7 febbraio 2010 RELAZIONE AL CONVEGNO DIOCESANO CATECHISTI “L’ADULTO CHE EDUCA E SI LASCIA EDUCARE” Rivolgo il mio saluto a tutti voi qui presenti e desidero ringraziarvi per la vostra presenza, oltre che per l’impegno che dedicate come catechisti/e e come impegnati nella pastorale della famiglia. Desidero ringraziare don Paolo Mascilongo e don Francesco Cattadori per aver organizzato questo incontro che può aiutarci a lavorare secondo lo stile ecclesiale, collaborando insieme in modo corresponsabile tra Uffici pastorali diocesani e parrocchie e anche tra gli stessi Uffici pastorali, in vista di quel respiro comunionale e missionario che caratterizza – deve caratterizzare – la Chiesa. È uno stile ecclesiale che può servire come modello da adottare nel fare pastorale nella nostra Chiesa. Tra i vari significati della ‘pastorale integrata’, certamente vi è anche quello di coordinare le forze disponibili della diocesi e delle parrocchie e di far interagire gli Uffici pastorali diocesani, la Consulta delle aggregazioni laicali e nuove comunità, il Consiglio Pastorale diocesano, i vari organismi che promuovono le varie pastorali d’ambiente. Quando diciamo ‘educazione’, spontaneamente pensiamo al bambino, all’adolescente, al giovane. È difficile pensare all’adulto, perché riteniamo che, in quanto adulto, non abbia più bisogno né di essere educato né di lasciarsi educare. Allora il titolo che mi è stato assegnato per questa riflessione – l’adulto che educa e si lascia educare – può risultare strano, almeno a prima vista. Questa considerazione spontanea è vera. Ma è vera solo in parte, soprattutto se consideriamo la questione educativa oggi, in un contesto culturale che, per sua complessità, pone molte sfide a chi è giovane e a chi è adulto. Vorrei partire proprio da questa realtà odierna e da ciò che essa esige per poi soffermarmi su due aspetti: l’esigenza del lasciarsi educare e il come lasciarci educare educando. Avrò una particolare attenzione alla famiglia, per il suo essere il luogo fondamentale dell’educare: così introduco, spero, la relazione di don Cattadori. 1. La famiglia comunità educativa esige il coinvolgimento di altre realtà educative 1.1. Non lasciare soli i genitori È logico partire dalla famiglia, in quanto è il luogo originario dell’educazione. Il cucciolo d’uomo, quando s’affaccia alla vita ed entra nel mondo, inizia un cammino lento e lungo verso la maturità: chiede perciò di essere aiutato affinché il suo cammino di crescita verso la maturità non si fermi, ma possa arrivare alla meta. Ecco allora i genitori che non possono accontentarsi di dare la vita fisica: si genera veramente prendendosi cura attivamente e responsabilmente dei figli. I genitori, con la loro presenza, con la loro cura, con il loro amore, con il loro esempio aiutano il figlio a camminare, fino a quando egli potrà e saprà camminare in modo autonomo, in piena libertà. Nel ‘camminare verso’, si intende l’educazione della persona, cioè lo sviluppo integrale della personalità, con le sue caratteristiche ed abilità. Nella famiglia l’educazione consiste innanzi tutto in questa speciale relazione tra genitori e figli. Il cuore dell’educazione – soprattutto nella famiglia, ma non solo nella famiglia – consiste nella presenza, nella vicinanza, nella cura, nell’amore, nell’esempio. Così i genitori aiutano il bimbo a crescere, cioè ad entrare nella realtà, partendo da esperienze semplici, comuni e condivise. Per entrare nella realtà c’è bisogno di questa relazione profonda, intima, vera, fiduciosa: da genitori a figli, da figli a genitori. È chiaro che in quella comunità educativa fondamentale che è la famiglia, il compito educativo è soprattutto rivolto ai figli. Ma proprio perché la famiglia è comunità educativa, i genitori non devono essere lasciati soli nella loro missione. Questo impegno di non lasciare soli i genitori riguarda la Chiesa innanzi tutto – a cominciare dalla parrocchia –, ma riguarda pure la società, dai comuni alla scuola. Dalla ‘società di base o primordiale’ che è la famiglia – concepita come unione stabile di un uomo, una donna