Enzo Papa
I FUTURISTI E SIRACUSA
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I FUTURISTI E SIRACUSA
In
questo anno 2009, centenario della nascita del Futurismo
(febbraio 1909), già non si contano più le manifestazioni per
ricordare il movimento che, nel bene e nel male, divampò
all’inizio del secolo scorso con le sue raffiche di irrazionale e
permeò di sé gran parte della cultura della prima metà del
Novecento, non soltanto in Italia. Tutti i campi della creatività
furono toccati, dalla pittura alla scultura, dalla poesia alla
narrativa, dalla musica al teatro, dall’architettura alla grafica
pubblicitaria, dalla fotografia alle arti applicate, perfino alla
cucina, all’arte culinaria. Neppure la politica rimase estranea:
facinorosi e spocchiosi interventisti furono i futuristi, fedeli
all’urlo marinettiano “Guerra, sola igiene del mondo!”, anche
se qualcuno igienicamente vi lasciò le penne. E poi,
naturalmente, fascisti.
Che Marinetti abbia avuto particolare predilezione per la
Sicilia, terreno assai fertile per le sue idee futuriste, terra di
stregamenti e di enigmi adatta a dare sfogo alle sue demonìe, è
cosa conosciuta: egli stesso, già nel primo dei suoi
propagandistici viaggi nella nostra isola, nel 1911, ebbe a
dichiarare: “Vengo in Sicilia perché amo questa isola radiosa;
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vi ho molti amici; mi sento un po’ siciliano; sono nato in
Alessandria d’Egitto, e il primo lembo di terra che ho toccato
è stata la Sicilia”. Ma anche nella sua produzione letteraria
non mancano espliciti riferimenti, da perfetto alchimista in
finanziera e bombetta, alla nostra terra: nel poema
versoliberista Le Monoplane du pape, pubblicato a Parigi nel
1912, definisce la Sicilia “nuovo cuore d’Italia balzato fuori
dal suo petto nello slancio della conquista” e ancora, in
quell’opera, riceve il battesimo del fuoco dal “padre Etna”,
protagonista dei primi tre capitoli, che appare ulteriormente
nel dramma Vulcano che nel 1926 Pirandello metterà in scena
con la sua Compagnia al Teatro Valle. Ecco cosa scrive nell’
Ode ai Siciliani:
…
Palermitani! Mi vedete venire?
Son io! Son io! Applauditemi! Sono dei vostri!
Sembra il mio monoplano
Un gigantesco uomo bianco
Ritto sul trampolino delle nuvole,
che aperte le braccia si chini
per tuffarsi repente nella vostra fremente
aurora siciliana!
In quella rada violacea, bagnata di silenzio,
un villaggio dormente
si tira ancora sugli occhi dei suoi vetri vermigli
il serico morbido azzurro lenzuolo del mare.
E quell’altro villaggio, come un pezzo di ferro
arroventato dal sole
fuma tra le tenaglie cangianti del mare.
Urrà! le giovani campane di Palermo
mi hanno già scorto… si slanciano, allegre,
sulle loro altalene infantili
e avanti e indietro si dondolano
per ventilare le loro gonne ronzanti
e le loro gambe addentate
da un folle desiderio di libertà…
Campane di Palermo! Eccomi! Eccomi!
Per godere i vostri lunghi slanci sonori,
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io tolgo l’accensione, e filo verso di voi
come un lungo canotto bianco
che sollevi la sua doppia fila di remi
alla meta di una regata!
Tu mi appari da lungi, Palermo,
come un formidabile arsenale militare
difeso a destra e a sinistra dalle mura dei monti.
Quella tua lunga strada in pendio che si tuffa nel mare
fa con la doppia linea delle sue bianche terrazze
un enorme cantiere
su cui può scivolare la “Dreadnought” ideale
che sgombra l’orizzonte!
Giù nella strada profonda l’andirivieni febbrile
dei calafati, e su in alto il lacerarsi soave
delle brezze color di rosa!
O Siciliani! O voi, che fin dai tempi brumosi
Notte e giorno lottate a corpo a corpo
Coll’ira dei vulcani,
amo le anime vostre che fiammeggiano
siccome folli propaggini del fuoco centrale.
Voi mi rassomigliate, Saraceni d’Italia
Dal naso possente e ricurvo sulla preda afferrata
con forti denti futuristi!
Io ho, come voi, le guancie bruciate dal simud,
l’incedere elastico dei felini tra l’erbe,
e lo sguardo che batte e respinge nell’ombra
le schiene viscose, furtive, del poliziotto e dello scaccino!
Voi schiudete con gioia le trappole bieche
Come noi le schiudiamo!
Rodano pure i sorci i nostri manoscritti,
poi che questo volante motore
scrive nel cielo più alto strofe d’oro e d’acciaio,
lucenti e definitive!
Molti furono i seguaci che Marinetti ebbe in Sicilia, dove
trovava un terreno già fertilizzato soprattutto in quella schiera
di poeti simbolisti che operavano a Palermo, a Messina, a
Catania. Il Simbolismo francese, del resto, cui aderiva il
giovane Marinetti, è certamente la culla del Futurismo: la
rivista “Poesia” da lui diretta dal 1905 al 1909, che operava
nell’alveo del Simbolismo, conteneva già in sé i germi del
nuovo movimento, soprattutto con la sua carica eversiva nei
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confronti delle strutture metriche tradizionali e nella
conseguente affermazione del verso libero, coraggiosamente
sostenuto dal poeta anarchico lombardo Gian Pietro Lucini,
collaboratore di Marinetti, il quale però muore di tubercolosi
ossea nel 1914, a 47 anni, dopo aver preso le distanze dallo
stesso Marinetti e dal Futurismo.
