Giovanni Loparco, L’Espresso una rivista italiana negli anni
1955-1965
Università di Bologna
INDICE
CAPITOLO I: I RAGAZZI DI VIA PO 12
pag. 1
CAPITOLO II: “L’ESPRESSO” E LA POLITICA NELLA SECONDA LEGISLATURA
pag. 13 2.1 L’alternativa socialista
pag. 19 2.2 Fine del quadripartito
pag. 25 2.3 Zoli e la conferenza episcopale
pag. 33 2.4 Stato e Chiesa alla vigilia
delle elezioni
pag. 38 2.5 Le elezioni del ’58
pag.
41
CAPITOLO III: CAPITALE CORROTTA NAZIONE INFETTA pag.
45 3.1 La città eternit
pag. 45 3.2 L’ultima seduta della giunta Rebecchini
pag. 54 3.3 Dall’indifferenza alla
curiosità
pag. 60 3.4 La sentenza
pag.
63 3.5 Il Vaticano difende Rebecchini
pag. 66 3.6 Capitale corrotta = nazione
corrotta
pag. 69 3.7 Gli Amici del Mondo
pag.
73
APPENDICE CAP. III
pag. 80
CAPITOLO IV: STATO E CHIESA
pag. 91 4.2 La Rai – Tv
servirsene
pag. 100
pag. 91 4.1 Crisi del Concordato
pag. 97 4.3 Servire la Chiesa e non
CAPITOLO V:
“L’ESPRESSO”,
I
SOCIALISTI
E
I REPUBBLICANI
pag. 106 5.1 Fanfani e gli inviti ai socialisti
pag. 106 5.2 “L’Espresso” e il XXXIII
Congresso socialista
pag. 109 5.3 “L’Espresso” e il Congresso repubblicano
pag.
112 5.4 Fanfani e la fine del diversivo riformista
pag. 114
CAPITOLO VI: LE GRANDI INCHIESTE DE “L’ESPRESSO L’ASINO NELLA BOTTIGLIA
pag. 117 6.1 L’Asino nella Bottiglia
pag. 120 6.2 La Balena spalmata sul
pane
pag. 127 6.3 Una palla di grasso sullo stomaco
pag.
131 6.4 “L’Espresso” e il presidente dell’Assolearia
pag. 133 6.5 Il divieto di esterificazione
conclude il romanzo giallo
dell’olio d’oliva
pag. 137
CAPITOLO VII: SANTA DOROTEA: DA FANFANI A MORO pag. 145 7.1 La battaglia contro i
clericofascisti
pag. 145 7.2 Moro nel ‘Diario’ di Benedetti
pag. 151 7.3 Chiusura a sinistra
pag. 154 7.4 Leoni piccioni e altri
animali: la sconfitta del tripartito
pag. 158
CAPITOLO VIII: TAMBRONI
pag. 165 8.2 Fanfani
pag. 173 8.4 Livorno e Bologna
APPENDICE CAP. VIII:
CAPITOLO IX: “L’ESPRESSO” E
pag. 165 8.1 Governo ‘necesse est’
pag. 169 8.3 Punti fermi
pag. 175
pag. 180
I FATTI DEL LUGLIO 1960
pag. 194 9.2 Dovunque magliette a strisce
pag. 211
CAPITOLO X: CAMILLA CEDERNA: IL LATO DEBOLE
pag. 193 9.1 Balilla l’ha impedito
pag. 203 9.3 Violenza di Stato
pag. 216
CAPITOLO XI: IL CENTRO SINISTRA
pag. 226 11.2 La stagione delle riforme
la nascita dell’Enel
pag. 238 11.4 Il centro – sinistra
246
BIBLIOGRAFIA
pag. 223 11.1 Convergenze parallele
pag. 231 11.3 La lotta ai monopoli:
pag.
pag. 253
2
CAPITOLO PRIMO
I RAGAZZI DI VIA PO 12
“Bisogna fare un giornale”, si era detto una sera dopo cena nei primi mesi del 1955 in casa di Eugenio Scalfari.
“Proprio così – ricordava Arrigo Benedetti – un giornale, ma non sarebbe stato un settimanale, bisognava fare
un quotidiano a Roma, che fosse la voce di gruppi politici e culturali molto attivi, riuniti intorno al “Mondo” e
ai suoi convegni”._ L’idea – base che guidava la nascita de “L’Espresso” era quella di dare veste giornalistica
alle battaglie politiche e di costume de “Il Mondo”, uscendo dagli ambiti ristretti del gruppo originario e
tentando un vero e proprio confronto con il mercato. “Il progetto era dispendioso – ricorda Scalfari – le grandi
firme costavano, volevamo pubblicare inchieste, reportages italiani e internazionali, avere corrispondenti nelle
principali capitali, insomma, un giornale vero, strumento d’una borghesia colta e moderna; un giornale quindi
che avrebbe dovuto essere anche un’ impresa, con ricavi almeno equivalenti ai costi, con traguardi di vendita
commisurati agli obbiettivi pubblicitari necessari a finanziare l’iniziativa. Questo era il progetto e questo il
salto di qualità rispetto a “Il Mondo”: da un giornale di gruppo a un giornale per il mercato, da un club politico
ad un’azienda editoriale”._
“Benedetti ed io – ha scritto Eugenio Scalfari – pensavamo da alcuni anni di fondare un giornale quotidiano”._
“L’Espresso” però sarebbe nato progetto minore: un settimanale a rotocalco con la veste di un quotidiano, una
veste che sottolineasse, anche fisicamente, il proprio carattere di giornale politico, una sorta di quotidiano che
esce una volta alla settimana. “Perché – disse un giorno Adriano Olivetti, l’uomo a cui il settimanale deve i
suoi natali, ad Arrigo Benedetti – “perché dobbiamo perseguire il fine di costituire una grande società
editoriale quella che oggi occorre di sicuro per un grande quotidiano e non ci limitiamo ad usare solo le nostre
forze e non facciamo un settimanale?”_ Il progetto relativo ad un quotidiano era troppo costoso e veniva quindi
ridimensionato. Ecco allora che Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari optano per un settimanale. Dopo un
incontro ad Ivrea tra Benedetti, Scalfari e Olivetti, il progetto comincia a concretizzarsi: “Rivolgerci ad
Olivetti – avrebbe ricordato Scalfari in seguito – per finanziare un progetto che non aveva nulla in comune con
il suo modo di progettare il futuro non avrebbe avuto alcun senso se non ci avesse guidato un’intuizione del
personaggio che, infine, si rivelò giusta: Adriano aveva un bisogno inesauribile di tentare nuove avventure,
scoprire nuove frontiere, aprire strade su terreni incolti, per il semplice gusto di futuro, indipendentemente dal
fatto che fosse un futuro a lui estraneo o quello da lui vagheggiato. Rimase un anno con noi, Adriano Olivetti;
mise in orbita il giornale investendo in esso 125 milioni dell’epoca; infine se ne uscì in punta di piedi, senza
polemiche né recriminazioni (…) lasciando “L’Espresso” nelle mani nostre e in quelle di Carlo Caracciolo”._
La mattina del 22 settembre del 1955 si trovarono per la prima volta Benedetti, Scalfari ed altri nove colleghi,
all’indirizzo di via Po 12, sede de “L’Espresso”.
Arrigo Benedetti direttore, Eugenio Scalfari direttore amministrativo e redattore per l’economia, Antonio
Gambino capo redattore, Carlo Gregoretti impaginatore, Fabrizio Dentice, Enrico Rossetti, Sergio Saviane,
Paolo Pernici, Mario Agatoni, Franco Lefèbvre, Marialivia Serini, redattori: questo fu il nucleo redazionale di
partenza, affiancato dalla presenza di collaboratori illustri, quali Alberto Moravia alla critica cinematografica,
Sandro De Feo alla critica teatrale, Lionello Venturi alla critica d’arte, Bruno Zevi all’architettura, Massimo
Mila alla musica, Geno Pampaloni alla letteratura. “Un direttore prestigioso, una redazione giovane, uno stuolo
di grandi firme che davano uno spessore inconsueto all’apparato culturale del giornale, così nacque
“L’Espresso”, per “riempire un vuoto” – come pensavano e affermavano Benedetti ed Eugenio Scalfari – e
come di fatto avvenne”._ Arrigo Benedetti giocava per la terza volta la carta di fondare una nuova testata
settimanale, dopo alcune esperienze che avevano affermato il suo nome come uno dei più significativi del
giornalismo italiano. Nel 1954, infatti, Arrigo Benedetti era stato allontanato per motivi politici dalla direzione
de “L’Europeo”, giornale di ispirazione liberaldemocratica dell’editore Angelo Rizzoli, proprietario della
testata da poco più di un anno. “L’Europeo” era stato fondato da Arrigo Benedetti e dall’Editore Giulio
Mazzocchi nel 1945, pochi mesi dopo la liberazione dell’Italia del Nord.
Mario Pannunzio, direttore de “Il Mondo”, il settimanale espressione del partito radicale, nella sua rubrica
‘L’Italia infetta’, scriveva a proposito dell’allontanamento di Benedetti: “E’ stato allontanato dal giornale che
nove anni fa aveva fondato. Nove anni sono qualcosa per un giornale. Sono qualcosa di molto più importante
per un giornale come “L’Europeo” che ha in gran parte formato lo stile del giornalismo del dopoguerra. La
formula, il gusto, il tono che esso propose all’opinione pubblica erano davvero insoliti nella stampa dell’epoca
e la pulizia, l’obbiettività, la spregiudicatezza, l’antirettoricità di questo settimanale lo portarono subito al
livello della più illuminata stampa internazionale.”_
3
La preoccupazione costante di Arrigo Benedetti era interamente concentrata sull’approccio alla realtà, sul
linguaggio, sui tempi verbali, sugli aggettivi, sulla titolazione. Scorrendo le grandi pagine de “L’Espresso” si
coglie presto un approccio diretto e narrativo, un linguaggio asciutto, senza orpelli né colore, aggettivi non
ridondanti, nettezza di particolari e precisione di luoghi e nomi, tempi verbali prevalentemente indicativi, uno
scarso uso del congiuntivo e del condizionale, di modo che il giornalista non risulti mai né allusivo né
deresponsabilizzato rispetto ai fatti da mettere in pagina.
Enzo Forcella, nel giugno del 1960 si chiedeva come mai i redattori de “L’Espresso” avessero tutti non solo
uno stile riconoscibile al primo sguardo, ma addirittura uniforme.
“I redattori de “L’Espresso” – scriveva Benedetti – compilano le loro indagini senza adornarle e dando rilievo
solo ai fatti: amano la sintassi semplice col soggetto seguito dal predicato. Hanno raggiunto uno standard.
Quale lode per la redazione e anche per me. Un giornale non sarà mai un’antologia, perché è il frutto d’un
lavoro collettivo. I redattori limano le proprie composizioni, poi segue la lima del direttore e del redattore capo,
convinti che un giornale debba soprattutto informare, liberi invece i critici letterari, teatrali, musicali,
cinematografici, artistici, ecc. o i collaboratori occasionali (…). E sembra, specie a colui che ha la
responsabilità del periodico, che i redattori abbiano bisogno d’uno stile uniforme per avvicinarsi quanto più
possibile a quell’ideale d’oggettività che ha sempre guidato l’onesto giornalista. Oh! Lo so benissimo, e per
esperienza, si tratta d’una illusione. La personalità di chi scrive (in questo caso non d’un singolo individuo, ma
d’un gruppo) è ineliminabile e finisce fatalmente col dare, d’un fatto o d’un problema, un’interpretazione
particolare. Ci sono poi furbizie che permettono ad uno scrittore, apparentemente oggettivo e imparziale,
d’essere più eloquente d’un retore che immagina l’invettiva una forma giornalistica. Eppure, quell’ideale di
oggettività è opportuno anche se illusorio; altrimenti un giornale rassomiglierebbe ad uno di quei salotti italiani
dove tutti gli astanti tentano di sopraffarsi gridando e agitando le mani. Un criterio diverso, il quale anche nel
lavoro redazionale lasciasse trasparire troppo le personalità degli scrittori, finirebbe con provocare una gara
stilistica che darebbe ad un giornale un accento apparentemente vivace e vario ma in sostanza accademico. E
s’aprirebbero le strade all’evasione dalla realtà, cio ch’è successo, si badi bene, nei momenti meno felici della
nostra lunga storia”._
Arrigo Benedetti – a differenza di Mario Pannunzio, ha sottolineato Eugenio Scalfari – “non si preoccupava
mai di informarsi sulle opinioni politiche dei suoi redattori e di condizionare ad esse la scelta dei giornalisti da
assumere; si preoccupava invece di addestrarli ad un metodo di scrittura e ad una regola professionale, dai
quali i contenuti sarebbero venuti da sé. Ma se a quelle regole e a quei metodi i suoi redattori non si fossero
attenuti o si fossero comunque dimostrati inadatti, allora nel suo giornale non sarebbero durati a lungo o
comunque non avrebbero fatto strada. Alberto Asor Rosa, nel suo saggio sugli intellettuali e il potere
pubblicato nella Storia d’Italia di Einaudi, dedica un lungo capitolo ai rapporti tra il giornalismo italiano
contemporaneo e il Palazzo. In esso leggo questo giudizio: che Arrigo Benedetti sia stato un personaggio di
maggior peso di Pannunzio, quanto agli effetti che la sua attività provocò nella formazione dell’opinione
pubblica e nei suoi rapporti con il Potere. Credo che Asor Rosa abbia ragione. Pannunzio dette vita ad un
gruppo, Benedetti contribuì fortemente a far nascere in Italia un’opinone pubblica come forza politica di
controllo e di tendenza. La riprova di queste differenze e della loro natura si vide con chiarezza quando, a
partire dall’ottobre del 1955, L’Espresso si affiancò al Mondo, ereditandone in larga misura il ruolo, ma
trasformando e allargando innovativamente la matrice originaria (…). “Il Mondo” non poteva e non voleva
capire, accettare e rappresentare gli svolgimenti che la realtà dei fatti imprimeva al periplo dei liberals, mentre
“l’Espresso” seguì e spesso anticipò quegli svolgimenti non essendo altro, fin dall’inizio, che una delle voci
d’una struttura di pubblica opinione anziché il portavoce d’un gruppo di intellettuali.”_
Esemplificativo del posto che il nuovo settimanale di Benedetti aveva intenzione di occupare nel mondo
dell’informazione è l’editoriale del primo numero de “L’Espresso”: “I promotori di questo giornale ritengono
che l’assoluta indipendenza della stampa sia il fondamento più solido del regime democratico (…). Interessi di
partito o di gruppi sezionati premono sensibilmente sulla direzione politica dei giornali, deformandone la
funzione e degradandola a quella di una difesa acritica di tesi precostituite. La stampa d’informazione viene
così ad avere minore autorità e più debole influenza educativa a ragione dell’ossequio, o anche solo del
sospetto dell’ossequio, verso il gruppo proprietario. Questa consuetudine ha anche determinato singolari casi
di sostituzione di direttori fedeli solo alle esigenze di una obbiettiva informazione (…). All’atto di costituire la
Società “Nuove Edizioni Romane”, editrice de “L’Espresso”, gli azionisti si sono rappresentati l’esigenza di
instaurare (…) in Italia una prassi che si augurano possa contribuire in qualche modo ad una migliore
qualificazione della stampa italiana. Essi hanno pertanto conferito il potere di nomina del direttore e il compito
di assicurare l’autonomia e la continuità dell’indirizzo politico del giornale ad un Comitato di garanti”._
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Ciò che a prima vista contraddistingue il nuovo settimanale a rotocalco è il suo formato lenzuolo. Le
motivazioni di questa scelta sono legate alla pretesa del nuovo settimanale di entrare nel mondo
dell’informazione sottolineando il carattere di giornale politicamente impegnato, vicino alla formula del
quotidiano e distinto da quella classica del settimanale italiano. “Esiste un’arte per sfogliare i giornali. Il
“Times”, il “Manchester Guardian” sono quotidiani più grandi de “L’Espresso”, e spesso a sedici, venti,
ventiquattro pagine, ma non imbarazzano i lettori dei più famosi club londinesi dove perfino il fruscio della
carta susciterebbe proteste (…). Noi ci proponiamo di reagire all’inclinazione alla rivista, generale nella
stampa settimanale italiana. Ci piace l’informazione rapida, concisa; ci piace dare rilievo ad una notizia;
insomma ci piace il nostro formato ed in esso abbiamo fede”_.
Il primo numero de L’Espresso vendette oltre centomila copie ma nelle settimane successive la resa aumentò e
la tiratura media si stabilì tra le 70.000 e le 80.000 copie. Dovettero passare circa sei mesi prima che si potesse
tornare alla tiratura iniziale e superarla d’un cinque per cento. “Ormai cominciavamo a capire – ricordava
Arrigo Benedetti – chi erano i nostri lettori. Si trattava, come un’inchiesta da noi fatta ha provato (…), d’un
pubblico molto selezionato prevalentemente maschile, composto nella maggioranza di uomini giovani che
hanno incarichi di responsabilità nelle aziende, negli uffici pubblici e privati, nella politica, nella scuola e nella
cultura.”_ Molto presto, però, “L’Espresso” si rese conto della necessità di allargare la fascia dei propri lettori,
cercando di attirare anche il pubblico femminile. Era una novità, perché sino ad allora le pagine dedicate alle
donne si occupavano prevalentemente di moda, giardinaggio e cucina. “Nella vita d’una donna ci sono
interessi molto più vari – notava Arrigo Benedetti – molto più complessi, ed è per questo che abbiamo messo
allo studio una pagina da dedicare alle lettrici”._ Questa pagina sarebbe stata la famosa rubrica di Camilla
Cederna, ‘Il lato debole’, rubrica di indescrivibile successo che avrebbe informato, deliziato o scandalizzato i
lettori de “L’Espresso” con le vicende pubbliche o intime degli idoli del giorno per circa vent’anni.
Al suo esordio “L’Espresso” si trovò impegnato su diversi fronti: in politica appoggiava l’apertura a sinistra
con conseguente inserimento dei socialisti nella maggioranza di governo; in economia puntava sulla necessità
di una legiferazione anti–trust, sulla riforma del sistema fiscale in senso progressivo e naturalmente sulla
nazionalizzazione dell’industria elettrica. Anche i temi di costume trovavano spazio sulle sue pagine, il
mutamento delle abitudini, dei bisogni, la comparsa di nuove figure sociali, a cominciare dai giovani e dalle
donne.
Uno dei primi temi trattati da “L’Espresso” fu la speculazione sulle aree edificabili e la distruzione selvaggia
dei centri urbani: lo scandalo ritenuto più vergognoso e più denso di effetti perversi. Resterà famosa l’inchiesta
su questo tema, ‘Capitale corrotta Nazione infetta’, a cui fece seguito un processo intentato dalla Società
Generale Immobiliare contro il settimanale. “Mi venne in mente, nel primo autunno de “L’Espresso” –
ricordava Arrigo Benedetti dieci anni dopo la pubblicazione dell’inchiesta – di incaricare uno dei nostri
migliori scrittori, Manlio Cancogni, d’una serie di ritratti. Non sapevamo nemmeno bene chi avremmo dovuto
prendere come oggetto: uomini politici, naturalmente industriali, finanzieri, professori d’università, scienziati,
scrittori, un po’ di tutto. Si svolgevano sui giornali italiani di quei tempi le note polemiche sul comune di
Roma, accusato di favorire interessi privati, aprendo strade qui invece di là, istituendo servizi pubblici secondo
la convenienza di gruppi particolari. Perché, domandai a Cancogni, non vai dal sindaco di Roma, l’ingegnere
Salvatore Rebecchini, e gli domandi un colloquio in modo da poter scrivere una specie di profilo? Il nome di
Rebecchini, devo confessarlo, m’era venuto sulle labbra tanto per le circostanze curiose in cui pareva
mescolato quanto per una circostanza personale. Tornato a vivere a Roma, una domenica mattina avevo
portato i miei figli, allora ragazzi, in piazza San Pietro. Dopo aver visitato il tempio ed essere salito sul
terrazzo, c’eravamo messi a passeggiare sul sagrato, dal quale avevo scorto un’automobile nera correre verso il
portone a sinistra, e nell’automobile il volto paterno, sorridente, del sindaco. Confesso che l’avevo guardato
solo con curiosità; ecco un uomo bonario, un padre di famiglia, m’ero detto, che non per malizia, ma
sottostando a un costume, permette che intorno a lui si verifichino certe situazioni, incurante di guadagnarsi
una certa fama. <<Fammi un ritratto di Rebecchini>>, dissi quindi a Cancogni <<e non dimenticare, mi
raccomando, d’andarlo a trovare>>. Durante il processo che ne seguì, intentatoci dall’Immobiliare, più volte
venne osservato che il sindaco Rebecchini, per altro estraneo al dibattito giudiziario, e destinato ad intervenire
soltanto, caso curioso, come testimone, non aveva ricevuto il nostro redattore il quale, in mancanza di meglio,
s’era trovato ad analizzare certi abbandonati documenti raccolti in parte da Leone Cattani, sulla situazione
delle aree fabbricabili della capitale. Oggi è pacifico. Roma è stata teatro d’una mostruosa speculazione
edilizia. La casbah dei Parioli, cioè di quello che avrebbe dovuto essere il più elegante quartiere della capitale,
le stradine di Vigna Clara, provano fino a qual punto le aree fabbricabite siano state sfruttate. Oggi a Casal
Palocco, sulla via che dall’Eur porta al mare, c’è un quartiere d’abitazione civile; mentre, quando noi
affermammo che l’Immobiliare aveva acquistato quelle terre non con propositi agricoli ma con certe sue idee
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speculative, eravamo stati smentiti. È inutile insistere, ci sono stati due processi, una volta siamo stati assolti ed
una condannati; infine, è intervenuta l’amnistia. D’altra parte, che in Italia si sia speculato sulle aree nessuno,
nemmeno a Roma, oserebbero negarlo. Allora, lo si negava”._
Sarebbe ingiusto far derivare il successo de “L’Espresso” dall’inchiesta di Cancogni e dal lunghissimo
processo che ne seguì; tuttavia, il settimanale romano sembra aver iniziato le sue pubblicazioni proprio con
l’articolo su Rebecchini. Prima aveva proceduto carponi, poi, sicuro lungo la sua strada.
Aree fabbricabili dunque, mafia in Sicilia, crisi della famiglia italiana, legge Merlin, cibi sofisticati (il famoso
‘Asino nella bottiglia’ a proposito dell’olio divenne quasi uno slogan), la Curia vaticana che tenta di
sopravvivere dopo la morte di Pio XII, il fervore nella Chiesa prima che Giovanni XXIII fosse eletto, la ‘dolce
vita’ come evasione dalla vita vera, la paralisi dei partiti di centro legati a interessi particolari, la necessità d’un
legame tra cattolici e socialisti: ecco alcuni elementi delle campagne a cui s’è dedicato, in dieci anni,
“L’Espresso”.
