L'Essere secondo Heidegger La concezione dell’essere proposta da Heidegger riveste una particolare importanza, in quanto essa ha improntato di sé tutto il dibattito su questo tema condotto dalla filosofia del nostro secolo. Heidegger contrappone la sua concezione metafisica imperniata sull’essere in generale a quella prevalente fondata sulla distinzione tra essere ed ente e si chiede se “è questa distinzione che ha il proprio fondamento nella natura dell’uomo”, come voleva Kant, o se è “la natura dell’uomo che si fonda su questa distinzione”. Infatti, poiché a partire da Cartesio solo la ragione può rappresentarsi una simile distinzione, e, poiché tutta la filosofia precedente, e non solo quella moderna, ha riconosciuto nella razionalità l’essenza dell’uomo, ne discende che questa distinzione metafisica non fa altro che giustificare la “soggettività” dell’uomo[2]. In particolare, per Leibniz, l’unità dell’essere, ovvero la ragion sufficiente dell’essere in generale, può ritrovarsi solo in un principio di identità, che in realtà è ricalcato sulla individuità della sostanza. L’essere sorge già dalla individuità della cosa, perciò per Leibniz essere e vero essere coincidono, ma, nello stesso tempo, proprio perché l’individuità rimanda subito all’essere e alla sostanza, la verità non può che risultare trascendentale. In quanto verità, tale trascendentalità viene colta dalla ragione dell’uomo. In tal modo, si afferma la centralità dell’uomo, in quanto soggettività e in quanto razionalità. A questa ragion sufficiente e a questa trascendentalità Heidegger ne contrappone altre e dice che l’autentica ragion sufficiente è data dalla libertà, non dalla razionalità. Inoltre, il disvelamento si attua non conoscendo ma stando emotivamente nel mondo e progettandolo, cioè “slanciandosi in avanti”. L’unità dell’essere è già anticipata dalla costituzione dell’Esserci, il quale “è coinvolto nell’ente in modo tale che, facendone parte, è accordato ad esso”. Ontologicamente questa possibilità dell’Esserci viene assicurata dalla “Cura”, a partire dalla quale si concretizza una prima comprensione dell’essere, completamente diversa, però, dal conoscere teoretico[3]. La “Cura”, infatti, predispone ad una condizione estatica che supera la duplicità di un dentro e di un fuori, o, se si vuole, di un soggetto e di un oggetto, e, pertanto, si può acquisire al di là del “punto di vista della “soggettività” e della “sostanza”, così come sono concepite dal pensiero[4]. Dunque, Heidegger vuole superare l’artificiosa distinzione tra essere ed ente, ma, si badi bene, con ciò non intende occultare la contrapposizione tra essere ed onticità dell’ente. L’unità tra essere ed ente è pensabile solo in quanto l’ente manifesta l’essere, mentre viene esclusa qualsiasi considerazione scientifica dell’ente, il che significa che si nega una piena autonomia all’ente preso singolarmente, dato che questo viene subito situato ambientalmente, o riportato alla totalità dell’ente. L’ente situato e la totalità dell’ente anticipano e manifestano l’essere in generale. La preclusione dell’autonomia dell’ente particolare, però, pregiudica anche l’autonomia delle singole relazioni tra le cose e le loro strutture determinate, poiché queste ultime hanno senso solo se vengono collocate nella struttura più complessiva della “cura” e della utilizzabilità globale, quali si riscontrano nella temporalità lunga della continuità di vita. La stessa singola emozione ha valore solo se coglie esteticamente questa totalità di enti e di usi, e solo se unifica, di nuovo esteticamente, le temporalità disperse. L’onticità dell’ente, in quanto tale, viene equiparata ad una colpa, alla colpa originaria dell’esser gettati in un mondo di semplici presenze e in una socialità dominata dalla chiacchiera del “Si”. Perciò, l’atteggiamento autentico da assumere nei confronti dell’ente così configurato non può che essere il “rifiuto”. Solo così l’ente rivela la sua vera essenza che è quella del “nulla”, il quale non è assimilabile al “niente”, perché non ignora l’ente ma lo “oltrepassa” come “oggetto”, rendendolo atto a rivelare l’essere[5]. Annullare l’ente onticamente inteso, per valutarne la sua portata esistenziale ed ontologica, questo è il programma di Heidegger. Ora, vedremo che così come si privilegia una particolare dimensione dell’ente, quella totalizzante, a scapito di un’altra, quella della sua identificazione; allo stesso modo, si svaluterà sia la soggettività, sia la socialità, intese nella loro specificità ed autonomia, per prospettare una nuova categoria: quella della ipseità. L’ipseità rappresenta un “poter-esser-se-Stesso autentico” che si è liberato dall’abbraccio asfissiante del “Si”. L’ipseità, dice Hiedegger, è una trascendenza che oltrepassa qualcosa e si muove 'da’ qualcos’altro'. A questo proposito, provvisoriamente, il filosofo tedesco ammette la possibilità di utilizzare il termine “soggetto”, ma poi precisa che forse è opportuno evitare tale denominazione, perché, in realtà, con la ipseità non viene superato né l’oggetto soltanto, né la “relazione fra soggetto e oggetto”. Questo non perché Heidegger escluda qualsiasi rapporto tra i due fattori, ma perché questo rapporto è sempre situato in una “visione ambientale preveggente”, che struttura la relazione, intesa in senso stretto, in un contesto più ampio. Ciò che viene confutato, quindi, è la reciproca posizione autonoma del soggetto e dell’oggetto all’interno di questa struttura più ampia. In particolare, “ciò rispetto a cui” si verifica l’oltrepassamento è costituito dal mondo, perché l’Ipseità deve superare, ad un tempo, il soggetto e l’ente che egli non è, cioè “la natura”. Lo sradicamento del soggetto è completo proprio perché colpito nel suo fondamento, cioè nella possibilità di riferirsi autonomamente e, quindi, secondo Heidegger, prepotentemente rispetto al mondo. Ma, inevitabilmente, colpendo “la relazione fra soggetto e oggetto”, si colpisce anche l’autonomia del mondo. Heidegger, a dire il vero, attua sì una distinzione tra uomo e mondo, ma essa non diventa mai un riconoscimento della loro piena autonomia. Anzi, il suo progetto è quello di annullare contestualmente il soggetto ed il mondo, onticamente intesi. Se l’uomo, perciò, vuole veramente “esser-fondamento”, deve attingere al suo fondamento, che è quello della libertà. Per progettare bisogna esser liberi da se stessi e dal mondo. L’Ipseità consiste appunto in questo “agire” su se stessi e sul mondo per oltrepassarli entrambi[6]. Rimettere in discussione, quindi, la distinzione della metafisica moderna fra ente ed essere significa reimpostare radicalmente il tema della soggettività e del suo rapporto col mondo, per negare che già a livello esistenziale possa sussistere una qualsiasi distinzione di ruoli tra soggetto e oggetto. Questa differenziazione, pertanto, ancor meno potrà sussistere a livello metafisico, o, meglio, essa può presentarsi nella forma di rapporto inscindibile tra uomo e totalità dell’essere prima e dell’ente poi, solo dopo aver scoperto il “fondamento dell’essenza dell’Esserci”, cioè la libertà colta in trascendenza. La trascendenza introduce la differenza, perché “comprendendo l’essere, si rapporta all’ente”[7]. Heidegger, dunque, suggerisce di ripartire dall’unità dell’essere, annullando la sua moltiplicazione fenomenica, ma questo significa voler progettare e progettarsi a partire da una totalità assoluta, che, successivamente, si manifesterà a livello fenomenico come totalità dell’ente storicamente noto. L’uomo, di fatto, non può che smarrirsi di fronte a questo “abisso”, cioè di fronte a questo scarto tra la sua particolarità e la totalità dell’essere prima e dell’ente dopo. La differenziazione posttrascendentale tra essere ed ente riguarda soprattutto due totalità. Solo a livello esistenziale, prima dell’illuminazione dell’essere, l’uomo si differenzia all’interno dell’ente (qualcosa di ingannevole in tal senso avviene con le pretese della conoscenza teorica). Ma, si badi bene, questa differenziazione non porta mai ad una autonomia, bensì ad una individualità di carattere emotivo determinata dall’angoscia, per cui il progettarsi vorrà dire ritrovare la dimensione trascendente dell’essere unitario oltrepassante. Come vedremo, tra esistenza e trascendenza si instaura un circolo di rimandi reciproci, che, però, assumono solo un aspetto formale e mai veramente sostanziale, cioè compiutamente progettuale. Verifichiamo queste affermazioni, procedendo con ordine, a partire dal ruolo dell’individuo. Per comodità d’esposizione distingueremo tra individualità e soggettività, anche se Heidegger non ha mai introdotto questa distinzione, e attribuiremo alla individualità quel ruolo positivo, esistenziale, che il filosofo tedesco riconosce esser necessario, mentre conserveremo l’accezione negativa heideggeriana data al termine “soggettività”. Quando, infatti, Heidegger si riferisce ad una “soggettività” che accoglie “l’oggettività” del richiamo, sciogliendo subito il soggetto in questo richiamo esistenziale e trascendentale, non fa altro che distinguere l’individualità dell’Esserci, cioè una singolarità, dalla soggettività classicamente intesa, e lo fa fondandola su una distinzione tra emotività estatica e conoscenza teorica. Perciò, si può anche parlare di centralità dell’uomo ma solo a condizione che venga “posto il problema della sua nullità nell’insieme dell’ente”, dato che “l’estaticità dell’essenza” dell’Esserci è incompatibile con qualsiasi “concezione ‘antropocentrica’”[8]. Heidegger parla anche di colpa originaria dell’uomo, perché, se vi è un colpevole, questo non può ritrovarsi nel mondo e negli oggetti presenti ma solo ed esclusivamente nell’uomo, ed, in particolare, nell’uomo che si assoggetta al “Si”. L’individualità dovrà rompere già a livello esistenziale con questa continuità con il “Si”. L’essere se stessi significa assumere una cura di sé che fuoriesca dalle soluzioni deiettive in cui il “Si” ci ha gettato. Il “se-stesso”, infatti, “è... per lo più, un se-stesso inautentico, un Si-stesso”. La comunità degli uomini, d’altronde, non può costituire “il filo conduttore” dell’esistenza umana, dato che essa va riportata entro una “totalità strutturale” più ampia, tale da ricomprendere l’insieme del mondo. Perciò, il richiamo all’angoscia come forma essenziale dell’apertura dell’Esserci non può che essere intesa come richiamo alla individualità del “se-Stesso”. Heidegger, dice a tal proposito, che occorre “semplificare” l’Esserci e non confondere o mettere sullo stesso piano, perciò, l’angoscia con “la volontà, il desiderio, la tendenza e l’impulso”[9]. Nulla da obiettare a questa impostazione metodologica, purché questa semplificazione, preliminarmente necessaria, costituisca il fondamento di una valorizzazione piena delle altre facoltà ed un riconoscimento della loro autonomia. Inoltre, bisognerebbe verificare se a questa semplificazione dell’Esserci non si accompagni una semplificazione delle relazioni con la realtà esterna. A questo proposito, Heidegger contrappone l’intenzionalità alla consapevolezza di sé, perché “l’esistenza non consiste nell’essere un Selbst, né viene determinata da questo”; invece, “l’intenzionalità risulterà possibile solo sul fondamento della trascendenza”, pur non coincidendo con questa[10]. Perciò, quando Heidegger parla anche di coscienza e di volontà ne circoscrive subito la portata. Infatti, chiedendosi in che senso possiamo parlare di colpa, dice che essa risiede nella “nullità” del progetto esistensivo, il quale esercita la libertà dell’uomo in maniera limitata e limitante, riconducendola alla “scelta di una possibilità” che esclude di per sé tutte le altre. Rispetto a questa colpa, il “voler-aver-coscienza” non si riferisce a colpe particolari, ma alla scelta operata, cioè all’aver scelto Verso questo aprioristicamente peccato non e si “senza può coscienza” che di escludere altre possibilità. agire” dal se-Stesso. “lasciarsi Solo in tal modo e solo in tal senso ci possiamo ritenere “responsabili”. La stessa volontà “non può essere intesa come un volere determinato”, che si contrapponga “ad altri comportamenti umani come la rappresentazione, il giudizio, la gioia”, dato che tutti i comportamenti si radicano nella trascendenza. La volontà è volontà di libertà, la quale soltanto “rende possibile l’imposizione e la sopportazione di un’obbligazione determinata”. Si potrebbe dire che la libertà è la “causa” della responsabilità dell’esistenza storica del Se-stesso, ma, anche qui, bisogna escludere “un’interpretazione particolare” del concetto di causa, per considerarla, invece, nel suo carattere di fondamento. Quindi, non vi è originariamente colpa determinata né colpa cosciente, ma solo una colpa che nasce dal “con-esse(re) con gli Altri sul nullo fondamento del suo nullo progettare”[11]. Noi scegliamo una sola possibilità (tra l’altro tra quelle socialmente già prefigurate) perché la coscienza pubblica si comporta e si è sempre comportata così, e ha, di conseguenza, indotto le singole persone a fare altrettanto. Occorre, perciò, prendere coscienza rispetto a questa mancanza di coscienza, ed il primo atto responsabile in tal senso consiste nel liberarsi dalle costrizioni e dai conformismi del “Si”. Tuttavia, questa precondizione, che è certamente indispensabile, a mio parere, resta perennemente indeterminata e, perciò, difficilmente efficace. Anche quando sfocia nell’emotività, questa decide di decidersi ma non su che cosa decidere. Per Heidegger, la “Cura” riguarda l’Esserci nella sua “totalità” e, pertanto, non può riferirsi a una “sintesi” delle diverse facoltà, successiva ad una loro dialettica. La decisione che ne scaturisce, secondo il filosofo tedesco, non è “indeterminata”, ma neanche può esprimersi in un “rappresentarsi cognitivamente una situazione”, dato che si è già “insediati in essa”, ragion per cui si può dire che “in quanto