Settimana Teologica 2013 Basilica Cattedrale di Messina, martedì 5 marzo PROGETTAZIONE FAMILIARE E TEMPI LAVORATIVI: QUALI PROPOSTE DI CONCILIAZIONE? Luigi Pati Per affrontare il tema, muovo dalla convinzione che l’odierna organizzazione del mondo del lavoro condiziona in modo forte tanto la nascita quanto il divenire della famiglia. Sono altresì persuaso che i due contesti d’esperienza ubbidiscono a due logiche differenti di funzionamento, la cui composizione, oggi come in altri periodi storici, è spesso intravista da osservatori, intellettuali, politici o nella ulteriore subordinazione della sfera affettiva a quella produttiva o, di contro, nella riaffermazione del primato di quest’ultima sulla prima. Riflettere sulla questione, anche dall’angolo di visuale pedagogico, può forse aiutare a rintracciare inedite possibilità di conciliazione del binomio famiglia-lavoro e in virtù di esse porre l’enfasi su un nuovo modo di concepire l’esistere umano, idoneo a rendere tra loro armoniche le reti di relazione pubbliche e private nelle quali il singolo soggetto è inserito e vive. Nella fattispecie, si tratta d’interrogarsi intorno alle possibili strategie sociopolitico-economiche da intraprendere, che giovino a raccordare i tempi lavorativi con i tempi educativi cui sono chiamati ad attendere i genitori. 1. La vulnerabilità delle nuove famiglie. Affermare che il lavoro si connette strettamente con la nascita della famiglia è cosa del tutto ovvia: mancando il primo, per i giovani adulti diventa difficile pensare con responsabilità alla costruzione di una comunità relazionale nella quale disporsi all’accoglienza della vita. Lo stato di disoccupazione impedisce ai giovani di prendere in seria considerazione il progetto matrimoniale e familiare e di concretarlo in un arco di tempo ragionevole. E’ invece questione poco valutata il fatto che anche la flessibilità lavorativa1 non agevola granché le nuove generazioni nel compito di progettazione esistenziale. In Italia, l’emergere negli ultimi anni di molteplici forme di precariato, mentre ha favorito una significativa diminuzione della disoccupazione di lunga durata, ha altresì incrementato quelle che possiamo definire come vere e proprie forme di “segmentazione progettuale”, le quali concorrono a far procrastinare sempre più o ad ostacolare la scelta di “mettere su famiglia”. Nel nostro Paese un’ampia fascia di giovani-adulti è contrassegnata dal fenomeno dell’insediamento nella precarietà, ossia dal vivere in un alternarsi di periodi di disoccupazione e periodi di lavoro temporaneo. Il singolo si accontenta di piccoli lavoretti, di forme di aiuto sociale, di sostegni materiali offerti dalla rete parentale. Con R. Castel possiamo asserire che i giovani italiani sembrano “condannati ad una <cultura dell’aleatorio> ossessionata dall’idea del domani. Alcuni ce la fanno, ma per molti che si abituano a vivere <alla giornata> la precarietà tende a diventare il regime normale” 2. Si tratta di una condizione di vita nella quale, come è facile capire, dominano l’inquietudine e * Il presente contributo, con il titolo “Progettazione familiare e tempi lavorativi. La conciliazione famiglialavoro nella comunità locale”, è stato pubblicato in L. PATI (a cura di), Quale conciliazione fra tempi lavorativi e impegni educativi? Giovani famiglie, lavoro e riflessione pedagogica, La Scuola, Brescia 2010, pp. 55-72. 1 Il termine “flessibilità” è sempre più impiegato nel campo della ricerca sociale per significare la condizione di precarietà lavorativa. Come tale lo assumiamo, distinguendolo da quello di “elasticità”, con il quale indichiamo il processo di adattamento dei ritmi lavorativi ai ritmi di vita del soggetto interessato. 2 R. CASTEL, “Disuguaglianze e vulnerabilità sociale”, in Rassegna Italiana di Sociologia, 1997, 1, p. 55. Il tema era stato già enunciato in ID., Les métamorphoses de la question sociale, Fayard, Paris, 1995. 1 l’incertezza, con grave pregiudizio per l’identità personale. Con il precariato lavorativo, in realtà, non soltanto insorge a livello individuale l’inclinazione a ridimensionare le aspirazioni professionali e la disponibilità all’impegno sociale, la sottovalutazione dell’esperienza lavorativa nei suoi aspetti qualitativi a pro di una mera valutazione strumentale della medesima, l’allentamento dei legami interpersonali. Si affievolisce anche e soprattutto il desiderio di elaborare e proiettare un’immagine di sé nel futuro3. L’insicurezza del presente ostacola il soggetto a prefigurarsi l’avvenire, a proiettarsi nel futuro, a disporsi alla scelta. Per rappresentare la condizione esistenziale tratteggiata, nel campo delle scienze sociali è stato enucleato il concetto di vulnerabilità, il quale sta ad indicare la situazione di esclusione sociale che, a far tempo dagli anni Ottanta, in alcuni Paesi europei ha iniziato a contraddistinguere varie fasce di popolazione. Con tale espressione, pertanto, si vuole sottolineare la condizione di fragilità che viene a segnare alcuni soggetti, rispetto ad altri, allorché si verificano particolari eventi, come la disoccupazione e il lavoro precario o flessibile. Stimata come vera e propria “sindrome complessa”, secondo C. Ranci essa definisce “una situazione di vita in cui l’autonomia e la capacità di autodeterminazione dei soggetti è permanentemente minacciata da un inserimento instabile dentro i principali sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse”4. Va riferita, pertanto, a soggetti non già di per sé deprivati bensì chiamati a interagire con processi di modificazione sociale che li condizionano pesantemente nell’organizzazione dell’esistere quotidiano e nella progettazione del futuro5. La condizione di vulnerabilità acquista colorazioni particolari se, anziché al