Il Condominio come consumatore

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I diritti del condominio come
consumatore finale
DR. CRISTINA CARPINELLI
Sommario
1 Le fonti della disciplina consumeristica. - 2 Il condominio e le norme a tutela
del consumatore. - 3 I contratti conclusi dal condominio consumatore finale. Le
clausole vessatorie. - 4 Clausole vessatorie e regolamento contrattuale del
condominio.
1 Le fonti della disciplina consumeristica.
Le prime elaborazioni in materia di contratti dei consumatori sono state svolte negli Stati Uniti d’America e
risalgono agli anni trenta del secolo scorso (1). Peraltro, l’esperienza nordamericana costituisce, tuttora, il
principale modello di tutela del contraente debole cui la cultura occidentale si ispira, sia per l’elevato grado di
controllo amministrativo, sia per la variegata ed interessante casistica esaminata (cd. leading cases).
In Europa, a seguito dei primi interventi nazionali in materia da parte di Gran Bretagna, Francia e Germania, si è
avvertita per la prima volta a livello comunitario l’esigenza di intraprendere una politica comune in materia di
protezione del consumatore in occasione del vertice di Parigi del 1972 a seguito del quale è stata emanata, con la
risoluzione n. 543 del 1973 dell’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa, la Carta Europea di Protezione dei
Consumatori. In particolare, in tale documento sono stati elencati, per la prima volta a livello comunitario, i
diritti riconosciuti ai consumatori nei singoli stati membri, vale a dire, il diritto alla protezione ed all’assistenza,
specie giuridica e amministrativa; il diritto al risarcimento in caso di danno provocato da un prodotto difettoso e
da informazioni errate su di esso; il diritto all’informazione ed all’educazione; il diritto alla rappresentanza.
Successivamente all’emanazione della Carta Europea di Protezione dei Consumatori, sono divenuti sempre più
numerosi gli interventi legislativi comunitari in materia. Difatti, l’Atto Unico europeo, entrato in vigore l’1 luglio
1987, ha previsto, all’art. 100A, che la Commissione si debba basare “su un livello di protezione elevato” nelle
proposte elaborate in materia di sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori, mentre
il Trattato di Maastricht, entrato in vigore l’1 novembre 1993, nell’undicesimo titolo dedicato per l’appunto alla
protezione dei consumatori, ha attribuito specifiche competenze in materia all’Unione. L’impegno della
Comunità europea a promuovere gli interessi dei consumatori ed assicurare un livello elevato di protezione è
stato poi trasfuso, prima, nel Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 e, successivamente, in quelli di Nizza del
26 febbraio 2001 e di Lisbona del 13 dicembre 2007.
Il consumatore viene, quindi, tutelato dalla normativa comunitaria non solo nel momento dell’acquisto di un
bene o di un servizio, ma anche nella fase precedente ed in quella successiva. Difatti, viene presa in
considerazione l’intera attività di impresa o professionale diretta al consumatore, che lo vede coinvolto già in fase
di marketing, nella fase di trattativa precontrattuale e poi in quella successiva alla conclusione del contratto.
L’obiettivo che si prefigge la normativa è quello di educare ed informare il consumatore in modo sempre più
approfondito al fine di eliminare quella condizione di asimmetria che connota la posizione del consumatore
rispetto al professionista. Inoltre, la tutela non opera più solo sul piano sostanziale, ma anche sul piano
processuale con lo strumento delle azioni inibitorie, delle class action e dei recenti meccanismi di soluzione
alternativa delle controversie. Sono, pertanto, numerose le norme che il legislatore comunitario ha emanato, a
mezzo direttive o regolamenti, allo scopo di armonizzare nei singoli stati membri la tutela dei consumatori, al
punto che si ritiene che le maggiori novità in materia siano dovute al progressivo adattamento del diritto interno
alla normativa comunitaria.
Ed invero, per quanto concerne l’ordinamento italiano, prima della recente produzione normativa legata
all’obbligo di conformazione alle direttive comunitarie, la tutela consumeristica non era particolarmente diffusa.
Difatti, il codice civile del 1942 prevedeva la sola disciplina dei contratti per adesione agli artt. 1341 e 1342, la
quale si è rivelata ben presto inadeguata atteso che la stessa non incide sui poteri contrattuali dei contraenti,
lasciando al predisponente la più ampia libertà di determinare il contenuto del contratto. La previsione
dell’approvazione per iscritto della singole clausole, se da un canto assicura un’effettiva conoscenza del
regolamento contrattuale da parte dell’aderente, d’altro canto non garantisce la piena comprensione del
significato delle previsioni contrattuali accettate. Ciò in quanto il più delle volte il soggetto aderente non ha le
conoscenze tecniche e le competenze giuridiche tali da consentirgli di operare scelte ponderate e compiere
valutazioni approfondite sulle condizioni contrattuali specificamente approvate.
Pertanto, al fine di rendere più effettiva la tutela del consumatore, in attuazione di specifiche direttive
comunitarie, sono state emanate dal legislatore interno norme, sia applicabili trasversalmente a tutti i contratti dei
consumatori, sia norme regolanti specifici settori. In particolare, appartengono alla prima categoria le norme
relative alla disciplina delle clausole vessatorie contenute nei contratti dei consumatori (L. 6 febbraio 1996 n. 52,
che ha introdotto nel codice civile gli artt. 1469 e ss., oggi trasfusi nel Codice del Consumo) ed alla pratiche
commerciali scorrette (D.lgs 2 agosto 2007 n. 146, che ha novellato l’art. 27 del Codice del Consumo), quelle
inerenti la responsabilità del produttore per prodotti difettosi (D.P.R. 24 maggio 1988 n. 224, oggi trasfuso nel
Codice del Consumo), le norme disciplinanti i contratti negoziati fuori dai locali commerciali (D.lgs 15 gennaio
1992 n. 50, oggi trasfuso nel Codice del Consumo) ed a distanza (D. lgs 22 maggio 1999 n. 185, oggi trasfuso nel
Codice del Consumo) ed, infine, le norme relative a taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di
consumo (D.lgs 2 febbraio 2002 n. 24, che introdotto nel codice civile gli artt. 1519 bis e ss., oggi trasfusi nel
Codice del Consumo). Rientrano, invece, nella seconda categoria le norme emanate per regolamentare i contratti
conclusi dagli investitori e dai risparmiatori (D.lgs 24 febbraio 1998 n. 58), i contratti di vendita di diritti di
godimento a tempo parziale di beni immobili (D.lgs 9 novembre 1998 n. 427, oggi trasfuso nel Codice del
Consumo) e di immobili da costruire (D.lgs 20 giugno 2005 n. 122), i contratti di assicurazione (D.lgs 7
settembre 2005 n. 2009), i contratti bancari (D.lgs 1 settembre 1993 n. 385) e la vendita dei pacchetti turistici
(D.lgs 17 marzo 1995 n. 111, oggi trasfuso nel Codice del Consumo).
A fronte l’elevata produzione normativa in materia, nel quadro di un programma politico di riassetto di
disposizioni dotate di una propria autonomia e specialità, è stato emanato il Codice del Consumo (D.lgs 6
settembre 2005 n. 206) con il dichiarato intento di armonizzare e riordinare le svariate norme concernenti i
processi di acquisto e di consumo, al fine di assicurare un livello elevato di tutela del consumatore. Tale testo ha
avuto il pregio di accorpare e ricomporre le varie regole sparse nel sistema, arginando il rilevante fenomeno di
decodificazione determinato dal continuo ricorso alla legislazione speciale.