e i loro figli, così la definisce l’antropologo francese Claude LéviStrauss –, dipende la vita stessa della società, perché è nella famiglia che si plasma il volto di un popolo. Senza indugiare nell’analisi dei cambiamenti che concernono le famiglie – anche solo in questi ultimi decenni –, possiamo dire che la situazione della famiglia si è fatta più complessa, sia a causa di mutamenti sociali significativi sia a causa di una cultura non sempre favorevole alla famiglia stessa. Pensiamo solo al tempo assai scarso che spesso entrambi i genitori riescono a dedicare ai figli: ciò rende più difficili le dinamiche familiari. Spesso poi vi è un atteggiamento di delega nei confronti della scuola e degli insegnanti, che dovrebbero essere, di volta in volta, docenti, babysitters, animatori del tempo libero, assistenti sociali. Pensiamo poi alla situazione, a volte anche conflittuale, tra i genitori che difendono i figli ed hanno una esagerata aspettativa sui loro risultati e gli insegnanti che rischiano di chiudersi in una eccessiva, sia pure comprensibile, posizione di difesa della propria professionalità. 1.2. Il patto educativo La famiglia è comunità educativa se realizza un patto educativo, assolutamente necessario per garantire una soddisfacente efficacia nella formazione di personalità libere e responsabili. Il patto educativo si attua tra figli e genitori, tra figli/genitori e scuola, tra figli/genitori/scuola e comunità cristiana: dunque anche l’adulto – i genitori, i docenti, i sacerdoti, i catechisti, ecc. – sono coinvolti nell’educazione. Non solo nel senso del ‘dare’ educazione, ma anche nel senso del ‘ricevere’ educazione. Non solo nel senso dell’insegnare, ma anche dell’apprendere. Il patto educativo implica una reciprocità tra soggetti che interagiscono. Dunque anche i genitori, anche gli adulti sono coinvolti. Questo è oggi molto importante. Il grado di ‘competenza’ che la società oggi richiede ai genitori, e agli educatori in genere, è molto alto. Un bambino cresce bene se ha una buona relazione con i suoi genitori. Ma perché tale relazione sia davvero buona, occorre che siano buone, significative (e bidirezionali) le relazioni tra i diversi tipi di ambiente in cui i bambini sono direttamente o indirettamente coinvolti (scuola, centri e servizi educativi di varia natura, reti familiari, ambiente lavorativo dei genitori, ecc.). Un noto psicologo-pedagogista (U. Bronfenbrenner, deceduto nel 2005) arrivò ad affermare che i bambini di prima elementare non imparano a leggere e scrivere solo se hanno buoni genitori a casa o delle buone maestre a scuola, ma anche se c’è una significativa relazione tra genitori e insegnanti. L’ambiente di sviluppo del bambino, complessivamente inteso, è importante, e i cerchi concentrici che costituiscono l’ambiente di sviluppo, come li definisce Bronfenbrenner, devono essere collegati tra loro da relazioni proficue. È importante dunque adoperarsi per potenziare la collaborazione con le famiglie e le altre agenzie educative, al fine di promuovere la comunicazione reciproca. Possiamo dire che l’orizzonte dell’educazione è sempre così ampio da coinvolgere giovani e adulti, famiglia e scuola, e alla fin fine la stessa società: la stupenda avventura di educare la persona e di formare le coscienze riguarda tutti e interpella tutti. Anzi, uno dei motivi per cui la preoccupazione educativa è seria e profonda è proprio per una certa latitanza dell’adulto – della famiglia in primo luogo e poi della scuola – su questa frontiera dell’educare. 