singolo individuo, la si riferisce alle così dette “coppie flessibili”, ossia ai soggetti conviventi accomunati da un’occupazione precaria, instabile. Nei loro confronti si può parlare di vulnerabilità relazionale potenziata. Per le coppie flessibili già prima della formalizzazione del legame affettivo diventa problematico proiettarsi nel futuro. I giovani non solo faticano a vivere con impegno e progettualità il rapporto di coppia intrecciato, presi come sono dall’ansia quotidiana di dare soluzione alla condizione di precarietà lavorativa in cui versano, ma altresì sono impossibilitati a pensare addirittura all’autonomia abitativa rispetto alle famiglie di provenienza6. Nelle circostanze in cui l’insicurezza materiale è affrontata con una certa dose di rischio, confidando nelle possibilità future, prima o poi, a legame formalmente costituito, i soggetti interessati si scontrano con ostacoli di varia natura, che li condizionano nelle scelte. L’accesso alla paternità/maternità, per esempio, può essere rinviato, in attesa di “tempi migliori”. Nei casi in cui si giunge ad esso o per scelta o per caso, l’incertezza del E. MANDRIOLI, G. SARCHIELLI, “Flessibilità dell’occupazione: cosa ne pensano le organizzazioni di lavoro?”, in Studi Zancan, 2006, 6, p. 34. Sul tema cfr. anche V. CESAREO (a cura di), Ricomporre la vita. Gli adulti giovani in Italia, Carocci, Roma, 2005; C. FACCHINI (a cura di), Diventare adulti. Vincoli economici e strategie familiari, Guerini e Associati, Milano, 2005; A. PALMONARI, A.R. GRAZIANI, S. MOSCATELLI, “L’inserimento occupazionale dei giovani di fronte all’ambivalenza della flessibilità”, in Studi Zancan, 2005, 4, pp. 110-120; G. SARCHIELLI, E. MANDRIOLI, A. PALMONARI, T. VECCHIATO, Lavorare da precari. Effetti psicosociali della flessibilità psicosociale, Fondazione Zancan, Padova, 2006. 4 C. RANCI, “Fenomenologia della vulnerabilità sociale”, in Rassegna Italiana di Sociologia, 2002, 4, p. 546. Dello studioso cfr. pure La società del rischio. Vulnerabilità ed esclusione sociale in Lombardia, Guerini e Associati, Milano, 1997. Oltre a ciò, Cfr. G. COSTA, “Prendersi cura e vulnerabilità sociale, un nesso da non sottovalutare”, in Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone, 2007, 2, pp. 40-53. 3 5 Cfr. M. CREMASCHI, G. MALERBA, G.A. MICHELI, D. PUCCI, C. RANCI, A. TOSI, Quattro studi sulla vulnerabilità sociale. Rapporto dell’Indagine Sociale Lombarda 2000, Guerini e Associati, Milano, 2001; G.A. MICHELI, C. RANCI (a cura di), Equilibri fragili. Vulnerabilità e vita quotidiana delle famiglie lombarde, Guerini e Associati, Milano, 2003. 6 L. SALMIERI, Coppie flessibili. Progetti e vita quotidiana dei lavoratori atipici, Il Mulino, Bologna, 2006, p. 95. 2 reddito asseconda rapporti di dipendenza della coppia/famiglia da varie strutture di sostegno, specialmente dall’aiuto materiale offerto dalle famiglie d’origine. Dalle interviste rilasciate da 143 coppie flessibili residenti nella provincia di Napoli, 73 delle quali aventi 1 figlio o due, è emerso che in ordine alla procreazione esistono vari impedimenti: instabilità lavorativa, incertezza del reddito, difficoltà di educare i figli. Per quest’ultimo impedimento, è segnalata sia la difficoltà di far ricorso a servizi esistenti sul mercato perché troppo costosi sia la carenza di servizi sociali a causa dell’inconsistente politica familiare perseguita dalle istituzioni preposte ad essa7. Ai nostri scopi importa sottolineare il fatto che, nelle situazioni di lavoro atipico di entrambi i partner, i bambini sono i soggetti che risentono direttamente gli effetti dello stato di precarietà economica dei genitori. Spesso sono sottoposti a varie sistemazioni logistiche e assistenziali nel corso della stessa giornata, conformemente agli impegni e ai ritmi occupazionali del padre e della madre. Il vissuto di costoro, d’altra parte, in molti casi è di vera e propria sofferenza, specialmente per l’impossibilità di creare attorno ai figli un contesto educativo familiare equilibrato. Alcune ricerche hanno rilevato che se il padre versa in una situazione di flessibilità lavorativa o di sotto-occupazione, è meno disposto a dedicare tempo alla prole sotto gli aspetti delle attività routinarie, educative e di svago 8. Allorché l’inserimento nel mondo del lavoro è possibile effettuarlo con un certo margine di sicurezza per quanto concerne la stabilità/continuità temporale, nella giovane coppia la scelta di dare concretezza al progetto familiare si scontra con altri elementi di criticità. Da una parte, si pone la frattura tra mondo coniugale/familiare e mondo del lavoro: spicca soprattutto l’inconciliabilità dei tempi e dei ritmi delle due sfere di esperienza, troppo spesso mostrandosi il secondo incurante delle esigenze domestiche. Si ha l’impressione che i tempi lavorativi precludano gli spazi non soltanto per la progettualità di vita ma anche e soprattutto per coltivare il rapporto di coppia, i legami familiari e sociali. La scarsità di tempo a disposizione dei giovani coniugi, poi, aumenta la loro dipendenza dalle famiglie d’origine. Dall’altra parte, insorgono molteplici difficoltà per la nuova famiglia, specialmente per quanto concerne i compiti assistenziali, di cura, educativi verso i figli che i coniugi sono chiamati ad assolvere. Il contesto sociale è carente di strutture di sostegno, anche nelle zone in cui è diffuso il benessere economico. Dalle interviste rilasciate nel 2005 da un consistente numero di madri (906) residenti nel comune di Parma, sono scaturite due esigenze specifiche: a) armonizzare i tempi di lavoro con i tempi della famiglia; b) rendere più adeguati alle esigenze familiari i servizi scolastici ed extrascolastici. Circa la prima esigenza, secondo le madri intervistate sarebbe auspicabile che le aziende procedessero ad una riorganizzazione dei tempi, dei ritmi, degli orari di lavoro. Per quanto concerne la seconda, al momento della ricerca le strutture socio-educativo-assistenziali sono state valutate dalle intervistate scarsamente attente alle necessità domestiche, “difficilmente raggiungibili”, “inadatte” a causa degli orari di apertura/chiusura9. Nel quadro concettuale richiamato, possiamo asserire che per le giovani generazioni le “normali” difficoltà che s’incontrano quando si decide di costruire una famiglia, quindi le 7 Ibid., pp. 153; 172. Cfr. ISTAT, Diventare padri in Italia. Fecondità e figli secondo un approccio di genere, Istat, Roma, 2006, pp. 178, 284. 