1.1 La nozione di consumatore.
La legge 6 febbraio 1996 n. 52, che ha introdotto nel codice civile gli artt. 1469 bis e ss. in tema di clausole
vessatorie nei contratti dei consumatori, ha fornito una prima definizione di “consumatore” nel nostro
ordinamento. Tale nozione è attualmente contenuta nel Codice del Consumo, che ha sostituito, abrogandole, le
disposizioni contenute negli artt. 1469 bis e ss. c.c. Ebbene, ai sensi dell’art. 3 del Codice del Consumo si intende
per “consumatore o utente, la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale,
commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta”. Correlativamente, si intende per “professionista,
la persona fisica o giuridica che agisce nell'esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale
o professionale, ovvero un suo intermediario”.
Nonostante la norma in esame parli chiaramente del consumatore come persona fisica, molti sono stati i dubbi
interpretativi sorti in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla qualificazione giuridica del consumatore ed alla
conseguente applicabilità della disciplina di maggior tutela introdotta. In particolare, si è ritenuto non ragionevole
non estendere l’applicazione della normativa in parola ai professionisti, alle piccole imprese ed alle imprese
artigiane, la cui posizione contrattuale sarebbe del tutto assimilabile a quella del consumatore persona fisica. Tale
problematica, peraltro, è stata esaminata anche dalla Corte Costituzionale (2), la quale, recependo l’orientamento
espresso dalla Corte di Giustizia (3), ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale, non
ritenendo irragionevole la scelta del legislatore di limitare la tutela in parola alla sola persona fisica che agisce per
scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.
Ne deriva che, allo stato, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della tutela forte di cui
alla disciplina del codice del consumo, non vi sono dubbi che la qualifica di consumatore spetti esclusivamente
alle persone fisiche e che la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere
considerata alla stregua del semplice consumatore soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di
esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività. Correlativamente deve essere
considerato professionista, tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che, invece,
utilizzi il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. In altri termini, perché ricorra la
figura del professionista non è, pertanto, necessario che il contratto sia posto in essere nell'esercizio dell'attività
propria dell'impresa o della professione, essendo sufficiente che esso venga posto in essere per uno scopo
connesso all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale (4).
2 Il condominio e le norme a tutela del consumatore
In tale contesto, si è posto ben presto il quesito se il condominio possa considerarsi un “consumatore” nei
termini anzidetti, specie nei rapporti con i fornitori e manutentori.
Al fine di fornire una risposta al quesito in parola, occorre, anzitutto, definire la natura giuridica del condominio.
Come è noto, manca nel codice civile una definizione compiuta di condominio. Peraltro, la riforma introdotta
con la legge 11 dicembre 2012, n. 220 non ha proposto una nozione di condominio, né ha modificato la sua
collocazione, entro il terzo libro, nel titolo dedicato alla comunione, sicché, allo stato, può affermarsi che il
concetto di condominio sia il risultato di una intensa attività di elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria.
Orbene, si ha la nascita di un condominio quando in un edificio coesistono proprietà esclusive e parti comuni
indivise, le une legate alle altre da un intimo nesso di reciproca complementarietà e funzionalità. In particolare, il
dato peculiare del condominio si rinviene nel disposto dell'art. 1117 c.c. (5) il quale contempla due differenti
forme di collegamento, tra i piani e le porzioni di piano, da una parte, e le cose, gli impianti ed i servizi di uso
comune, dall'altra: un collegamento materiale e uno funzionale, consistente il primo nella incorporazione tra
entità inscindibili, il secondo nella congiunzione tra res separabili. Il primo si manifesta come necessità per
l'esistenza o per l'uso (il tetto, le fondamenta, le scale, ecc.), che rende le cose in proprietà individuale e le cose
comuni inseparabili le une dalle altre, pur nella autonoma rilevanza giuridica. Il secondo nesso, che si traduce
nella destinazione all'uso o al servizio, ha luogo da una unione fisica stabile tra le res, che tuttavia può essere
posta nel nulla senza grave deterioramento dei beni (impianto di riscaldamento, tubature, ascensore, ecc.).
Questo particolare collegamento tra i beni individuali e i beni comuni, cui l'ordinamento dà rilevanza giuridica
ponendolo a fondamento del diritto di condomino, è stato definito in giurisprudenza come "relazione di
accessorietà", espressione che traduce in maniera unitaria e più esauriente quei collegamenti desumibili dall'art.
1117 c.c., perché racchiude in sé sia il legame funzionale, sia la connessione materiale, in quanto l'accezione
giuridica dell'accessorietà - desumibile dalle varie disposizioni codicistiche che a diversi fini ne fanno menzione esprime, quanto alla funzione, il carattere complementare delle cose, degli impianti e dei servizi comuni rispetto
ai piani o alle porzioni di piano, nel senso che ne evidenzia la mancanza di una utilità fine a se stessa e la
subordinazione strumentale delle parti comuni; esprime, inoltre, la connessione materiale, che determina la
mancanza di autonomia fisica dei beni pur non escludendo il permanere della individualità giuridica (6).
In conclusione, quanto alla natura giuridica del condominio, secondo la dottrina prevalente, il condominio rientra
nella nozione di comunione ed è regolato dalle sue norme, stante il richiamo operato dall’art. 1139 c.c. alle norme
della comunione ordinaria. Per la particolarità del suo oggetto, tuttavia, esso si qualifica come una comunione
speciale, cui si applicano norme apposite che integrano ovvero derogano le norme della comunione ordinaria.
2.1 Il problema della personalità giuridica del condominio
Il condominio, in quanto caratterizzato dalla contitolarità del diritto di proprietà delle parti comuni, costituisce
una situazione intermedia tra il concetto di persona fisica e quello di persona giuridica sicché rilevante è il
dibattito sul tema della soggettività e/o personalità giuridica dello stesso.
La giurisprudenza, con orientamento costante, ha definito il condominio come ente di gestione sfornito di
personalità giuridica distinta da quella dei singoli condomini (7).
In dottrina, viceversa, il riconoscimento della personalità giuridica del condominio è stato invocato da più parti
anche alle luce delle previsioni presenti in diversi orientamenti europei.
Tuttavia, come si rileva anche dalla relazione al testo unificato proposto dalla Commissione giustizia del Senato
per i disegni di legge (8), il legislatore della riforma del 2012 non ha colto l’occasione per introdurre la personalità
giuridica del condominio, conservando la tradizionale configurazione pluralistica dello stesso. In particolare, la
Commissione ha ritenuto che doveva essere salvaguardata l’assoluta prevalenza dell’autonomia funzionale ed
economica delle singole unità abitative rispetto alla funzione meramente strumentale al miglior godimento del
bene di proprietà individuale che caratterizza le parti comuni del condominio. Si è, inoltre, evidenziato che
appariva, nella maggior parte dei casi, impossibile l’attribuzione di un autonomo patrimonio al condominio quale
presupposto dell’attribuzione ad esso della capacità giuridica e, d’altro canto, che l’estensione al condominio di
un regime gestionale analogo a quello previsto per le società avrebbe potuto determinare il pericolo di una
compressione del diritto di proprietà dei condomini in minoranza.
Pertanto, anche a seguito della legge di riforma, rimane saldo il principio secondo cui il condominio è un ente di
gestione privo di personalità giuridica.
2.2 Il Condominio come consumatore finale
Sulla scorta della natura di mero ente di gestione del condominio, l’orientamento ormai consolidato della
giurisprudenza di merito e di legittimità ritiene che il condominio possa essere qualificato come “consumatore”
con conseguente applicabilità allo stesso della tutela predisposta dal Codice del Consumo (D.lgs 6 settembre
2005 n. 206) e dalle altre norme di settore citate in favore del consumatore.
Invero, dal momento che il condominio è considerato un ente di gestione sfornito della personalità giuridica
distinta dai suoi partecipanti, la qualità di consumatore che spetterebbe ai singoli condomini, in quanto persone
fisiche che agiscono per scopi estranei all’attività esercitata, si estende anche all’ente di gestione (9). Ciò avviene
in quanto l’ente condominio è deputato alla mera amministrazione dei beni comuni gestiti attraverso le
prestazioni professionali dell'amministratore il quale svolge una gestione collegiale degli interessi individuali dei
singoli condomini. Difatti, i contratti conclusi dall’amministratore non vincolano l’amministratore in quanto tale,
ma i singoli condomini, operando l’amministratore come mandatario con rappresentanza degli stessi (10).