deciso l’Esserci agisce già”, anche se il termine “agire” è inopportuno. Pertanto, l’affermazione secondo cui “il decidersi è, in primo luogo l’aprente progettamento e la chiara determinazione delle possibilità di volta in volta effettive” e non soltanto come “assunzione passiva di possibilità offerte e raccomandate”, va interpretata in riferimento alla situazione. Questa sopravanza le “opportunità più prossime” offerte al “Si” e apre ad appagatività proprie “delle circostanze nella loro concreta effettività”. Ma per quanto determinate siano le possibilità che si aprono e per quanto effettive siano le circostanze, in realtà si tratta solo di “accidenti” che “possono accadere” alla decisione. Accadono agendo e stando nella situazione, per cui è vero che esse non sono offerte, nel senso che siamo noi ad aprirci alla situazione e nel senso che tale apertura dipende da una nostra decisione, però sono offerte anche in un altro senso e cioè nel senso che si affacciano di per sé nell’ambito della situazione aperta. La determinazione della decisione rappresenta, pertanto, un letterale superamento dell’indecisione del “Si” “dominante”. La nostra decisione si chiude là dove si apre e là dove apre, cioè viene illuminata da una situazione che ne porta così a galla tutte le sue potenzialità, ma rispetto alla loro pratica attuazione, alla selezione delle possibilità, alla scelta dei mezzi, alla analisi dei risultati, alle eventuali correzioni di condotta, ai comportamenti da assumere nei confronti degli altri, alla continuità da dare a questi risultati; rispetto a tutto ciò, la decisione rinvia ad un ulteriore agire, che a questo punto non può che essere automatico, escludendo qualsiasi riesame razionale[12]. Cosicchè, l’agire, in primo luogo, fa accadere ed apre alla situazione ed apre la situazione, anche se è questa che in ultima analisi offre le concrete possibilità di agire. E, tuttavia, questo agire fallisce nel suo intento progettuale, perché il vero progetto risiede altrove, nella trascendenza dell’essere e nel suo fondamento. L’agire, nella sua autenticità, non può che rimandare a questo progetto più autentico e più totale di qualsiasi altro progetto, ancorchè esistenziale. Allo stesso modo, la volontà o la desisione, secondo Heidegger, ad un tempo, discende da un’emotività e predispone ad essa, ma questa a sua volta non si attiva in una volontà determinata, né in una presa di coscienza effettiva della sua progettualità, bensì perviene ad una totalità estatica. La aporia kantiana tra dover essere ed essere, tra pretesa infinità della conoscenza ed effettiva infinità empirica, su un altro piano, resta ancora irrisolta, perché non si affronta il tema della relazione con l’esteriorità e con la sua autonomia, per cui questa discrasia non può che sfociare in una nuova metafisica, quella del progetto dell’essere, però, così vago e indefinito da rappresentare una sovrastruttura rispetto al mondo. A questo grado di purezza dell’essere anche il dire può manifestarsi in maniera originaria e contrapporsi alla chiacchiera del “Si”. Il “Si”, infatti, si appoggia ad una presunta voce della coscienza che avrebbe carattere obbligante ed universale e che giustificherebbe il costituirsi di una “coscienza pubblica”. Rispetto a questa pretesa e a questa obbligatorietà assiomatica, la “Cura” “deve tornare indietro a riprendersi dall’essersiperduto nel Si”, facendo comprendere all’Esserci la sua colpevolezza. Ciò che riscatta da questa colpevolezza è la decisione[13]. Ma, in concreto, è possibile riscattare gli altri, riscattarsi con gli altri o tramite gli altri, oppure ritrovarsi riscattato insieme ad altri, anch’essi riscattatisi per proprio conto? La risposta di Heidegger a tal proposito non è sempre chiara. Escluso preliminarmente che ci si possa risollevare tramite gli altri, dato che la decisione “è sempre propria di un singolo Esserci”, ne dovrebbe conseguire che non è possibile nemmeno riscattare gli altri, i quali dovrebbero seguire lo stesso percorso individuale. Eppure Heidegger dice che “l’Esserci che ha già deciso” può divenire “la coscienza” degli Altri”, e parla anche di un “aver cura degli Altri”. In tal senso, la decisione non isola proprio per il suo carattere di apertura. Ma più propriamente “l’avente cura degli Altri” è un “con-essere”. Questo “con-essere” comporta da un lato il “divenire libero per il proprio mondo”, dall’altro dà all’Esserci “la possibilità di lasciar “essere” gli Altri che ci-sono-con nel loro poter-essere più proprio”. “Altri”, i quali, a partire da questa loro irriducibilità, potranno costituire il “con-aprire questo poter essere”, ma pur sempre essendo “liberi per la propria Cura”. Altrove, Heidegger aggiunge che solo trascendendo “il tutto dell’ente” e allontanandoci da esso noi potremo sentire le cose più prossime a noi. La conquista della trascendenza ritrova, a questo punto, un ritorno nella storia e nella temporalità dell’Esserci e fa sì che ora si possa “rispondere all’appello della coesistenza”[14]. Ci si può ritrovare insieme non perché abbiamo preso tutti esattamente la stessa particolare decisione, ma perché ci siamo orientati tutti verso la trascendenza e verso la libertà, vale a dire abbiamo posto tutti le stesse precondizioni progettuali. Il “con-essere” di Heidegger ha questo significato e anche qui indica una convivenza di per sé possibile in forza di un medesimo atteggiamento verso il mondo. Si presuppone così una ricaduta storica automatica, conseguenziale e, per di più, condivisa da tutti coloro che hanno raggiunto lo stesso grado di libertà e la stessa autenticità della decisione. Perciò, si può essere al tempo stessi liberi per la propria cura e con-essere con gli altri avendone cura; ci si cura reciprocamente, non solo perché ci si rafforza reciprocamente, ma anche perché tutti si propongono la stessa cura, pur facendolo a partire da una decisione e da una cura propria. Per quelli che, invece, non possiedono gli stessi mezzi, gli uomini autentici rappresenteranno “la coscienza degli Altri”. Heidegger, in definitiva, propone la costituzione di un nucleo più rappresentativo e più qualificato che agisca come in un processo di fusione nucleare, in cui i diversi atomi fondendosi producono energia ma subito ritornano alla propria individualità, per poi dare corso ad una nuova fusione, in una catena di reazioni che si susseguono ormai inevitabilmente, ripetutamente, invariabilmente. La sua idiosincrasia, abbandonata provvisoriamente durante il periodo nazista, per i concetti di popolo e di razza, definiti dal semplice requisito della nazionalità o della stirpe, emergerà con chiarezza più tardi, quando parlerà, a tal proposito, di una sete di dominio e di egoismo, che, sotto i panni del popolo e della razza, non nascondono altro che un “egoismo soggettivo” ed un rafforzamento della “soggettività”[15]. Heidegger vuole individui che, liberamente e singolarmente, si trascendano in una totalità comprendente sia l’umanità che il mondo, non vuole soggetti, ed, in particolare, non vuole soggetti che si distinguano dal mondo per poi assoggettarlo, nè vuole soggetti sociali ed istituzionali che si sostituiscano all’individuo o lo rappresentino. Infatti, solo l’angoscia e l’inclusione nell’Esserci della “possibilità della morte” conducono ad una decisione che supera tutte le altre e le trascende. Si tratta, perciò, di una decisione individuale, in quanto già motivata individualmente. Questo “autodecidersi libero” non può essere determinato “anteriormente”, ma si apre alla “determinabilità”. E, tuttavia, siamo ancora ad una precondizione, dato che, in pratica, “la certezza del decidersi significa mantenersi libero per la propria ripresa possibile e sempre necessaria in linea di fatto”[16]. Perciò, parlando della verità, Heidegger afferma che essa non può essere “soggettiva”, se con ciò si designa “ciò che è nell’arbitrio del soggetto”, ma assume solo carattere esistenziale. Solo perché l’Esserci è si può scoprire la verità, ed essendo l’Esserci può ritrovare la verità che si manifesta. In tal senso, “non siamo noi a presupporre la ‘verità’”, ma è questa, il suo esistere originario, che ci rende possibile il fatto che noi la presupponiamo. L’uomo, perciò, non può pretendere di rappresentare la verità a priori, di possedere già in sé gli a priori della verità; egli può “auto-presupporsi” solo nel senso di assumere la decisione di aprirsi alla situazione, può presupporre solo questa sua capacità[17]. Da qualsiasi punto di vista si affronti la questione, l’impostazione e l’esito risultano sempre gli stessi: l’uomo deve individualmente trascendersi per poter comprendere l’essere in generale in modo pieno ed autentico. La stessa comprensione non è di carattere teoretico; non lo è né a livello esistenziale, né tanto meno metafisico. Di conseguenza, anche il progetto non può che avere i connotati della totalità e dell’immediatezza, di una totalità immediata. Il “che cosa” di cui parla il “chi” consiste proprio in una totalità estatica, sia essa situazionale o metafisica. La “chiamata”, dice Heidegger, si rivolge all’ “Esserci singolo”, e, come tale, non può risolversi in una conoscenza “ideale e universale”. Tuttavia, anche in questa determinatezza singolare, la chiamata “non afferma nulla, non dà alcuna informazione sugli eventi mondani, non ha nulla da dire”. Ma per quanto “non dia nulla”, essa non solo assume un carattere critico ma ha anche un valore “positivo”; questo, però, nel senso che “apre il poter-essere più originario dell’Esserci in quanto esser-colpevole”[18]. Solo armato di questa comprensione di se stesso, l’uomo può porsi positivamente di fronte ad un mondo strutturato come totalità. Altrimenti, il destino dell’individuo sarebbe segnato da una incomprensione di sé dovuta all’immersione nel Si, la quale gli oscurerebbe l’essere che si manifesta nella totalità dell’ente. Come si vede, comunque, l’individualità diventa Ipseità solo se si rapporta ad una totalità; l’ipseità consiste nel decidersi di farlo. L’esserci è una totalità e questa condizione, dice Heidegger, “risale a una possibilità ontica dell’Esserci”, dato che in qualche modo traspare già nella “quotidianetà”. Tra quotidianità ed esistenzialità, però, si interpone un atto decisivo. La “decisione anticipatrice”, infatti proviene dal “voler-aver-coscienza” della morte. Cosa deriva, a questo punto, da tale atto decisivo? Heidegger non cessa mai di dirci che un simile atteggiamento non implica “distacco” o “fuga dal mondo” e che l’Esserci non può che vivere nella storia e nel tempo. Ma di questa storia e di questo tempo ci fornisce solo le coordinate essenziali, per così dire, “ideali”. Il loro compito consiste nel condurre all’affrancamento dell’Esserci, portando ad una “decisione dell’ “agire”. L’uomo deve progettare la sua storia e nello stesso tempo deve dimenticare la sua storia attuale, perché, di fronte alle “novità” della chiacchiera del Si, l’Esserci sceglie di “poter-essere isolato”, compiaciuto della sua “gioia imperturbabile”. Heidegger, il filosofo che con più acume di qualsiasi altro pensatore ha colto i tratti essenziali, le contraddizioni e i temi fondamentali della nostra epoca, suggerisce all’uomo di intuire soltanto le coordinate di massima della sua condizione storica, senza perdersi e disperdersi in analisi e progetti particolareggiati. L’uomo deve comprendere esclusivamente la totalità della sua condizione e la totalità della sua decisione. Di fatti, aprirsi al mondo per l’uomo significa “abbracciare” “oltre all’essere dell’ente che esso stesso è... l’essere dell’ente scoperto dentro il mondo, benché non tematicamente”. Il progetto, quindi, richiede “un esame”, ma questo avviene “per lo più inesplicatamente” ed il suo contenuto consiste in un “autentico poter-essere-un-tutto”, perché rinvia alla “totalità dell’insieme articolato delle strutture della Cura nell’unità dell’articolazione” che ne risulta (ma risultata per chi? Per tutti? Ne dubito). Perciò, Heidegger afferma che il progetto “non comporta una comprensione precisa di ciò che è progettato”, ma si limita a “procurarsi” “una raffigurazione (immagine) che, anche se non compresa esplicitamente e dettagliatamente, funge da prefigurazione per il tutto dell’ente rivelatesi”, di cui l’Esserci stesso in definitiva fa parte. Il progetto per Heidegger può essere contestualmente trascendente e storico, perché sia la trascendenza che la storia, secondo punti di vista distinti, riguardano entrambi l’ente nella sua totalità[19]. La totalità, per Heidegger, ammette un’articolazione ma non una dialettica, per questo i suoi momenti non possono essere colti autonomamente, prima ancora che distintamente, e neanche possono essere condotti ad una sintesi, che diventerebbe accessibile ad una conoscenza. Al contrario, è possibile solo ad una raffigurazione schematica immediatamente comprensibile. Totalità e mancata coscienza e/o conoscenza si rinviano a vicenda. E’ probabile che lo stesso filosofo tedesco abbia colto la difficoltà della definizione del progetto così impostato, oltre che della sua concreta realizzabilità. Infatti, riguardo a questo ultimo aspetto, egli precisa che è problematica la stessa affermazione di una prospettiva filosofica nel corso stesso della vita del pensatore che l’ha sostenuta. Ad una domanda non succede immediatamente una risposta, per cui, per il momento, non resta che ascoltare la voce dell’essere, divenendo la “guardia della verità dell’essere”. Bisogna, perciò, entrare nell’ordine di idee che per “l’uomo storico” si prospetti, relativamente alla pensabilità dell’essere, “l’assenza di necessità come necessità”; condizione, d’altronde, “salutare”, in quanto permette di “prende(re) con sé e reclude(re) la dimensione aperta del sacro”[20]. A mio parere, questo approdo sacro è conseguenziale ed inevitabile rispetto ad una impostazione che ha sempre tenuto di vista la