9 Cfr. AA.VV., Vivere da famiglia nella città di oggi. Un percorso di ricerca condotto a Parma, Comune di Parma – Assessorato alle politiche sociali e per le famiglie, Edizioni “Forum delle Associazioni Familiari”, Monte Università Parma (MUP), Roma-Parma, 2007, pp. 38-58. 3 8 “naturali” fragilità10 collegate al progetto matrimoniale/familiare, sommandosi a quelle suscitate sia dal lavoro flessibile sia dalla nascita del figlio sia dai tempi e ritmi lavorativi dei genitori, fanno delle nuove famiglie dei sistemi relazionali oltremodo vulnerabili. La questione, ovviamente, va interpretata con criticità, rifuggendo dalle facili generalizzazioni. E’ necessario aver presente che ogni famiglia è fragile in modo unico. La fragilità o vulnerabilità familiare, d’altro canto, va letta in riferimento ad una precisa realtà domestica situata in un determinato contesto socio-politico-economico-culturale. Pertanto, parlare di fragilità familiare significa fare uso di una categoria interpretativa di un fenomeno che va letto nella singolarità delle parti da esso toccate. Tuttavia, le argomentazioni precedentemente svolte spingono a dire che scegliere di essere famiglia, oggi, è per le giovani coppie più difficile rispetto a quelle del passato. Il divenire spazio-temporale del nucleo domestico, quindi gli inevitabili cambiamenti da ciò suscitati, si aggrava a causa dell’organizzazione e del funzionamento del contesto socio-economico-politico-culturale nel quale il progetto coniugale/familiare prende corpo11. Va altresì segnalato l’apparire tra le nuove generazioni di una mentalità che arreca serio pregiudizio al progetto familiare come “bene” esistenziale. Si tratta del fatto che presso alcune fasce di giovani non di rado la scelta matrimoniale/familiare è percepita come limitativa e inconciliabile con i vincoli, i ritmi, le performance richieste dal mondo del lavoro. In tal modo, la decisione di “mettere su famiglia”, una volta superata la tentazione a sempre più procrastinarla nel tempo, spesso è avvertita dagli interessati soltanto come occasione per guadagnare uno “spazio-rifugio” di scambio affettivo, mediante il quale compensare le frustrazioni e i limiti derivanti dal lavoro. Le fragilità delle nuove famiglie frequentemente sono attutite dalla rete di parentela e/o amicale dei giovani coniugi (genitori, parenti, vicini ecc.). E’ noto che il nostro Paese si contraddistingue, se confrontato con altre nazioni europee, proprio per la presenza di sostegni informali di stampo familiare12. Essi colmano le carenze del sistema sociale per quanto concerne l’allocazione sul territorio di strutture assistenziali, di cura, educative. Per esemplificare, quando entrambi i genitori lavorano, le rilevazioni empiriche mettono in luce che 6 bambini su 10 sono affidati ai nonni; soltanto 2 su 10 frequentano un asilo nido pubblico o privato13. Le analisi territoriali non sembrano mettere in dubbio il dato. Semmai è da segnalare il fatto che nell’Italia meridionale, a causa delle strutture pubbliche carenti, è più diffuso il ricorso all’aiuto di parenti, familiari e conoscenti. Nel complesso, si tratta di un ricorso alla rete di sostegno parentale, ai nonni specialmente, che però molte giovani coppie preferirebbero evitare. Da genitori partecipanti a gruppi di discussione è stato segnalato che il sostegno parentale in molti casi si traduce in rapporto di dipendenza delle nuove famiglie da quelle di provenienza, a scapito della solidarietà intergenerazionale e dello scambio tra le generazioni. Pertanto, l’aiuto dei nonni, quando si rende necessario, è stimato dai neo-genitori prevalentemente come una sorta di ammortizzatore sociale, non già come supporto alle responsabilità educative genitoriali. Sono, questi, segni evidenti di un cambiamento di mentalità, che vanno collegati anche alle variazioni verificantisi nei rapporti tra le generazioni14. Lo sviluppo odierno della società ha provocato forti modificazioni nei ruoli parentali. Per esempio, anche i nonni sfuggono ormai alla visione 10 Sul tema della fragilità in campo pedagogico-educativo, cfr. C.M. MOZZANICA, Pedagogia della/e fragilità, La Scuola, Brescia, 2005; V. IORI, M. RAMPAZI (a cura di), Nuove fragilità e lavoro di cura, Unicopli, Milano, 2008. 11 L. PATI, Pedagogia sociale. Temi e problemi, La Scuola, Brescia, 2007, pp. 153-154. 12 Ciò è in linea con l’altra caratteristica delle nuove coppie di andare a vivere nei pressi della famiglia di provenienza di uno dei coniugi. Cfr. M. BARBAGLI, M. CASTIGLIONI, G. DALLA ZUANNA, Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 173-187. 13 F. BELLETTI, “Conciliare famiglia e lavoro. Risposte ai problemi”, in Famiglia Oggi, 2005, 11, p. 53. 14 Cfr. P. DI NICOLA, Famiglia: sostantivo plurale. Amarsi, crescere e vivere nelle famiglie del terzo millennio, F. Angeli, Milano, 2008, pp. 113-123. 