Tale aspetto costituisce senz’altro un risvolto positivo del mancato riconoscimento della personalità giuridica in
capo al condominio. Difatti, un’eventuale attribuzione al condominio della personalità giuridica, tesi che,
peraltro, come è stato già evidenziato, è autorevolmente sostenuta da parte della dottrina, comporterebbe, come
logica conseguenza, l’esclusione del condominio dalla tutela forte prevista in favore del consumatore in quanto
persona giuridica, e non più di persona fisica nell’accezione di cui innanzi.
Occorre dare atto, poi, che, in sede giudiziaria, l’assunto secondo il quale il condominio debba essere considerato
un consumatore ha trovato forti opposizioni. L’argomento che è stato sovente utilizzato per negare il principio in
parola è quello secondo cui l’ente di gestione, nella maggior parte dei casi, agisce sulla base di un rapporto di
mandato conferito all'amministratore, il quale, munito di specifiche competenze professionali e di un rilevante
potere negoziale, deve essere necessariamente considerato un professionista. In altri termini, si sostiene che
l'amministratore ha una piena capacità tecnica e giuridica idonea per comprendere la portata delle clausole
contrattuali, contrattare e decidere se accettare o meno una specifica regolamentazione contrattuale, sicché, da
tale premessa, conseguirebbe che al condominio non potrebbe essere applicata la disciplina di tutela del
consumatore. La tesi in parola, peraltro, potrebbe essere oggi avvalorata dalla circostanza che il legislatore
richiede una sempre maggiore professionalità agli amministratori di condominio. Difatti, la riforma del 2012,
introducendo l’art. 71 bis nelle disp. att. c.c., ha subordinato l’attribuzione dell’incarico di amministratore alla
sussistenza di precisi requisiti di formazione e di onorabilità. Né va sottaciuto che, specie nei casi di
supercondomini particolarmente complessi, l’amministrazione condominiale sovente è affidata a società operanti
nel settore dotate di specifiche competenze in materia.
Tale impostazione, tuttavia, non risulta avallata dalla giurisprudenza prevalente. Difatti, quest’ultima, in
situazioni analoghe, si è pronunciata considerando del tutto irrilevante la circostanza che il consumatore agisca da
solo o attraverso persone legate ad esso attraverso rapporti di varia natura, sostenendo che la valutazione circa la
natura di professionista o consumatore va fatta con esclusivo riferimento alla posizione soggettiva del
committente, indipendentemente dal fatto che lo stesso agisca da solo o coadiuvato da incaricati di sua fiducia.
Tale conclusione, peraltro, si impone anche sulla scorta del rilievo secondo cui l'amministratore condominiale
agisce come mero mandatario dei singoli condomini e non quale organo del condominio.
Ne consegue che nel, caso in cui ad agire in giudizio al fine di far valere i diritti del condominio, sia
l’amministratore in rappresentanza della compagine condominiale ai sensi dell’art. 1131 c.c., devono ritenersi
operanti le norme a tutela del consumatore, mentre dovrà escludersi l’applicabilità della normativa in parola nel
solo caso in cui l’intero condominio sia costituito da persone giuridiche ovvero da professionisti. Difatti, in tale
ipotesi non si potrà affermare che il condominio mutua la natura di persona fisica dai singoli condomini che lo
compongono, essendo costituito, nella sua totalità, da soggetti diversi da persone fisiche. Viceversa, qualora sia
presente nella compagine condominiale anche un solo soggetto/persona fisica che agisca per scopi estranei alla
sua attività professionale, dovrà ritenersi applicabile la disciplina a tutela del consumatore, ben potendosi ritenere
che l’amministratore del condominio agisca in giudizio come mandatario in rappresentanza del condomino
consumatore.
Va, poi, evidenziato che, a fronte la stipula da parte dell’amministratore del condominio di contratti contenenti
clausole vessatorie, anche ciascun singolo condomino avrà il diritto di far valere la nullità delle clausole in
questione. Appare opportuno precisare, tuttavia, che l’applicabilità delle norme a tutela dei consumatori nei
rapporti contrattuali in cui il condominio è parte non dovrebbe avvenire in via automatica, ma andrebbe
verificata caso per caso. Difatti, come già sopra evidenziato, è ben possibile che nella compagine condominiale vi
sia un condomino (persona fisica ovvero persona giuridica) che agisca per scopi professionali. Si pensi al caso del
professionista che svolge la propria attività in un immobile sito in un condominio. Ebbene, in tal caso i contratti
stipulati da quest’ultimo, oltre ad avere come scopo quello di conseguire un miglior godimento dalle cose
comuni, potrebbero avere come scopo anche quello della maggiore fruibilità dell’immobile al fine di incentivare
l’attività professionale in esso svolta. In tale ultimo caso, il condomino in parola potrebbe essere qualificato come
professionista, secondo la definizione che attualmente ne dà la giurisprudenza, con conseguente esclusione della
maggiore tutela prevista in favore dei consumatori.
L’argomento, trattato da parte della dottrina, non risulta essere stato esaminato dalla giurisprudenza né di merito,
né di legittimità, sicché si auspicano pronunce chiarificatrici sul punto.
3I
contratti conclusi dal condominio consumatore finale. Le
clausole vessatorie
Assai frequente è il ricorso allo strumento contrattuale per la gestione ed amministrazione delle parti e dei servizi
comuni del condominio. Si pensi, ad esempio, ai contratti d’appalto stipulati con l’impresa appaltatrice per la
manutenzione ordinaria e straordinaria di beni condominiali, ai contratti di prestazione d’opera stipulati per la
manutenzione degli impianti condominiali (ascensore, autoclave, riscaldamento, ecc.), ai contratti stipulati con le
imprese di pulizia, ai contratti di fornitura di utenze (luce, gas, acqua), ai contratti di assicurazione e bancari
(conto corrente).
In tutti questi casi e nei limiti su evidenziati, il riconoscimento della qualifica di consumatore in favore del
condominio comporta l’applicabilità in favore dello stesso delle norme a tutela del consumatore contenute nel
Codice del Consumo, ivi incluse le disposizioni in tema di clausole vessatorie contenute agli artt. 33 e ss., e nelle
altre leggi di settore su richiamate.
Con particolare riferimento alle clausole vessatorie, giova osservare, in generale, che, ai sensi dell’art. 33 del
Codice del Consumo, nel contratto concluso tra il consumatore ed il professionista, si considerano vessatorie le
clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti
e degli obblighi derivanti dal contratto. Va, poi, precisato che per “significativo squilibrio” deve aversi riguardo,
non alle condizioni economiche dello scambio previsto nel contratto, bensì al regolamento contrattuale, vale a
dire al complesso dei diritti e dei doveri posti a carico delle parti. Difatti, l’art. 34, primo comma, del Codice del
Consumo stabilisce che la vessatorietà di una clausola è valutata tenendo conto della natura del bene o del
servizio oggetto del contratto e facendo riferimento alle circostanze esistenti al momento della sua conclusione
ed alle altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende, nonché, al secondo comma,
che la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell'oggetto del contratto,
né all'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e
comprensibile.
Nell’articolo in oggetto, è specificato, inoltre, che non sono vessatorie le clausole che riproducono disposizioni
di legge ovvero che siano riproduttive di disposizioni o attuative di principi contenuti in convenzioni
internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell'Unione europea o l'Unione europea.
Il legislatore, nel dettaglio, individua, poi, due tipologie di clausole vessatorie. In particolare talune clausole,
espressamente elencate nell’art. 33, comma primo, sono considerate vessatorie fino a prova contraria (11),
mentre altre clausole, espressamente elencate nell’art. 36, comma primo, sono sempre considerate vessatorie (12).