Un’altra novità riguardante il settimanale romano è la particolare attenzione riservata all’economia e alla
finanza, novità che deve il suo successo a Eugenio Scalfari, colui che se ne occupò costantemente. In Italia, la
trattazione di temi economici era rimasta per troppo tempo relegata nel recinto degli ‘addetti ai lavori’, e ne
aveva adottato il lessico impenetrabile. “Eravamo convinti – ricorderà molti anni dopo Eugenio Scalfari – che
questa fosse una delle principali novità con cui potevamo distinguerci dai concorrenti e attraverso la quale
potevamo agganciare un pubblico del tutto nuovo: imprenditori, uomini d’affari, banchieri. Pubblico
importante per il peso che aveva sia nel determinare opinione sia dal punto di vista pubblicitario (…).
“L’Espresso” fu il primo giornale italiano – non soltanto tra i settimanali ma perfino mettendo nel conto la
stampa quotidiana – a seguire sistematicamente e giornalisticamente i fatti dell’economia e della finanza. Fino
alla sua comparsa nelle edicole, infatti, i settimanali trascuravano completamente l’argomento, mentre i
quotidiani gli dedicavano a stento le quotazioni e il commento di Borsa e qualche articolo di fondo assai
sussiegoso affidato alle penne sapienti quanto astruse di alcuni professori universitari. Rappresentò dunque
una novità il nostro esordio a pieno titolo in quell’ambiente riservato agli ‘addetti ai lavori’. Novità tanto più
sconvolgente in quanto l’attenzione che il giornale dedicava a quegli argomenti non fu mai accademica ed
erudita, anche se si cercava di mantenere le analisi dei fatti in un ambito della massima correttezza e rigore
intellettuale: fu un’attenzione politica, nel senso che si fece una lettura politica dei fenomeni dell’economia e
della finanza; e fu, al tempo stesso, una lettura giornalistica, nel senso che il nostro obbiettivo era innanzitutto
quello di raccontare i fatti badando di farne capire ai lettori l’essenza, di coglierne gli effetti sulla gente, di
descriverne i protagonisti nella loro complessa umanità.”_
Eugenio Scalfari fu indiscutibilmente il protagonista su queste pagine della battaglia, condotta a quattro mani
con Ernesto Rossi su “Il Mondo”, per la nazionalizzazione dell’industria elettrica. “L’Espresso” supportò una
campagna di stampa, durata circa tre anni, determinante per la formazione della nuova maggioranza di centro –
sinistra e per la nazionalizzazione dell’industria elettrica.
Un’altra caratteristica del settimanale “L’Espresso” era il carattere tipografico con cui venivano stampati gli
articoli: il carattere bastone. “Il carattere bastone è essenziale, moderno, duro, semplice, senza lusinghe. Sulla
pagina fa macchia, richiama l’occhio, insomma è un carattere gridato”.
Non era un particolare irrilevante perché il carattere risulta di conseguenza determinante per la scelta dei
contenuti: il carattere bastone è l’altro lato della medaglia per un giornale che si propone come un giornale
aggressivo, un giornale di notizie, di scoop, di titolazione gridata.
Questi i tratti caratteristici de “L’Espresso” dal 1955 al 1965, tratti che contraddistinsero il settimanale anche
quando, nel 1963, ci fu il passaggio del testimone da Arrigo Benedetti ad Eugenio Scalfari. “Accettando le mie
dimissioni – scriveva Benedetti il 2 giugno del 1963 – il Consiglio dei garanti (…) ha riconfermato l’indirizzo
politico del giornale che continuerà a proseguire il fine d’un approfondimento sempre maggiore dei temi
caratteristici d’una democrazia moderna. L’abbiamo fatto con una spregiudicatezza che, se m’ha procurato
qualche difficoltà, m’ha però conquistato la stima di sempre più numerosi lettori, ed è in questa linea che il
giornale proseguirà la sua azione. Anzi è stata proprio tale certezza che m’ha permesso di chiedere il
soddisfacimento d’una mia personale aspirazione. Il Consiglio d’amministrazione e il Consiglio dei garanti,
nelle medesime riunioni, hanno provveduto anche alla nomina del nuovo direttore responsabile, e su mia
proposta è stato scelto Eugenio Scalfari, finora vice – direttore, che è stato accanto a me fin dall’ottobre del
1955, e che con me aveva collaborato quando dirigevo “L’Europeo”. La fedeltà ai compiti che ci siamo
proposti da tanti anni e a uno stile che, se ha un valore tecnico, ne ha anche uno morale, è dunque assicurata”._
Questa linea politica, questo tipo di linguaggio e questo genere di argomenti, “L’Espresso” di fatto li ebbe in
tutta la fase che va dalla sua fondazione fino al 1974, quando cambiò formato e – in qualche modo – pubblico
e ruolo sul mercato.
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CAPITOLO SECONDO
“L’ESPRESSO” E LA POLITICA NELLA II LEGISLATURA
La seconda metà degli anni cinquanta: la fine dello stalinismo, il tramonto della guerra fredda, il decollo del
neocapitalismo. L’intera società italiana che neppure la guerra e la Resistenza erano riuscite a modificare
profondamente si mette all’improvviso in movimento. “Che anni furono quelli che seguirono alla fondazione
dell’Espresso!”_, ha scritto Eugenio Scalfari.
Sta iniziando un decennio nel corso del quale le strutture economico-sociali, la cultura, il nostro modo di
pensare subiranno più trasformazioni di quante non se ne fossero verificate nei novant’anni precedenti.
Nel mondo politico italiano la Democrazia cristiana alla fine del ’55 è un partito notevolmente diverso da
quello che alla fine della guerra aveva posto la propria candidatura alla “leadership” politica del paese. De
Gasperi è morto da un anno, la sua eredità è stata raccolta da un gruppo di uomini nuovi. Giovani,
spregiudicati, culturalmente più avvertiti, i Fanfani, i Rumor, i Moro, e i Colombo portano nella vita pubblica
una sensibilità per le esigenze e la tematica della politica moderna che gli Scelba, i Gonella, gli Spataro e gli
altri anziani non avevano.
Sono uomini – secondo il settimanale “L’Espresso” – consapevoli che con l’enorme estensione dei controlli e
degli impegni statali nella vita economica, i rapporti tra potere economico e potere politico possono porsi in
maniera radicalmente nuova, molto più vantaggiosa per chi detiene le redini del secondo. Il congresso di
Napoli del 1954 può essere considerato, in questa prospettiva, un congresso di fondazione. È da qui che esce la
Democrazia cristiana del “doroteismo” e del “progresso senza avventure”, dell’occupazione a macchia d’olio
di tutti i centri di potere disponibili e del passaggio indolore dal centrismo al centro – sinistra.
Consideriamo però anche ciò che avviene dall’altra parte dello schieramento politico. Anche qui la metà degli
anni cinquanta appare come una svolta decisiva. È finita l’esperienza del fronte popolare. Con la guerra
coreana è finita anche, seppure era mai stata presa in seria considerazione, la prospettiva di una conquista
violenta del potere. La sinistra italiana si rende confusamente conto che non può vivere nell’eterna attesa della
rivoluzione.
“Le ingiustizie e le contraddizioni del sistema – riferisce Enzo Forcella – possono essere risolte senza attendere
l’occasione di un sovvertimento radicale, del resto praticamente impossibile, lavorando all’interno del
“sistema”. Come nessuna maledizione biblica ha condannato l’Italia al pauperismo, così nessun’alleanza di
interessi può sbarrare alle classi popolari l’ingresso nella “stanza dei bottoni”. È un linguaggio che non
interessa soltanto i socialisti. Interessa la sinistra democratica laica e cattolica, mette in difficoltà per la prima e
unica volta nel corso di un ventennio la dirigenza comunista alle prese con i problemi della destalinizzazione e
del revisionismo”._
Lo scenario di questo discorso prettamente politico è tutto romano, così come tutto romano, per lo meno ai suoi
esordi, è “L’Espresso”. “Roma (…) è la vera figlia del secolo, mezza nostalgica e mezza cosmopolita, con i
suoi turisti e i suoi intrallazzi, con la sua sonnolenza vernacola e la sua levantina vivacità”._
Roma è però soprattutto la scoperta di quel periodo che coincide in politica con il lento tramonto della formula
centrista e con la nascita del centro – sinistra.
“L’Espresso” nasce dunque a Roma e la scelta è significativa: Roma è la capitale della politica e la politica è il
carattere che contraddistingue “L’Espresso”.
“Il sentimento che ci accomunava – ha detto Eugenio Scalfari – era quello dell’estraneità dall’Italia dominante,
fosse l’Italia maggioritaria rappresentata dalla Dc o quella minoritaria rappresentata dal Pci. Le due chiese ci
apparivano ugualmente chiuse ed ostili”._ È in questo contesto, e con questi sentimenti, che “L’Espresso” si
inserisce nel dibattito politico e lo fa assumendo quasi una funzione maieutica: quella di stimolare il lettore a
cercare la verità nascosta nel proprio animo e coperta da opinioni false.
Quando “L’Espresso” esordiva nel mondo dell’informazione si era da poco concluso il tentativo centrista del
governo quadripartito di Scelba. La formula di centro – commentava il nuovo settimanale a rotocalco – era
però rinata “quasi inopinatamente con l’on. Antonio Segni. Molti credettero di trovarsi in quel momento di
fronte ad un’imitazione, probabilmente di breve durata, dell’esperimento politico appena conclusosi.”_
Dopo quasi sei mesi dalla nascita di questo governo, il giudizio de “L’Espresso”, seppur cauto, era positivo.
L’esperimento quadripartito di Scelba si era realizzato – giudicava il settimanale romano – in “un gioco
puramente formale di schieramento, che ha costretto l’azione del suo ministero a rifuggire da qualunque
contatto e da qualunque convergenza, fosse pure occasionale, con le sinistre; Segni si è invece rivelato
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soprattutto ansioso di attuare le promesse del suo programma di governo, senza preoccuparsi troppo dello
schieramento parlamentare che attorno a quel programma si è andato delineando”._ A differenza dei governi
che lo avevano preceduto, il governo di Antonio Segni sembrava a “L’Espresso” non un governo che dal
centro recedeva verso destra, ma un governo che dal centro si spostava, anche se molto prudentemente, verso
sinistra.
“Il centro di Segni – commentava “L’Espresso” – non è il centro di Scelba: il centro di Scelba, sul quale non
potevano confluire i voti di Nenni e Togliatti, era condannato all’immobilità; il centro di Segni, che questi voti
può ricevere senza chiederli, può realizzare il suo programma.”_ L’opinione de “L’Espresso” era che il
governo Segni, benché navigasse tra diverse difficoltà e ricevesse strattoni dalla destra, andava definendosi
ogni giorno di più come un governo di centro sinistra, l’unico modo con cui il centro poteva conservare il
potere. “Si perpetua – commentava il settimanale romano – la contraddizione di un governo che è più vicino di
ogni altro precedente alla soluzione di alcuni essenziali problemi economici e sociali, ma la cui base politica
diventa sempre più debole, provvisoria ed incerta”._ Il quadro politico sembrava prendesse stabilità perché,
“quasi ad equilibrare la situazione, ed a costituire contrappeso a questa pressione, sono intervenuti – scriveva
“L’Espresso” – i voti favorevoli socialisti e comunisti sui tribunali militari (nonché) le astensioni e gli
squagliamenti sui bilanci dell’Interno e dell’Industria”._
“Da un’ora all’altra – scriveva “L’Espresso” – i socialcomunisti si sono messi sulla via di Damasco: hanno
approvato gli emendamenti Moro sui tribunali militari; hanno reso possibile l’approvazione al senato del
bilancio dell’Interno.”_ Era stata anche approvata una legge sulle perequazioni fiscali e, un progetto di riforma
sui patti agrari, proposto dal ministro Colombo, era giunto alle soglie del dibattito parlamentare. “Voti
necessari, si affermava dalle sinistre, voti superflui si rispondeva dal centro.”_
Soprattutto, però, erano stati nominati i giudici della Corte Costituzionale. “Con la nomina dei cinque giudici
da parte del presidente della Repubblica – dichiarava “L’Espresso” – la Corte Costituzionale è al completo.
Una nuova magistratura si pone al culmine del nostro ordinamento giudiziario, a tutela dei diritti costituzionali
del cittadino (…). Magistratura competente a ripristinare la legittimità costituzionale violata dallo Stato o dalle
regioni, nelle loro leggi, nelle loro ordinanze, o nei loro atti; uno solo l’organo giudiziario chiamato a giudicare
sui conflitti di attribuzione di poteri dello Stato, o fra lo Stato e le Regioni, o fra le Regioni.”_
L’apertura a sinistra restava comunque un’ipotesi ancora lontana e anche questi cauti tentativi di volgere lo
sguardo verso i progressisti erano osteggiati. “Il governo Segni – scriveva “L’Espresso” – resta (…) nella
necessità di combattere, per sopravvivere, non tanto contro le opposizioni esterne, quanto contro le insidie
interne.”_
Il 1956 cominciava con “la proposta dell’onorevole Saragat per le elezioni anticipate”_ da associare alle
elezioni amministrative della primavera: era un tentativo, ben visto anche da altri esponenti politici, di isolare
Segni e di ritornare “ad un ministero quadripartito di tipo scelbiano che prepari le elezioni e consenta a Fanfani
di tentare un nuovo 18 aprile, con la definitiva scomparsa dei partiti laici. E’ una prospettiva tutt’altro che
incoraggiante,”_ commentava “L’Espresso”.
L’onorevole Malagodi, segretario del partito liberale, partito ormai privo di qualsiasi corrente di sinistra, dopo
la scissione avvenuta nel dicembre del ’55 dei radicali, dichiarava che “ il suo partito non avrebbe accettato la
parte di complice per un’apertura a sinistra che venisse imposta dal governo.” Era una critica che toccava “non
tanto Togliatti o Nenni per l’appoggio dato al governo per le elezioni dei giudici costituzionali e per la legge di
perequazione fiscale, ma addirittura Segni stesso, quasi accusato di avere misteriose relazioni con
l’opposizione di sinistra.”_
Dai giudizi de “L’Espresso” filtra l’impressione che il governo Segni fosse un ministero cautamente rivolto a
sinistra, capace di completare il suo programma anche senza l’appoggio della maggioranza parlamentare.
Il giudizio del settimanale romano in proposito, benché prudente, era positivo. Ben presto però l’immobilismo
sarebbe tornato a caratterizzare la politica democristiana, e le posizioni de “L’Espresso” sarebbero mutate.
In questa prima fase di pubblicazioni, “L’Espresso” dà un’immagine di sè diversa da quella che poi assumerà
nei mesi a venire. Le denuncie, i severi attacchi alla Democrazia cristiana, l’anticonfessionalismo che
caratterizzeranno pressoché tutti i numeri del settimanale in questo suo primo decennio di vita sono ancora allo
stato germinale. Non credo sia eccessivo giudicare l’inchiesta ‘Capitale corrotta = Nazione infetta’ come il
banco di prova de “L’Espresso”. “Sarebbe ingiusto – aveva scritto lo stesso direttore del settimanale dieci anni
dopo – far derivare il successo de “L’Espresso” dall’inchiesta di Cancogni e dal lunghissimo processo che ne
seguì; un giornale non trova mai il suo pubblico per un unico motivo; fatto sta che (…) “L’Espresso” mi
sembra aver iniziato le pubblicazioni proprio con l’articolo su Rebecchini. Prima avevamo proceduto a tasto,
ora ci sentivamo sulla strada sicura”._
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1. L’ALTERNATIVA SOCIALISTA
L’evoluzione del partito socialista di Pietro Nenni era uno degli elementi più importanti su cui “L’Espresso”
puntava: sin da quando si era ventilata l’ipotesi di una alternativa socialista come referente della maggioranza,
il settimanale di Benedetti e Scalfari aveva sempre cercato di seguire, indirizzare e criticare gli sviluppi del
socialismo italiano. “Fino ad allora c’eravamo lamentati del centrismo governativo”_, aveva scritto Benedetti
a proposito del clima che accompagnò la nascita del settimanale romano, e “in politica puntavamo
sull’apertura a sinistra e sull’ingresso dei socialisti nella maggioranza._ Non sarebbe eccessivo infatti definire
“L’Espresso”, almeno per quanto riguarda le pubblicazioni nell’arco temporale 1955 – 1964, organo di
opinione per liberal – socialisti.
Vediamo dunque quale era la situazione sul versante socialista alla metà degli anni Cinquanta.
“Dopo la sconfitta alle urne del 1948 – ha scritto P. Ginsborg – i socialisti vissero per anni (…) una vera e
propria ibernazione politica”._ Il patto di unità politica con i comunisti veniva rinnovato puntualmente ogni
anno, ma questa unità si concretizzava sistematicamente in una subordinazione del PSI nei confronti del PCI:
nelle cronache politiche de “L’Espresso”, Nenni veniva definito come “il brillante secondo di un uomo che non
aveva mai amato: Togliatti”._
Questa subordinazione politica non risaltava solo nella evidente “inferiorità numerica ed organizzativa del PSI
rispetto al PCI, accentuatasi particolarmente dopo la scissione di Palazzo Barberini e la nascita del PSDI, ma
anche nella mancanza di autonomia a livello strategico.”_ Il problema rimaneva quello della mancanza di
proposte alternative a quelle della predominanza comunista. L’idea di dichiarare la propria neutralità rispetto
ai due blocchi che dominavano la politica italiana non era sufficiente come alternativa, dato che “il PSI
riteneva che la lotta di classe non avesse senso in un contesto puramente nazionale e che sul piano
internazionale il solo possibile punto di riferimento fosse l’Unione Sovietica.”_ La svolta avvenne durante il
congresso che il partito socialista tenne a Torino nel 1955, durante il quale si cominciò a discutere seriamente
circa la possibilità di cambiare atteggiamento. A Torino, Nenni lanciò la strategia che avrebbe dominato la
scena politica italiana degli anni ’60, la cooperazione tra socialisti e Democrazia cristiana: “E’ necessario
affrontare e cercare di risolvere per il meglio e su un piano nuovo il problema dei nostri rapporti con le masse
cattoliche, col loro partito e le loro organizzazioni. Poiché la DC ha annunciato un programma politico –
sociale, deve avere il coraggio di fare ciò che dice. Se essa compisse questo primo passo sulla via di
impegnative realizzazioni programmatiche, il PSI darebbe il proprio appoggio alle riforme da essa propugnate,
assumendo le proprie responsabilità”._
Il programma a cui si riferiva Nenni era quello di Vanoni. Il 7 gennaio 1955 il senatore Ezio Vanoni, in una
conferenza stampa al ministero del bilancio, aveva illustrato per la prima volta all’opinione pubblica italiana il
“piano” per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione che da lui prese il nome. Lo schema prevedeva una
notevole compressione nei consumi delle categorie già occupate nel sistema produttivo, al fine di consentire un
incremento nel tenore di vita dei lavoratori disoccupati. Lo schema prevedeva anche notevoli aggravi fiscali e
una crescente iniziativa pubblica nell’economia. “Ezio Vanoni, ministro del Bilancio DC – scriveva Benedetti
nel febbraio del ’56 – non si sgomenta di ampliare le dimensioni del bilancio statale. Forma con Segni, (il
presidente del consiglio), la coppia dei grandi riformatori del dopoguerra. In questi ultimi anni, forse, ha
camminato verso sinistra un po’ più di Segni. Segni è l’uomo del centro sinistra; Vanoni appare l’uomo di un
governo democristiano volto a sinistra senz’altro, se mai si avrà un simile governo (…). Di fronte a Silvio
Gava (l’ex ministro del tesoro a cui Vanoni è succeduto per interim) la sua posizione è stata la seguente: ha
sostenuto anch’egli la necessità di ridurre il disavanzo ricorrendo, oltre che a tutte le possibili economie, a
nuove imposte. A questo riguardo, il suo pensiero è molto preciso: nell’attuale situazione economica è
possibile reperire nuove entrate mediante tributi sia diretti che indiretti; naturalmente, cercando che i primi
siano superiori ai secondi.”_
Nenni invece, secondo Nicola Adelfi, aveva commesso dal 1945 al 1955 due grossi errori: “il primo lo ha
commesso al congresso socialista di Roma nel 1947 presentando la mozione “Dal governo al potere”. Gli è
costato la scissione di Saragat che non voleva consegnare il potere ai comunisti. Ha compiuto il secondo errore
l’anno successivo, nella primavera del 1948, accettando di presentarsi alle elezioni confuso con i comunisti,
nel Blocco del popolo. Il risultato dei due errori è che nel giro di nemmeno due anni, dal giugno ’46 all’aprile
’48, i seggi del PSI a Montecitorio sono scesi da 115 a 48.”_
“Per Nenni il periodo dell’immobilismo stava finendo – ha scritto Paul Ginsborg – e anche se cosparso di
pericoli il nuovo cammino era preferibile a quello di rimanere docilmente a rimorchio dei comunisti.”_
Il 2 ottobre del ’55 “L’Espresso” dedicava l’intera prima pagina alla novità dell’autunno: il viaggio di Pietro
Nenni a Pechino via Mosca. “L’iniziativa, per Nenni, (dopo il congresso di Torino) – commentava il
settimanale di Benedetti e Scalfari – non consiste nell’ottenere che Segni o Fanfani aprano le porte a sinistra.
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Gli basta che l’idea dell’apertura trovi sempre più giustificazioni in mezzo ai trenta milioni di elettori. Visto in
questa cornice – commentava “L’Espresso” – il viaggio a Mosca e a Pechino di Nenni può considerarsi un
piccolo, ma genuino capolavoro di abilità politica a fini esclusivamente elettorali (…). Nenni corre in testa a
tutti – scriveva Nicola Adelfi su “L’Espresso” – verso la gran prova elettorale di primavera: le
amministrative”._ Dopo le elezioni politiche del 7 giugno del 1953_ gli italiani venivano nuovamente chiamati
alle urne per esprimere le loro preferenze politiche. Sandro Pertini e gli altri capi socialisti, però, avevano
sollevato alcuni dubbi circa i vantaggi che il viaggio di Nenni avrebbe potuto fruttare al partito. “Dalla Cina
possiamo avere ben poco, si disse”_: i rapporti commerciali sarebbero potuti migliorare, ma questa impresa
avrebbe comportato il riconoscimento da parte dell’Italia della Repubblica Popolare Cinese, ed una simile
mossa di politica internazionale al governo italiano non era permessa. Era fondamentale puntare tutto sulla
visita a Mosca.