4 tipica della società pre-industriale e/o industriale, per delinearsi come soggetti ancora attivi, desiderosi di vita autonoma, inclini a coltivare i propri interessi e le proprie attività. Da qui la necessità di riconsiderare le possibili modificazioni intervenute nel sostegno da essi offerte alle famiglie d’elezione dei figli, quindi alla funzione da essi svolta verso i nipoti. La vulnerabilità delle nuove coppie/famiglie derivante dai tempi e dai ritmi lavorativi dei partner può essere intesa come maggiore possibilità d’incorrere in scompensi/fratture dei legami interni (coniugale e parentali) ed esterni (con le famiglie d’origine, con l’ambiente di lavoro, con la rete amicale, con le istituzioni pubbliche, con i servizi sociali). Esse, cioè, sono esposte più di altre al rischio permanente del verificarsi di eventi pregiudizievoli per la loro tenuta e per lo svolgimento delle funzioni, soprattutto educative, che ad esse ineriscono. In siffatto contesto, la chiave risolutiva della questione sembra risiedere soprattutto nella capacità della coppia di rinegoziare periodicamente le proprie regole di funzionamento e le proprie scelte lavorative; capacità di rinegoziazione, i cui esiti in molte circostanze sono causa di frustrazione per uno dei coniugi o sono oggetto di critica da parte della rete parentale e amicale circostante. La donna-madre è il soggetto che subisce maggiormente le conseguenze dell’inconciliabilità degli impegni familiari con quelli lavorativi. Secondo i dati ISFOL, nel 2006 ben una donna su nove, dopo la maternità, è uscita dal mercato del lavoro. Ciò in una situazione nazionale contraddistinta da uno dei più bassi tassi di fecondità (1,3 figli in media per donna); tasso superiore soltanto a quelli di Grecia, Spagna e di alcuni Paesi dell’Est europeo15. Proprio in riferimento a ciò, per alcuni osservatori porsi il problema della conciliazione tra famiglia e lavoro vuol dire impegnarsi anche e soprattutto per il miglior inserimento della donna nel mondo produttivo e per la sua emancipazione socioculturale. La problematicità della situazione descritta non può esaurirsi nella semplice rilevazione delle difficoltà. L’osservazione empirica spinge a segnalare che, pur nella situazione di vulnerabilità, tanto le nuove quanto le famiglie già rodate manifestano significative potenzialità e capacità di reazione. Sembra, infatti, che, specialmente per quanto riguarda l’educazione dei figli, i genitori-lavoratori, soprattutto le madri, si attivino in modo originale per tessere o ricostruire reti di rapporto e di sostegno al loro essere genitori ed educatori16. La questione non è di poco conto. Fa intendere che, come la condizione di vulnerabilità delle famiglie di fronte al mondo del lavoro può mortificarne la vitalità, al tempo stesso può costituire per le medesime elemento di stimolo che le sprona a ricercare strategie di conciliazione inedite. Da queste possono provenire insegnamenti anche per coloro i quali hanno la responsabilità di programmare linee di politica familiare. La questione riguardante la scelta di essere famiglia non può essere lasciata all’iniziativa della singola coppia. Emerge in maniera precisa l’urgenza di una chiara strategia di politica sociale. La vulnerabilità delle nuove famiglie esige, da parte del potere pubblico, un’attenta valutazione dell’attuale organizzazione del mondo del lavoro e la pianificazione/programmazione d’interventi politici. Promuovere la riorganizzazione dell’assetto societario, quindi l’opportuna ridefinizione dei tempi lavorativi rispetto ai tempi di vita familiare, è elemento primario per ridare speranza a coloro i quali versano in istato di fragilità e a coloro i quali sono chiamati a progettare il loro futuro. “Affrontare il problema della vulnerabilità sociale vuol dire dunque garantire alle persone la possibilità di fare progetti – di essere conosciute e 15 Cfr. E. MANDRONE, D. RADICCHIA (a cura di), Plus Partecipation Labour Unemployment Survey. Indagine campionaria nazionale sulle caratteristiche e le aspettative degli individui sul lavoro, ISFOL, Roma, 2006. 16 Cfr. R. PRANDINI, L. TRONCA, Con i tempi che corrono… Strategie educative e risorse sociali delle famiglie a Parma, Carocci, Roma, 2008. 5 accettate per quanto si sta progettando – e avere la libertà di poterli perseguire”17. E’ da correggere l’idea secondo la quale sono sufficienti interventi meramente assistenziali, trattando la vulnerabilità come stato caratteristico di soggetti/famiglie di per sé deboli. Così come è da far intendere che la capacità del soggetto/famiglia debole di diventare resiliente, capace di affrontare e di dare soluzione alle proprie fragilità, chiama direttamente in causa l’ideazione di adeguate politiche familiari. Queste, d’altro canto, non possono essere formulate indipendentemente dai soggetti interessati. I processi di conciliazione famiglia-lavoro non possono essere decisi dall’alto: esigono il coinvolgimento delle famiglie, specialmente delle famiglie di una particolare comunità locale. Le possibilità di riequilibrare il rapporto famiglia-lavoro, inoltre, non possono esaurirsi nel prestare attenzione ai singoli soggetti (uomo e donna): è la coppia-famiglia da essi costituita che va eletta a interlocutore privilegiato. Essa va valutata come realtà relazionale in continuo divenire che, modificandosi nel tempo, vede insorgere al proprio interno nuove esigenze e inediti bisogni, i quali motivano una varietà di compiti educativi collegati allo stadio di vita attraversato. Questa circostanza spinge a dire che, in una logica di revisione dell’attuale impostazione, il rapporto tra famiglia e lavoro può e deve cambiare anche in riferimento alle variazioni intervenute nella compagine domestica, conformemente allo stadio di sviluppo da essa attraversato. 