Con riferimento alla prima categoria, il codice del consumo consente al professionista di fornire la prova che le
clausole in questione non siano state imposte al consumatore unilateralmente dallo stesso, ma siano state oggetto
di trattativa individuale, nel senso che siano state oggetto di una specifica e trasparente negoziazione tra il
professionista ed il consumatore. L’onere di fornire tale prova spetta al professionista, sicché, in mancanza di tale
prova, le clausole in questione devono ritenersi vessatorie.
Per quanto concerne la seconda categoria di clausole (cd. black list), considerata la loro insidiosità, devono
ritenersi sempre vessatorie, anche se sono state oggetto di specifica trattativa.
Quanto alle conseguenze derivanti dall’inserimento di clausole vessatorie in un contratto stipulato tra un
consumatore ed un professionista, il Codice del Consumo statuisce che le clausole vessatorie, ai sensi dell’art. 36,
debbano considerarsi nulle. Al riguardo, in dottrina ed in giurisprudenza si è parlato di nullità di protezione.
Difatti, essendo posta a tutela del contraente debole, la stessa opera solo a vantaggio del consumatore e può
essere rilevata d’ufficio dal giudice. Va evidenziato, inoltre, che lo stesso art. 36, comma primo, precisa che il
contratto rimane efficace per il resto, nel senso che non trova applicazione, nel caso di specie, il disposto dell’art.
1419, comma primo, c.c. in tema di nullità parziale del contratto secondo il quale la nullità di singole clausole
importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del
suo contenuto che è colpita dalla nullità.
Orbene, in materia condominiale è possibile verificare la presenza di clausole vessatorie sia nei regolamenti
contrattuali predisposti dal costruttore, sia nei contratti stipulati dal condominio ovvero dal suo amministratore
per l’acquisto e/o fornitura di beni e servizi.
Tuttavia, nonostante la frequente possibilità di applicazione della normativa in oggetto nell’ambito condominiale,
occorre segnalare che, non solo, l’argomento non risulta essere stato trattato approfonditamente dalla dottrina,
ma anche che non si rinvengono in giurisprudenza numerosi precedenti in tema.
Un caso esaminato di recente dalla dottrina riguarda il quesito del se possa ritenersi legittima, in riferimento alle
norme contenute nel Codice del Consumo, una clausola di conciliazione giudiziale stipulata da un condominio ai
sensi dell’art. 5 del D.lgs 4 marzo 2010 n. 28, come sostituito dall'articolo 84, comma 1, lettera e), del D.L. 21
giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98. L’art. 5 in parola si riferisce
espressamente all’accordo di conciliazione contenuto in un contratto in virtù del quale le parti scelgono
concordemente di avviare un procedimento di mediazione per le controversie che potrebbero insorgere in un
determinato rapporto giuridico. Al riguardo, gli interpreti hanno risposto positivamente, sulla base dell’assunto
che la conciliazione non ha la natura di atto sostitutivo o derogatorio all’azione giurisdizionale e non esclude il
diritto ad agire in giudizio del condominio e dei suoi componenti. Tale impostazione troverebbe conferma
nell’art. 141 del Codice del Consumo, laddove è stabilito che non sono vessatorie la clausole inserite nei contratti
dei consumatori aventi ad oggetto la composizione extragiudiziale della controversia ad organi conciliativi.
Altra parte della dottrina, ha però evidenziato che la previsione contenuta nell’art. 5 che consente di
predeterminare l’organismo di mediazione in caso di controversia potrebbe presentare dei profili di
incompatibilità con la disciplina di cui all’art. 33, secondo comma, lett. u), del Codice del Consumo che stabilisce
la vessatorietà della clausola che preveda un foro diverso, in caso di controversia, da quello del domicilio o di
residenza del consumatore. Ciò in quanto molti professionisti, al fine di disincentivare il ricorso alla tutela
giudiziaria a tutela dei diritti del consumatore, hanno introdotto nella propria contrattualistica una clausola di
predeterminazione unilaterale dell’organismo di conciliazione, individuando organismi di conciliazione siti in
luoghi molto lontani rispetto al domicilio del consumatore, costringendo in tal modo quest’ultimo ad onerose
trasferte in caso di attivazione dei propri diritti.
3.1 In particolare il contratto di manutenzione dell'ascensore ed il
contratto di assicurazione. Nullità di protezione delle clausole
vessatorie ed intervento integrativo del giudice
Una questione esaminata dalla giurisprudenza è quella afferente l’inserimento, nel contratto di manutenzione
dell’impianto ascensore, di una clausola che consente al condominio di recedere anticipatamente dal contratto in
parola esclusivamente previo pagamento di un corrispettivo pari all’intera prestazione non goduta (13).
Al riguardo, giova premettere che le attività di manutenzione e riparazione dell’impianto ascensore consistono in
tutte quelle operazioni finalizzate al mantenimento nel tempo del corretto funzionamento dell’impianto
elevatore: si tratta, in particolare, di quell’insieme di attività di carattere preventivo indispensabili per assicurare il
corretto funzionamento dell’ascensore e la riparazione e/o sostituzione dell’impianto, peraltro, da espletare
obbligatoriamente con cadenza semestrale ai sensi del D.P.R. 30 aprile 1999 n. 162.
Quanto alla durata del rapporto, nella prassi commerciale, si osserva che, in talune circostanze, i contratti in
discorso individuano un ammontare di ore destinate al servizio di manutenzione, il cui esaurimento coincide con
il termine finale del contratto. Altre volte, invece, questi contratti si caratterizzano per avere una durata prefissata
(di regola annuale o pluriennale), eventualmente accompagnata da una clausola di rinnovo tacito. In caso di
mancata pattuizione della durata del contratto, sorgono dubbi ermeneutici circa la disciplina applicabile al diritto
di recesso. La soluzione di tali dubbi dipende dalla natura giuridica che si attribuisce al contratto in questione. Ed
invero, secondo la dottrina prevalente, detto contratto sarebbe inquadrabile nell’appalto di servizi, ossia il
contratto con il quale, ai sensi dell’art. 1655 c.c., la società manutentrice assume, con organizzazione dei mezzi
necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un servizio verso il corrispettivo del prezzo. Da tale
impostazione deriva, quanto al diritto di recesso, che la disciplina legale dell’appalto prevede una deroga al
generale principio di vincolatività del contratto di cui all’art. 1372 c.c., attribuendo al committente una facoltà di
recesso ad nutum, subordinata, ai sensi dell’art. 1671 c.c., al rimborso delle spese sostenute, al pagamento del
compenso per l’attività svolta ed ad una somma per il mancato guadagno. Altra parte della dottrina ritiene,
invece, che il contratto in oggetto vada piuttosto inquadrato nell’ambito del contratto di somministrazione di
servizi, disciplinato dagli artt. 1559 e ss. c.c. in forza del rinvio di cui all’art. 1677 c.c., tipologia di contratto che
consente, ai sensi dell’art. 1569 c.c., ad entrambe le parti l’esercizio del recesso, fatto salvo l’obbligo per ciascuno
di darne preavviso entro il termine pattuito, entro quello previsto dagli usi ovvero entro un congruo termine,
tenuto conto della natura del contratto.
La qualificazione del contratto di manutenzione dell’ascensore come appalto finisce per avere conseguenze
rilevanti in ordine al giudizio di vessatorietà di alcune clausole. Difatti, talune imprese, attraverso l’utilizzazione
combinata di alcune clausole, privano il condominio consumatore della facoltà di recesso, imponendo
unilateralmente una deroga all’art. 1671 c.c. In particolare, molti professionisti sono soliti predisporre dei
contratti standard, dei quali si servono nei rapporti con i singoli condomini, attribuendosi in via esclusiva una
facoltà di recesso dal contratto a fronte di un vincolo temporale assai gravoso per il consumatore. Non vi è chi
non veda che si tratta di un’evidente alterazione dell’equilibrio del contratto e di una palese manifestazione di
supremazia delle società predisponenti in quanto dette clausole corrispondono ad un interesse facente capo
esclusivamente al professionista, essendo il consumatore, al contrario, interessato a svincolarsi in ogni momento
dal rapporto contrattuale in parola, stante la natura essenzialmente fiduciaria dello stesso.