Le questioni in sospeso con la Russia erano tre: “prima di tutto la restituzione degli ex prigionieri di guerra,
cosa molto difficile, in quanto il governo sovietico – dichiarava “L’Espresso” – dopo aver (…) dichiarato che
tutti i prigionieri italiani sono stati liberati non può, per fare un piacere a Nenni, dire di aver mentito. La
seconda questione riguarda l’assistenza, gli aiuti, il controllo, la guida del PCI da parte del governo di Mosca.
Anche qui, niente da fare: è una questione di carattere generale, riguarda molti paesi dell’Occidente (…). La
terza questione riguarda l’ammissione dell’Italia all’ONU, sempre contrastata dalla Russia. In via del Corso,
dunque, si trovarono tutti d’accordo : Nenni avrebbe dovuto premere con Kruscev per ottenere il patrocinio
dell’URSS all’ingresso dell’Italia nell’ONU. Incalcolabili sarebbero stati i vantaggi elettorali: il PSI avrebbe
continuato a sottrarre voti ai comunisti e ai partiti di centro – sinistra”._
Nenni dunque protagonista del 1955: le premesse erano queste e “L’Espresso” non nascondeva le proprie
speranze per un indirizzo politico come quello delineato dal leader socialista al congresso del suo partito a
Torino.
Eugenio Scalfari aveva scritto a proposito dell’onorevole repubblicano Ugo La Malfa, un commento che si
sarebbe potuto fare anche a riguardo de “L’Espresso”: “La Malfa fu, al tempo stesso, interno al capitalismo e
interno alla sinistra, nella disperata ricerca d’arrivare ad un punto di sintesi, che poi altro non era nel suo
concetto che la democrazia compiuta e operante (...). Per laicizzare le chiese d’ogni specie e colore, la
vocazione missionaria dei liberals doveva internarsi in esse, farsi voce che veniva dal loro stesso profondo e
non predicazione dall’esterno”._ Ugo La Malfa, del resto, era un personaggio molto vicino sia al gruppo de
“L’Espresso” sia a quello de “Il Mondo”, e il suo contributo affinché la DC aprisse le sue porte ai socialisti non
può essere sottovalutato. L’importanza che il partito repubblicano rivestiva per “L’Espresso” stava nella
posizione che questo piccolo partito occupava nel quadro politico italiano. “I repubblicani occupano (…) –
scriveva Telesio Malaspina in un commento molto significativo – una posizione di frontiera; da una parte sono
a contatto politico con Saragat, con la Democrazia cristiana e con la vecchia politica che nella prima e nella
seconda legislatura dette vita al quadripartito; dall’altra rappresentano il primo nodo d’una cordata che li
unisce ai radicali ed ai socialisti. Per un lungo periodo Ugo La Malfa ha sperato di poter stabilire un
collegamento fra i gruppi politici che stanno alla sua destra e quelli che stanno alla sua sinistra”. _
Diversi furono i personaggi politici che trovarono spazio sulle pagine de “L’Espresso” per dare voce a quelle
richieste di apertura nei confronti della DC affinché questo partito uscisse dall’immobilismo in cui era caduto
dopo il fallimento della “legge truffa” del 1953 e dopo la morte del suo leader carismatico De Gasperi.
Ricordiamo Riccardo Lombardi il quale, nella prima metà degli anni sessanta e soprattutto quando Scalfari
diventò direttore del settimanale, era considerato un punto di riferimento dai “ragazzi” di via Po: era l’uomo
che rappresentava “allo stesso tempo l’autonomismo socialista congiunto (…) a un rigore intellettuale e morale
che si ritrovavano in minor misura nel “correntone” nenniano, un po’ populista e un po’ pasticcione”;_
Ricordiamo anche Bruno Visentini, tra i fondatori del P.d’A. e coautore con Ezio Vanoni, del quale fu
sottosegretario, del primo esperimento di riforma fiscale, e naturalmente Ugo La Malfa. Si trattava di
collaborazioni particolarmente significative che trovavano giustificazione nell’idea di una maggioranza
governativa aperta ai socialisti. “L’Espresso” entrava così a far parte del coro di voci che reclamava
l’attuazione in Italia di una democrazia compiuta.
L’ipotesi espressa da Nenni al congresso di Torino non poteva quindi lasciare indifferente il gruppo di
intellettuali, scrittori e giornalisti che ruotava intorno a “L’Espresso”: fin dalla sua nascita, la rivista di
Benedetti e Scalfari seguì le mosse di Nenni, sottolineandone gli errori, seguendo il suo cammino e cercando a
volte di indirizzarlo.
“In questa fase della vita del paese – ha scritto Silvio Lanaro – l’azione socialista è diretta a creare
un’alternativa politica e di governo, e non esclude, anzi ricerca e sollecita, l’intesa con le forze laiche e
cattoliche che abbiano comuni obiettivi democratici (…). Ma nella storia di quella specie di fabbrica di San
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Pietro che è “l’incontro storico” fra cattolici e socialisti, è ora la DC a temporeggiare e a eccepire. A lume di
logica la spaccatura a sinistra dovrebbe diradare i suoi timori, e invece accade il contrario: caduta la diffidenza
verso un PSI succube di Mosca, la destra dello scudo crociato indurisce la sua opposizione, svelando
finalmente come una rispettabile preoccupazione relativa alle scelte di campo funga da alibi per una tetragona
indisponibilità alle proposte programmatiche del PSI.”_
“L’Espresso” fece quindi il suo esordio nel mondo giornalistico nel periodo forse più indicato per dare alla
politica quell’appoggio per un orientamento che i tempi ormai richiedevano, ma che la DC non era ancora
pronta a seguire. Il giornale si proponeva come sostegno per il dialogo tra cattolici e socialisti, un sostegno per
la classe dirigente in generale ma che allo stesso tempo non indulgesse ai suoi vizi tradizionali, alle sue
abitudini comode, stimolandola invece, contraddicendola, magari qualche volta facendola soffrire.
2. FINE DEL QUADRIPARTITO
Gli slanci di ottimismo con cui “L’Espresso” aveva seguito i primi mesi del governo Segni si erano ben presto
smorzati. Il settimanale di Benedetti e Scalfari non sottovalutava i passi positivi che questo governo aveva fatto
per portare a termine il suo programma, ma prendeva anche atto che dal momento in cui erano stati nominati i
cinque giudici della Corte Costituzionale di competenza parlamentare ed era stata approvata la legge di
perequazione fiscale, il governo retto dall’onorevole sardo non aveva più dato segni di vita. “L’ultima
manifestazione di vitalità del governo Segni si è avuta (…) con l’approvazione della legge sull’accertamento
fiscale”. Di diverso rispetto al governo Scelba, “L’Espresso” riconosceva ora a Segni, solo “una nuova
spregiudicatezza, il coraggio di andare avanti per la sua strada, di rifiutare che la realizzazione del suo
programma venisse subordinata alle contraddizioni e alle incertezze degli uomini (...). Man mano che si
avvicinavano le elezioni (amministrative della primavera del 1956, però), si restringeva la sua libertà di
manovra”._
Dopo la morte di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani aveva assunto, nell’estate del 1954, la segreteria della
Democrazia Cristiana.
Le elezioni amministrative del 27 maggio 1956 sarebbero state per la DC la prima prova elettorale dopo le
vicissitudini del 7 giugno del 1953. Dopo due anni di nuova dirigenza le tattiche, le strategie politiche del
partito cattolico non erano cambiate – giudicava “L’Espresso” – nonostante le circostanze lo richiedessero. “Il
degasperismo – scriveva il settimanale romano – era già anacronistico quando morì il suo creatore (…) e
l’evoluzione del PSI e le conclusioni del congresso sovietico hanno posto in termini nuovi il problema dei
rapporti con i partiti di sinistra. Fanfani è rimasto al mito della maggioranza e alla politica del ricatto
politico.”_
Tra le altre cose era giunta anche una novità ad alimentare il dibattito politico: la ripresa di contatti tra la
socialdemocrazia e il partito socialista di Nenni. In un saggio pubblicato su l’ “Avanti!”, e approvato
dall’intera direzione del PSI, Nenni commentava il “nuovo corso” del comunismo sovietico dopo che Kruscev,
durante il XX congresso del PCUS, aveva dato via al processo di revisione della politica staliniana. Le
considerazioni di Pietro Nenni sul processo di destalinizzazione in URSS si tramutavano in una revisione
critica di 40 anni di movimento proletario internazionale. “Non è un’analisi, più o meno vasta, degli errori di
Stalin, scriveva “L’Espresso”. Nenni non ha esitato ad addossare al leninismo dei socialcomunisti italiani
anche una buona parte di responsabilità nell’avvento del fascismo.”_ La cosa importante da sottolineare è che
“L’Espresso” intuiva come Nenni cominciasse così quel processo di allontanamento dal PCI che sarebbe
diventato definitivo dopo i fatti di Polonia e di Ungheria. Era un passo decisivo per l’avvicinamento del PSI
alla socialdemocrazia, nonché un ulteriore segno di apertura verso il partito di maggioranza. “Se le parole
hanno un senso, e se il senso delle parole non verrà smentito dai fatti – scriveva “L’Espresso” – è chiaro (…)
che ci troviamo di fronte ad una svolta decisiva (…). Viene a cadere, o perde molta importanza, la sola riserva
vera che impediva la riunificazione socialista”._
Intanto il 27 maggio si erano tenute le consultazioni elettorali per le diverse amministrazioni italiane: le attese
erano tante e l’esito doveva dare risposta a molti punti oscuri. Innanzitutto ci si chiedeva come avrebbe
risposto l’elettorato alla mancanza di iniziativa politica della DC dopo la morte di De Gasperi; quali sarebbero
state le conseguenze per il PCI all’indomani del processo a Stalin; “quali e quanti sarebbero stati i guadagni
della politica nenniana dell’apertura a sinistra e della maggiore autonomia del PSI rispetto ai comunisti”_.
La DC è stanca, commentava “L’Espresso”. “La prima constatazione da fare è che il semplice attivismo
organizzativo non è sufficiente a dar vigore a un partito che da anni si è adattato a vivere sul rinvio, sul
compromesso, sull’interclassismo buono per tutti gli usi e per tutti gli interessi.”_
I comunisti, d’altro canto, anche se non avevano registrato delle perdite gravissime, “avevano subito una
flessione abbastanza sensibile, tra l’8 e il 10 %. Erano però delle perdite significative per un partito che in dieci
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anni aveva migliorato senza soste le sue posizioni.”_ Il vero vincitore delle amministrative del ’56 era stato
Nenni, che da “L’Espresso” veniva considerato come la spina nel fianco di Togliatti. “Questi progressi –
commentava il settimanale di Benedetti – sono stati ottenuti su una piattaforma abbastanza chiara, nonostante
le abilità dialettiche con cui lo stesso Nenni ha tentato di sfumarla: quella dell’autonomia socialista e della
protesta laica contro la pressione clericale.” _
Il partito di maggioranza ne risultava nel complesso ancora più imbarazzato nel determinare le sue scelte
politiche per il futuro. Le conclusioni dell’esito elettorale erano un rafforzamento del quadripartito dal punto di
vista numerico, ma una sconfitta elettorale da quello politico. Le alternative prospettate da “L’Espresso” erano:
“o il monocolore appoggiato inevitabilmente a destra, o un governo minoritario della DC con la
socialdemocrazia e le forze laiche , che metta Nenni alla prova e gli consenta il suo tirocinio di opposizione
costituzionale. L’altra soluzione (monocolore pendolare con la convenienza socialista) rappresenterebbe
l’arresto di ogni possibilità di ogni sviluppo democratico e laico”._ Dopo il successo ottenuto il 27 maggio
dalla socialdemocrazia, “L’Espresso” giudicava spettasse “all’onorevole Saragat decidere se (il governo
Segni) debba continuare ad essere una specie di governo provvisorio in attesa di un ambiguo monocolore, o se
debba diventare invece il governo rispondente alla situazione politica del paese, così come era risultato dalle
elezioni amministrative. Riuscirà – si chiedeva Benedetti – la sommessa tenacia del presidente del consiglio ad
avere ragione della sfiducia sulla validità del quadripartito che sta ormai pervadendo anche i centristi più
accaniti (…)? E’ venuto il momento di non più mormorare – affermava il direttore del settimanale romano –
ma di chiedere ad alta voce il rispetto dei patti e l’attuazione dei programmi concordati. E’ venuto il momento
di andarsene sbattendo la porta, se patti e programmi saranno sistematicamente traditi”._
Era un chiaro invito de “L’Espresso” rivolto ai socialdemocratici affinché votassero una mozione di sfiducia al
governo Segni che oramai non dava più alcuna prova di vitalità. “Nessun progresso – continuava il settimanale
– è stato fatto per modificare le strutture economiche del paese, gli squilibri regionali, l’ingiustizia nella
ripartizione del reddito (...). I liberali d’altra parte non potranno resistere a lungo in una posizione che sfugge
giorno per giorno dalle loro mani”._ I socialdemocratici sembravano decisi a rinviare la crisi di governo fino a
quando il PSI non avesse svolto il suo congresso: quella dell’attesa sembrava la strategia migliore. Il
quadripartito ormai era morto politicamente e malgrado questa generale consapevolezza, nessuno aveva il
coraggio di assumersi la responsabilità di una crisi di governo. Un nuovo governo, dopo i risultati elettorali del
27 giugno, non sarebbe più potuto essere un ulteriore quadripartito. Le circostanze richiedevano che si aprisse
ai socialisti, ma il partito cattolico diventava ogni giorno di più strumento nelle mani del Vaticano e una simile
alternativa non era ancora contemplata dalle alte gerarchie ecclesiastiche. Questo veniva considerato da
“L’Espresso” uno dei principali deterrenti per l’apertura a sinistra e di conseguenza uno degli elementi contro
cui maggiormente concentrare i propri attacchi. Le interferenze vaticane nella vita politica italiana scatenarono
nel settimanale di Benedetti e Scalfari un anticonfessionalismo moderno, mirante al raggiungimento in Italia di
uno sviluppo della società in senso democratico e laico. “Uno dei principali ostacoli all’apertura di un dialogo
con i socialisti – ha scritto Massimo Legnani – continua ad essere rappresentato dalle direttive vaticane. La
destra, interna ed esterna alla DC, trae la propria forza, oltre che dai legami col fronte padronale, da questa
intransigente opposizione delle gerarchie ecclesiastiche.”_
“Il motore della vita nazionale – scriveva Arrigo Benedetti su “L’Espresso” – si è spostato dal Viminale (…) al
Vaticano (…). Il peso che la città del Vaticano ha nella vita pubblica si spiega solo con il graduale trasformarsi
della DC da partito italiano a partito pontificio. Ormai, l’Italia si avvia di nuovo ad essere diarchia: ieri
dovemmo sopportare la diarchia di Vittorio Emanuele e di Mussolini, oggi rischiamo di trovarci la diarchia
Quirinale – Vaticano. Segni ha rappresentato un elemento di resistenza in questa pericolosa evoluzione (…).
Nella DC, però, è un isolato, come lo fu Ezio Vanoni, come lo è Gronchi, il quale oggi è in grado di avere
un’influenza sul paese attraverso la presidenza della repubblica, mentre difficilmente ne avrebbe avuta
attraverso il partito”._
Intanto, nell’autunno del ’56 era sopravvenuta la brutale aggressione dell’URSS nei confronti dell’Ungheria
che rivendicava il diritto di scegliere in piena libertà le sue istituzioni. “Perfettamente in linea con la più nobile
tradizione del socialismo italiano – aveva commentato “L’Espresso” – il PSI ha reagito ai fatti di Ungheria allo
stesso modo di come hanno reagito tutte le forze democratiche del paese: condannando solennemente e senza
attenuanti l’ (…) aggressione sovietica.”_ Il distacco dal frontismo diventava sempre più nitido e risolutivo.
Ormai non vi erano più argomenti “per ostacolare la confluenza di tutte le forze socialiste e democratiche.
Questo risultato – che “L’Espresso” aveva sempre auspicato e per il quale si era adoperato sin dal primo
numero – era di importanza essenziale per il futuro sviluppo della lotta politica in Italia, per un migliore
equilibrio delle forze, per consentire nell’ordine e nella libertà quella politica di profonde riforme economiche
e sociali che altrimenti sarebbe vano attendersi.” _ La condanna dei fatti d’Ungheria da parte dei socialisti
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rappresentava dunque per “L’Espresso” un’ulteriore conferma alla volontà del partito di Nenni di porre
irrevocabilmente fine alla politica frontista.
Il congresso democristiano di Trento dell’ottobre 1956, però, aveva “imbastito” un gioco che prevedeva: “crisi
(…del) governo (Segni), formazione di un monocolore con l’appoggio delle destre, instaurazione di un clima
da caccia alle streghe (…per) consentire alla DC la conquista di un nuovo 18 aprile.”_ Tra i dirigenti della DC
la crisi era cercata con ogni mezzo e a qualunque costo.
Con la nomina di Giuseppe Togni al nuovo dicastero delle partecipazioni statali, imposta dal segretario della
DC Fanfani, veniva sferrato un duro colpo alla maggioranza di governo. La nomina era stata immediata ed era
avvenuta senza consultazione dei partiti alleati. Questa mossa – dichiarava “L’Espresso” – comportava una
sfida ai socialdemocratici: se avessero accettato questa umiliazione “si sarebbe avuta una nuova conferma
della loro posizione subordinata e un nuovo ostacolo sarebbe stato frapposto all’unificazione socialista. Se non
avessero accettato allora sarebbe stata la crisi.”_ L’obiettivo che la Democrazia cristiana avrebbe dovuto
perseguire non era, per “L’Espresso”, una semplice maggioranza governativa aperta ai socialisti, quanto
piuttosto l’attuazione di una politica di riforme sociali raggiungibile con l’ausilio del partito di Pietro Nenni.
Dalle cronache politiche del settimanale, infatti, si evinceva spesso il timore di un’apertura a sinistra che
trasformasse i socialisti in epigoni dei socialdemocratici. La maggioranza, del resto, era diventata abbastanza
precaria dopo la rinuncia dell’appoggio repubblicano a trovare un compromesso sulla questione dei patti
agrari. “Con la decisione presa domenica (…) dal PRI di abbandonare la maggioranza governativa – scriveva
“L’Espresso” – finisce un sistema di alleanze che durava da un decennio”._
La situazione in realtà sarebbe rimasta nell’immobilismo fino alla primavera del 1957, quando la decisione di
Saragat di uscire dal governo avrebbe clamorosamente concluso il processo di dissoluzione della formula
quadripartita.
“La formula di governo, che aveva retto il paese per quasi dieci anni – scriveva l’on. Ugo La Malfa su
“L’Espresso” – era stata una formula di emergenza, per contenere la pressione del fronte popolare da una parte,
la pressione delle forze monarchiche e missine dall’altra. Ora queste minacce si erano andate affievolendo nel
tempo (…). A partire dal 1956 il PCI era stato colpito dai riflessi della destalinizzazione e dai fatti di Polonia e
di Ungheria. Non solo esso vedeva il PSI accentuare il suo distacco, ma la crisi penetrava nella sua stessa
struttura attraverso le dimissioni di molti intellettuali e le posizioni critiche di alcuni uomini eminenti del
partito. Parallelamente a questo affievolimento del partito comunista, si sviluppava, sia pure gradualmente e
faticosamente, l’azione autonoma del PSI. Dal fronte popolare del 1948, esso passava all’alternativa socialista
(…). Adesso è giunto il momento – dichiarava La Malfa – per tutte le forze politiche laiche, ma soprattutto per
il PSI, di entrare nel pieno delle proprie responsabilità. Quando l’on. Nenni ha chiesto la fine del centrismo
contro la fine del frontismo, interpretava uno stato d’animo diffuso, che se è di avversione ideologica al
comunismo, è anche di insofferenza verso il dilagare dell’azione democratico – cristiana nel paese. Attraverso
l’iniziativa dei repubblicani, dei radicali, della socialdemocrazia, il centrismo, ossia il quadripartito, è morto
come fatto politico. Bisogna che muoia del tutto e definitivamente il frontismo (…). Bisogna che prima delle
elezioni il popolo italiano sappia che cosa i partiti laici, compreso il PSI, intendano sostituire alla formula
quadripartita che ha retto, con i suoi aspetti positivi, e i suoi errori e le sue degenerazioni, la vita politica del
nostro paese per quasi dieci anni. Non basta distruggere: bisogna, in questo non lungo spazio di tempo,
ricostruire. E ricostruire in maniera che l’opinione pubblica si senta avviata verso le vie sicure e stabili della
libertà, della democrazia, e del progresso economico e sociale.”_
Quella di Ugo La Malfa era una voce particolarmente vicina al gruppo de “L’Espresso”, una voce nel coro
della sinistra laica – di cui anche il settimanale romano faceva parte – il cui fine era l’ingresso dei socialisti
nella maggioranza di governo per una politica di riforme sociali. “L’Espresso”così, anche attraverso voci
autorevoli, riconfermava il proprio sostegno al dialogo tra cattolici e socialisti, esprimendo il proprio appoggio
all’ipotesi di alternativa democratica.