Con la Sicilia dunque, con la confraternita degli intellettuali
siciliani simbolisti, Filippo Tommaso Marinetti aveva felici
rapporti già prima del 1909. Ma quando nel 1912 uscì
l’antologia I poeti futuristi e subito dopo il marinettiano
Manifesto tecnico della letteratura futurista, i difensori
siciliani del verso libero polemicamente si dissociarono dal
Futurismo: il messinese (ma di Novara di Sicilia) Enrico
Cardile, sopravvissuto al terremoto di Messina del 1908 dove
tuttavia perdette i genitori e tre sorelle, il palermitano Federico
De Maria (che rivendicherà sempre la sua paternità del
Futurismo, che invece avrebbe voluto chiamare Avvenirismo e
che Cardile non apprezzerà perché “digiuno di qualunque
cultura”), Umberto Saffiotti di Barrafranca, Tito Marrone di
Trapani, Gesualdo Manzella Frontini di Catania, Enrico
Cavacchioli di Pozzallo. Ma Cardile già dall’anno precedente
aveva manifestato insofferenza per Marinetti. In una lettera al
suo maestro Lucini, spedita da Palermo il 20 marzo 1911,
Cardile scriveva: “…Quell’inqualificabile Marinetti, come vi
ho accennato nella lettera precedente, non ha voluto affatto
sentirne del rimborso delle spese di stampa del mio Manzoni.
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MI ha tolto di mano duecento copie del libretto che ha
impiegate per uso suo, distribuendole ai direttori di quei fogli
che pubblicano le sue eroiche circolari: Il tal modo il munifico
mi è apparso semplicemente e unicamente : uno sfruttatore e
quasi un camorrista. Ha pregiudicato il mio nome con una
sigla detestata, mi ha imposto spese per me gravi, s’è
impadronito del libro e… pretende la mia riconoscenza!...E
Voi, come ancora non lo avete pubblicamente abbandonato, se
tutto vi infama facendovi figurare nelle sue pessime
allocuzioni futuriste? Dopo questo episodio caratteristico io
non voglio sentirne più; no, assolutamente.”
Tuttavia l’influenza di Marinetti sui siciliani non ebbe alcuna
tregua: nel settembre del 1913, Marinetti cercò di porre riparo
alla semidisfatta siciliana e tornò in Sicilia, a Palermo, a
Messina e a Catania con la sarabanda della messa in scena del
suo dramma sintetico Elettricità, con la famosa Compagnia di
Gaetano Tumiati, raccogliendo nuovi adepti, ma anche la
simpatia e la stima del settantenne Luigi Capuana e (pare)
anche di Verga.
Mentre, dunque, un po’ dovunque in Sicilia, soprattutto,
ovviamente, presso i giovani, si avverte l’urto e l’impeto del
Futurismo e lo sconvolgimento dei tradizionali parametri
culturali che esso propone, Siracusa in quegli anni, quelli
immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, è una
cittadina àfona e senza alcuna notabile vitalità, sonnolente e
prigioniera del suo passato, che Tommaso Gargallo medita di
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far rivivere mettendo in scena nel 1914 la tragedia greca.
Soltanto nel 1917, a guerra ormai quasi conclusa, si avverte un
timido tentativo di risveglio e di avanguardia non traumatica
ad opera di tre giovanotti, poco più che ragazzi, studenti
dell’Istituto Tecnico “A. Rizza” (lo stesso che qualche anno
più tardi frequenterà Elio Vittorini), i quali fondano “La
Vampa Letteraria – Rivista mensile contro-corrente”: il
diciassettenne Giuseppe Incastrone, che morirà nel 1983 e che
assunse lo pseudonimo di Febo Liliaco Zante,
il
diciannovenne Salvatore Bozzanca, che scomparirà nel 1918
in guerra, inghiottito nell’abisso del nulla e che assunse lo
pseudonimo di Delio Illogiari, e il diciassettenne Angelo
Cristina Curella. Ebbe vita breve, durò meno di un anno, dal
maggio al dicembre 1917, ne uscirono appena otto numeri che
qualche anno fa (2000) sono stati ristampati nel volume a
ricordo del centenario della nascita di Incastrone. Non
possiamo dire quale incidenza abbia avuto negli ambienti
culturali della città la presenza, nella rivista, di articoli di
scrittori e poeti quali Villaroel, Gozzano, De Pisis, Cardile,
Fiumi, Lipparini, Buzzi, Carrozza, tutti nomi che già
prepotentemente si affacciavano nella repubblica delle lettere;
collaborò anche il diciassettenne poeta futurista Salvatore
Quasimodo. E’ certo, tuttavia, che l’aria stagnante della città
non subì scosse ed ebbe il sopravvento, anche perché la
scomparsa di Bozzanca creò un vuoto non più colmabile e la
rivista cessò la sua vita. Sono di scarso valore, poi, se non del
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tutto insignificanti, le prime tracce “futuriste” apparse su due
giornali siracusani negli anni precedenti la grande guerra, “La
Gazzetta di Siracusa” e “L’eco della Provincia”: il primo
diretto dal suo fondatore Giuseppe Di Stefano Spada, il
secondo da Achille Adorno.
Qualche anno più tardi, nel 1921, si registrò un avvenimento
che lasciò una traccia e fu come una scudisciata
sulle
rappresentazioni classiche al teatro greco, dove, in quell’anno,
veniva messa in scena la tragedia di Eschilo Le Coefore nella
traduzione di Ettore Romagnoli e con le scene di Duilio
Cambellotti. Il 16 aprile di quell’anno, infatti, giorno della
prima, i Futuristi siciliani diffusero provocatoriamente, in
forma di volantino, il seguente manifesto contro le
rappresentazioni classiche.
