POLANYI, K. Roosevelt manda in fumo la Conferenza. IN: POLANYI

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POLANYI, K. Roosevelt manda in fumo la Conferenza. IN: POLANYI, K.
Cronache
della
grande
transformazione.
Torino:
Einaudi
Paperbacks, 1993. p. 115-120.
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Roosevelt manda in fumo la Conferenza
Se, dopo l’anatema scagliato da Roosevelt contro la stabilizzazione
delle monete [Nota 1], la Conferenza economica mondiale verrà
aggiornata oppure si rassegnerà a proseguire a vuoto, è quasi
indifferente. Né un generale abbassamento delle difese doganali, né una
regolamentazione di determinati settori produttivi su scala mondiale
sono possibili senza una preventiva stabilizzazione dei rapporti fra le
monete. Per la conclusione di accordi regionali sull’abolizione dei
controlli sui cambi o su altre cose del genere non è necessaria, d’altro
canto, una conferenza mondiale. Sul carattere definitivo del no
americano non ci si deve fare comunque alcuna illusione. L’ipotesi che si
tratti solo di tattica disconosce il nocciolo della situazione: l’esistenza di
fatto dell’intenzione del governo americano di non ritornare al gold
standard per molto tempo. È vero che l’America nel corso di quest’anno
ha cambiato due volte punto di vista: in gennaio difendeva la stabilità
del dollaro contro la sterlina che oscillava; in aprile lasciava cadere il
dollaro con l’intenzione di costringere la sterlina a un’intesa monetaria,
senza prendere posizione sull’alternativa che si apriva: che le due
monete oscillassero insieme o insieme ritornassero all’oro. Sembra
adesso che l’America si sia decisa per l’oscillazione, sempre che il
messaggio di Roosevelt alla Conferenza mondiale debba esser preso alla
lettera. Il Presidente tesse entusiasticamente le lodi dell’indicizzazione
della moneta. Egli afferma solennemente, quasi con fervore, la sua
volontà di lasciare in eredità alle future generazioni di americani non la
stabilità del corso delle divise, ma la stabilità del potere d’acquisto del
denaro. Stando cosí le cose, è stupefacente che gli americani a Londra si
attengano ancora alla finzione che la Conferenza possa conseguire una
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collaborazione internazionale in campo monetario. Ma l’ovvia
spiegazione sta nel fatto che gli americani non desiderano altro che
l’adozione della moneta indicizzata da parte di tutti gli Stati; a questo
punto, la fatica di Sisifo del mantenimento dei rapporti fra le singole
monete nazionali indicizzate aprirebbe un vasto campo alla
collaborazione internazionale... Certo l’America potrebbe pensarci su
ancora e cambiare ancora una volta il suo atteggiamento riguardo alla
questione delle monete. Praticamente, tuttavia, ciò non potrebbe
annullare l’ultima presa di posizione; non si potrà comunque tornare
molto presto a credere nella tradizionale «fedeltà all’oro» dell’America.
Se Roosevelt domani tornasse a cambiare il suo no in un sí, egli non
metterebbe in tal modo in atto una tattica, ma darebbe semplicemente
prova di indecisione. A ogni possibile tattica mancherebbe lo scopo. È
superata l’ipotesi che il vero obiettivo dell’America sia un abbattimento
della protezione doganale. Certo ancora in primavera era cosí. Allora
l’America pensava di usare il dollaro come arma contro le barriere
doganali degli altri paesi: di prospettare, cioè, la stabilizzazione della
propria moneta in cambio della possibilità di collocare più liberamente le
proprie merci sul mercato mondiale. Si dava per scontato, naturalmente,
che l’America avrebbe rinunciato alla propria politica protezionista per
inaugurare un’epoca di libero scambio: ma questo oggi non è più vero.
L’America ha deciso di tentare la via di un piano economico che le
consenta di trarsi d’impaccio da sé, ciò che conduce necessariamente al
protezionismo o per lo meno a non rinunciare alla libertà di difendere la
propria economia con una cintura di dazi. Si è tolto il terreno sotto i
piedi, in questo modo, a qualsiasi serio tentativo politico-commerciale di
ottenere dagli altri la diminuzione dei dazi. L’America insomma non ha
più a Londra alcun positivo scopo di politica economica da perseguire. A
prescindere dalla sua efficacia, il fendente di Roosevelt contro la moneta
aurea è comunque un fendente, non una finta.
Le difficoltà incontrate dai paesi a moneta aurea nel trovare un rimedio
efficace
contro
questo
fendente
deriva
dall’atteggiamento
dell’Inghilterra. Qui agisce la nemesi. L’Inghilterra ha fatto male i conti.