3. ZOLI E LA CONFERENZA EPISCOPALE
La crisi che si era aperta il pomeriggio del 6 maggio del ’57, poneva definitivamente fine ad un governo che
“L’Espresso” giudicava avesse abbandonato l’iniziativa politica e si fosse ridotto all’ordinaria
amministrazione. “Approfittando dei contrasti fra socialdemocratici e liberali sulla legge di riforma dei patti
agrari – ha scritto Silvio Lanaro – nel maggio del 1957 Fanfani e i suoi amici costringono Segni ad
abbandonare il campo: le elezioni del nuovo parlamento sono ormai prossime – argomentano – e la Dc deve
affrontarle alzando la bandiera del centrosinistra.”_
“L’Espresso” sosteneva “la necessità di un chiarimento politico che ponesse termine ad una formula di
governo ormai vuota di contenuto, al riparo della quale la pressione dell’integralismo cattolico era aumentata
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al punto da sfiorare la creazione di un vero e proprio regime, mentre ogni slancio di rinnovamento morale,
sociale ed economico era stato soffocato e spento dalla resistenza dura e opaca degli interessi di piccoli gruppi
privilegiati”. _
La crisi di governo in realtà riapriva anche delle ferite interne allo stesso partito di maggioranza, lacerazioni
che non si erano mai rimarginate. “Ci sono due gruppi, nella DC – scriveva il settimanale romano – in
asprissima lotta tra loro: c’è il gruppo dei notabili, uomini in gran parte già in vista ai tempi del partito
popolare, come Gronchi, o che comunque fecero le loro prove nell’antifascismo militante come Gonella (…);
l’altro gruppo è quello degli uomini nuovi: i fanfaniani.”_ Al congresso di Napoli del 1954, quando Fanfani
aveva assunto la segreteria del partito, il primo gruppo era passato in minoranza, anche se era riuscito a
prendersi una rivincita con l’ingresso di Gronchi al Quirinale. Il gruppo dei fanfaniani rappresentava invece
“una classe politica più moderna, che esaltava i valori dell’attivismo organizzativo e che restava molto più
indifferente ai problemi di schieramento politico.”_ La Democrazia cristiana era nelle mani dei fanfaniani e il
congresso di Trento che si era tenuto nel 1956 lo aveva confermato. Essi puntavano ad un nuovo 18 aprile; ma
– dato che non c’erano più i presupposti perché quel plebiscito si potesse ripetere – essi puntavano su un
governo centrista e pendolare. “Essi – dichiarava “L’Espresso” – vogliono un governo di ordinaria
amministrazione”._
Il monocolore Zoli, che seguì il ministero Segni, fu volto su posizioni prive di impegno politico: Fanfani aveva
circoscritto le funzioni e le qualità specifiche del nuovo governo. Il segretario della Democrazia cristiana –
scriveva “L’Espresso” – “ha delimitato i compiti e le caratteristiche del monocolore, è lui che ha suggerito al
nuovo presidente del Consiglio che cosa dovrà dire e che cosa dovrà tacere, da che parte dovrà rivolgersi per
ottenere gli appoggi che gli mancano al raggiungimento della maggioranza”._ A questo proposito Silvio
Lanaro ha scritto: “Fanfani sa bene che (…) il grosso del partito avversa l’apertura a sinistra per la quale
personalmente si batte, ed escogita una delle manovre bizantine in cui è maestro indiscusso. Dopo la caduta del
governo Segni, e con le elezioni alle porte, si inventa la distinzione fra apertura “sociale” e apertura “politica”
contrattando sotterraneamente un monocolore che ottenga l’appoggio dei monarchici – ma non dipenda per
raggiungere la maggioranza dal voto determinante del MSI – suggerendogli contemporaneamente di
comportarsi in modo gradito ai socialisti. Nasce così il ministero presieduto da Adone Zoli (7 giugno 1957).”_
Nel suo discorso di presentazione alle Camere il senatore Zoli era stato attento a non scoprirsi, in modo da
ottenere nello stesso tempo supporti a destra e a sinistra, “per poter proseguire nell’opera di assorbimento
graduale dell’elettorato conservatore senza perdere il contatto con le masse lavoratrici e cattoliche”._ Zoli
aveva avuto la fiducia dei monarchici e dei missini, ma sperava di far passare il suo programma, basato sullo
“sganciamento delle aziende IRI dalla Confindustria, (sull’) attuazione dell’ordinamento regionale e (sulla)
libertà del Parlamento di votare la giusta causa permanente nei contratti agrari senza che il governo ponesse la
questione della fiducia, coi voti dei socialisti e dei repubblicani”._ Questo secondo tempo – aveva commentato
“L’Espresso” – “rappresenta la purificazione del primo”._
Fanfani aveva tatticamente definito l’alleanza con la destra come un passaggio del tutto occasionale che non
avrebbe influenzato la politica del partito; Zoli aveva parlato di “contatto di tangenza”. “Il ministero Zoli –
commentava il settimanale romano – era partito male fin dall’inizio, puntando sull’espediente piuttosto misero
di ottenere l’appoggio simultaneo dei monarchici e dei socialisti.”_ Simultaneamente Fanfani lasciava
“intravedere in un imprecisato futuro la possibilità di un dialogo coi socialisti, quale soluzione per un solido
sviluppo della democrazia in Italia”._ Al consiglio nazionale della Democrazia cristiana a Vallombrosa,
Fanfani era stato costretto a riconoscere il carattere decisamente democratico del Partito Socialista Italiano,
“contro il quale non è più possibile stendere un cordone sanitario per isolarlo nel reparto degli intoccabili.”_
La DC però non era un partito completamento autonomo: restava il veto delle alte gerarchie ecclesiastiche
vaticane ad una apertura a sinistra. In questo periodo la dipendenza della Democrazia cristiana dalle gerarchie
ecclesiastiche sarebbe stata notevole.
Lo dimostrava l’atteggiamento assunto, secondo “L’Espresso”, dal partito di maggioranza nei confronti della
vicenda dei due sposi di Prato. La mattina del 12 agosto del 1956, il parroco di Santa Maria del Soccorso don
Danilo Aiazzi aveva letto dall’altare una lettera del vescovo della sua diocesi, monsignor Fiordelli. Il
messaggio riguardava due giovani sposi, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, i quali venivano definiti
“pubblici concubini” per aver contratto matrimonio civile. Gli sposi avevano querelato il vescovo di Prato,
monsignor Piero Fiordelli, e il parroco don Aiazzi. A ciò si aggiungevano degli interventi polemici del ministro
delle finanze Giulio Andreotti che, nel dicembre del ’57, “aveva pubblicamente censurato l’opera della sezione
istruttoria del Tribunale di Firenze per il rinvio a giudizio del vescovo di Prato”._ Secondo il capo del governo
solo il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia “sarebbero tenuti a non interferire nell’operato
della magistratura, mentre a tutti gli altri componenti del ministero sarebbe consentita la più ampia libertà di
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parola, di pressione, di critica, nei confronti del potere giudiziario”._ Di conseguenza gli interventi polemici
del ministro Andreotti, invece di avere come effetto le dimissioni immediate del medesimo, avevano prodotto
un elogio da parte di Zoli. “Lo Stato italiano – commentava “L’Espresso” in proposito – è oggi in ginocchio
davanti al potere ecclesiastico, dal quale riceve ispirazione, suggerimenti e addirittura istruzioni vincolanti.”_
L’11 giugno del 1957 “L’Osservatore Romano” pubblicava una nota con cui confermava il veto alla
collaborazione tra cattolici e socialisti. Il veto era stato posto da monsignor Mario Ismaele Castellano,
segretario dell’alta commissione per il governo dell’Azione Cattolica e monsignor Angelo Dell’Acqua,
sostituto segretario di Stato. “L’insegnamento della Chiesa è chiaro, dichiarava l’organo ufficiale della Santa
Sede. Per non richiamarsi alla “Rerum Novarum” di Leone XIII, l’Enciclica “Quadragesimo Anno” di Pio XI,
dopo aver ribadito le precedenti condanne del comunismo, spiega chiaramente i motivi per i quali, anche
distaccato dal comunismo, il socialismo, sia considerato come dottrina, sia come azione, se resta veramente
socialismo non può conciliarsi con gli insegnamenti della Chiesa cattolica.” _
“L’Espresso” commentava: “Al presidente del Consiglio resterà tra poco la sola funzione di capo del braccio
secolare”._
Di lì a poco “L’Osservatore Romano” avrebbe riproposto un ritorno al centrismo degasperiano da attuare dopo
le elezioni politiche che si sarebbero tenute nella primavera del ’58. “È un tema assai gradito alla grande
stampa fiancheggiatrice, scriveva “L’Espresso.” Infatti Il “Corriere della Sera”, “Il Resto del Carlino” e il
“Messaggero” l’hanno ampiamente ripreso.”_
Quello che però infuocò le opposizioni laiche fu una dichiarazione emessa dalla Conferenza Episcopale
Italiana: “Gli Eminentissimi ed Eccellentissimi Ordinari d’Italia, ben consapevoli delle loro gravi
responsabilità, confermano, in occasione delle prossime elezioni, le norme direttive già date per analoghe
contingenze.
In particolare ricordano al Clero e ai fedeli il loro impegno di fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa, e quindi il grave
obbligo:
- di votare;
- di esercitare il diritto di voto in conformità ai princìpi della Religione Cattolica ed ai decreti della Chiesa e per
il pieno rispetto del suo giusto diritto;
- di essere uniti nel voto per costituire un valido argine ai gravissimi pericoli che tuttora gravano sulla vita
cristiana nel Paese.
Tutti i parroci renderanno noto il presente comunicato nei modi che verranno stabiliti dagli Eminentissimi ed
Eccellentissimi Ordinari.”_ L’ingresso de “L’Espresso” nel campo dell’informazione era stato motivato in
primo luogo dalla volontà di porre fine alla politica centrista democristiana e al suo conseguente immobilismo,
per cui tutti i freni che venivano posti dalle alte gerarchie ecclesiastiche, alla già pur debole politica di apertura
a sinistra del partito di maggioranza relativa, scatenavano nel settimanale violenti attacchi anticlericali. Questo
tipo di anticlericalismo sarà, del resto, la linfa de “L’Espresso” negli anni che vanno dalla crisi del centrismo
alla formazione del primo governo di centro – sinistra, una linfa che darà vita e colore alle ampie pagine del
settimanale di Benedetti e Scalfari.
4. STATO E CHIESA ALLA VIGILIA DELLE ELEZIONI
“Alla vigilia delle elezioni del 1958 – ha scritto Pietro Scoppola – quasi al termine ormai del pontificato di Pio
XII, vediamo ancora la conferenza episcopale italiana enunciare in questi termini le istanze della coscienza
cattolica in materia elettorale: “I programmi elettorali devono affermare la piena sufficienza della dottrina
cattolica per la soluzione dei problemi sociali, escludendo ogni invocata o riconosciuta necessità di
integrazione da parte di dottrine marxiste o comunque estranee al pensiero cristiano.”_
Il 7 marzo del 1958 si discuteva alla Camera un’interpellanza relativa ai rapporti tra Stato e Chiesa “sulle
crescenti interferenze del potere ecclesiastico negli affari italiani.”_ Quel giorno il ministro degli Interni
Ferdinando Tambroni aveva pronunciato a nome del governo un discorso che “L’Espresso” aveva definito “di
una gravità senza precedenti (…): Il Concordato all’articolo 43 – aveva detto Tambroni – fa obbligo all’Azione
Cattolica, alle associazioni da essa dipendenti e a tutti i sacerdoti italiani di svolgere la loro attività al di fuori di
ogni partito politico. Questo comando deve essere inteso in senso restrittivo e letterale. Esso cioè non vieta
all’Azione Cattolica e ai sacerdoti di occuparsi di politica e di intervenire in questioni temporali. Purché tali
attività si estrinsechi al di fuori dei partiti essa è legittima ed anzi è garantita dalla Costituzione, che assicura a
tutti, cittadini e associazioni, la più completa libertà d’espressione e d’opinione. Pertanto tutte le pretese
interferenze ecclesiastiche lamentate dai partiti laici non esistono. Esiste soltanto un legittimo intervento
politico da parte delle organizzazioni cattoliche e del clero nell’esercizio dei diritti della Chiesa, società
primaria e sovrana.”_
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Mario Pannunzio e Oronzo Reale, in rappresentanza dei partiti radicale e repubblicano, avevano chiesto al
senatore Zoli che il governo certificasse che i vescovi, invitando i cattolici italiani a concentrare i voti sulla
Democrazia cristiana, avessero violato gli articoli 20 e 43 del Concordato, l’articolo 7 della Costituzione e
l’articolo 98 della legge elettorale. Zoli – riportava “L’Espresso” – si era lasciato “sfuggire il vero e solo
argomento serio: ‘Come volete che la Chiesa non intervenga con tutti i mezzi di cui dispone, di fronte alla
campagna laica che è in corso nel paese’?”_ Il presidente del Consiglio Zoli, commentava “L’Espresso”,
“ritiene che l’esistenza di un movimento laico nel paese giustifichi la violazione di patti solenni e di norme
costituzionali. Si può capire che questo sia il punto di vista del segretario del Santo Uffizio o del presidente
dell’Azione Cattolica; non si comprende come possa essere il punto di vista del capo del governo italiano.”_
Negli ultimi giorni che precedevano le consultazioni elettorali, scriveva Arrigo Benedetti, “clero, sottogoverno
e radio – TV hanno abbandonato ogni pudore (…). La RAI – TV (…) ormai non si perita di sceneggiare i suoi
notiziari in modo che ne risulti un duello tra la DC e il PCI. Agli altri partiti la parte dell’interlocutore non
richiesto. Significa poco che Oronzo Reale e Mario Pannunzio si siano recati da Zoli con una solenne protesta.
La radio e la TV non solo non ne hanno fatto oggetto d’una discussione come sarebbe avvenuto in qualsiasi
paese civile, ma non ne hanno dato notizia.”_
Lamentele contro la faziosità della RAI – TV venivano sovente mosse dal settimanale di Benedetti, lamentele
che rientravano nella battaglia per una informazione indipendente. Sin dal primo numero de “L’Espresso” si
rivendicavano queste prese di posizione; nel numero de “L’Espresso” del 2 ottobre 1955, in un editoriale in
prima pagina, si leggeva: “I promotori di questo giornale ritengono che l’assoluta indipendenza della stampa
sia il fondamento più solido del regime democratico”._
La battaglia condotta da “L’Espresso” per una trasformazione della società italiana in senso moderno era
motivata anche dalla profonda avversione del settimanale nei confronti della visione manichea della politica
italiana: la divisione del quadro politico italiano in due blocchi contrapposti rappresentava fondamentalmente
il motivo di successo dei due più grandi partiti di massa, quello democristiano e quello comunista.
“L’Espresso” si opponeva dunque a questo manicheismo in favore di una alternativa democratica che desse
voce e spazio anche alle altre realtà politiche italiane.
5. LE ELEZIONI DEL ‘58
Il 25 maggio del 1958 i circa trenta milioni di elettori italiani si erano recati alle urne e non erano mancate le
sorprese elettorali. “Il fatto più importante e positivo è stato la netta affermazione dl partito socialista italiano,
il quale ha guadagnato 800.000 voti e 9 seggi a Montecitorio.”_ La Democrazia cristiana aveva guadagnato,
rispetto alle politiche del 1953, un 2,2% grazie ad un “travaso di suffragi dalla destra verso le liste dello scudo
crociato”._ Il PCI era rimasto fondamentalmente stabile; la DC si aspettava un regresso del partito comunista,
ma, dichiarava “L’Espresso”, “non si comprende come i comunisti potessero diminuire in un paese in cui,
dopo dieci anni di governo democristiano, i problemi della miseria, della disoccupazione, dei privilegi,
permangano tuttora insoluti se non addirittura aggravati.”_
I due vincitori del confronto elettorale rimanevano comunque il segretario della DC Amintore Fanfani e il
segretario del PSI Pietro Nenni. “Se in Italia la DC fosse un partito di tipo europeo – scriveva “L’Espresso”
dopo le consultazioni elettorali – e non dovesse sottostare alle preclusioni della gerarchia ecclesiastica e alle
ipoteche della destra economica, non c’è dubbio che le conseguenze di questa consultazione elettorale
avrebbero un solo risultato possibile: una maggioranza democristiana – socialista che governasse il paese nei
cinque anni della terza legislatura, con l’opposizione a destra dei conservatori e a sinistra dei comunisti.”_
Intanto si cominciava a discutere di quale sarebbe stato il governo della terza legislatura: di fronte all’ipotesi di
un governo Fanfani – Saragat – Pacciardi, “L’Espresso” opponeva in prima pagina un ‘Governo no’ a caratteri
cubitali. Benedetti motivava questo enorme no dicendo che non esisteva in Italia un problema di governo,
bensì un problema di chiarezza politica. “Nessuno può negare che la DC abbia vinto le elezioni col sopruso
spirituale. Si è separata dalla nazione per conquistare un misero 2,2%: sconti il sopruso – diceva il direttore del
settimanale romano – con l’isolamento. Fanfani constati quant’è sterile vendere l’anima al diavolo per
conquistare meno di 1.800.000 voti.”_ L’elettorato di Fanfani – dichiarava Benedetti – era costituito solo in
parte da vere coscienze politiche che avevano espresso un rispettabile ideale politico: “Ai voti dei cittadini
pavidi che continuano a votare DC per paura del comunismo si sono aggiunti alcuni milioni d’altri cittadini
dominati dalla paura perché ricattati dal confessore. È sconcertante lo spettacolo della DC che ora si rivolge al
centrosinistra per invocare la solidarietà democratica. Gli onorevoli Fanfani ed Andreotti domandano agli
onorevoli Saragat e Pacciardi una collaborazione a nostro giudizio impossibile. Un governo di centrosinistra,
infatti, permetterebbe alla DC di temporeggiare per qualche anno, allo scopo di poter assorbire completamente
la destra. La DC sa che mentre i partiti di centrosinistra vengono logorati stando al governo, i partiti di destra
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non resistono all’opposizione. È un calcolo elementare. Gli onorevoli Saragat e Pacciardi, quindi, non cedano
a chi invoca il loro civismo per dare un governo al paese. Oggi, ripetiamo, ciò che importa non è il governo ma
la chiarezza delle rispettive posizioni politiche: solo così si può arrestare l’aumento dell’elettorato
democristiano e l’avvento di una dittatura. L’isolamento della DC è necessario. Si giovi essa dei mezzi che il
potere le dà, ricorra fin che vuole al ricatto materiale, che gli intrighi del sottogoverno possono permettere;
insista pure nel terrorismo spirituale. La pacificazione ora non è possibile. Perché lo diventi occorre che le
supreme magistrature dello Stato (presidenza della Repubblica, presidenze del Senato e della Camera, Corte
Costituzionale) esprimano un giudizio sui metodi impiegati dal governo per vincere (…). Un governo Fanfani
– Saragat – Pacciardi contraddirebbe il voto del 25 maggio. Un governo Fanfani orientato a sinistra e disposto
ad accettare i voti socialisti sottobanco sarebbe favorevole alla DC (…): se Fanfani non può accettare
apertamente la collaborazione dell’on. Nenni, dando tutte le garanzie e tutti i pegni che di tale governo
dovrebbero essere la premessa, si rivolga pure a Lauro, a Covelli, a Michelini_ (…). In questo momento si
operi per far si che la DC, isolata nel paese, sia costretta a riconoscere che la vittoria del 25 maggio, ottenuta
attraverso gli intrighi del sottogoverno, il sopruso confessionale e la vergognosa sopraffazione radiofonica, è
un frutto avvelenato. Soltanto isolando il partito che ha peccato contro lo spirito, sarà possibile in avvenire un
nuovo respiro alla democrazia italiana (…). Continueremo a combattere contro la destra economica, assetata di
privilegi politici ed economici. Continueremo a sostenere il peso della difesa laica. Sono compiti che
accettammo nell’autunno del ’55, quando “L’Espresso” cominciò le pubblicazioni. Restano immutati.”_ Lotta
contro il confessionalismo dilagante e lo strapotere dei potentati economici, due temi su cui “L’Espresso”, in
questi anni caratterizzati dall’attesa dell’apertura a sinistra, fissa particolarmente l’attenzione.
In seguito alla prova elettorale venne formato un ministero Fanfani Saragat.
Dall’esordio del settimanale di Benedetti sino alla nomina del governo Fanfani – Saragat erano passati quasi
tre anni: le speranze per un’apertura a sinistra erano diminuite in modo inversamente proporzionale alle
denuncie de “L’Espresso” nei confronti delle interferenze vaticane nella vita politica italiana. Le prime
speranze riversate sul governo Segni erano ben presto sfumate, e la collaborazione della destra con il
monocolore Zoli aveva allontanato ancor di più l’ipotesi di una alternativa democratica. Proprio in occasione
del ministero Zoli, emerge il carattere che contraddistinguerà il settimanale di Benedetti e di Scalfari in questo
primo decennio, ovvero il gonfiare a livello di scandali certe tendenze della società italiana o certi
comportamenti tutelati dall’alone di carità di patria tipicamente italiano. Accingersi a una simile operazione
sullo scadere del 1955, non era iniziativa esente da pericoli e da fraintendimenti, al punto che spesso
nell’opinione pubblica “Espresso” e scandalismo venivano considerati due lati della stessa medaglia.
“Se scandalismo è rivelare certi aspetti della realtà italiana solitamente taciuti – ha scritto in proposito Arrigo
Benedetti in occasione del decimo anno di pubblicazioni del settimanale romano – scandalistici
diventammo.”_
L’arco temporale che si estende dall’attesa del centro – sinistra all’era della definitiva delusione procurata da
questa formula di governo si riempie così di fatti la cui naturale valenza scandalosa aspetta soltanto d’essere
segnalata al pubblico. L’Espresso si prova a farlo, e non gli mancano le opportunità. Lo scopo che il
settimanale romano si prefiggeva era quello di elaborare uno stile oggettivo e nell’insieme ricco di motivi
morali, di aggredire la realtà italiana: “condensare l’offensiva – come aveva detto Benedetti – nel settore
particolare della politica, dell’economia, dei problemi”._
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TERZO CAPITOLO
CAPITALE CORROTTA = NAZIONE INFETTA
1. ‘LA CITTA’ ETERNIT’ _
La notizia è di mercoledì 28 dicembre; la riporta il quotidiano romano “Il Tempo”: ‘La Società Immobiliare’
querela “L'Espresso”.
“A seguito della pubblicazione di un articolo apparso nel n. 11 del giornale “L'Espresso” in data 11 dicembre
1955 a firma di Manlio Cancogni sotto il titolo ‘Dietro il sorriso di Rebecchini, 400 miliardi’ – scriveva il
quotidiano romano – il Comitato esecutivo della Società Generale Immobiliare ha dato incarico ai propri legali
di sporgere querela per diffamazione contro l'autore dell'articolo e contro il direttore responsabile del giornale
accordando facoltà di prova.
La querela, presentata ieri al Procuratore della Repubblica dall'avv. Filippo Ungaro, è stata sottoscritta dal ing.
Eugenio Gualdi nella sua qualità di presidente della Società Immobiliare. La querela investe soprattutto alcune
affermazioni dell’articolista che attribuisce alla Società Immobiliare opera di corruzione dei funzionari del
Comune di Roma nonché manovre dirette ad ottenere, attraverso la costituzione di società fittizie, delle
evasioni fiscali.”_
I passi dell’articolo di Cancogni che avevano indotto l’Immobiliare a citare in giudizio il settimanale romano,
ovvero quelli in cui erano contenuti gli estremi per l’accusa di diffamazione, erano: “Certo non è facile in
Campidoglio resistere a una potenza come l’Immobiliare. I funzionari comunali, i tecnici, i membri della
commissione ricevono stipendi assai bassi”.