MANIFESTO FUTURISTA
PER le RAPPRESENTAZIONI CLASSICHE di SIRACUSA
“Dico che i morti uccidono chi vive !”
(Eschilo – Le Coefore – Ep. III)
Senza rimorso, al Teatro Greco di Siracusa, una folla di passatisti siede per ore ed
ore col culo a terra per sentire che Agamennone cornificò la moglie la quale
altrettanto fece e, non contenta, levò di mezzo anche il marito; e si entusiasma
quando Oreste grida a Pilade: “ Consigliami!... Che faccio?...” E di rimando Pilade:
“ Giacché ci sei, ammazza la tua mamma!” – Quella seria massa d’infatuati merita
il risveglio di una pedata o, meglio, l’odorante refrigerio di un pitale.
Agamennone, Oreste, Clitennestra?... Ma chi son essi? Chi se ne frega più?
Avvenimenti di cronaca mille volte più interessanti registra tutti i giorni la stampa,
senza che alcun Eschilo nuovo sorga a romperci le scatole e senza che un qualsiasi
consiglio comunale si occupi di commemorarli.
NOI FUTURISTI, sicuri che la Sicilia abbia più intelligenza di quanto il passatista
Romagnoli non ne metta nelle sue traduzioni e nelle salsicce dei suoi “drammi
satireschi”, affermiamo che le rappresentazioni classiche di Siracusa sono il
prodotto di mentalità arretrate nello spirito dell’Isola vulcanica, e che i consiglieri
siracusani -funghi di muffa sopra un verde tronco – vengono meno alle più
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elementari regole d’igiene quando trasportano cose puzzolenti in una città che s’era
fatta ammirare finora per la sua pulizia.
A tutto il teatro greco, polvere ed ossario, noi contrapponiamo le Sintesi Futuriste e
la famosa òpira dei pupi siciliana che è la ri-creazione più viva e più geniale degli
avvenimenti e della vita del passato. Ogni creatore di Sintesi, ogni don Giuvanni
d’òpira possiede tanto genio quanto a mala pena possono metterne insieme tutti
18715 Romagnoli di questa terra.
Convincetevi che il mondo non si regge più con la morale, con le esigenze di 2000
anni fa; ha un ritmo e degli ideali che superano la vita antica di quanto un’officina
supera il porcile.
Perciò noi vi diciamo: EVOLVETEVI E MARCIATE!
Perciò invitiamo il popolo di Sicilia , d’Italia e del Mondo ad essere cosciente, a
disertare le gradinate del Teatro Siracusano, a lasciare che l’erba cresca come utile
pascolo alle pecore, tra i ruderi.
Gli intelligenti si strafottano dell’antica Grecia, e – pisciando in folla sul teatro
parato a festa per le Coefore di Eschilo – urlino con noi al professor becchino
Romagnoli:
Abbasso l’Arte Greca! – Viva l’Arte Popolare Siciliana!
Gloria al Genio Creatore Italiano d’oggi e di domani!
16 aprile 1921
PER I FUTURISTI SICILIANI
Jannelli, Nicastro, Vann’Antò
Carrozza, Raciti
E’ facile immaginare quali reazioni l’attacco futurista abbia
fatto registrare negli ambienti degli organizzatori delle “Feste
Classiche”, conservatori e tradizionalisti della città che
accusavano i Futuristi di aver “attentato alla sacra maestà di
Eschilo”. Il manifesto a stampa “suscitò polemiche, ire dei
professori, ed applausi. Colpi, come un pugno nello stomaco;
svegliò, conquistò, snebbiò la gioventù. Fu distribuito
dappertutto, in Sicilia e fuori: nelle edicole, nei teatri, nei
cinematografi, nelle scuole e per le vie; e su tutti i treni che
andavano a Siracusa carichi di curiosi o d’infatuati, e su tutti
quelli che di là tornavano, carichi di delusi o di torcecollisti
insanabili”. I muri della città vennero ricoperti di coloratissimi
manifesti futuristi “che illuminavano di violenta luce le
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contorte e smorfiosette figure coeforesche con cui il rude
Eschilo era accuratamente offerto in vendita al pubblico, dalla
pudicizia di Duilio Cambellotti”. Non poca apprensione
suscitò anche la voce che l’istrionico giocolatore
F.T.
Marinetti sarebbe venuto ad assistere alla rappresentazioni
classiche in funzione di catacumbaro, cosa che turbò non poco
i sonni di molti.
L’idea di un’adunata futurista a Siracusa in occasione delle
rappresentazioni classiche era stata del messinese (ma di S.
Lucia del Mela) Francesco Carrozza, che aveva rivolto l’invito
anche a Marinetti il quale, tuttavia, in un primo momento
aveva aderito solo nominalmente e gli aveva risposto:
“Carissimo Carrozza, Voi sapete quanto io ami la Sicilia.
Sono come voi figlio dei sacri vulcani italiani. Combattete al
grido Viva il Futurismo! Questa parola –essenza:esplosivo –
disinfettante sublime – scagliatela contro tutto il passatismo
greco-romano ultraidiota… Darò luce alla vostra gloriosa
battaglia. I miei auguri entusiastici e un abbraccio fraterno.
Marinetti”. Ma successivamente il padre del Futurismo,
avendo capito che la sua presenza fisica giovava molto alla
causa, proprio perché in quel momento si dibatteva sul teatro,
ritenne di intervenire personalmente e di cogliere l’occasione
per fare un altro giro di propaganda per l’amata Sicilia.