1.3. Al di là dell’emergenza educativa Sappiamo che si parla spesso di “emergenza educativa”. L’espressione – che personalmente non uso volentieri – vuole evidenziare che è urgente affrontare in modo serio tutta la questione educativa. Faccio solo qualche accenno a certe situazioni più vistose, sintomi di un disagio molto diffuso. Sappiamo che di fronte al fenomeno della droga, che arriva ormai alla soglia della preadolescenza, da soli siamo impotenti. Sappiamo che il fenomeno ‘violenza’ è molto diffuso anche tra gli adolescenti, sappiamo che la piaga del bullismo non sembra risparmiare neppure la scuola vicina alla casa nostra. Sono solo cenni che ci dicono che la stagione più delicata, quella della fanciullezza e poi soprattutto dell’età evolutiva, oggi è alquanto a rischio. Per tanti motivi, certo. Ma se cerchiamo di andare alle radici del diffuso disagio che affligge le generazione più giovani, subito viene da pensare agli adulti. Forse sarà esagerato dire che siamo davanti ad una generazione di ragazzi e di giovani che sono senza padri e senza madri. Sì, sarà esagerato, ma nell’esagerazione si coglie un po’ di verità. Non mi riferisco solo al padre o alla madre in quanto tali, mi riferisco anche a tutte quelle realtà educative coinvolte nell’ambiente di sviluppo del bambino e dell’adolescente. Spesso le istituzioni non sono più in grado di dare un contributo significativo all’opera educativa in quanto mancano di persone motivate. Spesso le giovani famiglie sono in difficoltà, come lo sono anche le parrocchie nella loro pastorale giovanile e nei cammini di catechesi. Ma non voglio soffermarmi su questi aspetti che evidenziano le indubbie difficoltà. Anche perché non serve molto ripetere che la famiglia è latitante, che la scuola è in affanno, che la stessa comunità cristiana non intercetta più le domande dei giovani, che la televisione rischia di essere una cattiva maestra con la sua superficialità, con la volgarità, con la sua violenza, con il suo erotismo. 2. Il dono della capacità di ‘generare’ una persona esige la disponibilità a lasciarsi educare 2.1. Consapevoli di ciò che abbiamo ricevuto Una frase dell’apostolo Paolo può aiutarci ad andare oltre la descrizione delle difficoltà per renderci conto della nostra responsabilità. San Paolo così scrive al suo discepolo Timoteo: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mani” (Tim 1,6). Tutti noi adulti siamo come Timoteo: lo siete voi genitori ed educatori, lo siete voi sacerdoti e catechisti. Tutti dobbiamo ravvivare continuamente in noi stessi quel dono di Dio che è in noi, il dono della capacità di ‘generare’ – in senso pieno – una persona umana. Ogni cristiano ha ricevuto questo dono: è un sigillo impresso in noi, è il dinamismo dello Spirito che è in noi. Voi genitori avete ricevuto questo dono. È il dono della fede, della parola di Dio che ci è comunicata, del sacramento del battesimo, della confermazione, del matrimonio. È qualcosa di meraviglioso avere in noi questo dono che ci rende capaci di generare in senso pieno una persona umana. Siamo invitati a diventare sempre più coscienti che siamo resi capaci di compiere quest’opera straordinaria. Questo è il fondamento dell’educazione, e questo fondamento ci è donato. Se è vero che la persona si caratterizza per la coscienza e la libertà, l’educazione, che genera in senso pieno la persona umana, raggiunge il suo scopo quando contribuisce all’edificazione di una personalità capace di attuare, nel vivo della storia personale e comunitaria, un’esistenza cosciente, libera e responsabile, aperta agli altri e aperta a Dio. Allora voi comprendete che il problema educativo è anzitutto un problema degli adulti, prima ancora che delle giovani generazioni. Se è vera l’importanza dell’ambiente di sviluppo del bambino e dell’adolescente, se è decisiva la collaborazione con le famiglie e le altre agenzie educative al fine di promuovere la comunicazione reciproca, se è fondamentale l’orizzonte dell’educazione che coinvolgere giovani e adulti, famiglia e scuola, e alla fin fine la stessa società, allora non possiamo ignorare ciò che il contesto attuale è assai poco educativo. E tuttavia, pur consapevoli di ciò, gli educatori illuminati dalla fede in Gesù Cristo (genitori, docenti, catechisti) non possono dimenticare il dono ricevuto, anzi devono ravvivarlo. Se per caso la fiducia nel dono ricevuto fosse venuta meno, occorrerà impegnarsi per ritornare a credere nell’efficacia della grazia di Dio che anche oggi ci accompagna non meno di ieri. La ‘buona notizia’, che è Cristo stesso, ci raggiunge anche oggi nel cuore delle nostre relazioni educative. Gli educatori cristiani