totalità, esistenzialmente articolata ma mai autonoma, e che sin dall’inizio ha mirato ad una totalità assoluta ed indistinta. Nessuna filosofia può sfuggire ad un esito sacrale finchè si costruisce in funzione di una metafisica che non abbia effettiva presa sulla storia. Heidegger temeva che un’oggettivazione aprioristica delle cose finisse con l’oggettivizzare anche l’uomo; eppure, anche lui è finito col cadere in una nuova oggettivazione dell’uomo, non nello Spirito di un popolo o dello Stato, come voleva Hegel, ma nell’unità dell’essere in generale. Incidentalmente, si può notare come, su un altro piano, anche lo strutturalismo prospetta una unificazione dell’essere e parla, come l’esistenzialismo di Heidegger, di una raffigurazione, ma questa, in quanto legata al desiderio inconscio, si ricollega ad un immaginario, che è in qualche modo rappresentabile. La novità introdotta da questo movimento filosofico risiede nel ruolo privilegiato da essa assegnato all’uomo. Questi ha in sé potremmo dire degli a priori, vale a dire la capacità di rappresentare in trascendenza l’unità dell’essere (innanzi tutto nel rapporto immediato tra l’Altro e la madre), così come possiede i processi necessari per concatenare automaticamente i diversi significanti. Per quanto riguarda l’articolazione dell’ente, questa, pur riconosciuta, resta alienante fino a che l’individuo non abbia, attraverso il desiderio inconscio, riunificato il proprio corpo e superato l’insufficienza della prematurazione specifica della nascita. Solo un individuo completato può ritornare sulla molteplicità dell’ente e riunificarlo sotto l’egida di un desiderio, di per sé proiettato verso l’alterità e di per sé unitario. Allo stesso modo, il desiderio può stringere in un patto di alleanza il singolo agli altri. Al desiderio, quindi, risale questo potere di riunificazione di se stessi e del mondo, inteso come natura e come società. Ma, così, lo strutturalismo, rispetto all’esistenzialismo, registra una novità rilevante, dato che è l’unità antropologica e sociale dell’uomo che ricompone in una unità più ampia anche la natura. Il passaggio dalla metafisica (questa unità progettata anticipatamente), alla storia per lo strutturalismo si realizza “effettivamente” nella rappresentazione simbolica operata dal desiderio inconscio. A mio parere, però, difficilmente, si può sostenere che la rappresentazione simbolica inveri di sé immediatamente e automaticamente la storia del mondo. Per lo strutturalismo, come per l’esistenzialismo, resta, dunque, inevasa l’esigenza della presa d’atto della complessità dell’uomo e della storia, e, perciò, si avversa l’unità conquistata storicamente, attraverso una sintesi dialettica. NOTE [2] M. Heidegger: Nietzsche, cit.; pp. 731-735. [3] M. Heidegger: Essere e tempo, cit. Le citazioni sono tratte, nell’ordine, dalle seguenti pp.: 637, 675. [4] 139. M. Che Heidegger: cos’è la metafisica?, Firenze 1995; p. 75. [5] Per il riferimento alla “colpa” si veda: Essere e tempo, cit.; p. 425; mentre per la concezione dell’ente [6] come M. “nulla” Heidegger, si veda: Sentieri e tempo, Essere [7] interrotti, cit.; pp. Ivi; [8] Firenze 1984; 400, p. 633-641, p. Ivi; pp. 101. 677. 636. 414, 665. [9] Per quanto riguarda il riferimento al rapporto Se-stesso/si-stesso, si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 287-288. Sullo stesso argomento, altrove, Heidegger afferma che “la chiamata al Se-stesso ignora il Si” (ivi, p. 407) e che tale richiamo contesta “al Si il suo predominio” (ivi, p. 414). Il riferimento al ruolo dell’angoscia è tratto dalla stessa opera (si veda: p. 288). [10] Per questo argomento si veda: Che cos’è la metafisica, cit.; p. 77, e: Essere e tempo, cit.; p. 636. [11] Per il tema della colpa e del “voler aver coscienza” si veda: Essere e tempo, cit., pp. 417 e 427. Per il rapporto tra volontà e libertà si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 666-667. [12] Per questi argomenti si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 440-444. [13] Ivi; pp. 414 e 425. [14] Per le questioni relative alla decisione del singolo che apre al “con-essere” si veda: Essere e tempo, cit.; pp. 439-440. Per i rapporti tra trascendenza e storia si veda: ibidem; pp. 677-678. [15] [16] M. M. Heidegger, Heidegger, [17] Sentieri Essere interrotti, e tempo; Ivi; [18] Ivi; cit., pp. pp. 438 96-97. e pp. pp. 452. 343-346. 417, 407, 427. [19] Per il tema delle possibilità offerte dalla quotidianità e dalla conseguente decisione si veda: Essere e tempo, cit., pp. 454-455. Per il tipo di esame richiesto in ordine al progetto si veda: ivi, p. 473. Per la raffigurazione progettuale [20] M. Heidegger, Nietzsche, cit.; pp. 398, 562, 858. HEIDEGGER si veda: ivi, p. 661. RIASSUNTO DI ESSERE E TEMPO Essere e Tempo I Domanda sull'essere. Heidegger si pone la domanda "cos'è l'essere?". In tal domanda possiamo individuare un cercato (ciò che si domanda), un ricercato (ciò che si trova), e un interrogato (ciò a cui si domanda); il nostro cercato è l'essere, il nostro ricercato è il senso dell'essere, l'interrogato non può che essere un ente, in quanto l'essere è sempre di un ente; questo ente è l'esserci dell'uomo, poiché è costitutivamente apertura all'essere, dunque ne ha sempre una comprensione preconcettuale. Interrogare l'esserci significa studiare le strutture del suo modo d'essere, cioè l'esistenza. Esistenza. L'esistenza è una possibilità di rapporti che l'uomo può determinare, è trascendersi, progettarsi. Comprensione ontica ed ontologica. L'uomo posto di fronte alle scelte che deve compiere, ha dapprima una conoscenza ontica del mondo, cioè lo assume come dato, poi però riflettendo si perviene ad una conoscenza ontologica cioè delle strutture dell'esserci che danno un senso al mondo. Esserci. L'analitica dell'esserci non è studiare il soggetto invece dell'oggetto, poiché l'esserci è costitutivamente apertura al mondo e comprensione di esso. L'esserci è essere-nel-mondo, rapporto con esso, e l'esserci è la totalità del rapporto, non solo un polo di essa. Mondo. il mondo in cui l'esserci è, per Heidegger, non è né l'insieme degli enti intramondani, né una cornice che li circonda, ma è il campo d'apparizione degli enti che accompagna la comprensione; il mondo è un esistenziale, cioè una struttura dell'esserci, non un ente esso stesso. Essere-nel-mondo. L'essere dell'esserci è essere-nel-mondo, il che significa prendersi cura degli enti, utilizzarli e maneggiarli, progettare trascendendoli per realizzare un progetto che fa capo all'esserci stesso. Enti. Gli altri enti dunque hanno il loro essere nella loro utilizzabilità da parte dell'esserci. Fra l'altro, la semplice-presenza degli enti, cioè il fatto di prenderli come dati, è anche essa una forma di utilizzo, utilizzo per il puro conoscere. Il prendersi cura ha una circospezione, cioè una precomprensione dei rimandi degli enti fra loro: un ente rimanda sempre ad un altro e lo significa in rapporto ad un fine ultimo; tutti questi rimandi fanno capo all'esserci, , il quale ha una precomprensione della totalità dei rimandi, totalità che costituisce il mondo. Coesistenza. Rispetto agli altri, l'esserci ha cura di essi, e questo può darsi in due modi: o togliere loro le cure, o aiutarli a prendersi cura delle loro cose. Modi di essere-nel-mondo. L'uomo si trova in una situazione affettiva, nella quale sente di esseregettato, sente la sua fatticità, ed è una modalità passiva. Poi è nel comprendere, cioè nel progettare; infine è nel parlare. Esistenza inautentica. Alla base di questa c'è una comprensione ontica, che prende il mondo come dato. È l'esistenza del Si (si dice, si fa), l'esistenza in cui uno è tutti e nessuno, in modo fittizio e convenzionale. Questa esistenza è determinata dalla chiacchiera (il linguaggio che originariamente svela l'essere si banalizza), dalla curiosità (la ricerca del nuovo per l'apparenza visibile), dell'equivoco (non si capisce chi è il "si dice"). Deiezione. La deiezione è quella che permette all'uomo, avendo commerci coi fatti, di ritenersi un fatto, poiché si sente un essere-gettato; la situazione emotiva, che per natura fa sentire il proprio essere gettato, lo fa sentire abbandonato a ciò che è. Cura e circolarità della Cura. La Cura è la totalità delle strutture dell'esserci, che si prende cura e ha cura. La struttura di questa cura è circolare; infatti mentre da una parte progetta in avanti, nel futuro, dall'altra la situazione emotiva gli fa sentire la propria gettatezza che lo fa tornare indietro. Essere e Tempo II Morte. L'esserci è determinato dall'incompiutezza, dalla mancanza. Fra ciò che manca c'è anche la sua fine, la morte. La morte non va concepita in modo epicureo come scomparsa dell'io, né in modo inautentico come fatto. La morte è una possibilità dell'esserci, è la possibilità più propria (concerne l'essere stesso), incondizionata (l'uomo vi si trova davanti da solo), insormontabile (si eliminano tutte le altre possibilità), certa. Con la anticipazione della morte, l'uomo comprende autenticamente sé stesso, ma ha anche la situazione emotiva dell'angoscia, che lo pone di fronte al nulla della morte, che è possibilità dell'impossibilità di possibilità. Essere-per-la-morte. La morte non va rifuggita, ma affrontata con la decisone anticipatrice di essa: non è il suicidio o l'attesa (forme di realizzazione che tolgono il carattere di possibilità), ma è tenere presente che questa possibilità c'è sempre: così l'uomo si considera come poter-essere e vede le cose come possibilità, vede la sua possibilità di realizzarsi. Voce della coscienza. Quello che porta l'uomo alla decisione anticipatrice e all'inizio della vita autentica è la voce della coscienza che lo richiama alla sua nullità. L'esserci è nullità: sia perché è fondamento di sé, ma essendo gettato, è infondato; sia perché nella scelta nullifica altre possibilità; sia perché sarà nullificato dalla morte. L'esserci è il nullo fondamento di un nullificante. Tale nullità non è privazione ma è il nulla assoluto che precede tutto. La voce della coscienza richiama a tale nulla e spinge a sceglierlo, cioè a scegliere la morte, per progettarlo. Temporalità. La Cura, cioè l'essere dell'esserci, è temporalità. Il progetto è il futuro, l'essere-gettato è il passato e la deiezione è il presente; si parla di essere-avanti-a-sé, di essere-stato e di essere-presso. Questa temporalità dell'essere ha poi originato la temporalità della progettazione, quella ordinaria. Storia. L'esserci, è storicizzarsi, è determinare mondi storici nel lasso di tempo fra la vita e la morte; è progettare, è tornare indietro alle possibilità ricevute in eredità, e tramandarne di nuove. Circolarità di vita autentica ed inautentica e differenze con la circolarità della Cura. Un esserci può passare tutta la vita nell'esistenza del Si o percorrere un circolo fra vita autentica ed inautentica. L'esistenza è possibilità, ma le possibilità sono istituite dall'uomo; quindi quando ci si chiede il proprio senso, o lo si cerca nel mondo (valore dell'universo all'interno del quale io mi trovo), o in me stesso come dato (io padrone di me faccio delle scelte perché ho un valore di me intrinseco). L'esserci si sente gettato quando capisce che il mondo non ha senso e nemmeno lui stesso; ma sentendosi gettato, sostituisce un progetto assolto, un valore assoluto, un senso assoluto con un altro di assoluto, ma in questo modo non entra affatto nella vita autentica. Questa circolarità della Cura è ben diversa dalla circolarità di vita autentica-vita inautentica. Essere-per-la-morte non significa sentirsi gettato, ma significa considerare che tutte le scelte non sono assolute ma destinate a essere superate; l'uomo deve scegliere con una riflessione sulla morte, deve pensare che quello che sceglie non va elevato a valore assoluto. Tuttavia, in questa situazione, rischia di rimanere paralizzato, perché nulla assurge ad assoluto; allora cade nell'errore opposto, cioè progettandoti considera il suo progetto come un assoluto, ma ciò è necessario, poiché per fare qualcosa bisogna crederci. In questo modo però si eleva una scelta a valore assoluto, e così ricadi nella vita inautentica. Il problema della terza sezione di Essere e Tempo Il rovesciamento. Heidegger, una volta evidenziato che la temporalità era il senso dell'essere dell'esserci, avrebbe dovuto vedere l'essere in quanto tale e la sua temporalità; dopo aver studiato il rapporto dell'esserci con l'essere, avrebbe dovuto studiare il rapporto dell'essere con l'esserci. Quindi non si trattava più di andare dall'ente all'essere come aveva fatto finora e come avevano fatto i metafisici tradizionali, poiché in questo modo l'essere risulta sempre in misura dell'ente. Heidegger doveva andare dall'essere all'ente. Ma, appunto, questo era un processo che la metafisica non aveva mai fatto, e dunque Heidegger non aveva la terminologia adatta al percorso che si riproponeva. Verità. L'essere per Heidegger è infatti qualcosa che mette in luce gli enti, che ne fa da sfondo. L'essere è verità, ma non come adaequatio rei et intellectus , cioè uguaglianza di essere e verità, fondando l'essere sulla verità; la verità per Heidegger è aletheia , disvelamento, apertura. La verità si disvela, e disvelandosi si apre, cosicché in essa uomo ed enti si possono incontrare. Ma se è disvelamento, c'è anche una parte celata: l'essere stesso, che è niente (= non-ente), implica una parte negata, nascosta. Si capisce perché Heidegger parli di verità chiaroscurale. Ontologia. Heidegger vuole fare dell'ontologia, cioè vuole esporre il pensiero dell'essere, il pensiero che viene pensato dall'essere, il suo disvelamento. Le strutture esistenziali, riferite prima all'esserci, andranno all'essere. L'esserci ora potrà conoscere ma solo perché è in un mondo che fa capo all'essere e in cui ci sono altri enti illuminati dall'essere; l'esserci deve dunque aprirsi all'essere, abbandonarvisi, e