Così, due giorni dopo l’inizio delle rappresentazioni classiche,
il 18 aprile, Marinetti giunse a Siracusa. Era accompagnato da
alcuni futuristi di Messina e di Catania, tra cui Francesco
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Carrozza,
Giorgio La Pira, Giacomo Etna, Vann’Antò,
Luciano Nicastro, Guglielmo Jannelli. Al Caffè Archimede,
affollato di curiosi e di simpatizzanti, ma anche di scettici e di
denigratori,
Marinetti
infiammò
gli
animi
criticando
violentemente le Feste Classiche e illustrando i principi
Siracusa, 19 aprile 1921. Il gruppo dei Futuristi siciliani.
Al centro F.T. Marinetti.
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Siracusa, 19 aprile 1921. F.T. Marinetti tra Giorgio La Pira e
Francesco Carrozza
davanti alla Fontana Diana in Piazza
Archimede a Siracusa,
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informatori del Futurismo, riscuotendo il plauso e il consenso
entusiasta dei suoi sostenitori, ovviamente quasi tutti giovani,
capitanati da Aldo Raciti, ma anche i fischi dei detrattori che
ritenevano Marinetti un vendifrottole gravido di vento. Senza
perdersi d’animo, come del resto ormai era solito fare,
annunciò quindi, per il giorno dopo, al Teatro Epicarmo, la
sua conferenza di apertura delle ostilità verso il Comitato delle
Feste Classiche e contro l’uso specifico del Teatro Greco.
Il giorno 19, puntualmente, Marinetti tenne l’annunciata
conferenza. Ecco come l’amico Franco Sgroi ha descritto la
serata:
Il pubblico, accalcato in sala, rumoreggia. L’oratore con la sua
eloquenza tumultuosa riesce a ghermire l’attenzione dell’uditorio, ne
scuote l’inerzia, travolge ogni diffidenza. Dopo aver tacciato di vacuo
accademismo archeologico la pedissequa messa in scena delle tragedie
classiche, Marinetti rileva che oggigiorno il teatro aretuseo ha ben
poco di ellenico, perché alla cornice del passato, fatta di colline, mare,
vele, nuvole e stelle, si sono aggiunte le luci della vicina stazione, i
fischi e i pennacchi delle locomotive, per non parlare dello spirito
profondamente religioso che pervadeva gli spettatori dell’antichità e
che le riesumazioni erudite non riescono più a rivivere nel pubblico dei
nostri tempi. E, tuttavia, Marinetti, senza tema di contraddirsi, esalta
la validità delle strutture del teatro siracusano, ne vanta lo scenario
naturale, il paesaggio incomparabile, che con la luminosità dei
tramonti ben può prestarsi ad una moderna, attuale, pittoresca
valorizzazione del teatro in chiave spiccatamente siciliana.
Con audace volo pindarico il vate del Futurismo tesse le lodi del
coloritissimo folclore siciliano , dall’opra dei pupi alle celebrazioni
religiose, dai costumi popolari al dialetto, tutti elementi che –a suo
avviso – potrebbero e dovrebbero confluire nell’auspicato teatro
siciliano e per le fortune del quale Marinetti suggerisce che il Teatro di
Siracusa venga coraggiosamente svecchiato ed aperto con una presa
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di coscienza veramente liberatoria alla rappresentazione sì dei
classici, ma anche di opere di autori siciliani viventi”.
Dopo questa “incursione”, null’altro di appena notevole il
movimento di Marinetti fece
registrare a Siracusa, che
ricadde nel suo perenne dormiveglia, appagata delle
rappresentazioni classiche al Teatro Greco, che continuarono
felicemente a non essere turbate, fino ai nostri giorni, né dall’
òpira dei pupi, né
da alcun dramma moderno pittoresco
ispirato al costume popolare siciliano. Nel giugno dello stesso
anno, concluse le rappresentazioni classiche, venne pubblicato
il seguente secondo Manifesto “di carattere eminentemente
pratico”, che non presenta più la violenza verbale del primo:
Utilizziamo il Teatro Greco di Siracusa
Manifesto dei futuristi siciliani
Noi futuristi siamo assolutamente contrari a tutte le esumazioni di teatro
antico. Esse rimettono sulla scena né più né meno che le ombre di tempi che non
hanno più nulla da comunicarci. Ma constatando l’energia geniale con la quale gli
organizzatori delle rappresentazioni greche hanno rinnovato la meravigliosa città
di Siracusa predisponendola ad un alto compito di rinascita artistica, presentiamo
una proposta che perfezioni la loro iniziativa in modo pratico e, soprattutto,
patriottico.
Domandiamo che, alternativamente con le tragedie di Eschilo, sia
annualmente rappresentato un dramma moderno pittoresco, adatto all’aria aperta,
che utilizzi gli infiniti fascini estetici che offrono i coloratissimi costumi della
Sicilia.
L’opera dei pupi, così piena di ilarità e di passionalità, i diavoli di Pasqua,
le processioni dell’Epifania e della Settimana Santa – magnifiche sfilate in cui le
luci, la musica, i colori si fondono con sentimenti ora tragici ora comici: lo stesso
dialetto siciliano, ricco, vario, pieno di sarcasmi e di bontà, sorridente improvviso
turbinoso lucido infocato – offrono materia, miti e soggetti vivi che i moderni autori
dialettali siciliani –nel passatismo loro- non hanno neanche sospettati.
Sia bandito, perciò, tra tutti i giovani siciliani, un concorso annuale
con premio cospicuo, per questo dramma moderno da incoronarsi
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gloriosamente, e rappresentarsi nel Teatro Greco di Siracusa dai migliori
attori siciliani.