Tra le clausole considerabili vessatorie che con maggiore ricorrenza vengono inserite nei contratti manutenzione
dell’ascensore rientra senz’altro quella, oggetto della pronuncia di merito su richiamata, che prevede che, in caso
di risoluzione anticipata su richiesta o per colpa del committente, il canone previsto sarà comunque dovuto per
intero alla società fino alla naturale scadenza del contratto. In tal caso la vessatorietà della clausola risiede nel
fatto che la penale prevista è eccessivamente elevata, comportando per il condominio l’esborso di cifre
assolutamente esorbitanti in caso di esercizio del diritto di recesso. Ciò in quanto in tali contratti molto spesso è
pattuita, altresì, una clausola di variabilità dei prezzi per effetto della quale il corrispettivo del servizio, calcolato in
base al costo dei materiali e della manodopera, deve essere aggiornato a seguito delle variazioni che si
verificheranno nel corso del contratto con riferimento ai valori di percentuale dell’inflazione rilevabile su base
dell’indice Istat aumentato dello 0,50%, sicché, in tali ipotesi, si espone il condominio consumatore al rischio di
restare forzatamente vincolato ad un contratto che, nel corso del rapporto, potrebbe risultare estremamente
sfavorevole dal punto di vista economico.
Orbene, la giurisprudenza che ha esaminato la clausola in parola ha ritenuto che la stessa sia vessatoria e,
dunque, nulla ai sensi dell’art. 33 del Codice del Consumo, in ragione del beneficio assolutamente sproporzionato
che la società appaltatrice otterrebbe a fronte della mancata esecuzione della prestazione. In particolare, è stata
affermata la vessatorietà della clausola in esame indipendentemente dalla riconducibilità della stessa nella
categoria delle clausole di cui al comma 2, lett. f), del citato art. 33, non costituendo l’elenco di clausole
“presuntivamente vessatorie” in esso contenuto, un numero chiuso, ma esemplificativo, integrabile dal giudice
attraverso l’applicazione dei canoni generali del “significativo squilibrio tra le parti” e della buona fede oggettiva,
sanciti dal primo comma dello stesso articolo.
Nel caso di specie, il tribunale, inoltre, aderendo sostanzialmente alla tesi che riconduce il contratto in parola
nella tipologia dei contratti di appalto di servizi, ha affermato che la nullità della clausola in questione non
comporta una assoluta libertà di recesso per il condominio consumatore in quanto a fronte di tale diritto, sancito
dall’art. 1373 c.c., permarrebbe comunque un obbligo risarcitorio per il condominio nei confronti della società
appaltatrice ai sensi dell’art. 1671 c.c., norma che prevede l’obbligo del committente di “tenere indenne
l’appaltatore … del mancato guadagno”.
In un'altra pronuncia di merito che ha trattato il tema dell’applicabilità delle clausole vessatorie nella materia
condominiale, si è discusso in ordine alla validità di una clausola inserita in un contratto di assicurazione che
attribuiva la possibilità di recedere dal contratto esclusivamente al professionista (14). In tal caso, il giudicante ha
affermato il principio secondo cui la clausola che attribuisce al solo professionista (nel caso de quo, la compagnia
assicuratrice), e non anche al consumatore condominio, il diritto di recesso debba essere considerata
presuntivamente vessatoria ex art. 33 comma 2, lett. g), del Codice del Consumo e, conseguentemente, nulla ai
sensi dell'art. 36, determinando, inoltre, l'integrazione giudiziaria della clausola, con l'attribuzione di eguale facoltà
all'assicurato consumatore e, come ulteriore conseguenza, l'inesigibilità dei premi assicurativi successivi alla
comunicazione di recesso. In buona sostanza, l'assunto della pronuncia è che, nel contratto di assicurazione, la
clausola di recesso unilaterale, determina uno sbilanciamento delle posizioni di vantaggio e di rispettivo
svantaggio, posto che il consumatore è obbligato al pagamento del corrispettivo pattuito per tutta la durata del
contratto, mentre, al contrario, tale impegno non è previsto per l'assicuratore il quale può recedere prima della
scadenza naturale del contratto.
In entrambe le fattispecie esplorate dalla giurisprudenza di merito è venuto in rilievo il problema della
integrazione del contratto a seguito della declaratoria di nullità di una clausola vessatoria. In particolare, i giudici
che hanno affrontato le questioni di cui sopra hanno provveduto ad integrare le fattispecie negoziali esaminate,
nel primo caso, applicando il diritto dispositivo e, nel secondo caso, con intervento additivo.
Ed invero, può verificarsi che, all'esito della dichiarazione di nullità della condizione contrattuale abusiva, il
contratto possa continuare a produrre effetti senza alcun bisogno di un intervento integrativo, ma può anche
accadere che la caducazione della clausola possa determinare o l'applicazione del diritto dispositivo, o la necessità
di un intervento additivo da parte del giudice.
Nonostante la rilevanza della questione, manca, tuttavia, una regolamentazione espressa dell'integrazione del
contratto successivamente alla dichiarazione di nullità delle clausole.
Va segnalato che militerebbero contro la sussistenza di un potere di integrazione del contratto da parte del
giudice, sia una interpretazione letterale della direttiva n. 93/13 che bandisce ogni integrazione del contratto
prevedendo che lo stesso rimanga vincolante inter partes secondo i medesimi termini, sia la circostanza che
l'integrazione giudiziale potrebbe determinare pur sempre un effetto di vantaggio per il professionista. Non si è
mancato di rilevare, però, che l'intervento giudiziale è teso a ripristinare l'equilibrio del contratto pregiudicato
dalla clausola abusiva utilizzata dal professionista qualora non vi sia alcuna norma idonea ad integrare il
contenuto del contratto. Emblematico è, in tale prospettiva, l'intervento integrativo del giudice che, al cospetto di
una clausola abusiva che prevede una penale pecuniaria eccessiva, anziché provvedere ad una declaratoria di
nullità operi una riduzione ad equità della stessa.
Sull'intervento integrativo del giudice permane, dunque, una divisione piuttosto netta tra coloro che ne
caldeggiano l'ammissibilità e coloro che sollevano perplessità. Va, comunque, rilevato che gli interventi integrativi
del giudice sul regolamento contrattuale non sono sconosciuti al nostro ordinamento se si pensa alle pronunce
emesse in applicazione del principio di buona fede — ad in tale prospettiva l'art. 1375 c.c. secondo cui il
contratto deve essere eseguito secondo buona fede è tradizionalmente inserito nell'ambito delle fonti di
integrazione del contratto — oppure ad alcuni interventi normativi che prevedono esplicitamente tale potere
giudiziale. Inoltre, anche l'applicazione del principio di equità previsto dall'art. 1374 c.c. autorizza il giudice a
determinare alcuni aspetti del regolamento contrattuale non regolati dalle parti e non definiti dalla legge o dagli
usi consentendogli l'individuazione di una regola riferita al caso concreto e specifico. Si tratta di un potere
giudiziale, previsto, dunque, dal nostro ordinamento, finalizzato a salvaguardare l'interesse generale alla
conservazione dei contratti e ad operare un riequilibrio degli stessi.
3.2 Il contratto di utenza di energia
Uno dei contratti più frequentemente stipulato dall’amministratore condominiale è senz’altro quello relativo
all’erogazione dei servizi energetici, unanimemente inquadrato nel contratto di somministrazione di cui agli artt.
1559 e ss. c.c.