2. Le due logiche dominanti. Il conflitto tra famiglia e mondo del lavoro è stato certamente alimentato dall’inserimento della donna nelle attività produttive. Questa circostanza ha suscitato, tra gli altri, i problemi della cura e dell’educazione dei figli, degli orari di lavoro inconciliabili con i tempi e i ritmi della vita familiare, del ricorso a istituzioni esterne alla famiglia per lo svolgimento di mansioni assistenziali verso i membri più deboli. Ha altresì riproposto in termini inediti la questione della parità uomo-donna, del coinvolgimento maschile nelle funzioni domestiche e nell’assolvimento di compiti educativi, della ridefinizione delle differenze di genere per quanto concerne il procedere quotidiano della vita familiare. Ha determinato, nel complesso, l’esigenza di un nuovo apprezzamento della donna in riferimento al legame di coppia, alla gestione familiare, al vivere sociale. E’ ben vero, tuttavia, che il conflitto tra mondo del lavoro e famiglia non può essere letto e interpretato in maniera lineare e perciò semplificatrice. Se così fosse, si potrebbe giungere alla conclusione che esso, per poter essere risolto, esige il ritorno della donna tra le pareti domestiche… La valutazione del conflitto tra mondo del lavoro e famiglia dall’angolo di visuale dello sviluppo sociale in senso umano permette di asserire che esso affonda le radici soprattutto nelle diverse logiche che animano i due spazi di vita. Diventa facile, infatti, osservare che il primo (il lavoro) è contraddistinto da una razionalità utilitaristica, strumentale, impersonale; il secondo (la famiglia) privilegia argomentazioni difensive rispetto al mondo esterno, fortemente centrate sugli affetti e sulla tutela del “privato”. Sullo scenario sociale essi si stagliano come due mondi esperienziali distinti, e l’individuo da entrambi coinvolto li vive in modo separato, settoriale. Non c’è continuità nel divenire esistenziale dell’uomo e della donna che, nel mentre coltivano le relazioni coniugali e parentali, svolgono attività lavorativa. Si stabilisce un vero e proprio iato tra logica del profitto e logica degli affetti. Tale situazione, tipica della società industriale e post-industriale, nel nostro tempo va acuendosi per via delle trasformazioni del lavoro e del processo di globalizzazione economica ad esso collegato. L’impiego di nuovi strumenti telematici di natura pervasiva tende ad invadere anche il mondo familiare18, che si mostra sempre più incline, spesso 17 18 N. NEGRI, “ La vulnerabilità sociale”, in Animazione Sociale, 2006, agosto/settembre, p. 19. L. PATI, Pedagogia sociale. Temi e problemi, pp. 155-156. 6 inutilmente, ad assumere forme di ulteriore chiusura e difesa rispetto ai tentacoli del mondo del lavoro. La problematicità del rapporto tra famiglia e lavoro è tale, da indurre a pensare che per dare ad essa soluzione sia necessario far prevalere un mondo sull’altro. Ovviamente, poiché attualmente la logica utilitaristica è dominante, è la famiglia a dover soccombere. Gli esempi al riguardo ci sono già. Emblematico è il caso della Svezia, dove va sempre più primeggiando l’equazione famiglia=ostacolo alla piena occupazione femminile. Si diffonde altresì la convinzione che l’incremento della natalità si correla direttamente all’indipendenza economica delle donne in quanto svincolate da legami coniugali/familiari: matrimonio e famiglia sono percepiti soprattutto come ostacolo al progresso economico e all’emancipazione femminile. Se poi si esaminano varie iniziative prese nell’àmbito di alcuni stati dell’Unione Europea in ordine alla conciliazione famiglia-lavoro, la considerazione che si può fare è la seguente: dominano indicazioni tese a fare in modo che la famiglia si “adatti” all’organizzazione del lavoro, ai suoi tempi e ritmi. Secondo questa chiave di lettura si possono valutare, per esemplificare, le possibilità di part-time offerte a donne e uomini, i congedi parentali, le reti sociali di sostegno. Ne consegue che la logica è sempre quella dell’adeguamento della famiglia alla vita produttiva. Dinanzi alla situazione richiamata, non si può continuare a chiedere alla famiglia di adattarsi al lavoro, lasciando quest’ultimo inalterato o, peggio ancora, libero di procedere secondo una logica indifferente verso coloro i quali sono da esso coinvolti. Siffatta richiesta implicherebbe la negazione del valore esistenziale del lavoro, quindi lo svilimento dell’ambiente familiare come fattore di progresso umano e sociale19. Secondo la gran parte degli osservatori che si sono accostati al tema del rapporto tra famiglia e lavoro, è improcrastinabile un’attenta riflessione sulle regole che lo governano. Nel campo della ricerca sociologica è stato fatto notare che all’attuale differenziazione funzionale, quindi di separazione, tra famiglia e lavoro, è da opporre una “differenziazione relazionale”, di scambio tra i due mondi di esperienza. Nella zona d’interscambio così costituita sono da edificare peculiari istituzioni, che sopperiscano all’assenza di quelle realtà comunitarie che oggi non esistono più: dai vicini di casa ai nonni, e a tutte quelle altre figure di sostegno che sino ad un recente passato hanno contraddistinto il vivere sociale. Alla base di tale proposta v’è la convinzione che solo ricuperando una “prospettiva di umanizzazione dei percorsi di vita” è permesso orientare nel modo migliore il processo di crescita istituzionale e sociale20. Anche sotto l’aspetto della pedagogia personalistica l’indugiare sul tema della conciliazione famiglia-lavoro non si risolve nello studio dei modi per subordinare una istituzione all’altra. La conciliazione è questione poliedrica, che non può essere affrontata, privilegiando uno dei due termini. All’opposto, vuol dire muovere dal presupposto che entrambe le sfere di esperienza devono subire alcune modificazioni, allo scopo di garantire migliori condizioni di vita per le attuali e per le future generazioni 21. E’ necessaria perciò una modificazione culturale, che dalla contrapposizione tra lavoro e famiglia, tra sfera privata e sfera pubblico-economica, giovi all’instaurarsi di un’effettiva negoziazione tra queste due sfere. Una siffatta impostazione aiuta ad intendere che i vari sostegni sociali alla famiglia, il coinvolgimento maschile nei compiti familiari, le provvidenze 19 Cfr. N. GALLI, Pedagogia della famiglia ed educazione degli adulti, Vita e Pensiero, Milano, 2000, cap. I: “L’educazione dell’adulto: lavoro, matrimonio, genitura”, pp. 17-51. 