Essa differiva di proposito la stabilizzazione della sterlina per ottenere,
con la pressione esercitata facendo oscillare la propria moneta, che
l’America rimaPágina 117
sta fedele all’oro procedesse alla cancellazione dei debiti. L’unico
risultato, invece, è stato che anche l’America ha abbandonato l’oro
senza aver ceduto sui debiti, lasciando inoltre oscillare il dollaro con
maggiore ampiezza della sterlina. La City ha misconosciuto il fatto che,
dopo essersi imposta alla migliore, la moneta cattiva, vincitrice, diventa
ancora peggiore. L’argomento della minaccia di una svalutazione
concorrenziale delle monete, col quale MacDonald voleva evitare il
naufragio della Conferenza, si ripercuote adesso non tanto contro
l’America, che ha direttamente insidiato la Conferenza, quanto contro
l’Inghilterra stessa, che contro voglia si è messa sulla scia dell’America.
Quindi l’Inghilterra non potrebbe venire incontro ai paesi a moneta
aurea, anche se lo volesse. Invano essa ha mantenuto stabile per mesi
la sterlina nei confronti del franco: non può piú permetterselo nel
momento in cui entra in pista il dollaro. E questo non solo a causa del
Canada e dell’Australia, il cui mercato seguirà più facilmente il dollaro
che le preferenze scritte sulla carta di Ottawa, ma anche per le tendenze
presenti nella madrepatria, dove lo scivolamento della sterlina, in
presenza di prezzi interni costanti, non ha eliminato il problema
dell’eccessivo costo dei prodotti di esportazione.
Gli agricoltori votano democratico.
Roosevelt tuona contro coloro che adesso vorrebbero stabilizzare le
monete. Su di essi ricadrebbe la colpa della sopravvenuta catastrofe
mondiale, su di essi peserebbe la maledizione della rovina del mondo.
Non è casuale che Roosevelt, l’aristocratico originario delle sofisticate
regioni della Nuova Inghilterra, si lasci andare al linguaggio allegorico da
vecchio testamento di un Bryan, il coraggioso bimetallista che voleva
preservare l’umanità dall’essere «crocifissa su una croce d’oro»[Nota 2];
non è casuale che egli manifesti la propria opposizione con questo stile
che sa di rozzezza affettata. Roosevelt è il primo democratico che ha
unificato a suo favore i voti «sicuri» del Sud e quelli dei farmers del
Middle West. Ciò significa che la composizione del partito democratico si
è completamente rinnovata. Il legame di Roosevelt con queste categorie
di elettori si stabilí già molto prima delPágina 118
le votazioni e precisamente in occasione della Convenzione democratica
a Chicago, dove egli fu nominato candidato del partito alla presidenza.
Roosevelt riuscí a sfondare, contro «Al» Smith e gli Stati orientali, solo
con l’aiuto dell’ala radicale del partito, che prendeva sempre più forza e
che conta fra i propri leaders i senatori John N. Garner (attuale vice
presidente), MacAdoo (California), Long (Louisiana), Wheeler (Montana).
A essi egli deve anche l’appoggio fornitogli dalla catena editoriale di
Hearst, nazionalista e inflazionista fino in fondo, il cui influsso si estende
dalla costa del Pacifico al Middle West. Ma non solo all’interno del
vecchio quadro del partito si ebbe un radicale rimescolarmento. Anche in
occasione delle elezioni, infatti, agí potentemente a favore di Roosevelt
nelle regioni agricole l’influsso di repubblicani progressisti come i
senatori Hiram Johnson e Norris. Essi rappresentano quelle masse di
elettori che da sempre vedono in Wall Street la personificazione di quel
«capitale internazionale» che si fa i suoi affari europei tradendo
l’America. Questo schieramento già l’anno scorso si è fatto promotore
del Goldsborough Bill, primo segnale d’allarme dell’inflazionismo
emergente. La possibilità di un’evoluzione in questo senso era ancora
dissimulata, al tempo della Convenzione di Chicago, dal fatto che il
programma del partito proveniva dalla vecchia ala liberista. In questa
vanno annoverati non solo la maggior parte dei collaboratori di Wilson
come il colonnello House, Newton Baker, Norman Davis e John W. Davis,
ma soprattutto i rappresentanti del cosmopolitismo delle grandi città
dell’Est, personalità come «Al» Smith, Owen D. Young, Melvin Trayler,
Walter Lippmann, tutti molto influenti nel partito e avversari
dell’isolazionismo e della politica protezionistica. Ora, è un fatto molto
rilevante che nemmeno uno dei rappresentanti del gruppo di Wilson o
dei «liberali» sia diventato senatore o deputato. L’influenza di questi
gruppi nel Congresso, quindi, è limitata. Dopo la vittoria di Roosevelt si
riteneva che candidati per il Ministero del tesoro fossero Owen D. Young
e «Al» Smith: fu poi nominato William H. Woodin, un ex repubblicano.