In tale materia, oltre alla tutela prevista in favore del consumatore, al fine di limitare le violazioni dei diritti degli
utenti finali ed incrementare la qualità del servizio, è stata costituita altresì l’Autorità per l’energia elettrica ed il
gas (c.d. Aeeg), la quale è stata munita di poteri, sul lato della protezione dei consumatori, di regolazione delle
tariffe e dei livelli di qualità di servizi, di controllo delle condizioni di svolgimento dei servizi, di valutazione dei
reclami e di gestione della procedura di conciliazione ed arbitrato, che le consente di introdurre una disciplina
speciale ed integrativa del diritto comune, incidendo in senso limitativo sull’autonomia contrattuale dei singoli.
In tale contesto, quindi, alle norme codicistiche si sono affiancate le puntuali e dettagliate disposizioni
regolamentari dell’Autorità per l’energia elettrica ed il gas.
Tale potere autoritativo, peraltro, è stato oggetto di una pronuncia della Suprema Corte la quale ha stabilito che
il potere normativo secondario dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas si può concretare nell'emanazione di
direttive che, attraverso l'integrazione del regolamento predisposto dal soggetto esercente il pubblico servizio,
possono indirettamente integrare il contenuto dei contratti di utenza individuali, ai sensi dell’art. 1339 c.c., anche
in deroga alle norme di legge, a condizione che queste ultime abbiano carattere dispositivo e che tale deroga sia
prevista nell'interesse dell'utente (15).
Va, infine, segnalato che, secondo quanto imposto dall’Unione Europea, dall’1 luglio 2007, ciascun consumatore
domestico può liberamente decidere da quale venditore ed a quali condizioni acquistare energia elettrica e gas. Ne
deriva che il consumatore che esercita tale diritto entra nel “mercato libero” che consente di decidere a quale
venditore rivolgersi e che tipo di contratto stipulare. Viceversa, al consumatore che non intende operare questa
scelta, saranno applicate le condizioni economiche e contrattuali previste dall’Autorità per l’energia elettrica ed il
gas. Si tratta del “servizio di maggior tutela” per il settore elettrico e “servizio di tutela” per il gas con cui sono
state introdotte nuove forme di tutela degli utenti sotto il profilo dell’informazione e della trasparenza delle
offerte commerciali.
4 Clausole vessatorie e regolamento contrattuale del
condominio
Ai fini di una corretta delimitazione del campo di indagine sulle clausole vessatorie e regolamento di condominio,
occorre precisare che sono estranei alla materia i regolamenti di origine “interna”, ossia approvati dall’assemblea
con il quorum di cui all’art. 1138, comma 3, c.c., poiché gli stessi traggono dall’approvazione assembleare il
fondamento della loro obbligatorietà; invero, deve negarsi la natura contrattuale dei regolamenti costituiti
mediante una deliberazione collegiale dell’organo condominiale, con cui si intende munire la compagine
condominiale di un complesso di regole giuridiche per la gestione del condominio piuttosto che comporre un
contrasto tra una pluralità di parti.
Peraltro, anche se approvato all’unanimità di tutti i proprietari, in tale regolamento assembleare, difetterebbe pur
sempre l’imprescindibile riferimento alle contrapposte posizioni soggettive del “consumatore” e del
“professionista”, che è la ratio della disciplina speciale; qualora tale regolamento contempli clausole “vessatorie”
ex artt. 33 ss. del Codice del Consumo, l’inoperatività della tutela di protezione del consumatore consegue al
fatto che, in questa ipotesi, non si rinviene alcuna imposizione da parte di un terzo (soggetto forte), ma la
volontaria autosoggezione da parte della stessa compagine condominiale in via assolutamente paritaria (c.d.
autoregolamentazione non eterologa).
La nuova normativa consumeristica trova, invece, la sua piena operatività nei regolamenti di origine “esterna”,
ossia predisposti dall’originario unico proprietario dell’edificio o dal costruttore. Invero, accade frequentemente
che, nella prassi delle negoziazioni nel settore immobiliare, un terzo, originario e unico proprietario dell’immobile
(il costruttore o l’unico acquirente dell’intero edificio) predisponga unilateralmente un testo regolamentare che
viene successivamente accettato, via via, dagli acquirenti delle singole unità immobiliari. Tale atto, in particolare,
prevede molto spesso, condizioni ingiustificatamente gravose e discriminatorie per gli acquirenti, imponendo
cospicui vincoli alla proprietà con il fine di incrementare, in favore del costruttore/unico originario proprietario
dell’edificio, il valore dell’immobile. Si tratta di clausole che limitano il diritto di proprietà esclusiva oppure che
prevedono speciali esoneri di uno o più proprietari da alcune spese condominiali, l’uso esclusivo di alcune parti
comuni in favore di un solo proprietario o modificazioni svantaggiose delle tabelle millesimali e altre clausole
sfavorevoli. Capita di frequente, inoltre, che il costruttore/venditore si riservi ulteriori vantaggi da esercitare
anche dopo aver alienato tutte le unità immobiliari, come il diritto di autorizzare l’apposizione di targhe o
insegne, svolgere determinate attività all’interno dell’edificio, ovvero riservarsi la nomina di un amministratore
condominiale di propria fiducia. Il regolamento in esame, allegato ai singoli atti di acquisto stipulati dai diversi
condomini, rimane trascritto presso la Conservatoria dei registri immobiliari ed è menzionato come parte
integrante dell’atto di compravendita che l’acquirente dichiara di conoscere ed accettare oppure, anche se non
materialmente inserito nel contratto di compravendita, fa corpo con esso allorché sia espressamente richiamato
ed approvato, di modo che le sue clausole rientrano per relationem nel contenuto dei singoli contratti di acquisto,
vincolando i singoli acquirenti indipendentemente dalla trascrizione.
Il discorso in parola riguarda, quindi, le clausole “contrattuali” del regolamento le quali, proprio perché traggono
la loro fonte nel predetto titolo di natura convenzionale, possono restringere o comprimere l’esercizio dei poteri
di disposizione o/e di godimento dei condomini in ordine, sia alle cose comuni, sia a quelle di proprietà
esclusiva, imponendo vincoli di inalienabilità, circoscrivendo la libertà di godimento, vietando alcune destinazioni
di uso, ecc.; mentre minori preoccupazioni destano le clausole c.d. “regolamentari”, volte alla mera disciplina
d’uso o di godimento delle cose comuni, le quali - secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente - possono
essere modificate con i quorum di cui all’art. 1136, comma 2, c.c., anche se inserite in un regolamento
contrattuale, essendo rilevante il contenuto concreto della clausola, e non le modalità con cui il regolamento
viene formato.
Orbene, la dottrina prevalente ha sempre sottolineato l’anomalia di un regolamento condominiale contenente
clausole del genere in quanto indirizzato a disciplinare non solo i rapporti tra i singoli condomini in ordine all’uso
dei beni comuni, ma anche i rapporti tra condomini e venditore, che, peraltro, in sede assembleare, non
verrebbero mai deliberate proprio perché comportanti rilevanti limitazioni ai diritti di proprietà dei singoli e della
collettività condominiale. Inoltre, è stato evidenziato che tale regolamento, diversamente da quello assembleare,
non è il risultato della concreta e reale volontà dei condomini in quanto non viene discusso ed approvato
collegialmente, ma diventa vincolante ed obbligatorio, per ogni condomino, in virtù di un negozio giuridico,
distinto ed autonomo, con il quale quest’ultimo si impegna ad osservarlo integralmente: un negozio, in altri
termini, che non deriva dalla volontà dell’assemblea, ma da un fatto del terzo costruttore/venditore dell’edificio,
che in tal modo esercita pienamente il proprio potere negoziale ed economico.
Orbene, a fronte le clausole più “invasive” dei diritti dei proprietari (c.d. clausole “aggiunte”), per molti anni, si è
posta in dottrina ed in giurisprudenza la problematica della possibilità della loro eliminazione dal testo
regolamentare contrattuale o attraverso una declaratoria di illegittimità delle stesse o per mezzo di una delibera
assembleare adottata a maggioranza piuttosto che con il consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio.