20 P. DONATI, Quale conciliazione tra famiglia e lavoro? La prospettiva relazionale, in ID. (a cura di), Famiglia e lavoro: dal conflitto a nuove sinergie. IX Rapporto sulla famiglia in Italia, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2005, pp. 31-84. 21 Per alcune indicazioni al riguardo, cfr. M. WIERINK, “La place des enfants dans la combinaison familleemploi aux Pays-Bas”, in Recherches et Prévisions, 2004, 75, pp. 61-73. Cfr. inoltre B. ROSSI, Pedagogia delle organizzazioni. Il lavoro come formazione, Guerini e Associati, Milano, 2008, pp. 83-94. 7 economico/legislative a favore dei genitori sono necessari ma non sufficienti. La vera soluzione passa attraverso un nuovo modo di concepire il lavoro e la vita organizzata. Si tratta, insomma, di elaborare un nuovo approccio culturale in virtù del quale rendere corresponsabili i diversi attori interessati al mondo produttivo: genitori, datori di lavoro, politici22. La radicalità di questo paradigma ermeneutico dell’assetto societario postula non già l’acritica negazione della componente economica bensì la sua conciliazione con le istanze della piena umanizzazione dell’ambiente e dello stile di vita. In questa luce, per quanto concerne il rapporto tra famiglia e mondo produttivo, si può porre l’urgenza di rendere relativo il lavoro, di modo che esso non sia ispirato e giustificato da esclusivi interessi di tipo utilitaristico ma si delinei come strettamente connesso con il divenire esistenziale dell’uomo23. Da ciò, tra le altre cose, scaturisce la possibilità d’interpretare la conciliazione tra famiglia e lavoro, chiamando in causa la riflessione attenta sulle politiche sociali, per ricollocare l’impegno lavorativo nel contesto della progettualità umana e quindi assegnando ad esso un diverso peso quantitativo/qualitativo24. Tutto questo in alternativa all’inclinazione ad interpretare l’istanza della conciliazione, come spesso accade, in termini di capacità della donna di fare equilibrismi tra impegni pubblici e privati o di mero auspicio per una maggiore disponibilità dell’uomo ad assolvere incombenze precipue della vita domestica. In verità, solo sulla base di una logica di sviluppo dell’attività produttiva in senso umano è permesso rileggere e riformulare i rapporti di genere all’interno della famiglia e nel contesto societario più ampio. Come è facile arguire, l’istanza della conciliazione famiglia-lavoro esige di essere sostenuta da un chiaro sistema di valori, in virtù dei quali riorganizzare, riequilibrandoli, i rapporti umani e interistituzionali. C’è bisogno di regole, ispirate da prescelti valori, che favoriscano l’equilibrio tra vita pubblica e vita privata, tra progetti professionali e progetti esistenziali, tra impegni lavorativi e impegni familiari25. L’esigenza di valori si pone in modo nuovo in un contesto di globalizzazione che, dopo gli entusiasmi iniziali, sta suscitando reazioni anche profonde. In riferimento ad essa, per esemplificare, si auspica che precise norme etiche regolamentino le attività commerciali, sino al punto da precisare se i prodotti provengono da aziende nelle quali vigono “condizioni di lavoro accettabili, livelli salariali decenti, rispetto dei diritti sindacali”26. Quanto enunciato ci sembra s’inserisca nella così detta prospettiva dello Sviluppo Umano, fatta propria sin dal 1990 dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Sulla scorta delle riflessioni svolte da J.A. Schumpeter negli anni Cinquanta del secolo scorso, essa pone l’enfasi sull’urgenza di conciliare la crescita quantitativa di una determinata società con lo sviluppo della medesima27. Quest’ultimo implica un reale e profondo cambiamento non semplicemente strutturale ma anche e soprattutto culturale, Per alcune suggestioni al riguardo, cfr. D. GIOVANNINI, Prefazione all’edizione italiana, in M. FINEDAVIS, J. FAGNANI, D. GIOVANNINI, L. HØJGAARD, H. CLARKE, Padri e madri: i dilemmi della conciliazione famiglia lavoro. Studio comparativo in quattro paesi europei (trad. dall’inglese), Il Mulino, Bologna, 2007, p. 9. 23 L. PATI, Pedagogia sociale. Temi e problemi, pp. 155-157. 24 G. ALESSANDRINI (a cura di), Pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni, Guerini e Associati, Milano, 2004, pp. 57-62. 25 Si possono ricavare suggestioni al riguardo da S. COSTA, Tempi di vita, tempi di lavoro, in P. TARCHI (a cura di), Etica del profitto e responsabilità sociale d’impresa, Città Nuova, Roma, 2005, pp. 133-135. 26 F. NOVARA, “Lavorare in una società instabile”, in Studi Zancan, 2005, 4, p. 101. Per quanto concerne il legame tra etica ed attività economica, cfr. L. CASELLI, Etica, economia, impresa, in P. TARCHI, Etica del profitto e responsabilità sociale d’impresa, pp. 38 e ss. Sul rapporto tra valori e rinascita europea, cfr. S. ACQUAVIVA, L’eclissi dell’Europa. Decadenza e fine di una civiltà, Editori Riuniti, Roma, 2006. 27 Per un’introduzione al tema, cfr. E. CHIAPPERO MARTINETTI, A. SEMPLICI, Umanizzare lo sviluppo. Dialogo a più voci sullo sviluppo umano, Rosenberg & Sellier, Torino, 2001, pp. 107-124. 