L’Italia uscita da Vittorio Veneto deve consacrare gran parte delle sue
energie e del suo denaro, non ad un ellenismo morto , professorale, ma al genio
creatore dei giovani italiani vivi. Coloro che credevano di attirare i forestieri col
nome di Eschilo, o di altri vecchioni, hanno avuto già una amara delusione: i
forestieri hanno quasi mancato, questo anno a Siracusa. La folla era costituita da
italiani, e specialmente siciliani. Costoro preferiscono la vita alla morte, il futuro al
passato. Con l’anima, dunque, della nuova Sicilia e col genio dei suoi giovani, si
rinvigorisca e si utilizzi il Teatro Greco e il suo scenario. Questo, malgrado gli
sforzi dei passatisti, è ben poco ellenico, molto vivo, moderno, riassuntivo e
dinamico, poiché contiene, non solo colline lussureggianti, carri variopinti, mare,
vele, nuvole e stelle, ma anche luci elettriche di stazioni ferroviarie, fischi e
pennacchi di locomotive.
Siano rappresentati Eschilo, Sofocle, Euripide –se proprio non se ne può
fare a meno – ma accanto ad essi sia glorificato un giovane siciliano d’oggi!
(Messina, 11 Giugno 1921)
Il Manifesto venne firmato da Futuristi siciliani (Vann’Antò,
Carrozza, Vasari, Sortino, Sharpnel, Etna, Cimino, Alioto,
Calderone, Attardi, Fiandaca, Raimondi e il siracusano Aldo
Raciti) e non siciliani (Buzzi, Pratella, Settimelli, Carli,
Cangiullo, Corra, Russolo, Volt, Prampolini, Casavola, Balla,
Marchi, Mix, Mazza, De Maria).
Durò ancora qualche anno la polemica e la problematica
sull’uso del Teatro Greco di Siracusa e sulle rappresentazioni
classiche. I Futuristi cercarono in ogni modo di tener desta
l’attenzione con la pubblicazione di articoli e di interventi su
riviste e quotidiani, ma la loro azione-rivendicazione non
approdò a nulla e si concluse per sfinimento. Nessun esito, in
fondo, ebbe anche il Referendum nazionale, indetto sulla
falsariga di quello contro la stagione lirica del Teatro alla
Scala di Milano del 1911.
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Poco tempo dopo, nell’ottobre del 1922, la marcia su Roma fu
una valvola di scarico che consentì a tanti giovani
“rivoluzionari” siracusani, uno dei cui caporioni più infatuati
era il poeta-pittore Carlo Capodieci, di dare sfogo alle loro
pulsioni più o meno intellettuali e politiche.
Di tutta quella vicenda ci resta oggi un libretto, Il Teatro
Greco di Siracusa ai giovani siciliani di Guglielmo Jannelli e
di Luciano Nicastro, stampato a Messina per conto delle
edizioni della Balza futurista nel 1924 (e recentemente
ristampato in anastatica a cura di Enrico Di Luciano), che
raccoglie le “ragioni” e le “giustificazioni” della polemica e
della provocatoria proposta:
Che cosa intendiamo per Dramma Siciliano
Pittoresco, Moderno
Il nostro Manifesto, poiché presupponeva una conoscenza della tradizione, e del
costume popolare siciliano, che non tutti posseggono, fu –nelle sue espressioni
sintetiche - naturalmente frainteso da molti; ed esige, ancora adesso, delle
esaurienti spiegazioni.
Ci è stato chiesto:
perché il dramma dev’essere moderno?
Rispondiamo:
Il Teatro Greco oggi non può più adattarsi alla tragedia antica:
1) perché s’inquadra in un paesaggio vivo di modernità e di elementi che
contrastano col costume e con la scena greca;
2) perché la tragedia greca ha per sempre perduto –e non ritroverà giammai- il suo
vero spettatore, il suo pubblico: l’anima della folla.
Può darsi che domani un agognato papiro ci indichi il segreto e ci fornisca i mezzi
della più esatta rappresentazione eschilea o sofoclea, e che si possa inscenare un
dramma antico con autentici cori ed impeccabili danze. Ma non si avvererà mai più
che il popolo si accalchi per religione, per pietà ed amore, intorno ad un mito che
esso ha tralasciato da millenni, e che il Cristianesimo ha allontanato dalle folle ed
ha ormai adagiato nel regno del silenzio.
Molti osservano che si può sostituire un interesse puramente estetico a ciò che nei
tempi antichi era passione, e necessità del popolo devoto.
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Noi rispondiamo che basare le riesumazioni classiche sulla curiosità di pochi
(snobisti e professori) e sulla dabbenaggine di molti, che poi alla fine si sentono
delusi; o –come dicono i filologi più onesti- profanare i Tragici per soddisfare il
vuoto culturalismo, è tutt’altro che doveroso per chi ha dell’antichità un concetto
nobile e austero.
E diciamo che neppure la Sicilia avrebbe proprio bisogno di questo equivoco
sfruttamento per la sua moderna educazione e rinascita!
Ma, con tutto ciò, non ci opponiamo, come nel Manifesto è detto, alle
rappresentazioni classiche siracusane, purché esse siano alternate con quelle di
drammi pittoreschi moderni siciliani;
3) perché –siamo sinceri- una cosa è: leggere Eschilo, Sofocle, Euripide; un’altra
è: rappresentarli.
Nel primo caso –con la fantasia, col nostro amore, e magari con le nostre
entusiastiche esagerazioni- possiamo idealmente completare tutte le manchevolezze
per l’adattamento scenico che ha la tragedia greca quale ci è stata tramandata, e
percorrere facilmente l’enorme distanza che separa l’età moderna dall’antica; nel
secondo caso, sono gli stessi elementi materiali che adoperiamo per ricostruire
artificialmente l’antico, che non riescono a far tacere il nuovo motivo umano e
moderno che ci pulsa intorno.
Esempio: come dimenticare i nostri palcoscenici, e tutte le raffinatezze delle danze
e delle mode del secolo XX allorché assistiamo ad un ballo delle sorelle Braun che
Romagnoli ci vuol gabellare come greco?...