L’altro passo incriminato era quello riguardante le società a catena dell’Immobiliare: “Fine reale di queste
società è di alleggerire fiscalmente la società madre e coprire le sue manovre speculative sulle aree
fabbricabili.”_
Nel novembre del 1955, benché mancassero sette mesi alle competizioni per le amministrative, Arrigo
Benedetti aveva deciso di proporre ai suoi lettori un profilo dei sindaci delle maggiori città italiane. Non poteva
che essere Roma, la capitale, la prima città presentata e il suo sindaco, ingegnere Salvatore Rebecchini, il
primo profilo proposto. Venne dunque assegnato al giornalista Manlio Cancogni il compito di raccogliere
materiale su Rebecchini. Il proposito di svolgere un’indagine sui principali sindaci d’Italia non aveva niente in
comune con quello di realizzare un’inchiesta sulle aree fabbricabili italiane. Certo, un vivo interesse per
l’assetto urbanistico e architettonico delle città italiane era molto sentito nel giornale: interesse testimoniato dai
diversi articoli dell’architetto Bruno Zevi che caratterizzavano il settimanale di Benedetti e Scalfari sin dai
primi numeri. Del resto lo stesso Adriano Olivetti, primo finanziatore de “L’Espresso”, era stato, nel 1950, il
padrino della rinascita dell’Inu (Istituto nazionale di urbanistica), “il cui obiettivo di fondo era quello di dotare
ogni città italiana – grande o piccola – di uno strumento urbanistico ‘aggiornato’. Un piano regolatore che
regolasse, appunto, l’espansione e la crescita della città.”_
L’intento dell’inchiesta ‘Capitale corrotta = nazione infetta’ era quello di accompagnare l’iter della nuova
legge sulle aree fabbricabili con una presentazione delle principali amministrazioni italiane prima che si
arrivasse all’eccitamento pre – elettorale dovuto alle amministrative della primavera del ’56.
Il reportage di Cancogni avrebbe dovuto essere in principio soltanto un profilo biografico, seppur
contraddistinto dalla sottile ironia con cui gli argomenti di politica interna venivano trattati su “L’Espresso”,
ma nient’altro che questo.
Solo in seguito, man mano che Cancogni raccoglieva materiale su Rebecchini, mentre leggeva articoli scritti
da suoi colleghi, venivano fuori gravi verità: vi erano pesanti accuse formulate da alcuni degli stessi consiglieri
dell’amministrazione Rebecchini, come Natale Addamiano, Leone Cattani, Luigi Gigliotti e Aldo Natoli._
“Nel novembre dell’anno scorso – aveva dichiarato Cancogni nel corso della prima udienza del processo – fui
incaricato dal direttore de “L’Espresso” di scrivere un articolo sul comune e sul sindaco. Dovevo fare un
ritratto dell’ingegnere Rebecchini e nello sfondo trattare i problemi del comune di Roma con particolare
riguardo al piano regolatore. Lessi numerosi articoli che trattavano l’argomento e vidi che alcuni di essi
mettevano l’accento su un lato che prima di allora mi era sconosciuto: quello della speculazione sulle aree
fabbricabili. Allora risalii alle fonti. Parlai con gli autori di questi scritti, esaminai documenti pubblici, lessi le
pubblicazioni dell’onorevole Natoli e dell’avvocato Cattani, mi rivolsi a persone al corrente di questi problemi,
feci il giro della periferia romana intrattenendomi a parlare con ingegneri e tecnici dei cantieri”._ Aldo Natoli,
che era stato consigliere nell’amministrazione capitolina per il partito comunista, aveva avuto l’occasione di
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pubblicare un articolo sulla rivista “Rinascita” nel quale denunciava “le speculazioni che vengono compiute in
Roma, da un pugno di affaristi fra i quali primeggiano potenti società legate alle finanze del Vaticano e
famiglie intiere del patriziato romano. Manovrando senza scrupoli – scriveva Natoli – il mercato della
compravendita dei terreni fabbricabili e godendo dell’indulgente copertura dell’amministrazione
democristiana del Comune, costoro ammassano ogni anno decine di miliardi, eludendo le leggi dello Stato e
irridendo alla miseria delle centinaia di migliaia di senza tetto della capitale.”_
Queste accuse erano riportate anche sui verbali delle sedute dei vari consigli comunali tenutisi in Campidoglio.
“Nella coraggiosa relazione tenuta al Consiglio comunale nella seduta del 22 dicembre 1953, l’assessore
Storoni, venendo a parlare dello spinoso problema dei contributi di miglioria che era stato sollevato dalla Lista
Cittadina con un’apposita mozione, affermava che a Roma la speculazione sulle aree aveva raggiunto forme
patologiche uniche in Italia. Aggiungeva che ogni anno il valore delle aree fabbricabili aumenta di 60 – 70
miliardi, senza merito alcuno da parte di privati, ma esclusivamente per esecuzione di opere pubbliche da parte
del Comune di Roma”._ Era emersa una amara verità: il problema delle aree fabbricabili e l’Ingegner
Rebecchini erano due lati della stessa medaglia. Dunque, una volta appurato come stessero in realtà le cose,
Cancogni e Benedetti decisero che sarebbe stato inutile proporre un semplice ritratto di Salvatore Rebecchini.
La ricerca sui primi cittadini italiani si traduceva quindi in un’inchiesta sulle speculazioni sulle aree
fabbricabili perpetrate dalla Società Generale Italiana, patrocinate dall’amministrazione capitolina.
Il primo articolo di questa inchiesta di Manlio Cancogni, quello in cui l’avvocato di parte civile Filippo Ungaro
aveva ravvisato gli estremi per una causa di diffamazione era intitolato ‘Dietro il sorriso di Rebecchini 400
miliardi’.
In questo articolo veniva citata la Società Generale Immobiliare, ma come avevano più volte ripetuto i due
imputati, sia nel processo sia in altri articoli che seguirono il primo, questa citazione altro non era che un
esempio: si era affermato che l’Immobiliare non fosse la sola società a speculare sulle aree, bensì la più grande,
la meglio attrezzata, nonché quella che svolgeva la sua attività su base nazionale. “Ci tengo a precisare – aveva
detto Cancogni – che nel mio articolo io non avevo lo scopo di denunciare l’attività dell’Immobiliare e le
debolezze dei funzionari del Comune. Volevo bensì mettere in evidenza le responsabilità della giunta
comunale e del sindaco Rebecchini che in otto anni di amministrazione non hanno in alcun modo tutelato gli
interessi dei cittadini facendosi complici di interessi privati, fra i quali preminenti quelli della Società Generale
Immobiliare”._ Il fine dell’articolo era quello di denunciare gli abusi dell’amministrazione capitolina che
favoriva le iniziative private a scapito della collettività. “Lo scopo (dell’inchiesta) – aveva scritto Benedetti – è
di non fare dimenticare che il nostro settimanale si proponeva soprattutto di attirare l’attenzione dell’opinione
pubblica su amministratori poco attenti all’interesse generale, e spesso inclini a favorire l’interesse
particolare.” _
La procedura secondo cui avvengono le speculazioni edilizie è sempre la stessa, sia che venga perpetrata dalle
società immobiliari che da semplici ditte costruttrici.
Esemplificativo di una speculazione finanziaria sulle aree è l’esempio del quartiere di lusso Vigna Clara:
quando con le prime elezioni amministrative del secondo dopoguerra fu eletta la giunta capitolina, il quartiere
Vigna Clara non esisteva, mentre dopo otto anni, divenendo un quartiere di lusso, il suo valore era
centuplicato. Nel 1955 il prezzo di un vano a Vigna Clara si aggirava intorno a £ 1.300.000: valutando il costo
di un appartamento in 650.000 lire, il guadagno andava per metà alla Società Edilizia Vigna Clara che aveva
costruito il quartiere e per metà alla Società Generale Immobiliare che era proprietaria dei terreni.
L’Immobiliare, subentrando al comune, aveva fatto il piano regolatore della zona, conferendole il carattere di
residenza di lusso. Dopo la costruzione di questo nucleo e grazie ai lavori che il Comune di Roma aveva fatto
portando sul luogo tutti i servizi, il valore delle aree circostanti Vigna Clara – sempre di proprietà
dell’Immobiliare – era aumentato notevolmente. “Oggi, grazie a questo nucleo così spiccatamente signorile –
scriveva Cancogni nel primo articolo dell’inchiesta ‘Capitale corrotta = Nazione infetta’ – e naturalmente
grazie ai lavori del Comune che oltre ad aver fatto la grande arteria di raccordo con la vecchia Cassia, ha
portato sul luogo tutti i servizi, l’Immobiliare vende i terreni intorno a Vigna Clara a 40.000 lire al metro
quadrato. Li aveva comprati a prezzo agricolo, intorno alle quattrocento lire”._
Se si parte dal presupposto che la Società Generale Immobiliare era proprietaria di otto milioni di metri
quadrati di terreni in tutta Roma, si può immaginare il potere detenuto da questa società nel decidere ogni volta
da quale parte la città dovesse estendersi. “I terreni dell’Immobiliare sono disposti intorno a Roma in maniera
strategica”, aveva difatti affermato Cancogni. “In questo modo può decidere di volta in volta in che direzione
le conviene che la città avanzi”_.
Un particolare non irrilevante è che le azioni dell’Immobiliare appartenevano per la maggior parte al Vaticano.
“La Società Generale Immobiliare – aveva dichiarato Aldo Natoli sulla rivista comunista “Rinascita” – è
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notoriamente una emanazione della amministrazione della Santa Sede, la quale ne possiede la maggioranza del
pacchetto azionario. Presidente del suo Consiglio di amministrazione è l’ing. Bernardino Nogara, lo stesso che
presiede l’Amministrazione speciale della Santa Sede. Fra i membri del suo Consiglio di amministrazione
ricordiamo il principe Marcantonio Pacelli, il marchese G. B. Sacchetti, il conte ing. E. P. Galeazzi, tutti e tre
noti uomini d’affari e personalità bene in vista negli ambienti vaticanensi.”_
“I tre più importanti azionisti della Società erano: la Santa Sede, la Fiat, l’Italcementi, rappresentati
rispettivamente da Eugenio Gualdi, Vittorio Valletta e Carlo Pesenti.”_ L’ingegnere Gualdi era anche
presidente della Società Generale Immobiliare. Ma per andare ancora più a fondo, “L’Espresso” suggeriva di
sfogliare gli annuari delle società per azioni per scoprire così che il presidente della Società Edilizia Vigna
Clara e il direttore generale della Società Generale Immobiliare erano la stessa persona: il dottor Samaritano.
“Si consulti – scriveva Cancogni – un annuario delle grandi società per azioni: Vigna Clara e Immobiliare sono
la stessa cosa. Come sono la stessa cosa Immobiliare e Edilizia Due Pini, Immobiliare e Edilizia Tor Carbone,
Immobiliare e Società Edilizia Piazza Clara, Immobiliare e un numero infinito di società che hanno come fine
sociale la compravendita di terreni, la costruzione di case, il fitto, la vendita di immobili ecc. ecc. Fine reale di
queste società è alleggerire fiscalmente la società madre e coprire le sue manovre speculative sulle aree
fabbricabili.”_
Questa particolare accusa era quella che aveva spinto l’Immobiliare ad intentare una causa per diffamazione
contro “L’Espresso”. “Ho scritto che la Società Generale Immobiliare – aveva affermato Manlio Cancogni
durante il processo – ha costituito varie società di comodo per coprire la sua attività speculativa e per
alleggerirsi fiscalmente. Lo confermo. È un fatto vero che risulta ufficialmente. La Sogene ad esempio, la
società Vigna Clara, la società Terme di Diocleziano, non sono altro che l’Immobiliare. Basta leggere i nomi
dei membri dei consigli di amministrazione per vederlo: sono sempre gli stessi (…). L’esistenza di queste
società a catena ha il fine di alleggerire la società madre dalla pressione fiscale (…). E’ ovvio che essendo la
tassazione progressiva se i guadagni appartenessero ad un unico bilancio l’aggravio sarebbe molto
maggiore.”_
Nel 1950 l’edilizia romana privata aveva costruito ben 26.673 vani, nel 1952 ne erano stati costruiti 41.881 per
arrivare ai 75.127 del 1954. Negli appartamenti l’affitto poteva variare da un minimo di 30 – 35.000 lire ad un
tetto di circa un centinaio di migliaia di lire. Per fare un confronto con il costo della moneta italiana oggi, basti
pensare che una tazzina di caffè nel 1955 costava 40 lire. Bisogna ricordare però che questi sono i dati inerenti
l’edilizia privata romana perché, per quanto riguardava la situazione di quella pubblica, i dati sono molto meno
esaltanti. “In sette anni l’INA – Case _ che dovrebbe assicurare ai meno abbienti fitti economici mai superiori
alle diecimila lire al mese – denunciava Cancogni – ha allestito soltanto 6.300 alloggi pari a 31.110 vani.
L’Istituto Case Popolari non ha nemmeno raggiunto queste cifre. E tuttavia è proprio in questo campo che la
richiesta è enorme. Vi sono nella città 66467 alloggi con un indice di affollamento superiore alle due persone
per vano. Vi vive il trenta per cento della popolazione. In 25.000 alloggi l’affollamento supera le tre persone
per vano. Poi ci sono le ventottomila famiglie che vivono nelle baracche, spesso in vista, come accade per il
Campo Parioli, delle zone di lusso dove più sfrenata è stata la speculazione sulle aree che li condanna a quella
vita miserabile.” _
“Nel cosiddetto schema Vanoni – ‘Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio
1955-1964’ – si fissava in 13 milioni di vani, nel decennio considerato, il traguardo da raggiungere per
risolvere il problema della casa.”_
Assumendo un decennio per le coordinate temporali nelle quali risolvere questa situazione nella capitale,
l’ufficio statistica del Comune di Roma aveva stimato che sarebbe stato necessario costruire circa 80.000 vani
l’anno per raggiungere lo scopo. “L’edilizia privata – scriveva Cancogni – è quasi arrivata, nel ’54, a questa
cifra. Ma essa offre un prodotto che si rivolge a tutt’altro mercato. E, monopolizzando a suo profitto le aree,
impedisce che un’edilizia economica abbia il suo naturale sviluppo.” _ Nel 1931 fu stilata una legge _ fatta
appositamente e su misura per Roma: essa consentiva di imporre ai proprietari di beni immobili che fossero
stati avvantaggiati dall’esecuzione di lavori previsti dal piano regolatore, il pagamento di un contributo pari
alla metà dell’effettivo aumento del valore del bene. “Gli incrementi di valore delle aree, fra il ’48 e il ’53 –
denunciava Cancogni – sono valutati a non meno di trecento miliardi. Se il Comune avesse applicato la legge
avrebbe avuto un beneficio di centocinquanta miliardi con i quali avrebbe potuto pagare tutti i suoi debiti.
Ebbene in questo periodo la ripartizione Tributi dell’amministrazione capitolina ha fatto accertamenti solo per
un miliardo e 178 milioni: invece di centocinquanta miliardi l’amministrazione capitolina ne aveva avuti meno
di due.”_ La conclusione era che la sorte e l’avvenire della città eterna erano sotto il giogo dell’arbitrio delle
società immobiliari e degli edili. “L’aspetto più grave di tutta la faccenda – commentava il settimanale romano
– era che la maggioranza consiliare aveva mostrato di non tenere in nessun conto nemmeno le decisioni della
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grande commissione per lo studio del nuovo piano regolatore di Roma, dal consiglio stesso nominata, la quale
in un suo (…) ordine del giorno aveva compresso al massimo lo sviluppo di Roma verso il nord e l’ovest,
dando la precedenza all’est e al sud. L’amministrazione comunale romana, succube della speculazione, non era
stata capace (…) di coordinare le proprie diverse iniziative.”_
L’espansione della città, infatti, procedeva verso nord e verso ovest.
La situazione romana, però, non era un caso particolare nell’Italia degli anni Cinquanta. “Palermo ha trovato il
suo Rebecchini”, scriveva Eugenio Scalfari denunciando quanto “il settore edilizio, in una città (come il
capoluogo siciliano), in cui il problema della casa è così acuto, fosse quello dove le manovre dei gruppi, le
relazioni tra essi ed alcuni influenti funzionari, avessero maggiore gioco”._
In questi gruppi, tra i maggiori interessati, c’era la Società Generale Immobiliare.
2. L’ULTIMA SEDUTA DELLA GIUNTA REBECCHINI
Venerdì 6 febbraio 1956 si era tenuto l’ultimo Consiglio comunale dell’amministrazione Rebecchini:
bisognava discutere i temi più urgenti, visto che il mandato volgeva ormai al termine. Di fatto assessori e
consiglieri erano stati mobilitati d’urgenza, ma all’ordine del giorno non vi era un problema improrogabile
come quello delle morti per asfissia da gas, bensì “l’approvazione di un progetto in favore della Società
Generale Immobiliare, per la costruzione (di un) albergo (della catena) Hilton (nella) zona di Monte Mario, che
avrebbe dovuto rappresentare a giudizio della maggioranza, e poco prima delle elezioni, il maggior titolo di
gloria della giunta uscente.” _
“Il nostro gas è anemico – scriveva “L’Espresso” – ma uccide tre volte più di tre anni fa”._
Un tempo, prima che con l’impiego dell’elettricità l’uso del gas illuminante diventasse inutile – spiegava il
settimanale romano – il processo di avvelenamento per esalazione da propano cominciava dopo cinque ore e
quaranta minuti: la morte sopravveniva dopo sei ore e venti minuti. Nel 1956 le statistiche segnalavano fossero
sufficienti un'ora e mezzo per perdere conoscenza e due ore e mezzo prima che l’esalazione comportasse la
morte.
Questo scarto tra i primi del Novecento e i suoi anni Cinquanta non era dovuto alla minore resistenza
dell’uomo di metà secolo al propano, bensì al cambiamento delle caratteristiche del gas per uso domestico.
“Originariamente il gas veniva prodotto attraverso un processo di distillazione secca del carbon coke: il gas
arrivava ad un potere di 5.100 calorie; era gas ad alto potere calorifico e poco velenoso. Venuto meno con
l’elettricità l’impiego del gas illuminante, fu iniziata la produzione di gas poveri, a basso potere calorifico e
con alta percentuale di ossido di carbonio: il gas scese a 4.200 calorie”. _ Quando cominciò la dittatura fascista,
le società produttrici di gas si avvalsero di una ordinanza che le obbligava a consegnare le materie oleose per
aumentare la produzione di gas poveri; a questo punto il potere del gas scendeva ad una soglia di 3.500 calorie.
Di pari passo con la diminuzione del potere calorifico del gas si ebbe anche un aumento del suo costo: nel 1956
l’aumento del costo del gas era pari al 20% rispetto al periodo in cui era cominciato il processo di diminuzione
del suo potere calorifico.
Nel 1955 fu chiesto al Consiglio comunale di Roma che fosse revocata la concessione alla Romana Gas _,
richiesta motivata dal fatto che tale società elevava i suoi profitti con grave pericolo per i cittadini. “Il sindaco
Rebecchini – affermava “L’Espresso” – ammette che il gas a 3500 calorie rappresenta un pericolo per gli
utenti, aggiunge che però nessun appunto può essere fatto alla società in quanto il tasso del potere calorifero è
stato fissato dal Comitato interministeriale dei prezzi.”_ Restava il dubbio che la difficoltà di imporre
condizioni alla Romana Gas dipendesse dall’appartenenza di questa società sin dal 1937 alla Italgas, gruppo
monopolistico fra i più potenti di Italia. Nel suo consiglio di amministrazione infatti, figuravano “alcuni dei
personaggi più potenti dell’alta finanza italiana, tra cui Carlo Beretta, Umberto Osio, e il principe Giulio
Pacelli, che (rappresentava) nell’Italgas forti interessi vaticani”._ Malgrado la grande potenza di questa società
a livello nazionale, molte amministrazioni comunali erano state spinte dalla gravità della situazione a chiedere
che venissero stipulate le revisioni delle convenzioni: nella giunta capitolina nessuno aveva preso una
iniziativa del genere. Una commissione tecnica però aveva rilevato che la produzione di gas a basso potere
calorifico contrastava nettamente con le vigenti esigenze igieniche dell’epoca: veniva dunque suggerita una
rapida attuazione di un sistema di odorizzazione che rendesse avvertibili le fughe di gas. “Sul problema
dell’odorizzazione – dichiarava “L’Espresso” – vi furono vivaci discussioni; per ottenere lo scopo dovrebbero
essere impiegate sostanze chimiche che ammorberebbero tutta la zona di San Paolo. L’iniziativa ha
preoccupato il sindaco Rebecchini che sospetta una manovra dei suoi avversari. Le elezioni amministrative
sono vicine ed egli teme che le sinistre possano approfittarne per farlo passare come l’uomo che ha reso
irrespirabile l’aria di Roma.”_
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La sera di venerdì 6 febbraio, nel corso dell’ultima seduta della giunta Rebecchini, si erano tenute vivaci
discussioni sia perché il sindaco aveva convocato d’urgenza un consiglio al cui ordine del giorno non c’erano
le morti per asfissia da gas, sia perché veniva presentato un progetto, in favore della Società Generale
Immobiliare, per la costruzione di un albergo la cui cubatura superava quella prevista dal piano regolatore. Il
consigliere comunista Claudio Cianca aveva preso la parola dichiarando: “In questa nostra discussione
sentiamo, quasi presente, la potenza di una società, l’Immobiliare, la quale vuole obbligarci alla vigilia della
chiusura dei nostri lavori a prendere una decisione su una proposta (…). Non credo (…) che questo sia l’atto
più importante dell’attuale amministrazione. Ce ne sono stati tanti, che hanno sofferto rinvii, dilazioni e ritardi,
eppure si trattava di problemi da cui dipendevano interessi generali di larghi strati della cittadinanza. Ricordo
fra l’altro la questione delle morti dovute alle esalazioni di gas. Il sindaco aveva promesso che il problema
sarebbe stato discusso in consiglio: ma il consiglio chiuderà i suoi lavori senza essersi occupato di questo
importante problema.”_
Durante l’ultima seduta del Consiglio comunale capitolino, il sindaco aveva tentato, contro l’opposizione di sei
o sette consiglieri, di imporre l’approvazione al Consiglio comunale del progetto dell’albergo Hilton nella
zona di Monte Mario. “La costruzione dell’albergo Hilton – dichiarava il settimanale di Benedetti e Scalfari –
è un’altra di quelle iniziative anarchiche che nascono al di fuori di qualunque organica e complessiva
impostazione di piano regolatore. Il nuovo albergo, con tutte le sue appendici, con le sistemazioni stradali che
comporta e in seguito susciterà, con la valorizzazione dei terreni circostanti, non è che premessa all’espansione
incontrollata di Roma verso il nord e l’ovest, cioè, ancora una volta, all’espansione a macchia d’olio, disastrosa
per ogni città.”_ Troppe ragioni sconsigliavano la costruzione di un grande albergo a Monte Mario. Questa era
una zona in cui il vecchio piano regolatore prevedeva una destinazione a parco privato con cubatura costruibile
sparsa di circa 60.000 metri cubi: si chiedeva in quella seduta che si approvasse il progetto di un albergo di
101.000 metri cubi, con un’altezza fuori regolamento. Di fronte all’insistenza del sindaco perché il Consiglio
comunale approvasse questa proposta, il consigliere comunista Claudio Cianca aveva reagito pronunciando
una frase polemica: “La Società Generale Immobiliare paga bene l’approvazione di queste deliberazioni”._
Certo era una affermazione abbastanza pesante, ma il sindaco aveva reagito soltanto alzandosi e lasciando
l’aula, non prima di aver dichiarato il suo sdegno per l’insinuazione.