8 22 idoneo a far primeggiare la persona e a far sì che la legittima esigenza di reddito economico non leda le aspirazioni esistenziali della medesima. E’, questa, un’esigenza avvertita anche in seno al Consiglio Europeo, il quale nel marzo 2007 ha sottolineato l’importanza del “lavoro di qualità” e dei principii che sono alla base del medesimo. Ha perciò dato enfasi ai diritti dei lavoratori, alla loro partecipazione alla vita dell’azienda, alla loro sicurezza, all’organizzazione delle attività produttive nel rispetto dei tempi e dei ritmi familiari. Ciò è stato fatto rientrare nel concetto di “flessicurezza” (flexcurity), che è oramai diventato uno degli obiettivi politici principali dell’Unione Europea in materia di lavoro e sviluppo economico. “La flessicurezza viene vista come risposta all’esigenza di migliorare la capacità di adeguamento dei lavoratori e delle imprese, di fronte alla rapida evoluzione e alla segmentazione del mercato del lavoro”28. Il cambiamento culturale auspicato impone di riconsiderare con attenzione anche l’istanza della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI). Ad essa oggigiorno ci si appella per valutare in modo nuovo il rapporto famiglia-lavoro, al fine di secondare soprattutto un’inversione di tendenza per quanto concerne il lavoro femminile. In riferimento a ciò, “nel 2007 è stato avviato il progetto <Bollino rosa> con l’obiettivo di promuovere un agile strumento operativo per individuare con precisione gli ostacoli alla parità di trattamento e contribuire al loro superamento. Nel solo mese di ottobre 2007, 139 imprese si sono autocandidate a sperimentare la <certificazione> delle proprie buone prassi per la parità retributiva, la conciliazione e il contenimento o superamento delle condizioni precarie” 29. Ai nostri scopi, risulta opportuno chiamare in causa la RSI per ripensare e riorientare all’insegna dell’umano i temi della flessibilità, dei tempi e dei ritmi lavorativi 30. Non è questo il frutto di una visione “ingenua” della questione; così come siamo ben lontani dal prospettare l’utopistica concezione dell’attività produttiva svincolata dall’utile economico. Quanto auspicato muove dalla rilevazione messa in luce da molteplici studi di settore: lo stretto collegamento tra crescita produttiva dell’azienda e attenzione prestata da quest’ultima al ben-essere dei lavoratori e alla loro vita di relazione31. Nel nostro paese esistono esempi di buone pratiche al riguardo. Esse poggiano sulla percezione, da parte delle aziende, dei loro dipendenti come stakeholder e verso di essi s’intraprendono processi organizzativi e gestionali che li valutano come soggetti appartenenti a nuclei familiari con bisogni e necessità, con tempi e ritmi peculiari. Quindi, sono stimati non semplici dipendenti ma “soggetti familiari”32. Ancora una volta ci sembra che l’accento vada posto sull’urgenza di formulare una nuova cultura del lavoro, attenta alle esigenze della famiglia, idonea a promuovere all’interno delle organizzazioni lavorative un cambiamento di natura “umanistica”. La conciliazione famiglia-lavoro, insomma, ha da diventare un criterio regolativo del funzionamento in senso umano dell’azienda. Così 28 Rapporto ISFOL 2007, Rubbettino, Roma, 2007, p. 75. ISFOL, 2007, p. 18. 30 E. MANDRIOLI, G. SARCHIELLI, “Flessibilità dell’occupazione: cosa ne pensano le organizzazioni di lavoro?”, p. 59. Si veda inoltre S. ZAMAGNI, Della responsabilità sociale d’impresa, Il Mulino, Bologna, 2003. 31 Vedi indicazioni bibliografiche nel mio saggio sulla sicurezza 32 Sul tema si veda M. PIAZZA, A.M. PONZELLINI, E. PROVENZANO, A. TEMPIA, Riprogettare il tempo. Manuale per la progettazione degli orari di lavoro, Edizioni Lavoro, Roma, 1999; A.M. PONZELLINI, A. TEMPIA, Quando il lavoro è amico. Aziende e famiglie: un incontro possibile, Edizioni Lavoro, Roma, 2003. Sulla “nuova cultura organizzativa del lavoro”, quindi circa l’incidenza dell’ordine simbolico sulla pratica (anche per le differenze di genere), cfr. T. ADDABBO (a cura di), Genitorialità, lavoro e qualità della vita: una conciliazione possibile? Riflessioni da un’indagine in provincia di Modena, F. Angeli, Milano, 2005, pp. 134-138. 29 9 facendo, il processo di modificazione culturale può incidere positivamente anche sulla politica di welfare di comunità33. 3. La conciliazione famiglia-lavoro nella comunità locale. In ordine alla conciliazione famiglia-lavoro, la Commissione Europea sin dal 1995 ha elaborato documenti di politica sociale e familiare nei quali è dato ampio spazio all’istanza dell’aiuto da offrire ai genitori per rendere armonici tra loro l’impegno lavorativo e i carichi familiari34. Tale preoccupazione si è ulteriormente rafforzata dopo la sessione straordinaria del Consiglio Europeo del 23-24 marzo 2000 svoltosi a Lisbona, occasione nel corso della quale tutti gli Stati dell’Unione Europea sono stati sollecitati a prestare grande attenzione alle politiche del lavoro, al fine di garantire ed esaltare al meglio le varie età della vita della singola persona ed il processo di permanente apprendimento. Nella fattispecie, è stata raccomandata l’enucleazione di un insieme di principii in materia di flessicurezza, per mezzo dei quali promuovere non soltanto l’implementazione del mercato del lavoro ma “anche l’altrettanto necessaria tutela dei diritti delle persone e dei loro progetti di vita”35. La difficoltà da superare, a far tempo da quella data, è stata identificata nel passaggio dal piano delle indicazioni generali di politica sociale e del lavoro all’attuazione delle medesime nello spazio circoscritto dei singoli Stati e, per quanto concerne questi ultimi, nelle varie zone geografiche di cui si compongono. Nel nostro Paese sono già presenti gli strumenti normativi per procedere con celerità nella direzione indicata. La modificazione del Titolo V della Costituzione effettuata con la legge n. 3 del 18 ottobre 2001 ha