L’orientamento dominante era quello secondo cui suddette previsioni sarebbero immodificabili senza l’unanimità
dei contraenti, stante la natura essenzialmente contrattuale delle stesse. In particolare, si riteneva, sulla scorta
della giurisprudenza consolidata, di merito e di legittimità, che il regolamento in esame, configurando un vero e
proprio “contratto condominiale” (avente, in quanto tale, forza di legge tra le parti), non potesse consentire la
modifica o la soppressione delle clausole negoziali “aggiunte” se non in forza di un nuovo accordo tra contraenti
adottato all’unanimità. Da tale impostazione derivava molto spesso l’impossibilità per il condominio di approvare
con l’unanimità dei consensi la modifica delle clausole in parola, nei casi in cui il costruttore manteneva la qualità
di condomino, riservandosi la proprietà di un locale ovvero di un appartamento sito nel condominio, ovvero la
proprietà della facciata dell’edificio condominiale per consentire l’affissione di messaggi pubblicitari a fini
lucrativi.
Tale orientamento, tuttavia, è stato di recente riconsiderato dalla dottrina più attenta proprio in un’ottica di
verifica della compatibilità delle clausole in parola con la disciplina sulle clausole vessatorie nei contratti dei
consumatori. Difatti, la fattispecie in oggetto presenta senz’altro i requisiti soggettivi richiesti per l’applicabilità
della normativa in parola atteso che, come già sopra evidenziato, secondo la giurisprudenza consolidata,
l’acquirente/condomino assume la qualifica di “consumatore”, in quanto persona fisica che agisce per scopi
estranei all’attività professionale eventualmente svolta. Analogamente, il costruttore/venditore rientra nella
categoria di “professionista”, in quanto persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività
imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un suo intermediario.
In riferimento all’ambito oggettivo è, altresì, innegabile che il costruttore/venditore utilizzi le norme
regolamentari come un complesso di condizioni per disciplinare uniformemente una pluralità di fenomeni
economico giuridici del medesimo tipo, integrando così il requisito della unilaterale predisposizione del testo
contrattuale e dell’utilizzazione dello stesso nei confronti della generalità dei possibili contraenti.
Dall’accertamento di tali qualificazioni e condizioni discende, pertanto, la possibilità di applicare, alle clausole del
negozio in esame, la disciplina del Codice del Consumo e, conseguentemente, di operare un sindacato dal punto
di vista del “significativo squilibrio” e della “buona fede” oggettiva delle stesse clausole.
Ed invero, in tali ipotesi, si può certamente affermare che, nella contrattazione tra costruttore ed acquirente, il
condomino/acquirente si trovi nell’impossibilità di contribuire a determinare il contenuto del regolamento
“contrattuale” e che la condotta del professionista integri un caso di violazione dell’art. 34, comma quarto del
Codice del Consumo per assenza di trattativa specifica delle clausole regolamentari “aggiunte”. Quest’ultima
norma, come sopra evidenziato, fa gravare sul professionista l’onere della prova che il contratto sia stato oggetto
di una trattativa idonea, specifica e concreta, caratterizzata da individualità, serietà ed effettività. Un ulteriore e
più grave profilo di vessatorietà può rinvenirsi, poi, nella sostanziale impossibilità per l’acquirente di prendere
visione preventivamente e, comunque, con sufficiente consapevolezza, delle clausole regolamentari predisposte,
determinando così la violazione degli artt. 36, comma secondo, lett. c) e 33, comma secondo, lett. l), del Codice
del Consumo, in tema di vessatorietà delle clausole “di sorpresa”. È opportuno evidenziare che detti ultimi
articoli, facenti parte della c.d. “black list”, contemplano la medesima previsione di cui all’art. 1341 c.c., ma con
una distinzione fondamentale in quanto, mentre quest’ultima norma si riferisce alla conoscenza e alla
conoscibilità delle clausole “al momento della conclusione del contratto”, nelle norme del Codice del Consumo si
fa riferimento alla possibilità di conoscere le clausole “prima della conclusione del contratto”. Un’ulteriore
distinzione si rileva laddove l’art. 1341 c.c. prevede che l’aderente debba usare l’ordinaria diligenza nel prendere
visione delle condizioni generali di contratto, mentre le norme in esame non prevedono tale dovere. Si passa,
così, secondo la logica del Codice del Consumo, da un onere di informazione che grava sul consumatore ad una
regola, maggiormente tutelante, che impone al professionista più precisi obblighi informativi, determinando un
vero e proprio ribaltamento di prospettiva in termini di tutela.
Resta, tuttavia, un ulteriore ostacolo da superare da parte dell’acquirente, futuro condomino, che intenda far
valere la disciplina prevista in favore del consumatore. Si tratta della circostanza che l’atto di acquisto
dell’immobile in condominio avviene a mezzo rogito notarile.
La problematica si era posta in passato in riferimento all’applicabilità dell’art. 1341 c.c. La giurisprudenza, al
riguardo, aveva escluso, per gli atti pubblici, la possibilità della unilaterale predisposizione delle clausole e la
conseguente necessità della specifica sottoscrizione delle stesse. Secondo tale orientamento, le formalità prescritte
dalla legge per la redazione dell’atto pubblico costituirebbero una garanzia di conoscibilità delle condizioni del
contratto impedendo così una valutazione sulla abusività della clausola utilizzata ed imposta dal contraente più
forte. In buona sostanza, secondo tale impostazione, la circostanza che il notaio dia lettura dell’atto alle parti che
lo approvano e lo sottoscrivono e indaghi la volontà delle stesse al fine di curarne la compilazione assicurerebbe
l’autenticità del percorso di formazione della volontà. Tale impostazione è, però, stata fortemente criticata sul
presupposto che la tutela in parola non è in grado di incidere sul procedimento di formazione del contratto
laddove si manifesta in pieno la superiorità negoziale ed economica del contraente più forte. In questa
prospettiva appare evidente che le formalità prescritte dalla legge notarile non possono sostituire l’attenta
ponderazione delle clausole onerose che può scaturire soltanto dalla specifica e concreta trattativa individuale. Si
può parlare di trattativa soltanto se le parti abbiano discusso in dettaglio il contenuto di una clausola, formulato
possibili ipotesi alternative al testo proposto, approvato il testo soltanto a seguito di un dibattito sulle condizioni
proposte.
In conclusione, dunque, deve affermarsi che le clausole negoziali vessatorie, anche se redatte in forma di atto
pubblico, non possono sottrarsi al giudizio, contenutistico ed intrinseco, di vessatorietà in quanto il notaio non è
in grado di conoscere, al momento della conclusione del contratto, il contenuto della negoziazione
precontrattuale. Peraltro, va evidenziato che nessuna disposizione della legge notarile e nessuna formalità prevista
in sede di redazione dell’atto pubblico inducono a ritenere che possa essere esclusa, in tali contesti, la specifica
trattativa individuale sulle clausole onerose. Da tale assunto consegue che permane interamente l’onere, per il
soggetto “professionista”, di provare l’avvenuta trattativa individuale ai fini della esclusione delle censure di
vessatorietà da parte del giudice anche dopo la conclusione del contratto mediante atto pubblico.