Praticamente, la ricerca dell’unità fra ambiente e tragedia riesumata si risolve in un
insanabile contrasto.
E’ più facile, perciò, accordare col Teatro Greco un dramma pittoresco moderno,
che un dramma antico.
Con la parola “moderno” non intendiamo però escludere che il dramma da
rappresentarsi del T.G. possa anche avere carattere storico; purché all’aggettivo
“storico” non si dia un significato di artificiosità o di curiosità archivistica.
Gli stessi Greci antichi prendevano, a soggetto dei loro drammi, fatti della loro
storia recente, o miti del loro passato, i quali erano sempre per essi religione e puro
sentimento: vita concreta, quindi, non cultura.
Ora, in Sicilia, noi abbiamo tutta una lunga tradizione di leggende a cui il popolo
nostro crede, e che potrebbe essere sfruttata con grandiosi risultati e originalità
assoluta.
Se ciò si facesse, potremmo arrivare forse ad un dramma contemporaneo che
avrebbe tutti i caratteri dell’antica tragedia quale era rappresentata ai suoi tempi.
Molti, leggendo il nostro manifesto, non hanno capito che cosa noi intendiamo
per dramma pittoresco; ed hanno creduto che vogliamo far consistere la
rappresentazione scenica in una semplice sfilata di colori, cioè in una vuota
esteriorità.
Niente di più falso.
Il dramma che noi vogliamo sia creato deve avere una sua ragione intima. Ma,
poiché è espressione della Sicilia, non può –senza deformare interamente la
bellezza e l’originalità della nostra vita popolare, che si svolge tutta quanta
all’aperto –astrarre da quell’infinita varia tumultuosa fantastica colorazione agreste,
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che quasi plasticamente e musicalmente avviva accende sviluppa accompagna le
passioni siciliane.
Ci sono, insomma, nella vita del nostro popolo, espressioni solenni di sentimento
religioso, artistico, che non sono mai disgiunte da una attraente tumultuosità di
colori; ci sono momenti di passione e di allegria, che erompono liberamente nelle
feste, e si accompagnano con forme caratteristiche, con atteggiamenti plastici che
hanno, come sfondo naturale, tutta la ricchezza e la varietà del paesaggio.
Ecco costumi variopinti che quasi illuminano feste leggendarie, con sfilate in cui la
folla intona le sue nenie; ecco pitture di eroi che adornano –con scoppiettii di luci,
di colori, e con una straordinaria ingenuità di linee- i carri della campagna; e
teatrini che della storia sanno i lati più ammalianti, più serii, o più ridevoli perché
guerrieri di legno (ma di cuore!), tra sfolgorii d’armi e di metalli, tornano a narrare
passioni di tempi andati, felicità perdute, e incantamenti; per cui il pubblico si da
quasi devoto e si accalca e sogna di riudir la voce della fierezza antica che
riconosceva un Dio, adorava una donzella, e s’inchinava davanti al suo nemico
buono e generoso!
Secondo noi, il dramma pittoresco deve utilizzare questo fàscino delle colorazioni
plastiche, unendolo al suo mondo, al suo bisogno, alle sue interiori necessità di
vita. Deve riplasmare con ardore e fantasia quel desiderio mistico ed ingenuo,
quell’aspettare rassegnato e umile, quel violentare pronto e inaudito,
quell’impregnarsi carico ed acceso di gran passioni e di colori vivi; e quel solenne
senso di pietà che alle folle siciliane -in ogni manifestazione collettiva- dà quasi il
grande aspetto delle azioni sceniche.
“Il pittoresco” non è certo l’elemento che da sé solo possa far reggere l’azione d’un
dramma quando la tragedia interna, umana, non esista; ma è elemento che
necessariamente esige la rappresentazione scenica all’aperto.
Intere masse che si muovono e che danno a noi la sensazione di qualcosa di
straordinariamente vivo ed avvincente, non possono non urtare contro l’artificiosità
della scena dipinta e delle quinte di legno.
Il Teatro Greco di Siracusa si offre a meraviglia per larghi movimenti di masse e
per drammaticità vive ed infocate che hanno bisogno di espandersi e fondersi e
purificarsi in un ambiente libero.
E quale ambiente più del Teatro Greco libero –e più tipico- potrebbe esser capace
di assumere, nelle sue diverse ore, tutte le gradazioni della nostra campagna, col
suo sole e i suoi tramonti e le sue sere e il suo mare?
Noi abbiamo parlato di dramma siciliano.
E naturalmente i passatisti (poiché la loro esperienza non va mai oltre a quello che,
sui teatri, è stato sempre offerto al loro immancabile applauso) - appena letto il
manifesto, hanno subito pensato che desiderassimo un dramma siciliano di
passionalità brutale, di coltellate e di azioni della malavita quale era nelle
preferenze di Giovanni Grasso allorché atterriva le platee italiane. E ci hanno
detto, i passatisti, che la novità della nostra proposta consisteva tutta nel rischio di
far buscare un raffreddore e sdrucire i pantaloni a chi avesse voluto preferire il
teatro aperto per vedere ciò che era ormai una cosa tanto comune e tanto vecchia in
quello chiuso.
Conveniamo che il rischio dei pantaloni e quello del raffreddore c’è; e c’è quindi
anche per le rappresentazioni classiche. Ma, dobbiamo aggiungere che il nostro
pensiero è di dare al Teatro Greco un’opera altamente lirica, non uno squarcio di
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passioni che potrebbero tutt’al più interessare il prof. Ferri o il fu Cesare
Lombroso.
L’epoca in cui, per andare in cerca di originalità, si chiedevano in prestito i
delinquenti alle prigioni dello Stato è ormai passata, in letteratura, e ad ogni modo,
non appartiene al Futurismo.