posto le basi per la costruzione di un modello di governance del territorio attento ai bisogni in esso emergenti. In realtà, con la ridistribuzione delle competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni sono stati assegnati a ciascuno Ente politico-amministrativo precisi compiti e prerogative. “In particolare, nell’art. 117 della Costituzione, la potestà legislativa è stata riservata, per talune materie, alla competenza esclusiva dello Stato, per altre materie alla competenza concorrente Stato-Regioni e, tramite una clausola generale di carattere residuale, alla competenza esclusiva delle regioni in ordine a tutte le materie non ricomprese tra quelle esclusive dello Stato o tra quelle concorrenti”36. Orbene, considerato che anche a livello europeo si raccomanda, nei vari Trattati e Atti normativo-documentali, di tendere al superamento di modelli d’intervento gerarchici, rigidi, a pro di forme di azione partecipativa istituzionali e normative; sulla scorta delle leggi regionali italiane che dal 2002 sono state emanate in ordine alle attività produttive, è possibile asserire che nel nostro Paese occorre coltivare sempre più la definizione di modelli territoriali di governance della questione lavoro, per dare adeguato risalto e spessore al rapporto esistente tra politiche per il lavoro/politiche per la famiglia/politiche dei servizi territoriali. Vanno potenziate, in particolare, le attuali tendenze, rinvenibili in alcune leggi regionali, a costruire reti di collaborazione tra i diversi livelli di governo del territorio (Stato, Regioni, Province e Comuni), tra organizzazioni e parti sociali, tra soggetti pubblici e privati, lungo la via della costruzione di un mercato del lavoro contrassegnato dalla ricerca della qualità della vita e dalla preoccupazione di favorire una reale integrazione sociale. Per alcune suggestioni al riguardo, cfr. H. KRÜGER, “Linking Life Courses, Work and the Family: Theorizing a not so Visible Nexus between Women and Men”, in Canadian Journal of Sociology, 2001, 2, pp. 145-166. 34 D. GIOVANNINI, Introduzione, in M. FINE-DAVIS, J. FAGNANI, D. GIOVANNINI, L. HØJGAARD, H. CLARKE, Padri e madri: i dilemmi della conciliazione famiglia lavoro. Studio comparativo in quattro paesi europei, p. 25. 35 Rapporto ISFOL 2007, p. 11. 36 ISFOL, p. 488 10 33 Dinanzi ai mutamenti che si verificano nei campi della organizzazione del lavoro, dei rapporti intergenerazionali, dell’accesso all’attività lavorativa, diventa urgente procedere alla definizione di politiche sociali e familiari precise. Esse, sulla scorta di indicazioni europee e nazionali, vanno calate nel contesto particolare della comunità locale: è necessario un vero e proprio decentramento, che permetta di attuare in loco strategie di conciliazione tra famiglia e lavoro, adeguando le iniziative alle effettive esigenze delle persone che vivono in un particolare spazio geografico37. Se si vuole invertire l’odierna inclinazione a subordinare la famiglia ai ritmi e ai tempi lavorativi, è urgente reinventare un nuovo modo di progettare le politiche sociali e della famiglia, identificando nella comunità locale il punto focale della loro elaborazione. Può essere questo un modo per sgravare la famiglia anche di quelle forme di “sussidiarietà involontaria”, che in determinate circostanze la obbligano “a scelte non degne di un Paese civile, quale quella fra l’assistenza al genitore anziano lungodegente e il costo per l’educazione dei figli” 38. Nel processo di ri-configurazione dei ruoli e dei compiti tra Stato centrale e istituzioni decentrate, anche in ordine al tema della conciliazione tra famiglia e lavoro s’impone l’urgenza di passare da un welfare centralizzato a un welfare locale dei servizi39. Il funzionamento di questi va garantito non soltanto dall’ente pubblico, ma anche dal privato sociale e dal mondo del volontariato o terzo settore40. Circa quest’ultimo aspetto, si tratta di riscoprire soprattutto il ruolo dell’associazionismo familiare, sollecitandolo ad avviare forme di scambio tra famiglie, nella prospettiva di un rinnovamento delle reti di sostegno. Reti di parentela, asili nido, lavoro part-time, riequilibrio tra i generi, congedi familiari: sono questi, insieme ad altre iniziative di aggiustamento settoriale, gli elementi su cui poggia l’attuale processo di conciliazione famiglia-lavoro. Tutti, però, presentano aspetti critici. In riferimento ad essi si può asserire che sono espressione di politiche sociali tese a compensare i disturbi suscitati nella famiglia da una logica lavorativa che, se non contraria, certamente mostra indifferenza verso la famiglia. E’ necessario modificare tale logica, per dare nuova linfa e significato ai suddetti servizi di sostegno. Intraprendere iniziative per avviare una modificazione dell’organizzazione del lavoro può costituire una nuova prospettiva culturale idonea a permettere alle famiglie, soprattutto alle nuove famiglie, di conquistare spazi sempre più ampi di progettualità esistenziale e di protagonismo sociale. Per l’approfondimento del tema, cfr. L. PATI, L’educazione nella comunità locale. Strutture educative per minori in condizione di disagio esistenziale, La Scuola, Brescia, 1990; ID., La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, La Scuola, Brescia, 1995. 38 L. CAMPIGLIO, “Salari, redditi e servizi: quale politica per la famiglia?”, in Vita e Pensiero, 2006, 1, p. 50. 39 L. PATI, La politica familiare nella prospettiva dell’educazione, pp. 185-205. Si veda altresì M. PACI, “le ragioni per un nuovo assetto del welfare in Europa”, in La rivista delle politiche sociali, 2004, 1. 40 F. PIRRO, “Strategie plausibili. Azione volontaria e mercato del lavoro nei sistemi locali di welfare”, in Sociologia del lavoro, 2006, 1. 11 37