Quanto, poi, all’accertamento del cd. “significativo squilibrio”, secondo autorevole dottrina, un punto di
equilibrio, nella fattispecie in esame, potrebbe essere individuato nella disciplina dettata dalle norme dispositive
(cioè derogabili) del codice civile. Secondo tale impostazione, la difformità del regolamento “contrattuale”
rispetto alla disciplina dispositiva, infatti, rappresenterebbe un criterio comparativo fondamentale ai fini
dell’accertamento del “significativo squilibrio” delle clausole posto che il soggetto “professionista” utilizza le
stesse per determinare una modificazione degli schemi tipici previsti dal codice civile, per costruire,
artificiosamente, un assetto contrattuale del tutto difforme rispetto alla disciplina dispositiva: il fine, evidente è
quello di escludere che il consumatore (condomino/condominio) possa invocare la disciplina tipica del codice
civile che il legislatore ha valutato come meglio rispondente all’equilibrio degli interessi delle parti, che riflette,
cioè, un assetto dei diritti e degli obblighi considerato, in via astratta, come un equilibrato contemperamento delle
posizioni contrapposte. È pur vero che nel nostro ordinamento la possibilità di una diversa disciplina, posta in
essere in via convenzionale, è consentita in ragione dell’idea che i contraenti sappiano valutare meglio di
chiunque altro i propri interessi e che una disciplina derogatoria delle norme codicistiche possa meglio
conformarsi alle particolarità dell’affare che intendono conseguire. Tale assunto, però, confligge con il fenomeno
delle clausole elaborate unilateralmente che sono funzionali soltanto all’interesse del predisponente e che sono
espressione della forza imprenditoriale e contrattuale dello stesso.
l
(1) Con il termine anglosassone "consumerism" si indica un movimento sociale e politico nato negli Stati Uniti d'America negli anni
trenta teso a rivendicare il ruolo centrale del cittadino e della sua protezione nell'ambito dell'organizzazione di uno Stato moderno.
(2) Cfr. Corte Costituzionale del 22-11-2002, n. 469, secondo la quale "La preferenza nell'accordare particolare protezione a coloro che
agiscono in modo occasionale, saltuario e non professionale si dimostra non irragionevole allorché si consideri che la finalità dell'art.
1469 bis comma 2 c.c., è proprio quella di tutelare i soggetti che secondo l'"id quod plerumque accidit" sono presumibilmente privi della
necessaria competenza a negoziare; onde la logica conseguenza dell'esclusione dalla disciplina in esame di categorie di soggetti quale quelle dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani - che proprio per l'attività abitualmente svolta hanno cognizioni
idonee per contrattare su di un piano di parità".
(3) Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 22-11-2001, cause C-541/99 e C-542/99.
(4) Cass. 14-7-2011, n. 15531; Cass., 8-6-2007, n. 13377.
l
(5) Tale articolo recita: «Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell'edificio, anche se aventi
diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo: 1) tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo
su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i
vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate; 2) le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la
portineria, incluso l'alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali,
all'uso comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all'uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le
cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l'energia elettrica, per il
riscaldamento ed il condizionamento dell'aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l'accesso a qualunque altro genere di flusso
informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli
condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti
pubbliche».
(6) Cass. 9-6-2010, n. 13883; Cass., 21-12-2007, n. 27145
l
(7) Cass. 17-2-2014, n. 3636; Cass. 21-11-2012, n. 20562.
(8) Cfr. relazione al testo unificato proposto dalla Commissione giustizia del Senato per i disegni di legge nn. 71, 355, 399, 1199 e 1283,
approvato dal Senato in data 26-1-2011.
l
(9) Trib. Arezzo del 17-2-2012 n. 125; Trib. Genova 14-2-201211; Cfr. Trib. Bari del 24.9.2008 n. 2158 secondo il quale «il condominio
non solo non è munito di personalità giuridica propria, ma neppure è dotato della autonomia patrimoniale propria delle società di
persone, con i conseguenti riflessi nei riguardi dei terzi in base al regime di pubblicità stabilito dalla legge. Esso rappresenta invece un
mero ente di gestione, finalizzato alla amministrazione delle parti comuni degli edifici e alla erogazione dei servizi con i contributi forniti
dai condomini, e non resta quindi differenziato, rispetto ai terzi, dalle persone fisiche che lo compongono. Pertanto il contratto posto in
essere dall'amministratore per la erogazione dei servizi non vincola né l'amministratore quale persona, né una diversa entità giuridica,
ma determina la insorgenza dei relativi diritti ed obblighi in capo agli stessi condomini, in quanto appunto l'amministratore, nello stipulare
il contratto, opera quale mandatario con rappresentanza degli stessi. Deve di conseguenza ritenersi che si applichi nei confronti del
condominio, tra le altre, la disposizione dell'art. 12 decreto legislativo n. 50/1992, stabilente, per i contratti stipulati fuori sede, la
competenza territoriale inderogabile del giudice del luogo di residenza o domicilio del consumatore».
(10) cfr. Cass., 24-7-2001, n. 10086, secondo la quale «Al contratto concluso con il professionista dall'amministratore del condominio,
ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei suoi partecipanti, si applicano, in presenza degli altri elementi
previsti dalla legge, gli art. 1469 bis ss. c.c., atteso che l'amministratore agisce quale mandatario con rappresentanza dei vari
condomini, i quali devono essere considerati consumatori, in quanto persone fisiche operanti per scopi estranei ad attività
imprenditoriale o professionale»; Cass., 12-1-2005, n. 452
l
(11) Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di:
a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto
o da un'omissione del professionista;
b) escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento
totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
c) escludere o limitare l'opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un
credito vantato nei confronti di quest'ultimo;
d) prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione della prestazione del professionista è subordinata ad una
condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà;
e) consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o
recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è
quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere;
f) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di
risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo manifestamente eccessivo;
g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al
professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora
adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto;
h) consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta
causa;
i) stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita
proroga o rinnovazione;
l) prevedere l'estensione dell'adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione
del contratto;
m) consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio
da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso;
n) stabilire che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione;
o) consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo
finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto;
p) riservare al professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel contratto o
conferirgli il diritto esclusivo d'interpretare una clausola qualsiasi del contratto;
q) limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o
subordinare l'adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità;
r) limitare o escludere l'opponibilità dell'eccezione d'inadempimento da parte del consumatore;
s) consentire al professionista di sostituire a sè un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del
consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest'ultimo;
t) sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell'autorità
giudiziaria, limitazioni all'adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell'onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei
rapporti con i terzi;
u) stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del
consumatore;
v) prevedere l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo come subordinati ad una condizione sospensiva dipendente dalla
mera volontà del professionista a fronte di un'obbligazione immediatamente efficace del consumatore. È fatto salvo il disposto
dell'articolo 1355 del codice civile.
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(12) Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di:
a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto
o da un'omissione del professionista;
b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o
parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
c) prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della
conclusione del contratto.
(13) Trib. Arezzo del 17-2-2012 n. 125: "Deve ritenersi vessatoria ai sensi dell’art. 1469 ter c.c. la clausola contrattuale unilateralmente
predisposta e volta ad imporre una penale pecuniaria manifestamente eccessiva in caso di risoluzione anticipata, stante il “significativo
squilibrio tra le prestazioni", inteso come squilibrio normativo (riferito cioè ai diritti ed agli obblighi reciproci derivanti dalle clausole) e non
economico, non attenendo, pertanto, alla valutazione della vessatorietà l'eventuale sproporzione tra prezzo pattuito e valore effettivo del
bene o del servizio".
(14) Trib. Genova 14-2-2012: "Il condominio è una mera organizzazione di comproprietari dotati di stabile rappresentanza per atti
specifici relativi ad oggetti specifici; ne consegue che la qualità di consumatori, che spetterebbe ai singoli, si estende al condominio ed è
a quest'ultimo applicabile la normativa contenuta nel codice del consumo. Ne consegue che deve ritenersi vessatoria, ai sensi dell'art.
33 comma 2, lett. g) cod. cons. la clausola della polizza "fabbricati" che consente esclusivamente all'assicuratore di comunicare al
condominio il recesso in caso di sinistro da cui discende la nullità della stessa clausola e la sua automatica integrazione, ad opera del
giudice, di eguale facoltà al condominio e la conseguente inesigibilità dei premi assicurativi pretesi in conseguenza del recesso".
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(15) Cass., 28-7-2011, n. 16519.
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