interpretarsi come appartenente all'essere; ma l'essere ha bisogno dell'uomo come termine del suo disvelarsi; l'uomo è il pastore dell'essere, custode della sua verità rivelata. Critica alla metafisica Storia. Per Heidegger l'essere, come l'esserci, si storicizza nella forma dell'invio; l'uomo è sempre rinviato ad un mondo storico che ha già una sua comprensione dell'essere. La successione dei mondi è la storia dell'essere; ma tale storia è fatta di epoche, cioè di momenti di sospensione del disvelamento dell'essere. L'essere è evento, poiché si storicizza, e l'evento di questo nondisvelamento, di questo oblio dell'essere nel mondo occidentale è la metafisica. Metafisica. La storia della metafisica è storia dell'oblio dell'essere. La metafisica e il suo oblio dell'essere è il corrispondente dell'alienazione di Marx, della reificazione di Lukács, cioè è la causa dello scadimento della società occidentale. La metafisica, più in particolare, come oblio, è oblio della differenza ontologica fra essere ed ente; differenza di cui si è tenuto conto, che ha operato, ma mai fatto oggetto di attenzione. Heidegger vuole superare la metafisica tornando alla verità chiaroscurale dell'essere. Storia della metafisica. Dapprima i metafisici hanno stabilito l'essere come essere oggettivo, poi hanno posto l'uomo al punto massimo, poi hanno reso l'oggettività un prodotto del soggetto, e infine l'uomo è stato elevato ancora più in alto, spezzando ogni legame colla realtà. La metafisica comincia con Platone, il quale nasconde il carattere chiaroscurale della verità e la definisce conformità intelletto-oggetto. Con Cartesio l'essere-vero è certo per il soggetto, poiché il pensiero viene assolutizzato. Hegel riconduce tutto allo Spirito. Nietzsche infine parla di volontà di potenza che esaurisce tutta la realtà; Nietzsche fa metafisica sbagliata (a differenza di Heidegger che fa una metafisica più corretta), poiché in lui non c'è esistenzialismo, non c'è uno scarto fra essere ed esserci, ma la volontà di potenza viene posta come assoluto. Dopo Nietzsche la metafisica non può più espandersi. Tecnica La tecnica per Heidegger è il compimento della metafisica, poiché la tecnica ritiene l'uomo capace di utilizzare tutto l'ente, fino in fondo (imposizione). Ma la stessa imposizione è svelamento dell'essere. Opera d'arte Un'opera d'arte non è un ente intramondano nella rete dei rimandi, ma ente che dischiude un suo mondo, istituisce un mondo di valori e di significati, che provengono dalla materialità fisica della terra. La terra è il tratto di chiusura implicato in un'apertura, ma è una chiusura che contiene molti altri significati per epoche e culture successive. Linguaggio La poesia è un arte molto importante, poiché si avvale della parola, cosa che schiude mondi nuovi. Il linguaggio è la casa dell'essere, perché l'incontro degli enti può avvenire solo col linguaggio. Però non si può parlare del linguaggio: infatti, parlando del linguaggio siamo già in esso, che ci ha preceduto. Esiste una circolarità ermeneutica fra uomo e linguaggio: infatti, usare il linguaggio per parlare di qualcosa significa che già abbiamo una comprensione di quel qualcosa come un mondo, e la comprensione non può avercela fornita che il linguaggio. Tale circolarità si articola come chiamata e ascolto: il linguaggio che pensiamo di usare, in verità viene prima di noi, poiché senza di esso nemmeno possiamo pensare, dunque essere uomini. HEIDEGGER ESSERE ED ESISTENZA Il termine essere può essere impiegato in molti significati, nel senso di esistere oppure di essere vero o come copula che collega un soggetto e un predicato. Il problema è se esista un significato primario che consenta di pensarli tutti nella loro unità. Generalmente, quando si usa il termine essere, si privilegia un determinato tempo verbale, il presente, ma si può dire che l'essere si riduca soltanto a ciò che è presente? Il tempo si articola in passato, presente e futuro e si può quindi porre la domanda: il tempo appartiene al senso dell'essere? Nel momento in cui si pone questa domanda l'equivalenza fra essere e essere semplicemente e costantemente presente non è più ovvia. Tale domanda, tuttavia, ad avviso di Heidegger, è stata dimenticata dopo Platone e Aristotele. Solitamente si dice che essere è il concetto più generale di tutti: di qualunque cosa, infatti, si può dire che è. Ma se è il concetto più generale, esso no può essere definito, dal momento che una definizione richiede l'esibizione del genere entro il quale l'oggetto da definire viene distinto mediante una differenza specifica; ma l'essere, essendo il concetto più generale, non può essere incluso in un genere più ampio. Per giungere al concetto di essere occorre allora percorrere un'altra strada. La domanda sull'essere, come ogni domanda, comporta che ci sia qualcosa che viene cercato (in questo caso l'essere) e qualcos'altro che viene interrogato (ossia un ente), ma ciò che è interrogato sul senso dell'essere non può essere un ente qualsiasi tra gli altri. Infatti, perché sia possibile il problema del senso dell'essere occorre che sia possibile la comprensione dell'essere ; quindi deve esserci un ente, al cui modo di essere appartenga la comprensione dell'essere. Tale ente, che detiene pertanto questo primato tra gli altri enti, è quello che Heidegger chiama esserci (Dasein, 'l'essere qui'), come modo di essere proprio dell'uomo. Heidegger usa questo termine in un significato diverso da Jaspers, per il quale esserci indica non solo l'uomo, ma tutte le cose in quanto semplicemente presenti al mondo. Rispetto agli altri enti, l'esserci ha per Heidegger la peculiarità che ' nel suo essere, ne va di questo essere stesso ', ossia il suo essere non è qualcosa di dato stabilmente, ma è sempre in gioco. Ciò significa che l'esserci si rapporta al proprio essere, è aperto ad esso: avendo una comprensione dell'essere, l'esserci non è semplicemente un ente (ossia, nel linguaggio heideggeriano, non è soltanto ontico), ma ha la prerogativa di essere ontologico, ossia di poter condurre un ricerca esplicita sul senso dell'essere, cosa che gli altri enti non sono in grado di fare. Kierkegaard aveva definito esistenza questo rapportarsi all'essere: per Heidegger l'esistenza è l'essere o essenza dell'esserci. Heidegger asserisce che ' l'esserci comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso '. Attraverso l'interrogazione dell'esserci in rapporto al suo essere, si ricercano le strutture fondamentali dell'esistenza: l'indagine che cerca di portare alla luce queste strutture è chiamata da Heidegger analitica esistenziale , antecedente a ogni psicologia, antropologia o biologia. Il metodo da impiegare, secondo Heidegger, deve essere fenomenologico, nel senso già chiarito di ' lasciar vedere da se stesso ciò che si manifesta, così come si manifesta da sé ': si tratta cioè di fare in modo che le strutture dell'esistenza si manifestino alla comprensione propria dell'esserci. Occorrerà, dunque, scegliere modalità di accesso a tali strutture, che consentano all'esserci di mostrarsi da sé, dapprima com'è per lo più, nella sua quotidianità media . L'esserci, come si è visto, è definito dal fatto che per lui ne va sempre del suo essere, cosicchè l'esserci è sempre la sua possibilità, non possiede il suo essere come un proprietà semplicemente presente. Ciò significa che l'esserci può conquistarsi o perdersi: nel primo caso si ha l'esistenza autentica e nel secondo quella inautentica, dove "autentico" e "inautentico" significano letteralmente "appartenente o no a se stesso". Nella quotidianità media, l'esserci si manifesta nel modo dell'inautenticità e quindi, a questo livello, si può pervenire soltanto ad una chiarificazione preparatoria, non ancora ad una risposta circa il senso dell'essere in generale; tuttavia, anche in seno alla quotidianità media e pertanto in maniera inautentica, si manifestano, secondo Heidegger, le strutture dell'esistenza. Infatti, l'esserci si è formato all'interno del modo di comprendere l'essere, che si è consolidato in una tradizione, anche se per lo più questa dimensione storica e tramandata del suo modo di comprendere l'essere resta nascosta all'esserci e non viene tematizzata. Si tratta allora di cogliere l'essere dell'esserci contro la sua tendenza all'inautenticità: l'analitica esistenziale ha, dunque, secondo Heidegger, un carattere violento, in quanto va contro la tendenza dell'esserci nella sua quotidianità a dimenticare o fuggire se stesso. Il primo passo dell'analitica esistenziale consiste nel mostrare qual è la struttura fondamentale dell'esserci nella sua quotidianità media. In questa situazione l'esserci, anziché giungere al possesso di sé, tende a interpretare se stesso a partire dal fatto che per lo più si disperde nella cura del mondo. Per questo aspetto, l'esserci è erede inconsapevole di una tradizione risalente alla metafisica greca, nella quale il senso dell'essere è determinato come ousìa , cioè come sostanza e, quindi, compreso a partire da un determinato modo del tempo, il presente. Ciò significa che il punto di partenza dell' autocomprensione dell'esserci nella sua quotidianità è dato dal mondo, come insieme degli enti semplicemente presenti. L'esserci per lo più tende a comprendere il proprio essere in base agli enti con i quali si rapporta costantemente, ma in tal modo gli rimane nascosto il suo specifico modo di essere. In generale, dunque, l'esserci si configura come essere-nel-mondo , dove essere-nel-mondo significa, più che il semplice trovarsi spazialmente presenti dentro o a contatto con qualcosa, essere presso, abitare, essere familiare con: tutte queste espressioni indicano, secondo Heidegger, modi del prendersi cura (in tedesco Sorge ) del mondo. L'esserci, dunque, non ha un rapporto puramente conoscitivo col mondo, come rapporto tra soggetto e oggetto: su questo punto Heidegger si allontana nettamente da tutte le impostazioni filosofiche, in particolare neokantiane, che avevano assegnato una posizione privilegiata al problema della conoscenza. Il mondo, al quale l'esserci si rapporta nella sua quotidianità media, è chiamato da Heidegger mondoambiente: esso è costituito dalle cose intese come utilizzabili, cioè come strumenti, mezzi in vista di qualcos'altro. Questo spiega perché nei confronti del mondo l'esserci abbia non un atteggiamento esclusivamente teoretico, consistente nel vedere e rappresentarsi in maniera puramente disinteressata gli enti che lo popolano, bensì quella che Heidegger chiama visione ambientale preveggente . Questa consiste, infatti, nel prendersi cura pratico delle cose, che, in quanto utilizzabili, si mostrano vicine all'esserci non solo in senso spaziale, ma "a portata di mano" in vista di determinati fini. Quando, invece, l'esserci si limita a osservare e considerare le cose nella loro semplice presenza, si genera l'atteggiamento teoretico, che è dunque soltanto un modo secondario e particolare del prendersi cura del mondo. Il mondo, tuttavia, è costituito non soltanto dalle cose utilizzabili o semplicemente presenti, ma anche da enti che sono tali e quali l'esserci che li comprende, ossia dagli altri uomini, cosicchè l'essere-nel-mondo è anche sempre essere-con (in tedesco mit-sein ) altri. L'esserci ha sempre cura degli altri, anche se di fatto per lo più non se ne cura o crede di poterne fare a meno; anzi per lo più si muove nella soggezione agli altri, non è autenticamente se stesso. Nella quotidianità, infatti, ciascuno è intercambiabile e ciò che domina è il Si ( man ), indeterminato e anonimo, in cui tutte le possibilità si trovano livellate e ricondotte all'uniformità. Nelle pagine che Heidegger dedica a questo tema è avvertibile la critica, diffusa nella Germania del suo tempo, alla massificazione e spersonalizzazione prodotto dalla moderna civiltà tecnica. L'essere autenticamente se stessi equivale, invece, a sottrarsi al dominio del "si" impersonale per aprirsi alle proprio possibilità. Questo avviene nei due modi essenziali dell'esistenza, che Heidegger chiama esistenziali: essi sono il sentirsi situato ( Befindlichkeit ) e il comprendere ( Verstehen ). L'esserci si avverte sempre emotivamente situato nel mondo, gettato in esso, senza che ciò dipenda dalla sua iniziativa. Nel sentirsi un essere-gettato nel mondo , cosa che Heidegger chiama anche effettività, per distinguerla dalla semplice presenza nel mondo, l'esserci incontra se stesso più nella forma della fuga che in quella della ricerca di se stesso. La struttura propria del sentirsi situato viene alla luce nella paura, perché solo l'esserci, per cui ne va del suo essere, può spaventarsi e si sente aperto al rischio. D'altra parte, avvertendosi situato, l'esserci comprende se stesso, anche se tende a reprimere e occultare questa sua comprensione. Questa struttura esistenziale della comprensione è chiamata da Heidegger progetto, nel senso letterale di "gettare avanti"; la comprensione, infatti, progetta l'essere dell'esserci nel suo poter essere, che non è qualcosa di già dato. D'altra parte, progetto non equivale al semplice escogitare piani, perché l'esserci si comprende giò sempre a partire da possibilità date. Quando sviluppa la comprensione, l'esserci giunge all' interpretazione , che consiste nell'appropriarsi di ciò che ha compreso e quindi nell'elaborare el possiblità progettate nella comprensione. Il discorso , a sua volta, è l'articolazione del sentirsi situato e della comprensione. Che carattere assumono nella quotidianità la comprensione, l'interpretazione e il discorso? Heidegger non intende muovere contro la quotidianità e l'esistenza inautentica, a cui essa approda, una critica materialistica; il suo intento è invece di mettere in luce le strutture proprie dell'interpretazione che abitualmente l'esserci dà di sé, entro le quali l'esserci è cresciuto e si è formato e alle quali non può mai definitivamente sottrarsi. La chiacchiera è il modo di essere della comprensione o interpretazione propria dell'esserci nella sua quotidianità, il quale si regola sul si : ' Le cose stanno così perché così si dice '. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza appropriarsi preliminarmente della cosa da comprendere: essa diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto, ma in tal modo l'esserci smarrisce la sua apertura alla possibilità. La tendenza al "vedere", caratteristica della quotidianità, è la curiosità : essa non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, ma soltanto di vedere, è incapace di soffermarsi e cerca continuamente la distrazione e il nuovo sol ocome trampolino per cercare un altro nuovo e così via. In questa situazione sembra che tutto sia compreso, ma non lo è: l' equivoco è la comprensione dell'esserci fondata nel "si", la quale finisce per non sapere neppure a che cosa si riferisca il "si". Nella connessione di chiacchiera, curiosità ed equivoco si rivela il modo fondamentale dell'essere della quotidianità: Heidegger lo chiama la deiezione dell'esserci, ossia lo scadere dell'esserci al livello di un fatto, il suo disperdersi nel mondo e nella dimensione pubblica del "si". Qui l'esserci vive non come autenticamente se stesso, ma come "si" vive ed è nella tranquillizzante presunzione di possedere e raggiungere tutto. In tal modo l'esserci è nell'inautenticità, la quale tuttavia non è uno stato di fatto, com'è presupposto, invece, dalla dottrina cristiana della corruzione della natura umana dovuta al peccato originale, ma è una possibilità. Proprio in quanto l'inautenticità è una possibilità e non un dato di fatto necessario, ne risulta che l'esserci può anche essere autentico. MARTIN HEIDEGGER E L'ESISTENZIALISMO LAICO (1889-1976) Premessa H. si pone sulla scia di Husserl perché esamina l'esistenza dell'uomo, osservando ciò che si rivela immediatamente alla sua coscienza, alla sua vita concreta (i fenomeni), ma si allontana da Husserl perché colloca l'esistenza (temporale e contingente) nel mondo, evitando di ricercare il significato dell'essere nelle essenze universali e necessarie (nelle forme eidetiche). L'ultimo Husserl s'era posto il problema di concretizzare il soggetto trascendentale, ma era finito su posizioni idealistiche. Alla fenomenologia dell'essenza, H. oppone una fenomenologia dell'esistenza o dell'esistente (ontologia fondamentale), la quale però non vuole essere una filosofia esistenziale, in quanto -a suo giudizio- il problema centrale è quello ontologico dell'essere (che coincide col senso dell'uomo o esserci, Dasein). In questo tentativo di superare la fenomenologia, H. in realtà mira a superare tutta la metafisica razionalistica occidentale, che secondo lui s'è persa nell'oggettività, degradandosi a conoscenza scientifica e tecnica, identificandosi con la logica, offrendo un essere come "semplice presenza" (evidenza), mentre l'esigenza più vera è quella di fondare la filosofia sulla condizione drammatica dell'esistenza, sul modello di Kierkegaard, Nietzsche e Dilthey, le cui opere si erano molto diffuse nella Germania degli anni precedenti la I guerra mondiale. Non dobbiamo però dimenticare che H. cercò anche di elaborare una risposta filosofica, in chiave borghese-reazionaria, alla crisi del movimento operaio tedesco (vedi la repubblica di Weimar) e alla riuscita della rivoluzione russa. Biografia Nasce nel 1889, nel Baden. Nel 1909 s'iscrive all'università di Friburgo, diventando un allievo di Rickert. Nel 1913 si laurea con una tesi sullo Psicologismo (pubblicata a Lipsia nel 1914), che viene contestato dal punto di vista della fenomenologia di Husserl. Lo psicologismo, che si riallaccia a Mill, dominava nella cultura filosofica tedesca post-hegeliana. H. rivendica la validità della logica, contro la pretesa di ridurre le leggi logiche a leggi empiriche sul funzionamento della mente umana: preferisce la logica perché gli offre garanzie di stabilità e immutabilità. Nel 1915 diventa libero docente all'università di Friburgo con una dissertazione su Duns Scoto. La prolusione invece è sul concetto di Tempo nella storiografia. Nella dissertazione pone il problema della fondazione della validità obiettiva delle categorie nella vita della coscienza, caratterizzata da temporalità e storicità. H. cioè rivendica la necessità di un passaggio oltre la logica, rifiutando di considerare le categorie solo come funzioni del pensiero (nasce la polemica anti-neokantiana). H. non era ancora avverso a Husserl, perché mentre il neokantismo privilegiava la scienza, nel suo carattere costruttivo e matematizzante (come unica forma di conoscenza valida), per Husserl invece l'atto conoscitivo si risolveva nell'intuizione delle essenze, che non si riduce alla conoscenza scientifica, ma è un incontrare le cose. La fenomenologia appare quindi a H. come un modo per allargare il discorso neokantiano in direzione della storicità, della concretezza. Nel 1916 Husserl viene chiamato all'università di Friburgo. H. ne diviene assistente. Dal '17 al '23 lavora intensamente col maestro su Kant, Aristotele, Fichte, Mistica medievale, Fenomenologia della religione, Agostino e Neoplatonismo... Dal '23 al '27 è professore a Marburgo: tiene corsi e seminari su Platone, Aristotele, Kant, Hegel, Cartesio, Droysen, sull'ontologia medievale, sul concetto di Tempo... Nel '27 pubblica la prima e unica parte di Essere e tempo. Rompe con la filosofia di Husserl, ma contrasti ve n'erano stati anche prima, poiché Husserl mal sopportava l'antisemitismo di H. Nel '28 gli succede a Friburgo. Nel '29 pronuncia la prolusione Che cos'è la metafisica? Pubblica anche Kant e il problema della metafisica e L'essenza del fondamento. Nel '33 è nominato rettore dell'università di Friburgo; aderisce al partito nazista, pronunciando il discorso Autoaffermazione dell'università tedesca (vedi anche l'Appello agli studenti tedeschi), ma l'anno dopo, per dissensi col governo, si dimette a cessa di occuparsi di politica. Pur tenendo regolarmente i corsi accademici, non pubblica quasi nulla fino al 1942. Oggi nessuno sostiene che l'esplicita adesione al nazismo sia stata una casuale sbandata di un impolitico. Fin dagli anni '20 H. aveva manifestato aperte simpatie verso i cd. "resistenti" tedeschi al trattato di Versailles del 1919; non solo, ma egli intendeva anche che il suo pensiero avesse un'espressività pubblica di carattere politico. H., proprio come il nazismo, criticherà sia il liberalismo che la democrazia, espressioni per lui del moderno soggettivismo, cioè dell'integrale nichilismo: il liberalismo, perché finge la democrazia, tenendo il popolo in una situazione di chiacchiera, curiosità ed equivoco; la democrazia, perché rappresenta il dominio della massa sul pensiero (qui H. ripete Kierkergaard e Nietzsche). Tuttavia egli si distaccò dal nazismo perché non ne condivideva il biologismo razzista (vedi la lettera a Jaspers del 1950). Naturalmente nella critica della democrazia H. includeva anche quella del socialismo. Come tutti i tedeschi di destra degli anni '20 e '30, chiamava "socialismo" solo la socialdemocrazia della SPD (di Kautsky e Hilferding), mentre chiamava "bolscevichi" tutti i comunisti, compresi quelli tedeschi. In realtà i conflitti interni al comunismo non gli sono mai interessati. Il marxismo, per lui, non era che una forma di soggettivismo esasperato (il collettivismo forzato come sublimazione dell'umanesimo astratto). Sarà nel '47 che tenterà una cauta rivalutazione del marxismo definendolo una teoria dell'alienazione come allontanamento dall'origine (le origini tradite o rovesciate nel loro contrario). Tesi per cui l'ultimo H. affermerà: "Solo un Dio può ancora salvarci!". Durante il suo rettorato nel '33-'34 chiese alle autorità naziste di revocare, con "destituzione", dall'insegnamento il collega H. Staudinger, chimico di fama internazionale (poi premio Nobel nel 1953), adducendo il suo atteggiamento "pacifista" e "antinazionalista" durante la I guerra mondiale e quindi la sua inaffidabilità per il nazismo. H. si oppose anche a mantenere nell'insegnamento E. Baumgarten, da lui denunciato per i suoi rapporti con alcuni ebrei. Rompe anche con K. Jaspers, i cui rapporti erano stati mantenuti dal '20 al '33. Il secondo H. inizia con un corso di Introduzione alla metafisica, del '35, pubblicato nel '53. La svolta non è politica, perché sia qui che nel Discorso del '33, H. assegna alla Germania nazista il compito di salvare i valori della tradizione europea dalla barbarie tecnocratica degli USA e dall'ideologia comunista dell'URSS. Ma è di tipo filosofico, in quanto il tema fondamentale diventa quello del nulla, per il quale l'esserci prova solo angoscia. H. cioè mira a trovare un fondamento dell'essere nel nulla. H. comincia a dare della metafisica occidentale un giudizio assolutamente negativo, mentre in Essere e Tempo aveva avuto la pretesa di riformarla. Non dobbiamo però dimenticare che Essere e Tempo -a detta dello stesso H.- era rimasto incompiuto perché la metafisica tradizionale non aveva il linguaggio adatto per concluderlo. Nell'analisi dei concetti di nulla e di angoscia H. dipende in toto da Kierkegaard (già in Essere e tempo s'era capita questa dipendenza). Il pensiero del secondo H. diventa meno organico, appunto perché si presenta come tentativo di superare la metafisica (questa esigenza verrà ripresa da tutta la Scuola di Francoforte). H. si rifiuterà di trovare una definizione esaustiva dell'essere; l'essere anzi risulta indefinibile, in quanto coincide col nulla; per cui il pensiero deve adeguarsi in modo diverso all'essere, non in maniera concettuale, per definizioni, ma in maniera contemplativa, apofatica, mettendosi in ascolto, poiché l'essere si nasconde. La svolta prosegue nel biennio '35-'36, allorché gli interessi di H. si spostano sul terreno dell'arte , dell'estetica, della poetica e del linguaggio. Tiene una conferenza a Roma su Hölderlin e l'essenza della poesia e due conferenze a Friburgo e Zurigo sull'Origine dell'opera d'arte (che costituisce il nucleo del più ampio saggio pubblicato in Sentieri interrotti). Dal '36 al '42 tiene una serie di corsi e seminari su Nietzsche, pubblicati nel '61. Nel '42 esce anche La dottrina platonica della verità. Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli impedisce qualunque attività accademica. Nel '52 scrive una lettera al suo fedele amico W. Petzet affermando, appena dopo essere stato reintegrato nell'insegnamento, che era pronto a rinunciarvi se avessero affidato al filosofo K. Löwith (già suo allievo) una cattedra nella Germania occidentale. (Löwith, al tempo del nazismo, era emigrato prima in Giappone, poi negli USA). Jaspers si pronunciò contro la reintegrazione di H. Pubblica L'essenza della verità nel '43, un libro di saggi su Hölderlin nel '44, la famosa Lettera sull'umanismo nel '47, in cui dichiara di non aver nulla a che fare con l'esistenzialismo francese, e Senteri interrotti nel '50. Sempre nel '50 tiene una conferenza sul Linguaggio. Dal '51 al '58 riprende, dapprima in forma privata, corsi e seminari all'università, su Parmenide, Hegel, Aristotele, Leibniz e sul Linguaggio. Muore nel 1976. Analisi di ESSERE E TEMPO Il problema ontologico In Essere e tempo vi è la critica della metafisica occidentale, da Platone in poi. H. mette in dubbio che tale metafisica abbia mai saputo possedere l'essere. Le risposte ch'essa ha dato alla domanda "che cos'è l'essere?", sono state tre: 1) l'essere è il concetto più generale, trascendente le categorie (Hegel disse "immediato indeterminato"); 2) il concetto di essere è indefinibile, incapace di dualizzarsi per lasciarsi comprendere; 3) l'essere è un concetto evidente. In realtà, dice H., non si può parlare dell'essere senza parlare immediatamente dell'uomo (esserci) che si pone degli interrogativi sull'essere. L'esserci, nella metafisica classica, si chiede cosa sia l'essere dandone per scontata la presenza. Ciò significa che la realtà dell'essere è a un tempo oscura e desiderata. Chiedersi cos'è l'essere significa, in verità, chiedersi qual è il senso dell'esserci. Il rapporto dell'esserci all'essere è determinato dall'esistenza e l'esistenza è caratterizzata dalla temporalità. Questo rapporto è ontologico: è un rapporto antecedente alla relazione conoscitiva dell'esserci coll'essere, è un rapporto che la metafisica tradizionale ha sempre nascosto. L'ontologia, a differenza della metafisica, è quella scienza che descrive le strutture e i caratteri dell'essere a partire dall'esserci, cioè impedisce di dare una qualunque definizione di essere che non tenga conto dell'esserci. Essa quindi non è che una analitica esistenziale. La metafisica che identifica l'essere con la semplice-presenza non ha senso, poiché l'esserci, che dovrebbe identificarsi con l'essere, non ha le caratteristiche dell'oggettività. Per compiere tale critica H. s'è servito di Dilthey (con la sua riduzione delle filosofie ad espressività temporali), di Nietzsche (che ha mostrato che il fondamento dell'essere dipende dalla volontà del soggetto), di Kierkegaard (che ha sottratto il soggetto a definizioni astratte). L'esserci come essere nel mondo Secondo H. le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le seguenti: 1) l'uomo come progetto. La riproposizione del problema dell'essere si avvale dell'analisi delle maniere (media statistica) in cui i singoli uomini si determinano quotidianamente nel mondo. Si scopre così che l'uomo si determina sempre come poter-essere, in quanto egli fa continuamente delle scelte. Il problema dell'essere è legato all'esistenza e alla categoria della possibilità. L'esistenza non è che un trascendere la realtà per realizzare una nuova possibilità,- cioè noi esistiamo come un continuo tendere verso una diversa sistemazione della realtà. Essere significa progettare. La conseguenza di ciò è che le cose non possono