Rolando RIVI

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ROLANDO, LA VOCAZIONE E IL MARTIRIO
Omelia di commemorazione del Servo di Dio Rolando Rivi
Abbiamo appena celebrato la Solennità di tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli
defunti. Oggi, per certi versi, prolunghiamo queste celebrazioni, commemorando un giovanissimo
seminarista, Rolando Rivi, che dopo aver risposto col dono della sua vita alla vocazione
sacerdotale, è stato chiamato anche ad una testimonianza drammatica della sua fedeltà alla sequela
del Signore.
1) Il seminarista: “Se uno mi vuol servire, mi segua”.
Il primo aspetto, da non sottovalutare soprattutto oggi, vista la cultura diffusa dell’uomo “senza
vocazione”1, è che siamo di fronte ad un giovane che si è lasciato condurre dallo Spirito di Dio a
seguire Gesù Cristo nella vocazione sacerdotale. Lo richiama esplicitamente il messaggio al nostro
Vescovo Adriano del Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, il Card. J. Saraiva
Martins. Rolando aveva già iniziato seppure giovanissimo — ma negli anni difficili della guerra i
ragazzi crescevano presto — a formarsi al ministero ordinato secondo la via ordinaria proposta dalla
Chiesa diocesana, cioè il Seminario. A Marola, i primi germi della vocazione al sacerdozio avevano
iniziato a crescere, anche se aveva dovuto abbandonare il Seminario, come gli altri giovani, a causa
del conflitto sempre più vicino e pericoloso. A casa sua, però, non aveva rinunciato a coltivare il
desiderio di dedicarsi alla Chiesa di Cristo, pronto a dare la sua vita nel servizio: aveva conservato
il suo abito talare e la sua amicizia con il Signore, anche in una situazione che avrebbe potuto
disorientarlo e distrarlo dalla sua strada.
Pensando alla mentalità corrente tra gli adolescenti di oggi, e però anche tra molti adulti, che si
diffonde in casa, a scuola, nei mass-media, è davvero un bel segno e un bel modello, un ragazzo che
mantiene ferma la sua identità vocazionale passando “attraverso la grande tribolazione” (cf. Apoc.
7, 9-17, prima lettura) fino alla rinuncia alla vita. Oggi, infatti, nella cultura europea2 e occidentale
in genere, viene diffusa tra i giovani una idea di uomo che è libero e quindi felice, solo se può
superare ogni limite e può scegliere ogni direzione da dare alla sua vita. Anzi, se ha la possibilità di
cambiare poi le scelte fatte: come un nomade che vaga senza meta, all’avventura, senza dare mai un
oggetto preciso e stabile ai propri desideri. Si fa crescere così un clima di timore che, scegliendo
una via e scartandone altre, ci si priva certamente di qualche possibilità di felicità. Sembra quasi
obbligatorio non fare scelte definitive, non “legarsi le mani”.
In questo modo, però, la personalità degli adolescenti e dei giovani oggi non può crescere
attorno ad un ideale di vita buono e vero, cioè ad una vocazione che darebbe la possibilità di
formare sé stessi in vista di uno stato di vita, di un servizio particolare, di una testimonianza
Pontificia Opera Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove Vocazioni per una Nuova Europa. Documento finale del
Congresso sulle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata in Europa (1997), n. 11 c.
2 Ivi, n. 11 a, b.
1
—2—
specifica. Essi rimangono nell’incertezza spirituale e nell’insicurezza dal punto di vista esistenziale
e affettivo. Un giovane o un adulto così lo si può manipolare e sedurre molto meglio, perché senza
grandi ideali è molto più dipendente dai suoi bisogni immediati o da quelli indotti, per esempio dal
consumismo. E a molti fa comodo una generazione giovanile così, che si adatta al pensiero
corrente, flessibile e debole, “senza vocazione” e “senza qualità”.
Per noi credenti che vogliamo proporre la conoscenza e l’amore per Gesù Cristo come l’unica
via per la realizzazione dei desideri profondi di ogni uomo e per raggiungere la felicità, questa
mentalità è un vero pericolo. È un ostacolo a rispondere in modo libero e maturo alla proposta di
una vita vissuta come vocazione. Perché ci si illude di avere più libertà, ma alla fine non si ama
seriamente nessuno, non ci si impegna per nessuna causa, non si dà alcun senso alla vita.