Ministro dell’agricoltura non diventò nessuno della vecchia guardia, ma
Henry Aggard Wallace, repubblicano e inflazionista radicale. Il senatore
Carter Glass, che gode della massima autorità nel partito repubblicano
come fautore di
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Una politica monetaria conservatrice, è rimasto fuori. Roosevelt
presidente non va scambiato per Roosevelt governatore dello Stato di
New York. Questo Stato non gli ha dato i voti dei propri delegati alla
Convenzione. Roosevelt è oggi il presidente degli agricoltori colpiti dalla
crisi, la cui rivolta alla fine di febbraio si era già estesa in ventidue stati.
A metà gennaio il North Dakota aveva deciso che gli stati agricoli
dovevano separarsi definitivamente dagli stati finanziari dell’Est: New
York, Massachussetts, Maine, New Hampshire, Vermont, Connecticut,
Rhode Island e New Jersey. Era certo un atto meramente dimostrativo,
ma pur sempre significativo di una tendenza regionalistica il cui
contenuto sociale e di politica economica oggi in America si chiama
Franklin D. Roosevelt. A lui guarda anche l’esercito dei milioni di
disoccupati, i quali si uniscono all’esercito degli imprenditori senza
prospettive per la propria attività nel richiedere che venga creata
occupazione. Il nuovo gruppo di consiglieri chiamato Brain Trust
rappresenta lo stato maggiore fascistico-pianificatore che si appresta a
comandare la marcia in questa direzione.
L’ubriacatura inflazionistica.
L’America oggi ha orecchie solo per la propria poderosa laboriosità. Il
16 giugno si è chiusa la sessione straordinaria del Congresso che ha
conferito i pieni poteri al Presidente, poteri quali finora non sono mai
stati accordati all’esecutivo da un parlamento democratico. Il Presidente
può limitare drasticamente le superfici coltivabili, indennizzando gli
agricoltori col ricavato di una tassa sulla lavorazione industriale dei
prodotti agricoli; può istituire cartelli obbligatori e stabilirne i
regolamenti in fatto di prezzi minimi, di durata massima del lavoro e di
salari minimi; può togliere il diritto di esercitare la loro attività alle
imprese recalcitranti che non si adattano ai regolamenti; può decretare,
in qualsiasi estensione e direzione, contingenti, autorizzazioni
all’importazione, divieti generali d’importazione o l’aumento dei dazi per
proteggere dalla concorrenza estera le industrie sottoposte a cartello
obbligatorio; può ordinare la chiusura di banche e prescrivere le
condizioni alle quali è loro consentito riaprire
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gli sportelli; può diminuire fino alla metà il valore in oro del dollaro.
Appena chiusa la sessione straordinaria, Roosevelt nomina un dirigente
con l’incarico di mettere in pratica il National Industrial Recovery Act
(Nira), un «coordinatore» per tutto il sistema ferroviario e un
amministratore temporaneo per i nuovi lavori pubblici. Viene costituito
un comitato di gabinetto per favorire la collaborazione tra i titolari dei
nuovi incarichi. Vengono creati comitati consultivi di industriali e di
dirigenti sindacali. In realtà il generale Hugh S. Johnson, il
plenipotenziario nominato a capo della gestione del Nira, lavorava già da
metà maggio a preparare la riorganizzazione. Il 27 giugno ha luogo la
prima audizione, nell’ambito della legge sui cartelli obbligatori, degli
industriali interessati. Sempre sulla base del Nira, vengono devoluti dal
Presidente 400 000 dollari per la costruzione di strade. Si incomincia a
riscuotere della tassa sulla lavorazione dei prodotti agricoli, nonostante il
conseguente aumento del 100% del prezzo del grano... Nessuno osserva
che i pieni poteri rappresentano alternative che si escludono a vicenda;
che l’attività febbrile è priva di qualsiasi piano effettivo; che gli aumenti
dei prezzi rispecchiano in parte la tendenza nel mercato mondiale, in
parte la previsione di una svalutazione della moneta; in parte, infine,
sono aumenti solo nominali, cartacei, ma in realtà diminuzioni se i prezzi
vengono calcolati in oro. L’America è in stato di euforia: tanto che è
passato quasi inosservato il 3 luglio, data in cui il Presidente ha silurato
la Conferenza economica mondiale.
[8 luglio 1933].
NOTAS
Nota 1 – página 115
[Si tratta del messaggio di Roosevelt del 3 luglio, come ricorda Polanyi
stesso alla fine dell’articolo. Il 5 luglio Roosevelt preciserà e ribadità la
propria posizione in una «dichiarazione complementare»].
Nota 2 – página 117
[Riferimento al discorso noto come «Cross of gold speech», tenuto a
sostegno del bimetallismo il 9 luglio 1896 da William J. Bryan alla
Convenzione democratica di Chicago].
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