 123ss; trad. it.: Unione, Stat, Regioni: come sviluppare la democrazia multilevel, in: Europa costituenda, Torino 2007, 119ss. 10 delle circoscrizioni elettorali e nella disciplina del voto di preferenza. Il trattato di Lisbona ha rinnovato il mandato di uniformazione (art. 14), sancendo il principio della proporzionalità digressiva e stabilendo inoltre che il Parlamento "è composto di rappresentanti dei cittadini dell'Unione" (art. 10 TUE) – mentre l'attuale definizione dei membri del Parlamento europeo è quella di soli "rappresentanti dei popoli degli Stati riuniti nella Comunità" ponendo l’obiettivo ulteriore garantire che il Parlamento sia composto da “rappresentanti dei cittadini dell’Unione” (art. 10 co. 2 TUE). Una commissione presieduta da Andrew Duff ha proposto una serie di elementi di riforma per le elezioni del 2014 quali l’obbligo di istituire circoscrizioni territoriali in tutti gli Stati membri la cui popolazione supera i 20 milioni e la facoltà di istituire circoscrizioni speciali per le minoranze linguistiche, l’introduzione di sistemi di voto di preferenza, di uniformare i giorni dell’elezione, di stabilire come età minima per il voto 16 anni e per la candidatura 18 anni, di sviluppare votazioni elettroniche e di fondare l’assegnazione dei seggi sul criterio del numero dei cittadini anziché su quello degli abitanti. A questi elementi – che necessitano di essere approfonditi sotto profili costituzionali - si aggiunge soprattutto che “al fine di ampliare la scelta dell'elettore, di rafforzare la dimensione europea delle campagne elettorali e di sviluppare il ruolo dei partiti politici europei, sarà creato un collegio unico supplementare corrispondente all'intero territorio dell'Unione europea; il numero dei deputati eletti in questo collegio transnazionale sarà pari al numero degli Stati; le liste transnazionali saranno composte di candidati provenienti da almeno un quarto degli Stati e saranno equilibrate per genere; ciascun elettore disporrà di un voto per la lista UE in aggiunta al suo voto per la lista nazionale o regionale; si tratterà di un voto di preferenza in base al sistema delle liste "semiaperte"; i seggi saranno assegnati col metodo Sainte-Laguë (…) i candidati potranno presentarsi alla stessa elezione sia per il collegio UE che per le circoscrizioni nazionali o regionali (…)”. L’idea di creare un collegio plurinominale continentale potrebbe premiare i partiti europei e forse garantirebbe anche una competizione più equa tra partiti euroscettici e partiti euro-ottimisti. Qualche dubbio tuttavia rimane. Non rischiano i 27 parlamentari eletti nella circoscrizione continentale da un lato pretendere una legittimazione democratica superiore rispetto agli altri, dall’altro rappresentare solo una minoranza inferiore a quella della clausola di sbarramento ? Ma se si aumentasse il numero dei parlamentari eleggibili nella circoscrizione continentale, come si può potrebbe garantire in essa il rispetto del principio di proporzionalità digressiva ? O sarebbe possibile, per venire incontro ai dubbi della sentenza del Bundesverfassungsgericht, prevedere per questa circoscrizione, in virtù del principio dell’eguaglianza democratica, una proporzionalità non digressiva, cioè attenuare la digressività e renderla non lineare ? In fondo, i giudici costituzionali tedeschi avevano censurato solo il progetto precedente nella proposta di libera del 11 ottobre 2007 sottolineandone il carattere non vincolante. La riforma elettorale potrebbe offrire un’occasione non tanto per rinegoziare il trattato di Lisbona, ma piuttosto per promuovere la democraticità del parlamentarismo europeo.13 Qualche incentivo a una più equilibrata e meno frammentata rappresentanza potrebbe offrire sin da subito una regola che obbligasse gli stati membri a consentire l’utilizzo sulla scheda dei simboli dei partiti europei accanto a quelli nazionali. Un’ulteriore elemento di riforma sarebbe poi l’estensione l’incompatibilità tra cariche parlamentari europee e nazionali alle cariche ministeriali nazionali. Il costituzionalista riformista deve tuttavia guardare al di là delle strettoie della competizione elettorale nazionale. 