Per questo la figura di un seminarista che, pur giovanissimo, sa resistere nella fedeltà alla sua
vocazione per seguire Cristo, è sanamente provocatoria. È davvero alternativa e trasgressiva rispetto
a questa mentalità, che non capisce come si possa sacrificare la vita per una vocazione, per la
fedeltà a Gesù Cristo, per stare nella Chiesa e in fondo per non tradire sé stessi. Questa fedeltà
vocazionale è stata forse il segreto del giovane Rolando, che sopra alla percezione essenziale e però
sicura della sua chiamata particolare, ha basato la sua fede, anch’essa certo semplice, ma altrettanto
sicura: la vocazione ha sorretto e guidato la fede e la fedeltà. Questa è stata la “testimonianza” che è
sfociata nel sacrificio della vita in un solo atto, ma che avrebbe certamente potuto sorreggere
un’intera vita da prete, rendendola un “martirio” quotidiano non di sangue, ma di atti di fede, di
servizio alla gente, di carità pastorale verso tutti, di comunione con il Vescovo e con la Chiesa,
goccia dopo goccia.
L’insegnamento che ne traiamo è che nell’attuale condizione di debolezza educativa da parte di
tanti, sia delle famiglie che delle altre realtà, fino alle comunità cristiane comprese, occorrerà
rimettere davvero al centro la vocazione, la chiamata personale da parte del Signore. Occorre
tornare a credere e annunziare che lo Spirito suscita nei ragazzi, fina dalla giovanissima età, una
vocazione singolare. E lo fa sia con stimoli interiori da raccogliere nella preghiera e nel silenzio, sia
con stimoli esterni che possono venire dai testimoni, dai maestri spirituali, dai santi di oggi, o anche
dagli eventi della vita della Chiesa e della storia degli uomini, se decifrati però con gli occhi della
fede, allenati a cogliere i segni di Dio dentro i segni dei tempi.
Chi non educa a scoprire la vocazione particolare, non educa! Farà fare esperienze positive,
farà emergere dei talenti e delle potenzialità, ma non fa scoprire quel “dono” che ciascuno ha da Dio
(Ef 4,7) e favorirà così una esistenza banale. Il discorso vale per i genitori, oggi così restii a dare
orientamenti ai figli, per i catechisti timorosi di parlare di vocazione e di vocazioni, per gli
educatori dei giovani, per le guide spirituali… per tutta la comunità cristiana. Lo ripetiamo: solo da
una vocazione compresa, accolta, che ha trasformato il cuore, la mente e la volontà, nasce la forza
del martirio e della testimonianza quotidiana.
2) Il martire: “Se il chicco di frumento muore, produce molto frutto”.
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Il secondo aspetto di questa celebrazione è il tema del martirio, in parte già accennato, come
emerge chiaramente dalla Parola di Dio che abbiamo scelto. C’è un’obiezione, emersa in questi
giorni per la beatificazione dei 498 martiri della persecuzione religiosa in Spagna negli anni Trenta.
Si è detto che, con questo atto, si riaprivano “vecchie ferite” e si provocavano ulteriori divisioni
politiche. I Vescovi spagnoli — ricordo qui quello di Salamanca (24 ott. 2007) e l’Arcivescovo di
Barcellona (26 ott. 2007) — hanno dato delle ragioni utili per capire meglio il martirio cristiano,
confermate anche dal Card. Saraiva Martins e dal Segretario di Stato. Hanno detto che “i martiri
sono al di sopra delle circostanze tragiche che li hanno condotti alla morte”, poiché essi “non
erano in guerra con nessuno e sono morti dando testimonianza di amore e di perdono, nei confronti
di quanti li privavano della vita per il semplice fatto di essere cattolici… Beatificandoli, la Chiesa
non vuole accusare nessuno”, ma presentarli ai credenti come modelli e alla società come invito
alla riconciliazione e alla pace. Per sua natura, la “beatificazione favorisce la riconciliazione e la
cura delle ferite, mostrando che i martiri non le hanno mai avute aperte nel loro cuore”. La Chiesa
“coltiva solo la memoria dell’amore e della pace”.