Ad ogni modo era stata data a Rebecchini la possibilità se non di discolparsi, almeno di smentire queste accuse:
“Eppure saremmo lieti – scriveva Arrigo Benedetti – di essere smentiti con documenti e prove certe. E per fare
questo il sindaco ha tre mezzi efficaci. Può ricorrere alla magistratura, se vuole farci condannare per
direttissima. Può convocare il consiglio comunale ed aprire un dibattito non frettoloso, magari ripreso dalla
TV. Può provocare, sempre con tanto di TV, un dibattito pubblico in un teatro romano: il dibattito sul sospetto
di corruzione gravante su Roma che suscita in tutto il paese disprezzo per una capitale illustre nel momento in
cui essa dà, spontaneamente, al di là degli intrighi capitolini, segni di eccezionale vitalità.”_
L’ingegner Rebecchini aveva commentato dicendo che “per un rotocalco, (cioè “L’Espresso”), tutto (ovvero
l’attività edilizia e urbanistica comunale) si sarebbe trasformato in un insieme nel quale spesso gli interessi
collettivi sarebbero posposti a quelli privati in una ovattata rete di omertà reciproca.”_
Rebecchini non aveva risposto alle accuse de “L’Espresso” né a quelle dell’opposizione: “Risulti ben chiaro –
aveva dichiarato al “Giornale d’Italia” – che non abbiamo voluto rispondere alle insulse menzogne di quel
settimanale a rotocalco perché non intendiamo fare della gratuita pubblicità ad un organo che è espressione dei
circoli più faziosamente anticattolici”._Vi erano dei documenti ufficiali però, che testimoniavano la veridicità
delle accuse mosse da “L’Espresso”. Da inserire negli annali di questa vicenda vi è una seduta del Consiglio
comunale di Roma del 22 dicembre del 1953,_ quella in cui l’assessore all’Urbanistica Enzo Storoni _ presentò
una relazione contenente accuse molto gravi, molto più dirette di quelle de “L’Espresso”, relative alle pressioni
dei privati nell’ambito della speculazione sulle aree fabbricabili. Le accuse erano riferite alla precedente
gestione capitolina; questa relazione fu approvata dal sindaco in persona, il quale riconobbe le critiche. Nella
relazione di Storoni vi erano dichiarazioni come: “Ci mancano gli strumenti fisici di controllo e di repressione
necessari a contenere l’enorme pressione degli interessi (…). Numerosi articoli di legge ci consentono di
elevare contravvenzioni, di ordinare sospensioni e demolizioni e di provvedere alle demolizioni stesse. Ma la
nostra attività è paralizzata dall’imponenza del fenomeno e dalla violenza della pressione privata (…). Questa
nostra impotenza, unita alla pressione incontenibile dell’interesse privato spinto dal bisogno di case e dal
desiderio di sfruttare sino all’estremo l’altissimo valore delle aree fabbricabili, ha fatto si che l’abusivo e
l’irregolare siano a Roma dilagati”._ Risultava però che questi casi, clamorosi in quanto denunciati da un
assessore appoggiato da due consiglieri,_ non fossero stati contrastati né tanto meno repressi. Quella de
“L’Espresso” non era una gara con il sindaco Rebecchini, ma una campagna di interesse generale –
sottolineava il settimanale romano – e a tal fine era stato anche richiesto un dibattito parlamentare
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sull’amministrazione capitolina. Quando la quarta sezione del Tribunale penale di Roma aveva assolto, sabato
29 dicembre 1956, Manlio Cancogni e Arrigo Benedetti dall’accusa di reato per diffamazione nei confronti
della Società Generale Immobiliare, l’onorevole Bruno Villabruna _ aveva proposto un’inchiesta parlamentare
sul Comune di Roma. Ma il governo non aveva risposto: l’interpellanza era decaduta senza essere discussa.
3. DALL’INDIFFERENZA ALLA CURIOSITA’
“Il risanamento di Roma – scriveva Arrigo Benedetti su “L’Espresso” – dipende soltanto dai romani (…): il
giorno in cui gli italiani di Roma ameranno la città che hanno scelta, il processo alla capitale diventerà
impossibile, gli antichi pregiudizi svaniranno, il popolo romano (…) sarà orgoglioso di rappresentare di fronte
al parlamento e al governo, l’opinione pubblica dell’intera nazione”_.
Il direttore de “L’Espresso” si riferiva ad un insieme di vecchi pregiudizi che fin dal momento stesso
dell’Unità, l’Italia avrebbe nutrito nei confronti della sua capitale.
Lo spunto per tale polemica era venuto da un articolo dello scrittore Filippo Sacchi,_ apparso su La Stampa,
dal titolo ‘Perché gli italiani non amano Roma’: “Se il primo dovere è, anche come italiani, di essere sinceri
con noi stessi – scriveva Sacchi – non dobbiamo nasconderci che il processo contro “L’Espresso” è seguito
fuori di Roma dalla vasta maggioranza delle opinioni con un vasto sentimento misto di scoraggiamento e di
fastidio. Giustamente o ingiustamente, prima ancora che il corso del dibattimento lo autorizzi, si verifica di
nuovo quello che periodicamente si verifica ad ogni piccolo o grande scandalo che viene da là: un istintivo
acutizzarsi dei vecchi pregiudizi (…) contro la (…) capitale.”_ La conclusione era che Roma non fosse
popolare per gli italiani, come lo erano invece Parigi per i francesi e Londra per gli inglesi. “Parigi e Londra
sono popolarissime nei loro Paesi – continuava Sacchi – sono non soltanto la testa, ma il cuore della Nazione.
Vi batte perennemente il cuore di tutti”._ Il tono di amarezza dello scrittore Filippo Sacchi era dettato
dall’indubbia indifferenza con cui i romani si ponevano di fronte alle denuncie de “L’Espresso” contro
l’amministrazione capitolina del sindaco Rebecchini, ma anche dal senso di distacco con cui la popolazione
della capitale seguiva la vicenda Immobiliare – “L’Espresso”. Il pretesto era adatto per riesumare un insieme di
pregiudizi contro Roma, fra i quali quello che la vedeva responsabile del fascismo. Ma anche volendo
controbattere, dicendo che “il fascismo e la dittatura arrivarono proprio dalla Valle Padana”,_ questo non
avrebbe risolto la questione dell’indifferenza dei romani.
“Il fascismo – continuava Sacchi nel suo articolo – con la sua megalomane pretesa di farsi un’Urbe a misura
augustea ha contribuito potentemente ad allargare questa (incomprensione tra la testa della nazione e il resto
del suo corpo). Anzitutto, accentrando su di essa privilegi e benefici sproporzionati alle realtà di un Paese
ancor pieno di tanta arretratezza e di tanta miseria, ha determinato in tutti gli italiani di buon senso un naturale
risentimento. Quella mania di trasportare tutto a Roma, di gonfiare tutto quello che era romano, di profondere
a palate i buoni milioni di allora per donare monumenti ai posteri, e sotto mano mancione ai gerarchi, non
poteva non riuscire irritante ed offensivo al resto d’Italia”._ Benedetti, tuttavia, riassumeva le colpe della
capitale in una sola: i romani, diversamente dai parigini e dai londinesi, non sentivano di essere i rappresentanti
di tutta la nazione, non tutelavano gli interessi del paese, anzi, trascuravano i propri. Quando la direzione de
“L’Espresso” decise di scrivere l’inchiesta ‘Capitale corrotta = nazione infetta’, l’opinione pubblica romana
era rimasta inerte ed aveva opposto a queste denuncie la propria indifferenza, sfiorando talvolta la curiosità. La
conseguenza principale dell’inchiesta fu una maggiore vendita del settimanale. Da parte della stampa
nazionale l’appoggio alla campagna de “L’Espresso” venne dai quotidiani di sinistra: “Avanti !” il 4 e l’11
dicembre del 1956, e “l’Unità” il 2 e il 5 dicembre 1956._ Ciò comportò anche “accuse di comunismo” da parte
di testate autorevoli come “L’Osservatore Romano”: “E’ inutile – diceva l’organo vaticano – che i portavoce,
giornali, uomini e Federazioni del comunismo, si affannino, dopo il sangue da cui furono travolti, a riprendere
con questi ignobili scandalismi il loro posto nelle pubbliche contese e polemiche, pensando e sperando di far
dimenticare, di coprire con il loro vociare e l’atteggiarsi austero a difensori del bene pubblico, a tutela del buon
costume politico, di tutto quel che di più onesto o civile deve fiorire in Italia, far dimenticare, diciamo, e
coprire non gli scandali ma gli orrori della barbarie comunista. La collusione, la simbiosi comunista con la
oppressione, la strage, il genocidio, sono state da tutti avvertite. Non si tratta di aree fabbricabili, si tratta di
Nazioni intere; non di speculazioni economiche ma politiche; non di irregolarità ma di crimini; non di
costruzioni ma di cimiteri da Katin a Berlino est, a Poznan, a Budapest (…). Credere stolti gli italiani, i romani,
è il colmo. Quanto e come stimarli capaci di lasciar trascinare sia pure mediante il filo di un perfido aggettivo,
la Santa Sede, il baluardo mondiale della pace, della giustizia, della moralità, nella miseria di diffamazioni
settarie a scopo elettorale”._
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“Il nostro slogan ‘Capitale corrotta = nazione infetta’ – scriveva Benedetti – ha avuto una discreta fortuna, ma
rischia di essere scambiato per una trovata se non se ne comprende lo spirito. Il risanamento di Roma dipende
soltanto dai romani”._
4. LA SENTENZA
La mattina dell’8 giugno 1956 veniva “chiamato davanti alla IV sezione del Tribunale di Roma il processo
contro il settimanale radicale “L’Espresso” querelato dalla Società Generale Immobiliare per un articolo del
giornalista Manlio Cancogni che accusava la grande società vaticana di corrompere funzionari del Comune di
Roma onde favorire le sue speculazioni ai danni della cittadinanza. La querela – scriveva “Paese Sera” – era
stata estesa di diritto al direttore de “L’Espresso”, Arrigo Benedetti. Querelante era l’ing. Eugenio Gualdi
presidente dell’Immobiliare. Non si è invece querelato il sindaco Rebecchini, contro il quale “L’Espresso”
aveva avanzato gravissime accuse. Nell’articolo si facevano cifre e si riportavano documenti eloquenti, in base
ai quali l’amministrazione comunale veniva accusata di non aver mai impedito le speculazioni sulle aree.
Veniva inoltre rivelato come la Società Immobiliare si servisse di numerose società di comodo per evadere il
fisco”._ Il tribunale era presieduto dal dottor Domenico Surdo. Il dott. Alberto Bernardi e il dott. Lamberto
Gennari erano giudici a latere. P. M. il dottor Antonio Corrias.
Arrigo Benedetti e Manlio Cancogni, imputati, erano assistiti dagli avvocati Achille Battaglia e Giovanni
Ozzo. L’Immobiliare era patrocinata dall’avvocato Filippo Ungaro.
Durante la prima udienza “nel corso dell’interrogatorio del giornalista Benedetti, direttore de “L’Espresso”,
accusato di diffamazione semplice – riportava il giornale “Paese Sera” – veniva alla luce il fatto che anche il
Benedetti aveva partecipato alla compilazione dell’articolo scritto dal Cancogni, pertanto il P.M. imputava al
Benedetti il concorso nel reato di diffamazione specifica”._ Il processo, cominciato l’8 di giugno del 1956,
dopo ventisette udienze che spesso duravano dalle 9 del mattino alle tre del pomeriggio, si era concluso sabato
29 dicembre 1956: gli imputati, Arrigo Benedetti e Manlio Cancogni, venivano assolti per insufficienza di
prove. Il processo, da quanto scriveva Bruno Visentini_ su “L’Espresso”, era risultato singolare in quanto
“l’Immobiliare si era posta nella situazione non facile di sostenere una querela contro un’accusa che non
toccava direttamente i suoi dirigenti, bensì una situazione politica ed amministrativa nella quale essa aveva
potuto vantaggiosamente operare (…). L’assoluzione de “L’Espresso” – continuava l’onorevole liberale –
riporta la battaglia sul piano politico e amministrativo che le è proprio. La battaglia non può esaurirsi nella
denuncia di questo o di quello organismo economico, di questo o di quel favoritismo, quando vi sono strutture
o carenze legislative che consentono situazioni di largo privilegio particolare e di evidente danno all’interesse
di tutti (…). Spetta alla classe politica individuare e attuare gli strumenti legislativi idonei a tutelare ed a
promuovere l’interesse di tutti, al di sopra degli interessi particolari; e spetta alla classe politica imporre, e
prima di tutto a se stessa, un costume il quale dia sicura garanzia che il potere politico e amministrativo viene
impiegato esclusivamente nel pubblico interesse e nel rispetto della legge. L’episodio del processo
Immobiliare – “Espresso” avrà una utilità se quelli fra gli esponenti politici che sentono la funzione altissima
del loro compito (…) troveranno sprone e conforto nella loro opera, se esso darà agli altri la consapevolezza
che non è concesso abusare del potere che occasionalmente detengono, se avrà contribuito a far comprendere
all’opinione pubblica il valore del controllo democratico e la funzione delle necessarie alternative, che di quel
controllo e dell’operato della classe politica sono il più sicuro strumento”._
“La legge sulle aree fabbricabili– scriveva il settimanale romano – si è, (però), definitivamente arenata alla
Camera, sotto il bombardamento di 107 emendamenti proposti da deputati democristiani, liberali, monarchici e
missini (…). Il disegno di legge, che porta la firma dell’on. Andreotti e che è stato difeso assai fiaccamente dal
suo proponente, non era in realtà un capolavoro. Il suo maggior difetto era quello di essere molto tardivo: il
grosso della speculazione immobiliare era già avvenuto tra il 1949 e il 1956, ed i suoi frutti sono già stati messi
al sicuro (…). Le città si erano estese fuori dai confini dei piani regolatori, caoticamente, seguendo il capriccio
e gli interessi dei privati; le amministrazioni comunali hanno profuso a piene mani i quattrini dei contribuenti
per portare nelle zone prescelte dalla speculazione i servizi pubblici, le comunicazioni, l’acqua, la luce, le
fognature, senza nessuna contropartita a favore degli interessi generali; i contributi di miglioria non sono stati
applicati in nessun caso. Ormai non restano che le briciole; ma il problema non cessa di essere urgente e grave
per il futuro. Per risolverlo non c’era che una strada, chiara e dritta: l’esproprio di tutte le aree soggette ai piani
regolatori particolareggiati (…). Gli emendamenti che (…) sono piovuti (addosso alla legge sulle aree
fabbricabili) avevano (…) lo scopo di renderla ancor più inefficiente di quanto già non fosse in partenza, per
evitare ogni intralcio alla speculazione immobiliare (…). Termina così, nel consueto modo italiano –
concludeva “L’Espresso” – questa meschina vicenda. Gli scandali che sono stati denunciati alla pubblica
opinione, il processo che questo giornale ha affrontato per portare davanti alla coscienza del paese uno dei più
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gravi problemi della vita pubblica italiana, non sono riusciti a scuotere l’insensibilità di una maggioranza
parlamentare schierata a difesa di precisi interessi. Rimane il giudizio del paese su quanto è accaduto e accade.
Ed è un giudizio severo e grave”._
5. ‘IL VATICANO DIFENDE REBECCHINI’
“La sentenza con la quale il Tribunale di Roma ha assolto “L’Espresso” dalla accusa di diffamazione contro la
Società Generale Immobiliare – scriveva Arrigo Benedetti su “L’Espresso” – non è piaciuta a “l’Osservatore
Romano”, giornale dello Stato Città del Vaticano”._
“È ovvio – scriveva sulla testata vaticana il suo direttore Conte Giuseppe Dalla Torre di Sanguinetto – rilevare
che l’assoluzione per insufficienza di prove sulla obiettiva esistenza della diffamazione negli scritti de
“L’Espresso” querelati dall’Immobiliare, non ha tenuto conto che le prove sono state offerte più che a
sufficienza, con uno sperpero addirittura lussuoso, non solo dalla stampa attaccante, ma dalla difesa che per
giorni e giorni, mutatasi in accusa, <<battagliò>> per provare appunto i fatti e strappare con questa piena
formula, l’assoluzione.” _ Dalla lettura dei commenti de “L’Osservatore Romano”, emergeva una conclusione
piuttosto grave: “il giornale vaticano (…) con la sua appassionata difesa delle ragioni dell’amministrazione
Rebecchini e dell’Immobiliare, si identifica completamente con esse, avvalorando così il dubbio che l’una e
l’altra siano da considerare emanazioni dirette della Santa Sede”._ Non era una tesi del tutto nuova: il sospetto
era stato avvalorato più volte sulle pagine de “L’Espresso”, come più volte era affiorata durante il processo.
Fin dalla prima udienza gli avvocati della difesa avevano elencato dettagliatamente tutti i componenti del
consiglio d’amministrazione della Società Generale Immobiliare: la maggior parte di loro apparteneva a quel
“nucleo di famiglie cattoliche romane che, dal 1870, (era) considerato lo strumento più fedele della politica
vaticana nel campo della città di Roma”._ Il commento del conte Dalla Torre, direttore della testata vaticana,
sull’esito del processo era molto forte. “Dal vecchio gentiluomo clericale che dirige l’Osservatore Romano –
rispondeva “L’Espresso” – le forze laiche non potevano attendersi un servizio migliore”. Il Conte riduceva
tutta l’inchiesta ‘Capitale corrotta nazione infetta’ ad una “gazzarra scandalistica (…) organizzata, svolta,
potenziata con sfacciata settarietà di parte, odiose avversioni personali e libidine di pettegolezzo e maldicenza,
poste volgarmente al servizio delle competizioni politiche, così da avvilirle sino a renderle incivili”._ Nel
momento in cui però cominciava l’inchiesta de “L’Espresso” sulle aree fabbricabili di Roma, le elezioni
amministrative erano ancora lontane; mancavano sette mesi alla primavera del 1956, e più volte Benedetti nei
suoi articoli aveva sottolineato questo particolare, in modo da dare alla vicenda non il tono della propaganda
politica, bensì quello della denuncia a beneficio della collettività. “La nostra inchiesta – aveva risposto
Benedetti la prima volta che era stata mossa questa accusa – non è soltanto una campagna elettorale, anche se si
propone di dare alla capitale d’Italia una migliore amministrazione; è una campagna politica e morale. Noi non
abbiamo assalito l’amministrazione comunale una settimana prima dei comizi elettorali, ma abbiamo
formulato le nostre critiche ben sei mesi prima. Il sindaco ha tutto il tempo di spiegarsi, davanti alla
magistratura se lo vorrà, o davanti al consiglio comunale, o in una pubblica sala”._ Nelle pagine de
“L’Espresso” erano ben evidenti gli indirizzi politici, come anche il desiderio che l’elettorato attivo assumesse
consapevolezza della necessità di un nuovo indirizzo politico, ma si era ancora nel 1956 e la nave del centro –
sinistra non era ancora pronta per salpare il largo.