6. Promuovere forme di democrazia diretta europea. Le teorie europee più recenti della democrazia rafforzano l’idea che la legittimazione democratica dell’Unione europea non può essere solo derivata 13 Sul quale cfr. sotto il profilo teorico la discussione habermasiana in E. Oddvar Eriksen, Deliberation und demonkratische Legitimität in der EU, in: P. Niesen / B. Herboth (eds.), Anarchie der kommunikativen Freiheit, Frankfurt 2007, 294ss. da quella degli stati membri, i cui popoli o le cui popolazioni diventerebbero altrimenti solo “mezzi” o “risorse” di legittimazione del potere dei governi nazionali sull’Unione stessa. Questa idea si riflette in parte anche nel trattato di Lisbona che si richiama non solo alla democrazia rappresentativa fondata sull’elezione diretta del parlamento europeo (art. 10 co. 1 e 2 TUE). La nuova “democrazia partecipativa” (art. 10 co. 3 TUE)14 pretende di rimediare almeno parzialmente alla tendenziale passività dei cittadini europei rispetto alle istituzioni comunitarie, ma rischia di restare comunque “auditive democracy”.15 Fino a che punto, la democrazia partecipativa potrà assorbire elementi di democrazia diretta ? Se per democrazia diretta si intende anche l’esercizio della libertà di riunione e di associazione, solo l’ultimo elemento della democrazia europea è costituito dai partiti politici che hanno il compito di contribuire “a formare una coscienza politica europea” e a “esprimere la volontà dei cittadini dell’Unione” (art. 10 co. 4 TUE).16 Un modo per esprimere non solo un argomento, ma anche una volontà potrebbe essere l’organizzazione di un referendum intrapartitico su scala europea. La “conventio ad escludendum” nei confronti di simile iniziative potrebbe derivare dalle esperienze dei referendum sui trattati dell’Unione. L’idea della Spagna, di instaurare cinque anni orsono con il proprio referendum facoltativo sul trattato costituzionale una spirale di virtù democratica europea si è infranta nei referendum nazionali di Olanda e Francia e anche il trattato di Lisbona rischia un secondo no irlandese. In caso di future revisioni dei trattati, nulla vieterebbe di concordare prima della loro ratifica l’organizzazione di referendum nazionali simultanei in tutti quei paesi dove non fossero vietati dalle costituzioni nazionali. Anche una revisione delle costituzioni nazionali per rimuovere eventuali divieti di referendum in materia europea non costituirebbe di per sé una violazione dei principi supremi delle costituzioni europee.17 Un inizio di democrazia diretta de jure condendo potrebbe invece essere offerto dall’istituto dell’iniziativa popolare di cui all’art. 11 co. 4 TUE (“Cittadini dell'Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono prendere l'iniziativa d'invitare la Commissione europea, nell'ambito delle sue attribuzioni, a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico dell'Unione ai fini dell'attuazione dei trattati.”). Tale iniziativa potrà avere ben altro peso rispetto ad una petizione di massa al parlamento europeo. Nella misura in cui la Commissione resta titolare dell’iniziativa legislativa e dell’iniziativa di modifica dei trattati, queste iniziative potrebbero essere precedute da referendum intra-partitici europei. Forse, un’iniziativa civica potrebbero avere ad oggetto anche la proposta di organizzare un referendum consultivo su scala europea, cercando di valorizzare la democrazia partecipativa su una singola questione in modo tale da dare un peso “quasi direttivo” al voto del popolo. I trattati certo non consentono una delega delle competenze conferite alle istituzioni, ma nella misura in cui il referendum consultivo rientra in materie di competenza della Commissione, una tale proposta potrebbe essere non “inappropriata”. Se si volesse invece desumere dai trattati una riserva pattizia (interpretandola come una Costituzione), nulla vieterebbe di raccogliere le firme per chiedere in via subordinata una tale integrazione. Sarebbe viceversa contrario allo spirito della democrazia europea se le istituzioni stese volessero farsi promotori di un referendum consultivo. Anche sotto questo profilo, la democrazia europea deve poter rafforzarsi autonomamente. Art. 10 co. 3 TUE: “Ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell'Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini.” 15 H. Brunkhorst, Zwischen transnationaler Klassenherrschaft und egalitärer Konstitutionalisierung, in: P. Niesen / B. Herboth (eds.), Anarchie der kommunikativen Freiheit, Frankfurt 2007, 325. 16 Cfr. ora il contributori T. Jansen, Il Partito Popolare Europeo. Origini e Sviluppo, Bruxelles 2006. 17 Cfr. soltanto per il dibattito tedesco S. Kadelbach (a cura di), Europäische Verfassung und direkte Demokratie, BadenBaden 2006. 