devono poi rinnovare la loro fiducia nel dono ricevuto ispirandosi alla visione cristiana dell’uomo in cui emerge la coscienza, la libertà, la responsabilità. Abbiamo a disposizione una grande tradizione personalista e comunitaria, fondata sull’antropologia cristiana che ci assicura una visione piena, globale, unitaria dell’uomo. Questo vuol dire ricuperare la centralità della persona umana, con i suoi diritti e i suoi doveri. Questo vuol dire ricuperare la relazionalità dell’uomo: relazionalità verso l’alto, con la sua apertura alla trascendenza, al bello, al vero e al giusto; relazionalità verso il prossimo, con l’amore, con la solidarietà, con la passione per la giustizia e la pace, con l’impegno per il bene comune, con uno stile di vita che rispetta il creato. Occorre sempre ricuperare questa centralità e relazionalità della persona umana. Possiamo in proposito usare l’espressione tipica della storia della salvezza, e cioè la ‘conversione’: abbiamo sempre bisogno di una continua e rinnovata conversione per passare dalla presunzione, dalla stoltezza e dalla superficialità alla verità di noi stessi e alla gratuità del nostro essere e del nostro esistere. 2.2. Offriamo una convincente ipotesi interpretativa della realtà Consapevoli del dono che abbiamo ricevuto, i genitori sono in grado di introdurre i figli nella realtà. Aiutandoli innanzi tutto a ‘vedere’ la realtà, sia con gli occhi della ragione sia con gli occhi della fede: così i figli si aprono verso ciò che ci circonda e allora scoprono la bellezza di Dio che ci ha generato e ci ha voluti come suoi figli e scoprono l’importanza di vivere l’amicizia con la natura, opera di Dio, come san Francesco ci ha insegnato con il suo stupendo Cantico delle creature. I figli vanno poi aiutati nel trovare una convincente ipotesi interpretativa per orientarsi nella realtà, una sorta di carta geografica che consente loro di muoversi nel mondo, una carta accompagnata dalla nostra ‘parola’ vissuta e testimoniata dalla esistenza quotidiana. Questa carta geografica che il genitore mette a disposizione del figlio è offerta in dono come carta affidabile, in quanto ha aiutato il genitore stesso a trovare la strada che sta percorrendo con gioia. Ma attenzione: l’immagine della carta geografica può trarre in inganno. Se l’educazione consistesse solo nel dare una carta geografica – o un navigatore satellitare –, forse sarebbe tutto più semplice, ma sarebbe anche tristemente meccanico, un qualcosa di poco umano. Nell’educazione non basta dare un oggetto o uno strumento, pur importante e prezioso: occorre dare se stessi, come ben sappiamo. Ma nessuno offre ciò che non ha. Dunque non si può educare e offrire una convincente ipotesi interpretativa della realtà se non si è in possesso di una seria e convinta interpretazione della realtà, giudicata bella ed esperimentata come vera, anche sulla base dell’esperienza della propria vita. Questo vuol dire avere autorità educativa, avere cioè il possesso sicuro di una proposta interpretativa del reale, che viene offerta e proposta alla verifica esistenziale di chi è coinvolto nel rapporto educativo. Per i genitori cristiani questo è proprio il dono ricevuto, questo è il grande dono che possono offrire. Lo offrono come fede che illumina, che interpreta, che genera a vita nuova, nella relazione vitale con i loro figli. Così i figli imparano a conoscere il volto di Dio in quanto ne ricevono la prima rivelazione da un padre ed una madre pieni di attenzione. Così come imparano il rispetto di ogni altra persona in quanto sono rispettati. 3. Come lasciarci educare educando? 