essere considerate come puri oggetti, nel loro essere in sé, indipendentemente da noi e dai nostri interessi. Le cose non sono mai in sé, ma sempre come strumento per l'uomo, che le modifica continuamente, senza astrarle dal contesto cui appartengono. Infatti la totalità degli strumenti è il mondo. La manipolazione delle cose è relativa al modo in cui l'esserci si rapporta al mondo. Le cose dunque esistono non per se stesse ma per l'uomo che le trasforma e le inserisce, come strumenti, in un progetto. Esse dunque vengono all'essere solo in virtù dell'uomo. Il mondo rimane la condizione perché le cose siano, non è la somma delle cose. L'oggettività delle cose dipende dall'esserci, non è in sé. Prima del mondo c'è l'esserci. La strumentalità delle cose è manifesta attraverso il linguaggio e in generale attraverso i segni. Il segno non ha altro uso che quello di rimandare a qualcos'altro. Il rimando del segno è comprensibile attraverso il linguaggio. Fin qui H. ripercorre strade già battute dall'idealismo tradizionale e dalla fenomenologia. L'unica differenza di rilievo sta nel fatto che mentre per la metafisica tradizionale il soggetto ha anzitutto con la realtà un rapporto conoscitivo (per poterla meglio trasformare), l'esserci di H. invece è un soggetto che apprende anzitutto emotivamente (precomprensione emotiva), nel senso che il rapporto affettivo col mondo è il primo modo d'essere dell'esserci. L'esserci fa già parte del mondo prima ancora di distinguersi da esso attraverso la conoscenza. H. fa qui una distinzione precisa tra comprendere il significato delle cose (che ci è possibile in quanto il significato è in noi) e interpretare il mondo (che è in fondo un'autointerpretazione. L'uomo ha in sé una pre-comprensione originaria che attraverso l'interpretazione gli fa scoprire le cose che sono già in lui. E' il circolo ermeneutico, di derivazione platonica). La situazione affettiva è una specie di pre-comprensione più originaria della comprensione stessa. Le cose, per H., hanno un significato teorico e una valenza emotiva: noia, gioia, paura, disperazione... che non dipendono sempre dal soggetto, ma anche dall'esterno che lo condiziona. Questo condizionamento viene chiamato deiezione o essere-gettato. 2) L'esistenza come progetto gettato. L'esserci che progetta il mondo progetta se stesso. L'esserci è anche un progetto "gettato" (consegnato) sul mondo (cioè progettato in modo da aderire ad una certa strumentazione del mondo già esistente). Questo mondo orientato strumentalmente e linguisticamente assume l'esserci e si sottopone a trasformazione. Proprio perché l'esserci è gettato nel mondo, il suo progetto ha dei limiti invalicabili: l'uomo si trova ad essere senza averlo deciso, è in un mondo che condiziona radicalmente le sue scelte, ha di fronte la prospettiva della morte. Il problema per H. è quello di vedere come tale finitezza può condizionare positivamente l'uomo (cosa che la metafisica tradizionale s'era sempre rifiutata di fare). H. vuole dimostrare che solo perché l'uomo è "finito", chiuso tra la nascita e la morte, può fare la storia. 3) Autenticità e inautenticità dell'esserci. Con la nozione di essere-gettato si apre la tematica esistenzialistica vera e propria. Nel progettare il mondo e se stesso, l'esserci si trova di fronte a delle possibilità equivalenti. Una sola è obbligata: quella della morte. La differenza tra la morte e le altre opzioni di vita è che la morte resta permanentemente una possibilità (quando diventa realtà, l'esserci non c'è più). La morte così rende impossibili per l'esserci le altre possibilità. La possibilità più autentica quindi è quella della morte. Tutte le altre sono inautentiche. Generalmente però l'esserci rifiuta di mettersi costantemente in rapporto con la morte, e preferisce assolutizzare delle possibilità particolari, cadendo nell'inautenticità (l'esperienza dell'anonimo "SI"). Nel mondo del "SI" (MAN) l'esserci si disperde nella CURA delle cose, per cui si lascia dominare dalla CHIACCHIERA (banalità), dalla CURIOSITA' (oziosa e gratuita), dall'EQUIVOCO (fra ciò che è autentico e non). Le opinioni comuni si condividono appunto perché comuni. L'esserci insomma è deietto. Viceversa, esistere autenticamente significa assumere come possibilità-base la morte, la quale ha il compito di relativizzare le scelte particolari, di trascenderle continuamente, tanto nessuna di esse potrà realizzarsi secondo il nostro progetto, poiché esso resta condizionato dal passato e dal presente. In sostanza il nulla di tutte le realizzazioni particolari viene smascherato dall'angoscia che l'esserci prova di fronte alla morte. Chi non prova questa angoscia teme la morte e la fugge, ma così ha un atteggiamento illusorio, poiché la morte non può essere fuggita. L'esserci insomma deve trascendere il particolare, non per rifugiarsi in un ideale astratto, ma per non lasciarsi trascinare dal particolare in un'esistenza inautentica. La metafisica quindi sta proprio ad indicare l'essere-per-la-morte dell'esserci. La realtà dell'uomo sta nel saper scegliere la morte prima che la morte scelga l'uomo. La scelta è per l'autenticità, in quanto se l'uomo non scegliesse, la morte lo coglierebbe di sorpresa. L'uomo non può rinunciare allo stato di colpa (angoscia) che è in lui, può soltanto assumerselo consapevolmente. Il contenuto dell'essere è quindi il nulla (la morte è il nulla); il tempo stesso lo indica, poiché nel tempo tutte le cose, anche quelle progettate, muoiono. La temporalità può essere considerata il senso dell'essere dell'esserci. La storicità dev'essere sostituita con la destinalità. (Che il nulla sia il contenuto dell'essere, verrà detto esplicitamente in Che cos'è la metafisica). Essere e tempo si conclude con la IIa sez. della Ia parte; la IIIa sez. era intitolata "Tempo ed essere" e doveva essere quella più concreta e propositiva, ma non è mai stata scritta. La IIa parte doveva riguardare l'analisi di Kant, Cartesio e Aristotele. H. disse che l'opera rimase incompiuta per il venire meno del linguaggio, condizionato dalla metafisica tradizionale. La conclusione insomma di Essere e Tempo è che proprio la metafisica impedisce una vera comprensione dell'essere. Il problema linguistico Il fallimento di Essere e tempo induce H. ad approfondire il problema del linguaggio: il linguaggio infatti condiziona la possibilità dell'esserci di fare esperienza del mondo e di elaborare i problemi. Nella conferenza sull'Essenza della verità (1930) H. dirà che se è vero che è l'uomo a parlare il linguaggio, è anche vero che il patrimonio di parole di cui disponiamo (incluse le regole grammaticali, sintattiche, logiche) pongono dei limiti invalicabili a ciò che possiamo pensare e dire. Il linguaggio non possiamo modificarlo nella sostanza, ma solo nella forma. In questo senso l'essere non è né l'esserci, né il mondo, ma una "luce" (avvento illuminanteproteggente) in cui uomini e cose possono incontrarsi e capirsi. L'essere quindi fa apparire le cose, gli enti, la storia, ma senza rivelarsi, anzi nascondendosi. L'ontologia deve avere un atteggiamento apofatico nei confronti dell'essere, altrimenti lo fa coincidere, banalizzandolo, con le cose (essere come semplice-presenza). La dialettica tra ente ed essere va sostituita con la differenza ontologica. La tradizionale metafisica ha obliato l'essere livellando tutto sul piano dell'oggettività misurabile e organizzabile (di qui il trionfo della tecnica). L'esponente più coerente di questa metafisica -secondo H.- è Nietzsche, che ha fatto dell'essere un valore posto dal soggetto per la propria espansione vitale. L'uomo ha prodotto un essere a sua immagine (in virtù soprattutto della tecnica). L'ontologia deve invece restare in ascolto dell'essere decodificando il linguaggio con cui esso si esprime (soprattutto nella poesia e nell'arte). Al limite l'esserci deve rimanere in silenzio lasciando che sia solo l'essere a parlare. La verità è rivelazione del nascondimento dell'essere. L'essere che noi conosciamo è solo quello che permette d'essere conosciuto. Riassunto Dopo aver pubblicato, nel 1927, Essere e tempo (la sua opera principale), H. si distacca da Husserl, di cui era assistente universitario, e fonda l'ontologismo esistenziale, cioè il tentativo di trovare un senso all'essere (metafisico) a partire dall'esistenza dell'esserci (umano). (Husserl era un fenomenologo, ma i contrasti con H. vertevano anche sull'antisemitismo di quest'ultimo). Il tentativo, in Essere e tempo, fallirà, poiché H. riuscirà a scrivere solo la prima parte, ove critica quasi tutta la metafisica occidentale, da Platone in poi, sostenendo ch'essa ha sempre parlato dell'essere senza tener conto dell'esserci. Di conseguenza l'essere è diventato un concetto astratto o indefinibile oppure così evidente da risultare ovvio, scontato, mentre in realtà esso è molto problematico. H. sostiene che non si può rispondere al senso dell'essere se prima non si risponde al senso dell'esserci, la cui esistenza è caratterizzata dalla temporalità, cioè da qualcosa che impedisce di stabilire una qualunque oggettività. Tuttavia, H., al momento di spiegare qual è il senso dell'esserci interrompe il libro, dicendo che il linguaggio era "venuto meno". Nel '28 H. diventa docente universitario. Nel '33 rettore dell'Università di Friburgo. Aderisce al partito nazista, pretendendo che il suo pensiero abbia una rilevanza pubblica. H. farà espellere dall'Università due docenti pacifisti e antinazionalisti. Egli d'altra parte era convinto che solo la Germania nazista potesse salvare i valori della tradizione europea dalla "barbarie" tecnocratica degli USA e dal bolscevismo dell'URSS. Sennonché l'anno dopo, per dissensi col governo (sul suo progetto di riforma universitaria e anche sul biologismo razzista), si dimette e non si occupa più di politica. Tiene regolarmente i corsi accademici, ma non pubblica nulla fino al 1942. Sempre netto il suo dissenso da liberalismo, democrazia e socialismo. Nel '35, con Introduzione alla metafisica (pubblicata nel '53), si ha una svolta nel suo pensiero. La metafisica non va "riformata", come in Essere e tempo, ma "superata". L'essere non può essere definito, poiché ogni definizione lo limita. L'essere in un certo senso coincide col nulla, poiché non c'è nulla che possa comprenderlo. Di fronte al nulla l'esserci non può che angosciarsi e attendere in maniera contemplativa che l'essere si sveli spontaneamente. La metafisica non ha davvero alcun senso. Gli interessi filosofici e culturali di H. si spostano verso l'arte, l'estetica, la poetica e il linguaggio. Autori preferiti: Parmenide, Holderlin e Nietzsche. Dal '44 al '51 un divieto delle potenze occupanti in Germania gli impedisce qualunque attività accademica. Ma nel '52 viene reintegrato. In Essere e tempo le caratteristiche fondamentali dell'esserci sono le seguenti: A. L'uomo come progetto, come poter-essere, in quanto fa continuamente delle scelte. Primato della categoria della possibilità. La realtà non è mai oggettiva, perché soggetta a continue modifiche. Le cose esistono solo per l'esserci che le usa (inserendole in un progetto). Prima del mondo c'è l'esserci, che dà significato alle cose. B. L'esistenza come progetto gettato. L'esserci è costretto a scegliere, perché viene "gettato" (consegnato) sul mondo senza volerlo. Il mondo condiziona radicalmente le sue scelte. Questo limite però garantisce la storicità all'esserci, che è chiuso tra la vita e la morte. C. L'autenticità dell'esserci. Se l'esserci dovesse pensare solo alla vita, ogni possibilità scelta sarebbe equivalente a un'altra, perché non esiste nella vita un criterio oggettivo che ci dice quando una scelta è migliore di un'altra. L'unica scelta che rende autentico l'esserci, perché esclude tutte le altre, è quella per la morte. Scegliendo per la morte, la possibilità resta possibilità, perché la morte, quando diventa realtà, fa sparire l'esserci. La morte relativizza le scelte particolari, destinate all'insuccesso, poiché il nostro progetto resta sempre condizionato dal passato e dal presente. D. L'essere per la morte. Di fronte alla morte l'esserci non deve fuggire, altrimenti la morte lo coglierà di sorpresa, ma deve provare angoscia, nella convinzione che il senso della vita sta nella morte che vanifica ogni progetto particolare. Chi fugge cade nel mondo generico del "Sì" e si disperde nella cura delle cose, per cui si lascia dominare dalla chiacchiera (banalità), dalla curiosità (oziosa) e dall'equivoco (circa l'autenticità delle cose). E. Conclusione: la metafisica, pur avendo sempre avuto come oggetto l'essere, ne impedisce letteralmente la comprensione, perché lo considera al di fuori dell'esserci. Non avendo accettato il presupposto che la temporalità dell'esserci è l'unica dimensione della sua vita, essa non è mai arrivata a capire che l'essere coincide col nulla (Che cos'è la metafisica?). Il fallimento di Essere e tempo porterà H. ad approfondire il tema del linguaggio (Essenza della verità), nella speranza di poter chiarire meglio il significato (positivo) dell'essere. Tuttavia, H. arriverà solo ad affermare che l'essere è "luce" (avvento illuminante-proteggente). L'ontologia deve restare in ascolto (apofatismo) dell'essere, che si rivela nascondendosi. L'essere che conosciamo è solo quello che permette d'essere conosciuto. Poco prima di morire dirà che solo un "dio" avrebbe potuto salvarci dall'autodistruzione, in quanto né la filosofia né alcun'altra scienza potranno mai modificare il mondo. Storia della critica La vera storia della critica heideggeriana comincia solo negli anni '50, quando Essere e tempo non è più l'unica opera cui potersi riferire, com'era successo negli anni '30, allorché di quest'opera, soprattutto in Francia, con Sartre, Marcel, Lavelle, Le Senne, Wahl, Berdjaev..., si evidenziarono i temi esistenzialistici, mettendo in secondo piano quelli ontologici. Nella