14 7. Sostenere il carattere inclusivo della democrazia europea. Le teorie della democrazia divergono sulla questione, se la democrazia europea debba diventare più inclusiva o meno. “È democratico decidere chi deve fare parte della comunità democratica”, sostiene la teoria del volontarismo.18 Ma anche questa teoria ammette che, nella misura in cui gli ospiti sono gravati di doveri e tributi e i loro figli si identificano con il luogo della propria nascita, l’esclusione dello straniero dalla democrazia partecipativa può diventare arbitraria. La promessa democratica non chiude la cerchia dei suoi destinatari, impone anche di rispettare possibili partecipanti futuri. Il carattere inclusivo della democrazia europea pone problemi non solo con riguardo all’estensione dei diritti di voto. Anche l’amministrazione del diritto di asilo politico e dei diritti all’ospitalità dei rifugiati esige un esame di coscienza per la cultura democratica europea. Se la libertà di circolazione è un diritto politico fondamentale per la democrazia europea dopo il 1989, potrebbe essere quanto meno incoerente impedire la circolazione di coloro che subiscono persecuzione per aver preteso democrazia fuori dall’Europa. Una democrazia senza solidarietà con i democratici perseguiti comprometterebbe il proprio ethos di eguale libertà.. La democrazia inclusiva inoltre non potrebbe essere unilaterale. Il rispetto dei vincoli del diritto internazionale, dal punto di vista della democrazia europea non potrebbe mai significare illegittimo governo degli stranieri. Nella misura in cui tali vincoli discendono da trattati ispirati dalle democrazie occidentali, riproducono tutt’al più una egemonia democratica. Ne consegue che anche una democrazia deve rispettare i patti ratificati e le consuetudini condivise, non potendosi con il richiamo alla sovranità popolare, manifestata eventualmente tramite referendum, svincolare dai patti ratificati dai rappresentanti dello stesso popolo.19 La democrazia inclusiva infine non potrebbe non essere aperta al federalismo democratico. A livello europeo, l’Unione Europa ha faticato non poco ad aprirsi verso l’oriente. Per partecipare al nostro successo economico, i paesi orientali hanno dovuto cambiare le loro costituzioni, condividere la nostra democrazia e il nostro stato di diritto. L’esame di democrazia era stato preparato nel Consiglio d’Europa, la documentazione certificata dalla Commissione di Venezia. Non pochi costituzionalisti sono stati felici di poter “assistere” le trasformazioni di queste nuove democrazie. Resta tuttavia il problema se è compatibile con il principio di democrazia inclusiva l’idea di far decidere un referendum nazionale su ogni futuro allargamento dell’UE. Il trattato di Lisbona disciplina i requisiti e la procedura, prescrivendo peraltro unanimità in Consiglio e rimettendo la disciplina delle condizioni per l'ammissione e gli eventuali adattamenti dei trattati ad un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente, sottoposto alla ratifica di tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro norme costituzionali (art. 49 TUE). Fino a quando l’Unione europea è soltanto un’associazione di democrazie, gli stati membri che negoziano l’allargamento devono essere liberi di rimettere le proprie decisioni ad un controllo preventivo del corpo elettorale, anche quando producono nuovi vincoli associativi. Il tutto sempre nel rispetto dei limiti costituzionali, in Italia quindi solo dietro revisione dell’art. 75 co. 2 cost., e della buona fede del diritto internazionale, che potrebbe essere violata dalla creazione di procedure di referendum ad hoc. Nella misura in cui la stessa Unione pretende una propria legittimazione democratica in forme federali, un simile referendum nazionale rischierebbe tuttavia anche di non rispettare più l’eguale libertà. In effetti, conferirebbe ai cittadini europei di uno stato più potere che ai cittadini degli altri. La lealtà federale e l’inclusività democratica esigerebbe pertanto, qualora non fosse esperibile una via di referendum europeo comune, di prendere la decisione sul referendum nazionale quanto meno al 18 19 C. Möllers, op. cit., 24. Cfr. H. Krieger, Die Herrschaft der Fremden, Archiv des öffentlichen Rechts 2008, 315ss. momento della delibera per consentire un coordinamento delle procedure. Il procedimento dovrebbe garantire una par condicio ai fautori nazionali ed europei dell’allargamento. Sarebbe inoltre una forma di cinismo incompatibile con i valori europei se la campagna referendaria fosse condotta con retoriche fondate su discriminazioni razziali: votiamo se fare entrare i lupi che bussano alla porta ? Nulla vieterebbe infine di chiedere anche allo Stato entrante di organizzare un referendum sull’adesione.