3.1. Il tempo e il luogo Non basta educare all’uso delle cose e alla gestione delle relazioni – opera peraltro importante di iniziazione sociale –, occorre educare le giovani generazioni a passare dalle mille sensazioni al senso delle cose, dalla continua ricerca di gratificazione alla vera gratuità, dal capriccio al dominio di sé e della propria volontà. Occorre saper creare per i nostri ragazzi dei ‘luoghi’ educativi, per salvarli dai ‘non luoghi’ che spesso abitano. Un ‘luogo’ è formativo solo se il ragazzo sperimenta in esso una relazione con adulti significativi, se sperimenta l’accoglienza, la fiducia e il rispetto, realizzando così l’incontro autentico con gli altri nella libertà. Se i genitori sono sempre più indaffarati e vanno sempre più di fretta, rischiano di non saper e poter offrire il ritmo giusto e vero dell’educazione. Si esige un tempo lungo di relazione per formare la volontà. Se si presume di sostituire questo tempo lungo con il tempo del ‘tutto e subito, cioè senza tempo, non si offre la possibilità di crescere. Alcuni pedagogisti parlano di ‘bambini re’, cioè di bambini che esprimono desideri che vengono prontamente esauditi dagli adulti, come se questi fossero perennemente in colpa nei loro confronti, perché troppo spesso affaccendati in altre cose, incapaci di trovare il tempo indispensabile per educare, per vivere una vera e profonda relazione interpersonale. I bambini e gli adolescenti devono essere aiutati dagli adulti a fare l’esperienza dell’attesa, della conquista, del tempo e della fatica necessari per giungere a una meta. Crescono molto fragili i bambini che non hanno mai l’occasione di fare il loro allenamento alla giusta fatica. La caratteristica dell’educatore, genitore o insegnante o catechista, è quella di stare con, di sostare assieme, di stare in compagnia di, e quindi di assicurare il tempo necessario per una autentica relazione. I bambini e i ragazzi sperimentano così il coinvolgimento personale dell’adulto, che si mette in gioco compromettendosi e tuttavia mantenendo la distanza e la diversità. Queste veloci osservazioni valgono anche – anzi, valgono in modo particolare – per la diretta educazione alla fede. Il cristianesimo è un’esperienza, un fatto, un incontro: non è un’insieme di idee che si trasmettono con concetti, ma è la testimonianza viva e appassionata di un incontro con Gesù nella Chiesa. Questo l’adulto lo trasmette con la sua vita, prima ancora che con le parole. Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est (n. 1) ricorda che “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Nella luce di Dio che ci ha amati per primo (cf 1 Gv 4,10), potremmo dire che l’amore cui il Vangelo ci richiama, non è solo un ‘comandamento’, ma è la risposta gioiosa al dono di Dio che ci viene incontro in Cristo. Questa fede accolta e vissuta diventa testimonianza trasparente per educare alla fede. 3.2. La comunicazione Mi soffermo infine sul tema della comunicazione. Mi soffermo un po’ più a lungo, perché spero di poter far emergere le stupende possibilità che genitori e figli hanno nel costruire in modo congiunto un percorso educativo. Il progetto di vita familiare, in cui trovare il tempo e predisporre i luoghi, si attua grazie alla capacità dei genitori di impegnarsi per affermare la centralità della comunicazione: così si accoglie il figlio, fin dalla sua nascita per poi seguirlo nella crescita verso la maturità. Qui, nell’atto educativo, comunicare significa accogliersi e disporsi a condividere nella quotidianità più intima le relazioni felici e dolorose della vita in comune. È oggi particolarmente importante questa centralità della comunicazione, perché la famiglia vive in contesti piuttosto privati ed anche separati socialmente: pur cercando di favorire il dialogo con le diverse realtà educative, un certo isolamento culturale ed anche istituzionale della famiglia oscura le potenzialità di guida e orientamento proprie di ogni rapporto genitore-figlio. Allora la presenza e la qualità della comunicazione educativa nella realtà della famiglia sono oggi ancor più determinanti per favorire la progettualità esistenziale e personale del figlio. La consapevole pratica della conversazione assume allora, in questo contesto, un alto valore formativo. La conversazione rappresenta il mezzo dello scambio della parola, manifesta il carattere sociale dell’attività umana del vivere insieme, offre in modo argomentato, attraverso il pensiero, un’esperienza che predispone al riconoscimento di sé di fronte all’altro. L’uomo si afferma come soggetto davanti all’altro attraverso