Noi, in realtà, miriamo a sostituire la tragedia greca in tutti i suoi aspetti dandone
l’equivalente moderno.
E perciò non escludiamo né i cori né le danze.
Per i cori abbiamo qualcosa di preciso che ci aiuta, e per cui la Sicilia è al di sopra
di ogni altra terra: il canto popolare.
Lo stesso Romagnoli ha voluto che la musica delle sue riesumazioni attingesse
largamente al nostro popolo. Ma egli ha preso soltanto alcune forme, che credeva
fossero assai vicine alla musica greca antica, trascurando le più vive e le più ricche
d’umanità, le quali –poiché sono di carattere spiccatamente religioso-cristiano, e
perciò moderno- mai più potranno legarsi al contenuto della tragedia ellenica.
Noi diciamo che non vi è né Grecia né Sicilia nella ricostruzione musicale
composta o fatta comporre da Romagnoli; mentre siam sicuri che si può, dal nostro
canto popolare –e soprattutto da quello liturgico delle campagne- trarre materia
sorprendente per effetti, armonia e lirismo.
E anche le danze può darcele la Sicilia.
Il popolo ne ha delle caratteristiche, di varia espressione, le quali si mantengono –è
vero- in una rigida linea tradizionale, ma non mancano di quella semplicità e
solennità chepuò dare movimento al dramma.
E sempre perché nel Manifesto abbiamo parlato di dramma siciliano ci si è, infine,
rimproverato che noi vogliamo incagliare il teatro in forme cristallizzate di
tradizione paesana.
Se per “dramma siciliano” intendessimo: dramma costruito con elementi popolari
non rielaborati e fusi, e allora si cadrebbe certamente nel manierismo o nel
campanilismo.
Ma non c’è dubbio che –tra i costumi contemporanei- soltanto quelli siciliani
s’intonano all’ambiente del Teatro Greco. Il dramma moderno da rappresentarsi a
Siracusa ha quindi un suo carattere che a priori vien determinato da quello che noi
abbiamo detto sopra, deducendolo dalle critiche fatte alle riesumazioni sceniche
della tragedia antica.
E perché dunque ci si dovrebbe vietare di mettere in valore elementi che offre il
folklorismo?
Allo stesso modo potremmo allora dichiarare non-arte, o arte cristallizzata, l’opera
d’un pittore che compone un suo quadro con colori e luci che egli abbia tratti da un
ambiente che interessava il suo spirito.
Saremmo degli illogici se –avendo la certezza che un dato colore s’adatta a una
tela- lo scartassimo di proposito e scegliessimo invece toni e mezzi espressivi
contraddittori all’insieme.
Così la nostra tesi cadrebbe tutta quanta se ammettessimo, ad es. nel Teatro Greco,
un dramma moderno tipo “Santa Primavera” di Benelli – che non ha altro carattere
se non quello della scempiaggine più assoluta la quale ha bisogno dell’aria
veramente aperta, e d’una buona ventata che la spazzi via!
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Come e da chi deve bandirsi il con corso
Fugate tutte le nebbie ideologiche, classiche, estetiche, parliamo dell’attuazione pratica
della nostra proposta
Il Comitato delle Rappresentazioni Classiche, presieduto dall’illustre Conte Mario Tomaso
Gargallo, ha dimostrato indiscutibilmente una energia ed abilità non comune
nell’organizzare gli spettacoli del Teatro Greco e nel lanciare a tutto il mondo il grido di
richiamo.
Ma, se con questa mirabile attività si è voluto innalzare il nome della Sicilia e ricordare
agli stranieri e a noi le nostre gloriose tradizioni artistiche, per ciò stesso crediamo che non
esuli dal compito del Comitato siracusano il farsi realizzatore d’una idea che tende a
dimostrare come neppure oggi la genialità nostra sia offuscata e come essa sappia, accanto
alle riesumazioni antiche, svolgere il motivo della modernità.
Soltanto il Comitato di Siracusa, che gode la fiducia dell’Estero e dell’Italia, e che dalle
rappresentazioni classiche ricava utili non indifferenti, ha forza morale e materiale per
bandire clamorosamente il concorso da noi proposto.
Impiegare a favore della rinascita artistica siciliana una parte degli incassi che dà la
tragedia greca, è, del resto, doveroso ed urgente.
Se poi si vuole ad ogni costo evitare che Siracusa, con la grandezza e l’antichità del suo
nome, contribuisca da sola, alla buona sorte della gioventù dell’Isola, allora indichiamo un
altro mezzo pratico con cui il Comitato presieduto dal conte Gargallo potrà trovare risorse
materiali per la messa in scena del dramma moderno e per il premio al vincitore.
L’idea ci viene suggerita da una proposta fatta dall’avv. Galluppi, consigliere provinciale
di Messina, nella “Balza Futurista” del 9 gennaio 1922.
Il Comitato di Siracusa dovrebbe invitare tutte le Amministrazioni provinciali siciliane a
concorrere con denaro perché sorga e si affermi il nuovo dramma pittoresco moderno.
Noi non dubitiamo che in ogni Consiglio Provinciale di Sicilia si trovi un giovane il quale
senta amore per la propria isola e voglia energicamente indurre i colleghi a non sabotare
l’invito del Comitato.
Ad ogni modo, fin da ora ci impegniamo a condurre una campagna perché in ogni angolo
di Sicilia sia sentita e propugnata l’importanza della nostra iniziativa.
Trovati ed ottenuti i mezzi, il Comitato siracusano deve subito bandire il Concorso, in
modo che nella primavera del 1925 il dramma possa rappresentarsi.