Del resto Pietro nella sua prima Lettera, esorta i fedeli a non essere “sorpresi” per la
persecuzione, essa non è qualcosa di “strano” (1 Pt 4,12-19, seconda lettura). Anzi c’è qui un
mistero tipico della nostra fede: attraverso di essa si partecipa alle sofferenze di Cristo, alla sua
croce, quindi si gode anche della sua risurrezione. Così Pietro può dire, con quel linguaggio
paradossale che è tipico della fede cristiana: “Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo”!
Avete la certezza che “lo Spirito della gloria, lo Spirito di Dio riposa su di voi”. Il cristiano
perseguitato per la sua testimonianza di fede o per la sua fedeltà alla vocazione o per la sua carità
coerente, non vuole la vendetta, non porta rancore, prega per i suoi persecutori e invoca il perdono
del Padre su di loro, come Gesù sulla croce e come Stefano, il primo martire (cf. At 7,60), modello
dei ministri del Vangelo martiri.
Con spirito evangelico, anche noi vogliamo pregare per i persecutori antichi e contemporanei,
della Chiesa, affinché sia guarito il loro cuore, siano aperti i loro occhi, vedano la bellezza del
Vangelo e sperimentino la gioia di credere e di amare Gesù di Nazaret morto e risorto, che è Via,
Verità e Vita, anche per loro!
3) Vocazione e martirio: un doppio legame
C’è però un doppio legame tra vocazione e martirio, come appare dal Vangelo di Giovanni (Gv
12,24-26) che deve essere richiamato. Se è vero che la vocazione esprime il suo “sì” più pieno,
assoluto, dinanzi alla morte, è anche vero che il morire è la condizione di fecondità di ogni
vocazione.
“Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sarò io là sarà anche il mio servo”. È quello che ha
fatto Rolando, che ha voluto “servire” il Signore nella vocazione al sacerdozio e si è trovato a
seguirlo fino alla morte cruenta. Prestissimo nella sua vita si è trovato là dove si trova il Cristo
risorto. La sua vocazione ha trovato pienezza nel sacrificio della vita.
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Ma il Vangelo dice anche: “…se il chicco di frumento non muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto”. Il male, la violenza degli uomini, l’oscuramento della verità e del
bene causato dalla guerra, si sono dirette sulla giovane vita di Rolando e l’hanno annientata. Ma chi
può valutare quanto bene ne è venuto per tutti quei giovani seminaristi e non, che hanno deciso di
imitarne la fedeltà e di testimoniare con coraggio le loro idee o di rispondere con generosità ad una
vocazione di speciale consacrazione? Chi può sapere quante coscienze sono state mosse verso la
ricerca di una maggior giustizia personale, dalla conoscenza del sacrificio di un giovanissimo
innocente, morto perché cristiano e seminarista? Chi può dire per quante persone credenti o no,
questa sia stata la goccia che ha fatto decidere di abbandonare definitivamente gli atteggiamenti
della violenza che genera solo violenza, alla ricerca di strategie di riconciliazione e di convivenza
rispettosa e solidale? E quanta salutare “purificazione della memoria” (invocata da Giovanni Paolo
II per il grande Giubileo) è stata favorita dallo sgomento per questa morte innocente di un giovane
amico di Gesù Cristo, con il proposito di dimenticare i rancori affinché non si ripetessero “mai più
guerre” come quella?
Col sacrificio della vita Rolando ha dato fecondità ad una vocazione apparentemente stroncata
sul nascere, perché ha obbedito alla legge pasquale, che governa la vita e la storia, del chicco di
frumento che fruttifica solo se muore.
Rendiamo grazie a Dio
Ora, rendiamo grazie a Dio, in questa Eucaristia, perché certamente “il Padre lo ha onorato”,
avendo servito anche se per poco tempo, ma “fino in fondo”, il Signore; e chiediamo in memoria di
Rolando per la nostra Chiesa di Reggio Emilia–Guastalla e per tutte le Chiese in ogni parte del
mondo, “operai per la messe”, che facciano vedere il Signore Gesù con la loro vita, testimoniandolo
e annunciandolo a tutti.
+ Lorenzo, Ausiliare
Pieve di San Valentino (Castellarano) – sabato 3 novembre 2007
S. Messa in commemorazione del Servo di Dio, Rolando RIVI, seminarista martire, in occasione
della nuova copertura del sepolcro posto sotto il pavimento della pieve di San Valentino e della
intitolazione a Rolando Rivi del piazzale adiacente alla chiesa.
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