il racconto di sé, l’uomo riconosce l’altro – e così facendo riconosce se stesso – attraverso la conversazione (cum-versus), andando incontro all’altro ed essere così arricchito dell’esperienza raccontata e dalla riflessione manifestata e partecipata. È la famiglia il luogo privilegiato della conversazione, della pratica del mutuo scambio, della libera e ‘nuda’ (autentica, sincera, senza veli e reticenze) espressione del proprio stato d’animo, delle proprie passioni e dei propri affetti. La conversazione deve farsi ascolto profondo, sentito, dialogato, autentico. L’esercizio di questo ascolto quotidiano dispone i genitori all’accoglienza dei figli, sempre, e non solo al momento del loro affacciarsi alla vita. Deve crescere la consapevolezza educativa della forza delle ‘parole’ dei genitori verso i figli e deve essere sempre riconosciuta la possibilità formativa che i figli ricevono ed attivano in questo reciproco scambio. Nella conversazione familiare genitori e figli possono elaborare un progetto di vita dove la verità, la lealtà e la solidarietà innervano la relazione familiare e dove la condivisione di una comunità di affetti e di pratiche dell’esistenza conducono a sostenere il confronto con la realtà della vita associata. La ‘parola’ scambiata in famiglia è carica di significati condivisi che non offrono solo il senso della vita, ma garantiscono anche le concrete forme di vita attraverso cui il senso si esprime. In tal modo si esprime la dimensione più vera della costruzione della persona umana. La manifestazione di sé, attraverso l’apertura, l’ascolto, la conversazione, predispone all’esercizio costante dell’attenzione all’altro fino ad accogliere serenamente il limite insito nella diversità dell’uomo nei confronti dell’altro uomo. Dunque nella conversazione familiare il dialogo, l’ascolto e l’attenzione sono i mezzi attraverso cui i genitori e i figli, reciprocamente, mettono in atto una donazione condivisa di affetti, di senso della vita e di forme di vita. Questo progetto comune è sempre eticamente connotato, in quanto dice il significato del nostro essere nel mondo. Anche qui si esige una seria disposizione a sperimentare e ad imparare, quotidianamente. Perché tale progetto non è dato una volta per tutte e nemmeno può essere genericamente ricercato fuori dalla famiglia, nella società. Deve essere costantemente costruito e ri-vissuto tramite un esercizio assiduo di conoscenza personale che i genitori attueranno nell’educazione dei figli e i figli consegneranno ai genitori attraverso la circolarità del dialogo, della parola, dell’ascolto. Ciò non vuol dire che questo progetto non venga anche contestato e rifiutato in momenti particolari (soprattutto negli stadi della crescita evolutiva). Ma la conversazione, con tutto ciò che comporta, consente sempre la possibilità di ri-apprendere ciò che è stato messo da parte e farlo proprio in modo più personale e più autentico. Formare alla conversazione e lasciarsi formare attraverso la conversazione significa educare lasciandosi educare nel dialogo, nell’ascolto, nell’attenzione. Conclusione Dobbiamo aiutare l’adulto ad assumere responsabilmente il ruolo educativo, nella consapevolezza di quanto c’è in gioco nel passaggio da una generazione all’altra. Oggi occorre assumere un atteggiamento sempre più intenzionale e sempre più consapevole per realizzare la missione educativa. I genitori debbono poter dire: noi vogliamo essere veri educatori dei nostri figli. Questo suppone la figura di un adulto che comprende quanto sia necessario lasciarsi educare: uno non può essere padre se non è figlio. Ovviamente non solo nel passato – essere stato figlio –, ma nel presente, nell’oggi. E in ogni campo, non ultimo, certamente, nel campo della fede, il quale conosce pure, come ben sappiamo, la fatica della trasmissione educativa. Ma conosce pure tutta la gioia dell’educare alla fede, creando le condizioni per un reale incontro con Gesù Cristo nell’esperienza della vita familiare e nell’esperienza di quella ‘famiglia più grande’ che si chiama Chiesa, la comunità dei discepoli di Gesù.