Il conte Dalla Torre nel suo commento sulla vicenda cercava di ribaltare i termini della questione chiedendo se,
nelle condizioni in cui si trovò la città di Roma dopo la guerra, “si potesse credere (…) più irregolare fosse
stato l’aver accolto profferte di imprese costruttrici e normalizzatrici, di ditte adeguatamente attrezzate
all’uopo, pur di corrispondere all’urgenza angosciosa delle cose, il non aver atteso la ‘regolarità’ delle ‘carte’
lungo le tardigrade e impassibili trafile burocratiche, oppure la vita trogloditica nelle grotte e nelle baracche, la
mancanza delle fognature, la impraticabilità delle strade, l’isolamento delle località periferiche, la mancanza di
tutti i servizi imprescindibili nella vita odierna dei singoli e della collettività, il numero sempre crescente dei
senza lavoro, e dei senza pane”. _
“E dovrebbe l’opinione pubblica preoccuparsi di queste inezie – rispondeva “L’Espresso” – dovrebbero
gridare allo scandalo sol perché furono accolte profferte di ditte costruttrici e normalizzatrici senza attendere la
regolarità delle carte lungo le tardigrade e impassibili trafile burocratiche? ”_
“Chiediamo se questo dello scandalo – concludeva il Dalla Torre – (…) sia dunque “l’iniqua mercede” (…) per
un Sindaco, una Giunta, una Amministrazione cui la storia più schizzinosa non potrà negare di aver in nove
anni ridato a Roma una pulsazione, un cuore, un volto da rediviva e in modo degno della Capitale di una grande
Nazione e della Cristianità (…). Noi auguriamo pel buon nome di tutti che questo scandalo, tramutatosi dalle
aree fabbricabili a quelle palustri e di sabbie mobili delle risse politiche, auguriamo che la catastrofe rovinosa
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di tante mentite austerità, di tanti confessati livori, di tante fughe compassionevoli, travolga e seppellisca una
volta per sempre il combattere sul terreno politico con le armi delle accuse, delle diffamazioni, delle calunnie
personali, non solo imbrattando (…) pubbliche Amministrazioni e Amministratori benemeriti e funzionari
ineccepibili di cui o si soffoca la protesta di uomini e di cittadini o non si dà luogo a difesa là dove fu pur
portata l’accusa, ma tentando di sfruttare, a tanto, la stessa Autorità Giudiziaria”._ Il giudizio della testata
vaticana sulla sentenza emessa dalla IV sezione del Tribunale di Roma per il processo Immobiliare –
“L’Espresso” – commentava Benedetti – è prezioso per “giudicare fino a qual punto di faziosa insincerità
possa essere presentato il bilancio consuntivo di un gruppo di uomini che ha sgovernato Roma, lasciando
centinaia di miliardi di debiti, un deficit di 150 miliardi, imposte comunali discriminatorie a danno della povera
gente e a vantaggio dei grandi evasori, un’espansione edilizia comandata da pochi interessi formidabili senza
riguardi per le esigenze della collettività (…). La verità è una sola, ed è naturalmente rivelata e non ammette
nemmeno di essere revocata in dubbio: l’Immobiliare è una società benemerita, e Rebecchini è
l’amministratore saggio, integerrimo, tutto dedito al bene comune, all’interesse esclusivo della cittadinanza”._
6. ‘CAPITALE CORROTTA = NAZIONE CORROTTA’
Su “Il Paese” di domenica 30 dicembre 1956 si commentava così la sentenza emessa dalla IV sezione del
Tribunale di Roma sul processo tra la Società Generale Immobiliare e “L’Espresso”: “La formula assolutoria è
di transizione ma non per questo essa perde nulla della sua importanza e del suo significato se, com’è evidente,
la sentenza colpisce la parte civile e ferisce l’orgogliosa sicurezza. Noi non possiamo che rallegrarcene. Ecco,
che nonostante tutto, la verità ha potuto trovare la sua strada e mostrare il suo volto; ecco che “L’Espresso”, già
assolto dall’opinione pubblica, viene anche assolto dalla Corte giudicante. Questa singolare convergenza ha un
valore veramente grande; condannando certi metodi e certi sistemi della passata amministrazione capitolina,
l’opinione pubblica aveva riconosciuto che con le sue gravi denunzie, “L’Espresso” s’era semplicemente
preoccupato di esercitare un suo preciso diritto di critica nell’interesse di tutti. Ebbene la giustizia è stata del
medesimo parere, e giustizia e opinione pubblica si sono trovate questa volta sullo stesso terreno. Troppo l’una
e l’altra avevano ravvisato in ciò che passava sotto i loro occhi, quanto vi era di irregolare e di biasimevole;
troppo il sapore dello scandalo aveva intriso lo svolgimento della vicenda giudiziaria. Ed è stato appunto così
che proprio la opinione pubblica ha sorretto la giustizia la quale è pervenuta a un giudicato che mentre rivela
l’animo della Corte, conforta e incoraggia quanti, avendo a cura gli interessi generali e il pubblico bene, non
esitano, in loro nome, a impegnarsi a battersi”._
Sempre lo stesso giorno, sull’organo del partito comunista italiano, “l’Unità”, Aldo Natoli, che era stato una
parte attiva nel processo nonché consigliere nell’amministrazione Rebecchini, diceva la sua sulla sentenza
sottolineando che era la “prima, clamorosa conclusione di una lunga battaglia che è iniziata (…) sul finire del
1953, nell’aula del Consiglio Comunale di Roma; battaglia diretta contro i sordidi traffici della speculazione
edilizia, contro il saccheggio del patrimonio pubblico praticato impunemente in violazione delle leggi dello
Stato; battaglia contro la corruzione e il malcostume nella vita e nelle amministrazioni pubbliche; battaglia
contro il nefasto e parassitario predominio del monopolio della proprietà immobiliare e della rendita fondiaria
che avvolge e soffoca nelle sue spire la vita economica e lo sviluppo di una città immensa come Roma e tante
altre città italiane. Nel corso del lungo dibattimento (…), nuove circostanze sono venute alla luce, sconcertanti
situazioni sono affiorate, nomi già celebri ed altri ancora oscuri sono balzati alla luce del sole nei punti nodali
dove l’apparato dell’amministrazione pubblica, del Comune, si trasformava in strumento ausiliario della
politica e degli interessi del monopolio privato. L’andamento del dibattimento ha pienamente confermato la
(…) denuncia della collusione organica, della vera e propria “simbiosi” realizzatasi tra monopolio immobiliare
e pubblici uffici; della aperta, impudente violazione delle leggi dello Stato; del totale sovvertimento del
rapporto tra interesse pubblico e interesse dei privati; del vero e proprio saccheggio del patrimonio collettivo
perpetrato nella capitale dalla grande proprietà terriera con il sostegno attivo di coloro cui era affidata la tutela
dell’interesse pubblico e l’applicazione delle leggi. L’andamento del dibattimento e la sentenza conclusiva
hanno dischiuso uno spiraglio rivelatore sulla sordida selva di corruzione, di intrighi, di malcostume che
costituisce il tessuto del “sottogoverno” in certe pubbliche amministrazioni, alla scadenza dell’anno decimo
dell’attuale regime clericale.” _
Per le testate che avevano seguito con zelo il processo, che riponevano fiducia nel suo esito per poter sovvertire
lo stato delle cose attraverso la denuncia del malcostume e del sottogoverno, la sentenza di assoluzione era un
invito a nozze. Molti, però, sembravano ignorare che non si trattava di una sentenza di assoluzione in formula
piena, bensì di una assoluzione per insufficienza di prove: Benedetti e Cancogni venivano assolti non per non
aver commesso il fatto, ma perché non c’erano prove a sufficienza per dimostrare il contrario. Ci sarebbe stato
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un ricorso in appello, richiesto sia dai due imputati che dal Pubblico Ministero Antonio Corrias, e il suo esito
avrebbe irrimediabilmente dato alla vicenda un tono diverso: la corte d’Appello di Roma, la sera del 23
dicembre 1957, condannava Manlio Cancogni e Arrigo Benedetti, accusati di diffamazione dalla Società
Generale Immobiliare, a otto mesi di reclusione e a 70.000 lire di multa, che, aggiunte alla pena detentiva,
impedivano che fosse concessa la condizionale. Il 12 gennaio del 1958, Arrigo Benedetti commentava la
sentenza puntando il riflettore sulle conseguenze che la loro condanna avrebbe potuto avere sulla libertà di
stampa: “Prima del fascismo (…) i quotidiani si facevano promotori di inchieste di pubblica moralità, mentre
oggi, chissà perché, le evitano. Scandali, si dice con orrore; e di scandalismo s’accusa chi trova opportuno dare
ai casi della speculazione delle aree fabbricabili, dell’energia elettrica, della scuola laica ecc. il rilievo che
sembra necessario, anzi doveroso. La rinuncia della stampa italiana ad assumere la difesa degli interessi
generali è pericolosa specialmente quando, come hanno dimostrato gli onorevoli Zoli e Andreotti, nel caso
degli sposi di Prato _, il governo non intende difendere i diritti di tutti i cittadini. La verità è che alla DC sfugge
l’essenza del problema della libertà di stampa (…). Il governo disporrà sempre di mezzi sufficienti, attraverso
il ricatto fiscale ed il gioco del favoritismo, per ottenere ciò che gli preme: ieri otteneva che si sostenesse la
formula quadripartita, oggi che non si protesti contro il vescovo di Prato, domani, chissà…
Non so come giudicherà l’Italia di oggi lo storico di domani quando la ricercherà nelle collezioni dei giornali.
Scoprirà un’Italia idilliaca che esulta appena si ha notizia che una stilla di benessere è filtrata dove la miseria
resta sostanzialmente invariata; un’Italia soddisfatta di se e nemica di chiunque obietti che è assurdo lasciarsi
ingannare dalle apparenze”._
Quando nel dicembre del 1956 il Tribunale di Roma aveva assolto Cancogni e Benedetti dalle imputazioni
dell’Immobiliare, l’onorevole Bruno Villabruna aveva interpellato il governo e aveva proposto un’inchiesta
parlamentare sul Comune di Roma, ma l’interpellanza era caduta nel vuoto. “Un'inchiesta simile avrebbe dato
possibilità d’accertamento (alle quali dei semplici giornalisti non sarebbero potuti arrivare), e lo sfondo su cui
si sarebbe svolto il dibattito d’Appello sarebbe stato diverso. Ma il paese ha il parlamento che vuole –
concludeva Benedetti – per cui risulta ancora più urgente il problema della pubblica opinione in Italia. La quale
non esisterà finché (i direttori di giornale non vorranno) che esista; quasi ignorassimo che in essa è la nostra
unica difesa.”_
7. GLI AMICI DEL MONDO
“L’Osservatore Romano”, che faceva proprie le sconfitte della Società Generale Immobiliare, aveva
naturalmente trionfato per la sentenza della Corte d’Appello di Roma nel processo Immobiliare – “Espresso”.
Nel numero del 28 dicembre 1957, polemizzando con alcuni giornali che avevano giudicato con perplessità la
sentenza della Corte d’Appello, la testata vaticana aveva scritto: “Si parla di un clima romano di speculazione
e di arricchimento scandalosi, frutto o no che siano di illecite manovre (…). Di responsabilità in responsabilità
morale e sociale, se dai giornalisti si risale ai climi economici, da questi si risalga al clima del dopoguerra: di
un dopoguerra che ha semi distrutto il paese che doveva risorgere con i bisogni e la psicologia di un moribondo
che magari si scandalizza dell’arricchirsi del chirurgo che lo salva, ma per questo non lo diffama. Mentre qui lo
si è diffamato dicendo che non tanto aveva risposto cupidamente ad un doloroso appello, ma lo aveva fatto con
illecite manovre”. _
“L’Osservatore dunque non nega (…) l’affarismo, gli scandalosi arricchimenti, la speculazione sulle aree, ma
oppone una tesi alquanto abusata, la stessa che fu sostenuta dall’ex sindaco Rebecchini quando fu chiamato a
testimoniare davanti al tribunale di Roma: di fronte al bisogno urgente della popolazione, nel clima confuso del
dopoguerra, non si poteva andare per il sottile, non si potevano rispettare le forme; bisognava guardare al
concreto, bisognava costruire le case”._ Per “L’Osservatore Romano” l’Immobiliare era il chirurgo, magari
anche senza scrupoli, che però aveva salvato la cittadinanza romana dalla miseria, rispondendo ad un doloroso
appello. “La tesi è piuttosto logora – rispondeva “L’Espresso” – e tra l’altro non regge al confronto coi fatti: ad
opera dell’Immobiliare non ci fu nessun salvataggio e verso di essa non ci fu, soprattutto, nessun doloroso
appello. I senza tetto delle borgate (…) sono ancora oggi nelle stesse identiche condizioni di dodici anni fa:
l’Immobiliare non si è mai occupata di loro (…). L’Immobiliare si preoccupò soltanto di fare i suoi affari nel
miglior modo e di pagare ai suoi azionisti i più alti dividendi possibili. Costruì case di lusso e case per la
borghesia romana. Fece in modo che il comune valorizzasse i terreni di sua proprietà; riuscì a far cambiare i
piani regolatori secondo i suoi interessi; e si arricchì larghissimamente. Siamo (…) ben lontani dal doloroso
appello e dalle altre trovate de “L’Osservatore Romano”. Per restare nella metafora del giornale vaticano, un
fatto è certo: il chirurgo si arricchì scandalosamente. Quanto alla sorte del paziente, essa è molto dubbia.
Probabilmente il paziente è morto sotto i ferri.”_
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L’appoggio ai due condannati però, venne da una rivista che era molto vicina a “L’Espresso”. “Sotto il profilo
della speculazione ma anche sotto quello della salvaguardia del patrimonio artistico nazionale, nel campo
urbanistico, “Il Mondo” aveva condotto intense campagne con le rubriche di (Antonio) Cederna, ‘Il giardino
d’Europa’ o ‘La città eternit’, dirette contro “i despoti del cemento” (…), osservando che, dopo la dittatura,
anche in democrazia era continuato il “carnevale” degli ingegneri e degli architetti. Cederna criticò duramente
i complessi faraonici o “assiro – babilonesi” che si progettavano e realizzavano nelle città italiane, mentre
veniva individuato il grave problema costituito dal formarsi e dal crescere delle borgate romane. Per
denunciare la vastità dell’opera di demolizione del patrimonio storico ed artistico nazionale ad opera degli
speculatori fu inaugurata da Antonio Cederna anche una nuova rubrica: ‘I vandali in casa’.”_
Su “Il Mondo” del 7 gennaio 1958 si leggeva: “giusto un anno fa la sentenza di assoluzione del Tribunale di
Roma nella causa “Espresso – Immobiliare” e le sue documentate denuncie degli episodi di malcostume legati
all’usura delle aree fabbricabili, sollevarono un salutare moto di opinione in tutto il Paese; il Senato fu spinto
ad approvare un’apposita legge per contenere le speculazioni e stroncarle; la vigilanza della stampa si fece più
attenta, e la manifesta solidarietà degli onesti valse ad intimidire l’audacia degli speculatori. Oggi, appena
affievolito l’interessamento dei cittadini, la legge sulle aree fabbricabili giace insabbiata alla Camera, la
pressione dei privati interessi torna a prevalere su quelli della collettività, e nuovi episodi di speculazione e
malcostume dilagano. In questo nuovo clima, sopravviene, puntualmente, anche la condanna alla reclusione di
due giornalisti che nella coscienza di tutti avevano compiuto soltanto il loro dovere. Esprimiamo a Benedetti e
Cancogni la nostra piena solidarietà. Siamo convinti della giustezza della loro campagna. Se costituisce reato
l’aver affermato che al comune di Roma non si resiste alle pressioni della Società Generale Immobiliare o di
altre potenze affaristiche, o l’aver scritto che abusi, irregolarità e favoritismi contraddistinguono la politica
urbanistica del comune di Roma, vogliamo rendercene anche noi responsabili. Ma nessuna condanna e nessuna
pena potranno cancellare i fatti obiettivamente accertati nella sentenza del Tribunale di Roma e già noti a tutti
gli italiani.
Le pene inferte a giornalisti per l’adempimento coraggioso del loro dovere; le crescenti intimidazioni contro i
diritti della stampa nella sua funzione di critica e di censura, se non addirittura di cronaca e di informazione; i
ripetuti processi contro pubblicisti per vilipendio, per apologia di reato e per diffamazione; e le non celate
intenzioni di soffocare l’esercizio di un fondamentale diritto di libertà costituzionalmente garantito sono, a
nostro avviso, un attentato troppo grave all’avvenire del nostro Paese per non costringerci ad elevare con
fermezza la nostra protesta. Sulla gravità del problema sentiamo di dover richiamare l’attenzione di tutti gli
italiani consapevoli. La libertà della stampa è sempre cosa preziosa; ma nei periodi di sottogoverno, e di
malcostume politico, è una necessità vitale e inderogabile. Nessuna sventura maggiore potrebbe cadere oggi
sul nostro Paese di quella rappresentata da una stampa imbavagliata, o intimidita, o costretta al
conformismo.”_ La solidarietà degli “Amici del Mondo” era stata sottoscritta da più di 650 cittadini che
esprimevano il loro rammarico per l’esito della vicenda._
Eugenio Scalfari, ricordando la vicenda diversi anni dopo, scriveva “che la sentenza aveva suscitato sdegno e
clamore e sotto quel manifesto di protesta si era riunita tutta la grande famiglia dei “liberals” senza distinzione
di partito e d’affiliazione culturale. C’erano i liberali di sinistra (…) e i liberali ortodossi rimasti nel partito,_
c’erano gli ex azionisti in massa, c’era una folta rappresentanza del marxismo militante, socialisti e comunisti,
e scrittori, giornalisti, docenti universitari, artisti, gente di cinema e di teatro, banchieri e uomini d’affari della
“finanza laica”._
Questa iniziativa però venne ignorata da alcuni e condannata da altri. Su “L’Espresso” del 12 gennaio 1958,
Arrigo Benedetti si rammaricava con Perrone, il direttore del “Messaggero”, perché non aveva ritenuto
opportuno dare ai suoi lettori alcuna notizia della dichiarazione di solidarietà degli “Amici del Mondo”. La
polemica del direttore de “L’Espresso” nasceva dal fatto che riportare una notizia significava semplicemente
trasparenza e non compromissione con le idee espresse nella notizia medesima. Ma c’era anche chi al posto
dell’indifferenza proponeva indignazione: in un editoriale pubblicato il 5 gennaio del 1958 e intitolato ‘Non
possumus’, il quotidiano romano “Il Tempo” elencava le ragioni per cui nella vicenda Immobiliare –
“L’Espresso” si era schierato dalla parte della prima:
1 “L’accusa di capitale corrotta lanciata da “L’Espresso” diffama l’intera cittadinanza romana;
2 “L’Espresso” ha indebitamente esteso agli attuali amministratori del Comune di Roma accuse che riguardano
fatti accaduti nel lontano 1953;
3 La vigente legislazione sulla stampa espone i privati cittadini all’assalto indiscriminato della diffamazione;
essa va perciò riformata in senso restrittivo;
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4 I firmatari del manifesto sulla libertà di stampa pubblicato da Il Mondo la settimana scorsa sono degli ignari,
digiuni d’ogni informazione sull’economia, l’urbanistica e le cose romane dei nostri giorni; non hanno perciò
alcun diritto d’esprimere giudizi su materie così complesse (…).
Non possiamo quindi accettare gli inviti a solidarizzare con i condannati de “L’Espresso”. La libertà suppone
l’osservanza di certe regole del gioco, delle quali fa parte l’esistenza di una magistratura indipendente ed il
rispetto delle sue sentenze, incluse quelle che riguardano reati commessi a mezzo della stampa”._
La solidarietà degli “Amici del Mondo” nei confronti di Arrigo Benedetti e di Manlio Cancogni continuava,
nonostante la campagna di sensibilizzazione per la libertà di stampa non venisse accolta, così come ci si
sarebbe aspettato, dal mondo dell’informazione italiano. In un articolo intitolato ‘Silenzio e paura’ del 14
gennaio del 1958, “Il Mondo” esprimeva questo suo rammarico: “La dichiarazione per la libertà di stampa,
firmata dopo il processo Immobiliare – “Espresso” da più di 650 personalità della cultura della politica e del
giornalismo, ha avuto in pochi giorni una eco insolita (...). Tuttavia, non può sfuggire l’impressione che la
massima parte della nostra stampa “indipendente” ne avrebbe fatto volentieri a meno. Non può sfuggire
l’impressione, cioè, che i giornali italiani non sentano alcun desiderio di colmare con la loro opera quel
distacco che sempre più si avverte tra espressioni qualificate della vita politica del paese e vita di massa (…).
Non si può tacere che oggi ci si trovi di fronte, soprattutto, a un fatto di conformismo. L’atteggiamento della
stampa è un riflesso dell’atmosfera generale che pesa sul paese. È la paura che genera il conformismo; ma il
conformismo a sua volta genera la paura. Ed infatti questo è il paese in cui tutti hanno paura di tutti, e i giornali
d’informazione, coerentemente, non si permettono spregiudicatezza con nessuno. C’è la paura dei comunisti,
dei socialisti, dell’apertura a sinistra, di quella rischiosissima avventura che è il dialogo con l’onorevole Nenni.
C’è la paura di dispiacere ai potenti, ai padroni del vapore, ai grandi industriali legati ai finanziatori. C’è la
paura di scontentare in qualche modo i rispettabili e valorosissimi personaggi che presiedono alle sorti della
cosa pubblica, ministri, sottosegretari, esponenti nazionali della Democrazia cristiana, ras locali del partito di
maggioranza (...). E c’è poi, grandissima, la preoccupazione di toccare la Chiesa, e le gerarchie in cui essa
concretamente vive. Tante paure, tanti conformismi. I giornali oggi non sono conformisti, sono diventati
policonformisti. Del resto, se si volesse una controprova della necessità urgente di rompere il silenzio (…),
possono fornirla gli ampi discorsi e massicci interventi (de) “L’Osservatore Romano” (...). Si veda il caso
ultimo del processo “Espresso” – Immobiliare. Teoricamente, è difficile ritenere che il quotidiano ufficioso
della Santa Sede possa avere titolo e interesse particolari a parlare. Invece, come notavano i nostri amici de
“L’Espresso”, “L’Osservatore Romano” ha fatto proprie le vittorie e le sconfitte della Società Generale
Immobiliare e ha naturalmente trionfato per la sentenza della Corte d’appello di Roma (...). Si ricordino i
lunghi corsivi che “L’Osservatore” dedicò alla sentenza del Tribunale di Roma con censure anche gravi alla
magistratura italiana, e accomunando nella sua protezione un sindaco bocciato dal suo stesso partito e
un’amministrazione comunale scandalosamente irregolare. Che cosa difendeva, in sostanza? Forse gli interessi
spirituali della Chiesa cattolica? No, difendeva gli interessi estremamente concreti di una società dietro cui sta
il Vaticano, con i suoi Pacelli, Nogara, Galeazzi ecc. Ora, è pur vero che il caso delle speculazioni edilizie a
Roma, dell’incredibile serie di abusi e di irregolarità cui ha dato luogo il comune, dell’atmosfera di
rilassamento morale che si è determinata, è di interesse assolutamente generale. Ma la stampa non ne parla e
non affronta il problema, il conformismo trionfa, “L’Osservatore Romano” spadroneggia, gli interessi
particolaristici prevalgono, la tendenza al regime si rafforza e la paura si accresce; la stampa indipendente, a
sua volta, ne risente le conseguenze limitatrici. La battaglia alla minaccia di regime è battaglia per la libertà di
stampa, questo è il punto centrale della questione. Avremo il regime se il conformismo trionferà; e avremo il
conformismo se la stampa non fa il suo mestiere e il suo dovere.”_
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APPENDICE CAP. III
“Il Mondo” del 7 gennaio 1958:
Ugoberto Alfassio Grimaldi, Vittorio Enzo Alfieri, Barbara Allason, Giulio Alonzi, Sandro Ancona, Libero
Andreoli, G.B. Angioletti, Antonio Antonelli, Giuseppe Antonelli, Carlo Antoni, Franco Antonicelli, Gianni
Antonini, Fulvio Anzoletti, Alberto Arbasino, Dario Arfelli, Paolo Enrico Arias, Roberto Ascarelli, Tullio
Ascarelli, Rosario Assunto.
Tito Balestra, Angelo Bandinelli, Franco Bandini, Cecopre Barilli, Domenico Bartoli, Aldo Bassetti,
Lelio Basso, Luigi Bassoli, Riccardo Bauer, Goffredo Bellonci, Maria Bellonci, Guido Bersellini, Giorgio
Berti, Enzo Bettizza, Enzo Biagi, Pietro Bianchi, Libero Bigiaretti, Walter Bigiavi, Romano Bilenchi, Michele
Biscione, Catervo Blasi Foglietti, Carlo Bo, Giorgio Bocca, Arnaldo Bocelli, Alessandro Bodrero, Luciano
Bolis, Renato Bonelli, Carlo Bonetti, Giorgio Bonfiglioli, Vittorio Bonicelli, Alessandro Bonsanti, Leonardo
Borgese, Attilio Borgognoni, Aldo Borlenghi, Stefano Bottari, Giovanni Bovio, Cesarino Branduani, Gianni
Brera, Luigi Bulferetti, Vincenzo Buonassisi, Adriano Buzzati Traverso, Dino Buzzati.