E deve nominare una Commissione Giudicatrice, la quale, perché non risulti composta da
persone negate al senso dell’arte e della novità, è necessario abbia elementi di garanzia per
i concorrenti. La Commissione Giudicatrice deve dunque risultare composta da: due
individui (a scelta del Comitato Feste Classiche) e: da Luigi Pirandello (siciliano non
sospetto ai passatisti, e che noi futuristi stimiamo) e dal poeta F.T. Marinetti il quale,
anzitutto, è l’ideatore della proposta, ed in secondo luogo, è un meraviglioso suscitatore e
apprezzatore di energie giovanili ed amante fervido della Sicilia.
Dal lato pratico, un’unica obbiezione ci potrebbe esser mossa: accorrerebbe al teatro di
Siracusa una gran folla di spettatori per assistere ad un dramma moderno, pittoresco
siciliano?
Rispondiamo che avremmo, intanto, sicuramente il concorso di gran parte del popolo
siciliano il quale andrebbe a Siracusa come ad una festa religiosa primaverile. E, quanto ai
forestieri, l’obbiezione ci sembra basata su di un falso timore. Nel nostro Manifesto,
abbiamo specificatamente detto che le rappresentazioni “moderne” dovrebbero esser date
nello stesso periodo in cui si daranno quelle greche; e perciò gli spettatori, accorsi a
Siracusa per Eschilo e Sofocle, non disdegnerebbero certo –attratti dalla novità- di fermarsi
per ascoltare il dramma moderno.
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Anche gli stranieri si interesserebbero di una manifestazione grandiosa a caratteri
tipicamente siciliani.
La rèclame, gli annunzi, i richiami per le Rappresentazioni Classiche non devono mai esser
disgiunti da quelli per il Dramma Moderno; né ciò importa una maggiore spesa..
Ettore Romagnoli –intervistato nel 1921 sulla nostra campagna- rispose fra l’altro che non
aveva fiducia nei concorsi perché “il genio, quando esiste, si manifesta sempre, e nessun
concorso ha la forza di svilupparlo”.
Ma alla sfiducia di Romagnoli noi contrapponiamo questo bellissimo brano di un articolo
di Vann’Antò che di poesia siciliana e di Sicilia si è sempre occupato con viva genialità e
con anima di grande poeta:
“…Il Concorso non sarà, per se stesso, quello che ci darà il poeta degno, nuovo, che
vorremmo glorificato accanto ad Eschilo ma lo trarrà certo dall’ombra in cui egli forse
vive triste e lì per disperdersi e infiochire, come di disperdono e si appannano nei librimusei dei Vigo, Piotré, ecc… i canti dei minatori e dei carrettieri, dei lavoratori dei campi
e del mare. E la Sicilia avrà il suo teatro di poesia –questa fede bisogna accendere!- non
vivrà, come non vivrà l’Italia, solo del suo passato gloriosissimo; il quale, del resto, non
risorge veramente –eterno valore eterna vita- che nella vita dell’oggi e del domani, come
la terra nera dell’inverno non palpita e vive più che nella vita nuova che l’annulla, a
primavera, quando tutto sia fiore e verdezza, e speranza di frutto.”
E contrapponiamo quest’argomento di Marinetti che taglia la testa al toro:
“ La sfiducia nei concorsi deriva logicamente dal fatto che finora i concorsi non sono stati
che imprese camorristiche di camorristi organizzati. Così l’ultimo, per il monumento al
Fante, in cui la Commissione, per seppellire la potente e originale concezione del Baroni,
seppellì il concorso.
Si tratta dunque di agire onestamente e italianamente.”
(“Giornale di Sicilia” di Palermo del 23 Novembre 1921).
Concludiamo con una nostra ferma convinzione:
Molti che non si recano a Siracusa per la tragedia greca, si muoverebbero per vedere una
rappresentazione pittoresca moderna nuovissima; tutti coloro cioè –e non son pochi
nell’Italia di oggi- che preferiscono la vita alla morte, il futuro al passato.
Non vogliano neppure considerare l’altra obbiezione, che a molti è sembrata gravissima, delle
difficoltà che offre un mutamento di scena per il passaggio dal dramma antico a quello moderno.
Le scene –se costruite con legno, cartapesta, e altri materiali di prontissimo impiego – in
quarantottore possono bene montarsi, smontarsi e sostituirsi.
Come ben si vede, i toni espressi nelle “ragioni” e nelle
“giustificazioni”, sono mutati: non c’è più né la violenza del
linguaggio, né l’ironia, né l’irriverenza che sfiora l’offesa.
Sembra, anzi, che i futuristi cerchino un accomodamento del
problema, della polemica, portando avanti le loro ragioni, le
loro istanze, le loro costruttive proposte, non più “contro”, ma
“accanto” alle rappresentazioni classiche.
Al Comitato di
Siracusa, i cui consiglieri venivano definiti “funghi di muffa
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sopra un verde tronco”, e il teatro greco “polvere ed ossario”,
magari da inondare come i musei, alla fine gli viene
riconosciuta “forza morale e materiale” e si evidenzia, anche
che il Comitato ”gode la fiducia dell’Estero e dell’Italia”. Che
altro dire?
A Siracusa un ultimo rantolo futurista, oltre la siracusana Egle
Paturzo, lo fece registrare nel 1939 Franco Zammit, il quale
inviò a Marinetti, sperando in un suo intervento, la novella
Crociera a nord ovest, che narrava la storia di un aviatore
futurista, ma non ottenne alcuna risposta. Nel 1944 tuttavia
Zammit la pubblicò a Siracusa col titolo Crociera (Edizioni
Paesane), con la prefazione di Enrico Cardile che dal 1935 si
era trasferito a Siracusa, dove morirà nel 1951.
Siracusa, aprile 2009
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I Futuristi a Siracusa. Al centro F.T.Marinetti, 1921
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