Francia degli anni '30 lo studio dell'esistenzialismo di H. rientrava nell'interesse che si era maturato per quello di Kierkegaard e di Jaspers. Essere e tempo veniva valorizzato in termini antropologici e persino religiosi. Quest'interpretazione riduttiva venne messa in crisi dallo stesso H., con la pubblicazione nel '47 della Lettera sull'umanismo, che è un manifesto antiesistenzialistico. Di H. i francesi avevano colto soprattutto i temi dell'angoscia, della morte, del nulla, della cura e dell'appartenenza al mondo come totalità. Forse l'unico francese che ne recuperò anche l'ontologismo fu Lévinas. Il rifiuto di considerare l'ontologismo non dipese dalla scarsa propensione della filosofia francese per le astrazioni metafisiche, quanto dalla convinzione che negli aspetti esistenziali Essere e tempo offriva più materiale di riflessione, in quanto maggiore era il realismo che non nell'ontologia, che pareva destinata a fondarsi sul nulla e sull'impotenza. Non solo, ma fu proprio l'interpretazione esistenzialistica di H. ch'ebbe il pregio di mettere in crisi il neokantismo tedesco e il neoidealismo italiano. In Germania l'influsso più positivo dell'esistenzialismo di H. è riscontrabile nella teologia demitizzante di Bultmann. In Italia H. viene recepito negli anni '50 e '60 sull'onda delle traduzioni di P. Chiodi e della lettura esistenzialistica di N. Abbagnano. Il successo di H. esistenzialista è avvenuto proprio dopo il 1947, anno in cui H. si distaccava dall'esistenzialismo. In Italia l'analitica esistenziale del finito è stata utilizzata contro l'idealismo crociano e gentiliano, e per fondare un'autocoscienza filosofica di tipo laico (più moderata e conformista in Abbagnano, più radicale e antifascista in Chiodi). Il tentativo era quello di creare una sorta di "terza via" tra il neotomismo (e spiritualismo) del cattolicesimo di Pio XII da un lato e il marxismo gramsciano (e storicistico) di Togliatti dall'altro. Quando le traduzioni del IIo H., quello della svolta, fatte da Chiodi, resero insostenibile questa interpretazione, il pensiero esistenziale dell'autosufficienza dell'individuo laico gettato nel mondo, prese atto che H. non serviva più, e lo trasformò in un irrazionalista tardoromantico, nemico della scienza e della tecnica. L'esistenzialismo italiano rimproverà sempre ad H. di aver ceduto troppo alla metafisica e di aver tenuto in scarsa considerazione l'assiologia e lo stesso esistenzialismo. L'ontologia addirittura appariva come una sorta di idealismo hegeliano rovesciato. Cioè, in quanto esistenzialista H. appariva progressivo, poiché rivendicava la finitezza (temporalità) dell'esserci (la sua concretezza storica, solo in virtù della quale ha senso porsi il problema dell'essere), ma in quanto ontologista H. appariva regressivo, perché l'impianto costruttivo che avrebbe dovuto dare fondamento all'essere, restava metafisico, idealistico. Anche Löwith condividerà questa analisi. Per alcuni critici italiani, il carattere negativo e apofatico dell'ontologismo, approdando a una via senza sbocchi (irrazionalismo, nazismo, oppure mistica, mitologia), farà desiderare un ritorno a Husserl. Una rinascita di Heidegger è avvenuta in Italia nella seconda metà degli anni '70 ad opera di alcuni intellettuali vicini o interni al Pci: Cacciari, Vattimo, Boffa... Costoro hanno letto il IIo H. in chiave nichilistica, post-moderna, antidialettica, differenzialistica, paragonandolo a Nietzsche. Il che rovesciava la lettura laico-razional-esistenziale di Chiodi e Abbagnano. In comune però c'era l'avversione a Hegel e al Marx economista. In verità, nei confronti di H. il giudizio del marxismo, (così come quello della Scuola di Francoforte) è sempre stato pesantemente negativo: Lukács lo definiva un sintomo della crisi del soggettivismo borghese, Adorno invece una sorta di adeguamento alla società massificata, giudicata immodificabile. Non a caso l'uso più produttivo dell'ontologismo è avvenuto in campo teologico-ermeneutico (Gadamer è il principale continuatore di H.), oppure in campo estetico-ermeneutico. La problematica del Linguaggio è stata ripresa da Wittgenstein che prevede però il silenzio solo sulle questioni metafisiche, come unico atteggiamento ragionevole, mentre l'unico linguaggio valido resta quello scientifico. Anche Derrida affermerà che nella metafisica razionalistica il significante, nell'ambito del segno, è tutto subordinato all'idealità astratta del significato. Rilievi critici H. era partito bene quando intuì che il problema dell'essere è in fondo il problema dell'esserci: in questo senso egli eredita la critica dell'idealismo condotta da parte della sinistra hegeliana e soprattutto di Kierkegaard. Si può dire anzi che H. non abbia fatto altro che laicizzare l'esistenzialismo religioso di Kierkegaard, sostituendo al rapporto del singolo con dio il rapporto dell'esserci col mondo. Tuttavia, l'identità di essere ed esserci, se può essere usata contro la concezione di essere che aveva l'idealismo (in cui l'esserci finiva col perdere la propria identità umana, vinta dalla conservazione dei rapporti esistenti, che erano borghesi o caratterizzati, come in Germania, dal blocco junkersborghesia), non poteva però essere usata per rifondare una nuova concezione dell'essere, poiché né la sinistra hegeliana né Kierkegaard hanno mai considerato equivalenti i due elementi, ma hanno preferito concedere a uno dei due, l'esserci, il primato assoluto, trasformando l'essere in una sua mera proiezione. Anche H. riproduce il forte soggettivismo (piccolo)borghese della opposizione all'idealismo hegeliano, ma, come Kierkegaard, perde il senso oggettivo della realtà, quel senso che gli avrebbe permesso di capire che le contraddizioni del capitalismo non possono essere superate in maniera individualistica e tanto meno in maniera filosofica. L'identità quindi di essere ed esserci dal punto di vista dell'esserci può essere utilizzata in un primo momento, per distaccarsi dall'essere astratto, formalizzato e conservatore dell'idealismo hegeliano, ma subito dopo va affermata una nuova identità, in cui vi sia tra i due elementi un rapporto dialettico, in grado di salvaguardare l'autonomia, la specificità di entrambi. Non essendo riuscito a farlo, H. si trova alla fine costretto ad ammettere che il suo esserci è incapace di essere: non solo nel senso che non riesce a conformarsi allo sviluppo del capitalismo monopolistico, ma anche perché non riesce ad opporsi a questo sviluppo. Egli affermò che Essere e tempo rimase incompiuto per il venir meno del linguaggio; in realtà è venuto meno l'esserci, il quale, non sentendosi determinato da un essere alternativo a quello borghese (idealista, hegeliano), non poteva avere un linguaggio adeguato alla problematica dell'essere. Tutto lo sviluppo posteriore a Essere e tempo non fa che girare attorno a questo problema senza mai risolverlo: ecco perché Essere e tempo resta l'opera più significativa. Esso è la testimonianza (più o meno indiretta) che nell'ambito della filosofia borghese una qualunque pretesa di autenticità dell'esserci, che voglia restare in tale ambito, non può che portare all'irrazionalismo (teorico, come appunto in Heidegger, o pratico, come in Kierkegaard e soprattutto in Nietzsche, verso i quali H. ha sempre avvertito una forte attrattiva, specie per il secondo, poiché più coerente e ateistico). Da questo punto di vista Essere e Tempo è, a un tempo, il tentativo e il fallimento del tentativo di superare la crisi dell'identità borghese dal punto di vista borghese. Esso quindi è anche la testimonianza che dopo l'idealismo hegeliano, la filosofia borghese può essere solo una filosofia della crisi e che la crisi di questa filosofia è appunto data dalla crisi della società borghese, che non è riuscita a realizzare gli ideali di democrazia per i quali è nata. L'esserci di H. non è in grado di vivere per la vita (per la trasformazione della vita), ma solo per la morte. La vita è troppo insignificante per essere vissuta. Nella vita tutte le cose si contraddicono a vicenda, sono soggette al fluire del tempo, si banalizzano. Solo la morte (la possibilità della morte) resta veramente. L'esistenza dell'esserci consiste nel rassegnarsi a questa evidenza, per evitare possibili illusioni su di sé e sulla realtà che vive. La rassegnazione non deve essere superficiale, ma con angoscia, che è l'atteggiamento filosofico di fronte al nulla della vita (o dell'essere). Essere e nulla coincidono dal punto di vista del nulla. Come si può vedere, il concetto di morte viene usato da H. per impedire la vita, anche se nelle sue intenzioni doveva servire solo per impedire le illusioni sulla vita. In realtà, le conseguenze del suo discorso sono disperate: "siccome c'è la morte, nessuna esperienza liberante, se non quella dell'angoscia per la morte, è possibile o merita d'essere vissuta". Questa posizione è chiusa, intellettualistica, aristocratica, pregiudizievole nei confronti di ogni alternativa al sistema dominante. H. è qui un esistenzialista con ambizioni metafisiche (tipicamente tedesche, e quindi idealistiche). Il suo è il modo di vedere l'esistenzialismo dal punto di vista di un tedesco idealista che non può più credere nella metafisica tradizionale, in quanto ne scorge le contraddizioni interne. Il miglior H. è quello che sostiene che la stessa metafisica impedisce di scorgere la realtà dell'essere. Interessante anche il discorso dell'essere come "luce" e il discorso del silenzio come atteggiamento di ascolto nei confronti dell'essere, ma questo discorso può anche portare a una forma di irrazionalismo mistico. Guida alla lettura di Heidegger: «Che cos’è metafisica?» L’essere non è ma accade, è evento Ermetis – Oggetto di questa lettura è la celebre prolusione tenuta da Heidegger il 29 luglio del 1929 all’Università di Friburgo, la lezione inaugurale con cui egli prendeva possesso della prestigiosa cattedra che era stata di Edmund Husserl. Com’è costantemente nostra cura, il tempo e il luogo di quell’evento saranno ora analizzati. Il dibattito filosofico tedesco era in quegli anni pienamente sintonizzato sul grande tema della Crisi, che dominava il palcoscenico culturale della Repubblica di Weimar dall’inizio degli anni Venti. Come un’onda sismica continentale, quel movimento tellurico aveva minato profondamente tutto il sistema delle scienze occidentale, dando luogo a una critica radicale del trionfalismo positivista e all’esigenza di una revisione dei fondamenti stessi del metodo scientifico, cioè dei principi costitutivi della matematica e della fisica. Apprendista – Ci fu un cambiamento di paradigma, no? Si presentarono certi fenomeni che non potevano più essere spiegati con i vecchi schemi di riferimento, mi pare… cioè con la fisica newtoniana. Ermetis – La scienza, malgrado alcuni focolai di resistenza sparsi qua e là, aveva da secoli imposto modello epistemologico che pretendeva di dettare l’unico possibile criterio di determinazione della verità. Di fondare la conoscenza oggettiva della realtà. Secondo apprendista – E quando c’è conoscenza oggettiva, c’è la possibilità di dominare le cose, di averle a disposizione, di agire sulla realtà. È a questo che serve la conoscenza oggettiva. Ermetis – Ora, quando una dittatura vacilla, quando l’oppressore manifesta debolezza e instabilità, per gli oppressi si aprono vie di fuga e zone di autonomia, brecce attraverso le quali organizzare la propria riscossa. Nella lotta per la libertà si ricostituisce soprattutto la propria dentità. E dunque, tutto il Pensiero che era imprigionato nella gabbia razionalistica dell’epistemologia cartesiana, venendo a crollare i solidi muri in cui era rinchiuso, comincia a correre di qua e di là alla ricerca di se stesso. L’arte e la filosofia si trovano nel vuoto di un nuovo inizio, nella necessità di ripetere se stesse a partire dal loro inizio originario, nella necessità di ritrovare se stesse dopo che per secoli erano state schiacciate sotto un unico modello di pensiero. Terzo apprendista – Probabilmente questo nell’arte era già successo. Voglio dire: la rivoluzione romantica era poi stata quasi la stessa cosa. Ermetis – Già, ma faccia caso: era stata la ribellione di una parte subordinata del Pensiero, e per quanto violenta era stata comunque domata e riassorbita. Aveva creato scompiglio, come un esercito spartachista, ma aveva dovuto misurarsi contro la forza ancora impressionante del Potere Centrale, del modello filosofico razionalista. Per dirla in termini filosofici: l’Idealismo fu importante, ma incise più alla fine che all’inizio dell’800, più a lungo termine che nell’immediato. Quarto apprendista – Intende dire, Maestro, che ogni disciplina dovette cercarsi il proprio punto di riferimento, che era venuto a mancare il modello culturale centrale? Ermetis – La cosa è più complessa. Stiamo sempre alla filosofia: per essa non si trattò (ma questo vale anche per l’arte) di una semplice restaurazione dei propri principi, di un ritorno all’antico, perché nel frattempo Nietzsche – con il celebre annuncio "Dio è morto" – aveva decretato la morte anche della metafisica, che da Aristotele in poi era stata praticamente il sinonimo di "filosofia". La "nuova" filosofia doveva da capo rispondere alla domanda: "cosa è metafisica?", dopo che essa stessa ne aveva sancito la fine. Primo apprendista – Mi sembra un po’ un’esagerazione. A me pare che la filosofia sia poi abbastanza sempre la stessa. Nel senso che se ci si domanda "che cos’è la metafisica?", vuol dire che si resta sempre nel suo solito orizzonte, che non ci si muove da una certa logica. Non ci vedo quel gran terremoto che Lei dice. Quarto apprendista – E cosa dovrebbe chiedersi? Primo apprendista – Che ne so…cos’è la vita? Che senso ha questo mondo; non quell’altro, ideale ed eterno, a cui fa sempre riferimento. Questa mi pare che sarebbe una svolta! Occupiamoci delle cose, occupiamoci di noi, dei nostri problemi… Ermetis – La conversazione ha preso una strana piega, ha manifestato una delle sue qualità più sorprendenti. Quello che è stato detto con spirito scettico se non polemico, la parola che è stata gettata in mezzo per interrompere il cammino, diventa invece l’occasione e lo stimolo per un’altra e più incisiva tappa. Per riconoscere la meta accanto a cui camminiamo. Lei ha tutte le ragioni caro amico… non ci sarebbe stato nessun rinnovamento se la filosofia avesse continuato a parlare semplicemente di metafisica, a fare della metafisica. Il fatto è un altro. Il fatto è che qualcuno, in questo caso Heidegger – il nostro "Pastore della Selva nera" – si è chiesto: "che cos’è metafisica?". Cioè ha preso quella parola e l’ha tolta dalla sua scontatezza, l’ha guardata come se la vedesse per la prima volta, l’ha messa in mezzo al discorso chiedendole ragione del suo stesso esistere. Le ha chiesto di manifestarsi. Certo la filosofia non può essere diversa da se stessa. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che mantenga il suo nome, che conservi gelosamente memoria del suo passato, della propria identità. Sempre, quando il desiderio di cambiare, di rinnovarsi, è sincero e profondo, non fa che portare più profondamente che mai verso… se stessi. Nessun cambiamento è più vero di quello che ci fa essere totalmente noi stessi. Primo apprendista – Perché dice che ho dato un nuovo impulso alla conversazione? Ermetis – Perché, guarda caso, la filosofia tedesca del primo 900 si pose proprio le domande che dice Lei. Si pose il problema della vita, si pose il problema del "mondo". Quarto apprendista – Cioè assunse un atteggiamento scientifico e non più metafisico? Non capisco. Non aveva detto che la filosofia si era liberata dal dominio della scienza? Ermetis – Secondo Lei, in cosa consisteva il cosiddetto "dominio della scienza"? Quarto apprendista – Nella scelta delle cose di cui occuparsi, evidentemente. La contemplazione di stampo platonico e idealista di fattori speculativi, è l’atteggiamento "metafisico"; la sistemazione metodologica del campo del sapere e dei suoi costituenti oggettivi, diciamo l’alternativa aristotelica, è l’atteggiamento scientifico. Più o meno. Ermetis – Quindi la scienza si occuperebbe del "Mondo" e la filosofia – diciamo la metafisica – no? Quarto apprendista – A grandi linee… Ermetis – Quindi una filosofia che guarda al "Mondo" è una filosofia che fa proprio il modello epistemologico scientifico, dell’oggettività? Terzo apprendista – E in effetti Cartesio fu prima di tutto un matematico, Kant un cultore della scienza; cioè filosofi razionalisti… Primo apprendista – "Succubi della scienza…" Ermetis – Allora, dicendo che le filosofie del Primo 900 si staccarono dal modello scientifico perché portavano il loro sguardo alla vita e al mondo, entriamo in una plateale contraddizione! Quarto apprendista – Già. Chi è che sta sbagliando? Quinto apprendista – Dovremmo riflettere sul concetto di scienza. Che cosa intendiamo quando parliamo di scienza? Ermetis – Proprio così. C’è un modo corrente e semplificato di intendere la "scientificità", e vi è invece quello appropriato e filologicamente fondato; entrambi accomunano una parte dei filosofi e degli scienziati in due schieramenti contrapposti. Mi spiego. Il modello epistemologico del pensare scientificamente è quello che si sviluppa dalla rivoluzione copernicana e attraversa tutta la storia del pensiero occidentale. È il modello cartesiano, newtoniano, kantiano, ed è un’idea di scienza che ha al proprio centro quel principio di evidenza che è proprio delle leggi matematiche. In base a questo modello, il rigore autoreferenziale della matematica diventa l’ideale supremo a cui dovrebbe guardare tutto il pensiero. La matematica è costituita da processi la cui evidenza non ha bisogno di nessuna giustificazione trascendente, così come di nessuna "prova dei fatti". Che 2 + 2 sia uguale a 4 è di per sé evidente ed è fondato esclusivamente su principi il cui fondamento non richiede nessun atto di fede. Cioè non avete bisogno di credere in me, basta applicare certi processi di ragionamento che sono uguali per tutti. Se poi rifiuti questo modo di pensare, sei libero di farlo, ma non potrai mai accusare chi lo pratica di falsità o ignoranza; dovrai "uscire fuori" dal recinto della ragione, abbracciare l’irrazionale e isolarti dalla comunità degli esseri pensanti. In questo senso l’irrazionalità è solitudine, è incomunicabilità. Quinto apprendista – Questo modo di pensare scientificamente non guarda certo al "Mondo", o alla vita. Ermetis – È il più puro atto di speculazione intellettuale che si possa immaginare. La matematica è innanzi tutto e per lo più un’astrazione dalle cose "così come sono", una riduzione della realtà a un mondo di pure grandezze. Molta filosofia, fin dal 600, e abbiamo anche detto quale, guardò a questo modello come al proprio supremo ideale razionale, riducendo il proprio interesse ai meccanismi interiori del pensiero, a quei processi razionali che presentano il maggior grado di generalizzazione e astrazione e che sovrintendono non alla vita come tale ma alla pura e semplice conoscenza. Il modello dominante della filosofia occidentale ha ridotto il pensiero – direi l’essere umano – alla pura conoscenza. Tutto il resto, sensibilità, emotività, immaginazione, intuito, poiché non è governato da regole certe ed evidenti, non è niente. Non è pensiero. Secondo apprendista – Ma Lei diceva che ci sono due modi di fare scienza… Ermetis – L’altro è il filone aristotelico. Perché, ricordatevi bene, non c’è niente di più platonico di quel pensare che riduce la realtà a puri nessi matematici. Ecco invece Bacone, e un certo aspetto del metodo galileiano, ma soprattutto gli Empiristi e poi i Positivisti. Con questi la matematica ha poco a che fare: conta l’esperienza, il vedere, il fare. Quarto apprendista – Non è più la scienza pura, ma applicata. Qui il mondo c’è, eccome! Ermetis – Certo, ma quale mondo? O meglio, quale aspetto del mondo? Quarto apprendista – Le cose così come sono, le cose che si vedono, la realtà che ci circonda… Quinto apprendista – Quello che ci sta davanti. Terzo apprendista – Ho capito! Si discrimina ciò che è "davanti a noi" da ciò che è "dentro di noi". Il primo costituisce il "Mondo" oggettivo, il secondo il mondo (?) soggettivo. Ciò che è oggettivo è scientifico, ciò che è soggettivo non lo è. È così? Quinto apprendista – Beh, c’è un modo di rendere oggettivo anche quello che abbiamo dentro: pensiamo alla psicologia. Anche l’uomo può diventare oggetto, oggettivo. Ermetis – Queste categorie, "davanti", "dentro", parlano chiaro, mi sembra. Se per un biologo o un astrofisico guardare il mondo è porsi davanti alle cose, la filosofia come traduce questo atteggiamento? Come fa la filosofia ad essere scientifica in questo senso? Quinto apprendista – Si pone "davanti al mondo", solo che lo prende tutto insieme, nel suo insieme, e non parcellizzato in diversi settori "naturali". Si occupa della realtà in quanto tale, ma della realtà oggettiva… Ermetis – Domanda: si può vedere la "realtà nel suo insieme", tutta la realtà "in quanto tale"? Me la può indicare, per favore? Primo apprendista – Hic Rhodus, hic salta. Quarto apprendista – È un circolo vizioso, Maestro. Non se ne esce più. La filosofia che matematizza è platonica e perciò quanto di più lontano ci sia dal mondo. Idem per la scienza pura, che quindi non guarda alla vita, al mondo. Adesso mi dice che neppure la filosofia empirista guarda al mondo, almeno non nel modo in cui lo fanno le scienze che prende a modello, cioè la biologia, la medicina. Quindi è vero che in un certo senso la filosofia non ha mai guardato al mondo, alla vita… Ma se è così, come possiamo dire che essa sia stata dominata dal modello epistemologico della scienza? Ermetis – Possiamo dirlo perché parliamo senza dare peso alle parole che usiamo. Cos’è "mondo", cos’è "vita"? Non è forse il momento di interrogarci su questo? Nel corso della conversazione sono emerse diverse parole con cui pensavate di dire più o meno la stessa cosa: il mondo, le cose, l’oggetto, ciò che ci sta davanti… Ma così facendo, voi vi siete fatti dominare dalle parole, vi siete fatti portare da loro, più che esprimere il vostro pensiero. È ovvio, a rifletterci solo un attimo, che "il mondo" è cosa ben diversa dalle semplici "cose", perché caso mai le "cose" le troviamo "nel mondo"; ed è ben impegnativo affermare che "ogni cosa è un mondo". E poi: le "cose" sono sempre solo "oggetti"? Cosa dico quando dico: "questa cosa mi fa soffrire", o "questa cosa non mi piace"? Ma tuttavia, non è per caso che chi parla veda tra tutte queste parole un qualche nesso, percepisca tra loro qualcosa di comune. Cerchiamo allora di individuare, tra di esse, la più fondamentale, quella che le dice tutte… Primo apprendista – A questo punto faccia Lei, Maestro, così non perdiamo tempo. Ermetis – È chiaro che il senso che le abbraccia tutte è racchiuso essenzialmente nell’espressione dello "stare davanti": il mondo, come le cose e gli oggetti, è "ciò che ci sta davanti". Ciò che è presente davanti a noi. Quinto apprendista – Chiaro. Ma la filosofia? In che senso la filosofia concepisce lo "stare davanti" tipico di ciò che è oggettivo? A che cosa sta davanti la filosofia? Ermetis – All’essere. A che cos’altro, se no? Ecco come la filosofia, da Platone e Aristotele in poi, si è fatta irretire dall’illusione prospettica dell’oggettività. Dell’essere si dimenticò la natura di origine, o la natura originaria, per ridurlo all’essenza – o fondamento, o permanenza immutabile – di tutto ciò che è "davanti a noi", che è presente. Questo per il primato che i Greci conferivano alla "theoria", cioè all’atteggiamento dell’osservare e del contemplare come fonte della conoscenza. Secondo apprendista – Forse non tutti… Eraclito per esempio… Ermetis – Certo, ma questo è un altro discorso. In sintesi: la "metafisica della presenza" è all’origine dello "spirito oggettivante" del cosiddetto "pensiero scientifico". E anche se si tende a dimenticarlo, tanto che i logici moderni nutrono non di rado un solenne disprezzo per quelle che chiamano "barzellette", è piuttosto evidente quanto affermò Heidegger, che cioè la scienza moderna non è che l’esito estremo e più radicale della metafisica sorta col pensiero greco. Primo apprendista – Quindi siamo al capovolgimento di quanto si diceva all’inizio: che la scienza si è imposta sulla filosofia… Ermetis – Non proprio. Quello della scienza è un modo di pensare che ebbe la sua origine storica nella filosofia greca; ma non c’è un unico modo di pensare. Diciamo che il modello "oggettivante", la metafisica della presenza, si impose su altre concezioni dell’essere, mettendo ai margini modelli filosofici alternativi. Quarto apprendista – E poi venne la crisi. Ma se la filosofia cominciò a occuparsi della vita e del "mondo", come si può dire che sia andata in crisi la metafisica? Ermetis – È la grande intuizione di Heidegger, così come emerge dalle pagine di Essere e tempo. Più che "occuparsi della vita", egli fece della metafisica – o meglio del problema dell’essere – qualcosa di vivo. E come? Se l’essere si riduce semplicemente a ciò che è presente davanti a noi – all’essenza immutabile delle cose – ebbene, l’essere viene schiacciato su una sola delle tre dimensioni possibili che appartengono al tempo. Se noi diciamo che qualcosa "è presente", necessariamente attribuiamo a questa cosa una qualità temporale, una temporalità che però risulta mutilata. Quello che conta è l’"ora", che è anche il "qui". E il passato? E l’avvenire? Ecco due categorie che non sono imputabili alle cose in quanto oggetti, ma che appartengono esclusivamente alla vita, alla vita in quanto esistenza, in quanto storia. Heidegger restituì all’essere la pienezza del Tempo, che è pienezza di vita, sottraendolo al controllo e al dominio del soggetto, del "pensiero oggettivante", della "ragione". Quinto apprendista – L’essere non è qualcosa che dominiamo, ma qualcosa in cui ci troviamo? Ermetis – Forse è più esatto dire: qualcosa da cui veniamo. Primo apprendista – Però tutto questo è in Essere e tempo. Adesso ci tocca la lettura di Cos’è metafisica? Cos’altro dobbiamo aspettarci? Ermetis – L’apparizione di un nuovo stile. Il nuovo stile di Heidegger, dal fatidico 1929, è quello di una filosofia dell’evento. La filosofia deve impegnarsi a partire dalla Vita, ma non dalla vita come oggetto, bensì dalla vita come evento, come situazione. E come enuncia Essere e tempo, da una situazione emotiva. Da lì in poi, compito della filosofia è di interrogare quella situazione, di interpretarla. Heidegger ritiene che da una parte la metafisica faccia parte della “natura dell’uomo”, in quanto essa è “l’accadimento fondamentale dell’esserci”, dall’altra che essa sia costantemente insidiata dall’errore piú radicale. M. Heidegger, Was ist Metaphysik, [Che cos’è la metafisica] Bonn, 1929, trad. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 76-77 La domanda del niente mette in questione noi stessi che poniamo la domanda. Si tratta di una domanda metafisica. L’esserci umano può comportarsi in rapporto all'ente solo se si tiene immerso nel niente. L'andare oltre l'ente accade nell'essenza dell'esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica. Ciò implica che la metafisica faccia parte della “natura dell'uomo”. Essa non è un settore della filosofia universitaria, né un campo di escogitazioni arbitrarie. La metafisica è l'accadimento fondamentale nell'esserci. Essa è l'esserci stesso. E poiché la verità della metafisica dimora in questo fondo abissale, essa è costantemente insidiata da vicino dalla possibilità dell'errore piú radicale. Questa è la ragione per cui non c'è rigore scientifico che eguagli la serietà della metafisica. La filosofia non può mai essere misurata col parametro dell'idea della scienza.