Mario Cagli, Bruno Caizzi, Piero Caleffi, Guido Calogero, Salvatore Cambosu, Augusto Camera,
Piero Camilla, Delio Cantimori, Remo Cantoni, Renato Cantoni, Aldo Capitini, Salvato Cappelli, Marcello
Capurso, Carlo Caracciolo, Nicolò Carandini, Pietro Carini, Virginia Carini, Tito Carnacini, Alberto Carocci,
Fiorenzo Carpi, Raffaele Carrieri, Emilio Cassetti, Giuseppe Cassieri, Leone Cattani, Alberto Cavallari, Ennio
Ceccarini, Emilio Cecchi, Antonio Cederna, Camilla Cederna, Giovanni Cervigni, Gino Cesaretti, Marco
Cesarini Sforza, Nicola Chiaromonte, Tristano Codignola, Fausto Coen, Fausto Colliva, Carlo Colombo,
Guido Colucci, Gianni Comencini, Luigi Comencini, Giovanni Comisso, Francesco Compagna, Angelo
Conigliaro, Giovanni Contarello, Egisto Corradi, Cesare Covi.
Elena De Lagarda, Manlio Del Bosco, Oreste Del Buono, Piero Della Giusta, Luciano Della Mea,
Silvestro Delli Veneri, Lorenzo Del Turco, Vittorio De Marco, Tullio De Mauro, Lila De Nobili, Gino De
Sanctis, Edoardo Detti, Laura Di Falco, Lino Dina, Tommaso Di Salvo, Gino Doria, Massimo Duranti.
Enrico Emanuelli, Giovanni Enriques, Enzo Enriques Agnoletti.
Andrea Fabbricotti, Carlo Falconi, Italo Faldi, Oriana Fallaci, Giuseppe Faravelli, Emanuele Farneti,
Giorgio Fattori, Gian Giacomo Feltrinelli, Giovanni Ferrara, Giansiro Ferrata, Nello Finocchiaro, Vittorio
Fiore, Ennio Flaiano, Ebe Flamini, Bruno Fonzi, Franco Fortini, Raffaello Franchini, Arnaldo Frascani,
Arnaldo Frassinetti, Pietro Fredas, Ezio Friggerio, Gino Frontali, Vittorio Frosini, Giancarlo Fusco.
Filippo Gaia, Antonio Gambino, Anna Garofalo, Aldo Garosci, Aldo Garzanti, Antonio Ghiringhelli,
Maria Giacobbe, Emanuele Giardina, Renato Giordano, Romeo Giovannini, Giampaolo Giovine, Mario
Gliozzi, Paolo Glorioso, Francesco Gnecco Rusconi, Cesare Gnudi, Paolo Gozzi, Enrico Gramigna, Giuliano
Gramigna, Giorgio Granata, Gianni Granzotto, Paolo Grassi, Giovanni Grazzini, Tullio Gregory, Enrico
Greppi, Ugo Guanda.
Ugo Indrio, Felice Ippolito, Dante Isabella, Saul Israel.
Ugo La Malfa, Guido La Rocca, Carlo Laurenzi, Mario Leone, Mario Lepore, Alessandro Levi, Carlo
Levi, Raffaello Levi, Giorgio Levi della Vida, Francesco Libonati, Albertini Lippi, Luigi Locatelli, Celestino
Lucarelli, Piermaria Lugli, Eugenio Luporini, Vincenzo Luppi, Gino Luzzato.
Mino Maccari, Manlio Magini, Fosco Maraini, Enzo Marangolo, Giovanni Marchiafava, Clotilde
Marghieri, Luigi Mariotti, Tommaso Martella, Stelio Martini, Lily Marx, Giulia Massari, Franco Mazio, Maria
Adele Michelini, Massimo Mila, Paolo Milano, Bruno Minoletti, Ugo Guido Mondolfo, Paolo Monelli, Renzo
Mongiardino, Eugenio Montale, Indro Montanelli, Carlo Montella, Beatrice Conti Della Corte, Augusto
Monti, Elsa Morante, Alberto Moravia, Raffaello Morghen, Umberto Morra, Paolo Murialdi, Sirio Musso.
Gian Gaspare Napolitano, Gaetano Natale, Glauco Natoli, Gino Negri, Raffaello Niccoli, Fausto
Nicolini, Vittorio Notarnicola, Giuseppe Novello.
Vittorio Olcese, Adriano Olivetti, Arrigo Olivetti, Vittoria Olivetti, Vittoria Omodeo, Fabrizio Onofri,
Dino Origlia, Otiero Otieri, Achille Ottolenghi.
Enzo Paci, Umberto Padalino, Roberto Pane, Marco Pannella, Mario Pannunzio, Raniero Panzieri,
Luigi Paoletti, Luciano Paolicchi, Ferruccio Parri, Ercole Patti, Paolo Pavonini, Alessandro Pellegrini,
Guglielmo Petroni, Maria Pezzi, Leopoldo Piccardi, Silvia Piccolomini, Giovanni Pieraccini, Piero Pieri,
Domenico Porzio, Neri Pozza, Massimo Padrelli, Alberto Predieri, Luigi Preti, Virginio Puecher.
Pier Antonio Quarantotti Gambini, Maria Giulia Quarello,.
31
Giorgio Radetti, Raoul Radice, Carlo Ludovico Ragghianti, Giuseppe Raimondi, Marcello Ralli,
Andrea Rapisarda, Salvatore Rea, Egidio Reale, Eugenio Reale, Roberto Rebora, Anita Rho, Edmondo Rho,
Attilio Riccio, Eugenio Riccio, Vittorio Ripa Di Meana, Mario Robertazzi, Guido Rocca, Emanuele Rocco,
Fulvio Rocco, Stefano Rodotà, Ernesto Rogers, Mario Alberto Rollier, Salvatore Francesco Romano, Rosario
Romeo, Alberto Ronchey, Salvatore Rosati, Maria Rosselli, Ernesto Rossi, Angelo Rozzoni, Edoardo Ruffini,
Nina Ruffini, Giovanni Russo.
Filippo Sacchi, Nello Sàito, Alberico Sala, Teresita Sandeschi Scelba, Paolo Santarcangeli, Vittorio
Santoli, Giuseppe Santonastaso, Fidia Sassano, Eugenio Scalfari, Aleramo Scarampi, Lamberto Sechi,
Bernardo Seeber, Umberto Segre, Vittorio Sereni, Paolo Serini, Michele Serra, Ernesto Sestan, Leonardo
Sinisgalli, Tomaso Smith, Giorgio Soavi, Leo Solari, Gianfranco Spadaccia, Luisa Spagnoli, Altiero Spinelli,
Giorgio Spini, Raffaele Spongano, Tito Staderini, Giorgio Strehler, Piero Stucchi, Giulio Supino, Sergio
Surchi, Paolo Sylos Labini.
Enzo Tagliacozzo, Vincenzo Talarico, Michele Tito, Giovanni Titta Rosa, Mario Tobino, Alfredo
Todisco, Vincenzo Torraca, Alberto Tosi, Roberto Tremelloni, Renato Treves, Giuseppe Trevisani, Renzo
Trionfera, Piero Paolo Trompeo, Corrado Tumiati.
Giovanni Urbani, Pancrazio Uricchio.
Giorgio Vaccarino, Nino Valeri, Leo Valiani, Guido Veneziani, Franco Venturi, Lionello Venturi,
Italo Viglianesi, Giorgio Vigolo, Bruno Villabruna, Aldo Visalberghi, Bruno Visentini, Gino Visentini,
Maurizio Vitale, Paolo Vittorelli, Elio Vittorini.
Marco Zanuso, Cesare Zappulli, Emilio Zenoni, Bruno Zevi, Gaetano Zini Lamberti, Renzo Zorzi,
Angela Zucconi.
“Il Mondo” del 14 gennaio 1958:
Nicola Adelfi, Giuseppe Agnello, Rocco Agostino, Adelio Arbarello, Vittorio Alessi, Maria Alessio
Castellani, Enrico Altavilla, Augusto Ancarani, Renato G. Angeli, Giacomo Antonelli, Alberto Aquarone,
Francesco Arcà, Piero Ardenti, Giulio Carlo Argan, Guido Aristarco, Giovanni Arpino, Giuseppe Averardi.
Giovanni Bach, Pier Fausto Bagatti Valsecchi, Gerardo Bagnulo, Sandro Bajini, Gabriele Baldini,
Raffaello Baldini, Rolando Balducci, Pasquale Bandiera, Giancarlo Barone, Paolo Barile, Franco Basaglia,
Giorgio Bassani, Elena Bassi, Mario Bellandi, Girolamo Bellavista, Claudia Bellora, Giuseppe Belli, Oddone
Beltrami, Leonardo Benevolo, Margherita Bernabei, Tommaso Besozzi, Sergio Bettini, Alfredo Biadene,
Walter Binni, Silvio Biscaro, Alessandro Blasetti, Valentino Bompiani, Mario Boneschi, Carlo Bordiga,
Armando Borghi, Paolo Borghi, Cesare Brandi, Carlo Brizzolara, Gerolamo Brugnoli, Salvatore Bruno.
Giorgio Cabibbe, Gioacchino Calabrò, Italo Calvino, Giuseppe Campos Venuti, Francesco Capanna,
Riccardo Capobianco, Alberto Caracciolo, Enzo Carli, Lolita Carmi, Bruno Caruso, Dino Cassani, Carlo
Cassola, Antonio Castelli, Paolo Cesarini, Bianca Ceva, Luigi Chilò, Anna Ciampini, Raffaele Ciampini,
Enrico Ciantelli, Tullio Cicciarelli, Sigfrido Ciccotti, Michele Cifarelli, Francesco Clerici, Andrea Coloretti,
Alberto Corsi, Mario Corsi, Franco Costa, Roberto Cozzari, Raimondo Craveri, Paolo Crocioni, Rolando
Cultrera.
Giampietro Dalla Barba, Antonio D’Ambrosio, Erberto Damiani, Rodolfo Danieli, Giacomo De
Benedetti, Lando Dell’Amico, Walter De Floriani, Giuseppe De Logu, Fabrizio Dentice, Emilio de Rossignoli,
Enrica De Palma, Andrea De Vita, Furio Diaz, Ludovico Diaz de Santillana, Edoardo Di Giovanni, Mirella Di
Giovanni, Bruno Di Porto, Alessandro Leone di Tavagnasco.
Ercole Ercoli, Ugo Erede.
Silvia Facca Benedetti, Francesco Fancello, Renzo Farinelli, Peppe Fazio, Piero Fortini Gobbo, Plinio
Fraccaro, Delia Frigessi, Mario Fubini.
Franco Gaeta, Lucio Gambi, Alfonso Gatto, Antonio Ghirelli, Enrico Gianeri, Giorgio Giannelli,
Giorgio Giargia, Carlo Gigli, Lorenzo Gigli, Natalia Ginzburg, Antonio Giolitti, Giorgio Giugno, Aldo
Giussani, Giulio Grasselli, Domenico Graziano, Marino Graziano, Paolo Greco, Clara Grifoni, Maria Luigia
Guaita, Gian Maria Guglielmino, Roberto Guiducci.
Gianfranco Invernizzi.
Tullio Kezich.
Lelio Lagorio, Emilio Lavagnino, Giuseppe Lo Jacono, Riccardo Lombardi, Mario Loria, Vittorio
Lugli, Liliana, Luprieno, Michele Luprieno, Angelo Luzzatti.
Maria Teresa Macrelli Bartoli, Mario Mafai, Tarquinio Majorino, Giuliano Malatesta, Sergio Maldini,
Manfredo Manfredini, Romolo Mangione, Fernando Manzotti, Giuseppe Marchiori, Massimo Marciano,
Terenzio Marfori, Aldo Marcovecchio, Giuseppe Gino Martini, Amedeo Matacena, Anna Maria Matter,
32
Camillo Matter, Maurizio Mattioli, Giuseppe Mazzariol, Eugenio Melani, Carlo Melograni, Umberto Merani,
Marcella Merlo, Gianni Milner, Alberto Mondadori, Franco Monicelli, Furio Monicelli, Marco Montaldi,
Angelo Monteverdi, Enrico Morovich, Alberto Mortara, Costantino Mortati.
Salvatore Onufrio, Angelo Ormanni.
Geno Pampaloni, Enrico Paresce, Gina Parmeggiani, Giovanni Passeri, Giorgio Pastorino, Flavia
Paulon, Otto Pellegrini, Michele Pellicani, Francesco Perri, Sandro Pertini, Arrigo Petacco, Mario Petrucciani,
Raffaele Pettazzoni, Ernesto Pianciola, Dino Pieraccioni, Italo Pietra, Bruno Pincherle, Larissa Pini Boschetti,
Pietro Pintus, Guido Piovene, Giuliano Pischel, Livio Pivano, Paolo Polo, Angelo Ponzi, Vasco Pratolini,
Fernando Previtali, Giovanni Previtali.
Mario Raimondo, Luigi Rapallini, Oronzo Reale, Pietro Reichlin, Renzo Renzi, Carlo Ripa di Meana,
Franco Rispoli, Adriano Roccaforte, Teodoro Romanucci, Aldo Rondelli, Lia Rondelli, Vittorio G. Rossi.
Carlo Sannita, Giuseppe Santomaso, Giuseppe Semerari, Alessandro Semerari, Alessandro Sforza,
Ignazio Silone, Vincenzo Sozzani, Gaetano Speranza, Gianfranco Speranza, Domenico Spezioli.
Ruggero Tarantola, Giuseppe Tarozzi, Guido Tartoni, Sergio Telmon, Giovanni Terranova, Hrayr
Terzian, Arturo Tofanelli, Silvano Tosi, Domenico Traversa, Egle Renata Trincanato, Ettore Troilo, Marzio
Truzzi, Angiolo Tursi.
Mario Untersteiner.
Giuseppe Vaccari, Gino Valori, Marco Valsecchi, Ferdinando Vegas, Guido Vezzetti, Alberto Viani,
Dino Vighy, Giorgio Vigni, Enzo Vigorelli, Giancarlo Vigorelli, Elba Viola, Tullio Viola, Ferdinando Virdia,
Giovanni Vitagliano, Cesare Vivaldi, Pablo Volta, Sandro Volta.
Mario Zagari, Mario Zampa, Ernes Zampollo, Guglielmo Zanardi, Bruno Zanelli, Umberto Zanotti
Bianco, Pietro Zari.
Hanno inoltre inviato la propria adesione il Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale Insegnanti
Scuole Medie.
“Il Mondo”, 21 gennaio 1958
Franco Albini, Vando Aldovrandi, Francesco Alessio, Bruno Alfieri, Giorgio Altarass, Edoardo Amaldi,
Umbro Apollonio, Alberto Archetti, Giuseppe Arena, Ugo Azzoni.
Gianfranco Ballarin, Alfredo Barbaresi, Antonio Barboni, Vincenzo Becci, Mario Belardinelli, Aroldo
Benini, Annibale Beretta, Carlo Bernari, Silvio Bertocci, Mario Berutti, Francesco Bigi, Cesare Bizzoli, Adrio
Bizzarri, Vittorio Borachia, Lamberto Borghi, Gino Borioni, Antonino Borsellino, Paolo Bugialli, Franco
Buzzi Ceriani, Gae Buzzi.
Lia Calderoni Levi, Carlo Campolmi, Luigi Capponago Del Monte, Angelo Cardinaletti, Lanfranco
Caretti, Filippo Carpi de Resmini, Alberto Castagna, Giuseppe Castagna, Anna Castelli Ferrieri, Luisa
Castiglioni, Costanzo Casucci, Giuseppe Catenacci, Vindice Cavallera, Arturo Cavalli, Ezio Cerruti, Mario
Cervi, Giuseppe Chiostergi, Gaetano Cingari, Umberto Cipollone, Beniamino Cirillo, Giuseppe Cittone,
Ernesto Codignola, Renato Coen, Antonio Coffano, Giancarlo Colombo, Antonio Corbara, Maurizio Coroneo,
Antonio Corsano, Vezio Crisafulli.
Severino Dal Bo, Sergio Dalla Volta, Fedele D’Amico, Flavio D’Angelo, Ilo Dati, Giancarlo De
Carlo, Guido De Cori, Massimo Dell’Aquila, Ezio D’Errico, Giuseppe Dessì, Stanis Dessì, Andrea De Vita,
Luciano Doddoli, Gioacchino Doria, Giulio Doria, Ascanio Dumontel.
Giulio Einaudi.
Fabio Fabbri, Vittorio Faglia, Guido Favati, Salvatore Ferraretti, Ilario Franco, Enrico Freyrie, Franco
Fubini, Antonio Fussi.
Ignazio Gardella, Elda Frida Gardiol, Giuseppe Gargano, Elena Gasparroni Tresca, Eugenio Gentili,
Fausto Ghisalberti, Nardo Giardina, Marco Giolito, Gianluigi Giordani, Francesco Gnecchi, Luigi Grassini,
Terenzio Grandi, Giuseppe Guerra, Elena Guicciardi, Diego Gullo.
Franca Helg.
Italo Insolera.
Lorenzo Jarach.
Giorgio La Ferla, Otello Lancioni, Gustavo Latis, Vito Latis, Umberto Lattanzi, Leontina Levi Segre,
Piero Lingeri, Luciano Lischi, Francesco Liuni, Aldo Livadiotti, silvia Locatelli, Guglielmo Locuzio, Guido
Lopez, Raul Lunardi, Sergio Lupo.
33
Cino Macrelli, Aurelio A. Maggioni, Bruno Maier, Marco Majoli, Edoardo Malagoli, Angelo
Mangiarotti, Mario Manieri Elia, Lorenza Maranini Balconi, Rosa Maranini, Franco Marescotti, Ezio Mariani,
Biagio Marin, Giancarlo Marmoni, Antonio Marras, Sauro Martellini, Enrico Martini Mauri, Elvio Massani,
Gianni Mazzocchi, Enrico Mazzuoli, Giuseppe Mellis Bassu, Roberto Menghi, Riccardo Mezzanotte,
Giovanni Migani, Saverio Montalto, Luigi Montesano, Anna Monti Bertarini, Gian Emilio Monti, Mario
Monti, Piero Monti, Franco Moroni, Giovanni Morso, Adriano Moscati, Carlo Munari, Calogero Muscarà,
Giovanni Musso.
Guglielmo Narducci, Giuliano Neri, Giorgio Nicodano, Alceste Nomellini.
Giulio Obici, Lina Obici Talamini, Mario Obici, Oliviero Olivieri, Francesco A. Oneto, Roberto
Ortensi.
Vittorio Parmentola, Federico Pasetti, Aldo Passigli, Cesare Pea, Alessandro Peregalli, Enrico
Peressutti, Giuseppe Perrone Capano, Giuseppe Pestalozza, Livio Pesante, Gianfranco Piazzesi, Bruno
Perdicchi, Elio Pigato, Antonio Pigliaru, Gonario Pinna, Giovanni Pintori, Salvatore Piras, Giulia Porru,
Salvatore Prestipino, Franco Provenzali.
Dino Quadrelli, Ludovico Quaroni.
Franco Ravà, Domenico Rea, Maria Ricciardi Ruocco, Mario Righini, José Rimanelli, Franco
Roccella, Arnaldo Romanelli, Umberto Romitelli, Corrado Rossi, Francesco C. Rossi, Giorgio Rovati.
Enzo Sabbatini, Maurizio Sacripanti, Giorgio Salvioni, Luciano Salza, Carlo Santi, Pier Carlo Santini,
Leonardo Santoro, Franco Sapuppo, Gustavo Sarfatti, Sergio Saviane, Claudio Savonuzzi, Camillo Sbarbaro,
Rosa Scalini, Renato Scoppetta, Fiorenzo Serra, Emilio Severini, Ignazio Sforza, Valeria Silvi, Piero
Sinchetto, Rodolfo Siviero, Marco Sonnino, Ercole Specos, Sergio Stanziani, Albe Steiner, Fabio Suavi,
Giorgio Susini.
Eugenio Tavolara, Mario Tevarotto, Guido Tiberini, Gianni Toti, Giuseppe Tramarollo, Gaetano
Tumiati.
Pasquale Valentino, Michele Valori, Giorgio Vecchietti, Gian Franco Vené, Silvano Villani, Jacopo
Virgilio, Francesco Vitagliano, Luciano Volpe, Mario Volpi.
Giorgio Zampa, Carlo Zampini, Irma Zampini, Agostino Zanon Dal Bo, Renzo Zavanella.
Hanno inoltre aderito la Fondazione Durini e l’Associazione Corda Fratres. Nel primo elenco, al posto di
Guido Colucci va letto il nome di Giorgio Colucci, al posto di Luigi Paoletti, Anton Luigi Paoletti; nel secondo
elenco al posto di Lolita Carmi va letto Lisetta Carmi.
“Il Mondo”, 28 gennaio 1958.
Franco M. Abruzzini, Guglielmo Alberti, Adriano Amedei, Giovanni Aquaro, Maria Laura Aquaro, Francesco
Arcangeli, Gaetano Arcangeli, Giovanni Astengo.
Fausta Balden, Giorgio Barotto, Angelo Barrera, Giuseppe Belgiorno Nettis, Achille Benvenuto, Astorre
Berghenti, Giuseppe Berto, Marcello Bestagni, Maria Bianchi, Lorenzo Bocchi, Enzo Boeri, Ferruccio Boffi,
Guido Bonnet, Franco Briatico, Egidio Bruno, Alba Buitoni Gatteschi, Franco Buitoni, Lucio Bulgarelli.
Piero Campodonico, Giorgio Canini, Sergio Canini, Silvio Cardelicchio, Paolo Carile, Giovanni Caselli, Pier
Domenico Cervetto, Pietro Chiodi, Leone Cilla, Giuseppe Cintioli, Mariangela Cisco, Arturo Colombo, Luigi
Colonnelli, Valentino I. Compagnone, Carlo Conte, Carlo Cordié, Gaetano Cozzi, Aldo Cremonini.
Gabriele D’Alì, Antonio Damiani, Alfredo Dansi, Ludovico Devoto, Mario Dezmann, Antonio Domenichini.
Giuseppe Faraci, Mario Ferraresi, Raffaello Ferruzzi, Lamberto Foà, Lorenzo Fusi.
Hermes Gagliardi, Alberto Gaiaschi, Lello Gangemi, Astone Gasparetto, Anteo Genovese, Maria Teresa
Genovese Cicogna, Gigi Ghirotti, Aldo Giacomoni, Susetta Giordano Bonnet, Gian Luigi Giudici, Mario
Grandi, Saul Greco.
Osvaldo Pilari.
Raffaello Jodipini.
Silvano Larini, Eugenio Laurenti, Grazia Livi, Piero Locatelli, Luciano Lossonini, Giunio Luzzatto.
Francesco Majnoni, Olga Majolo Molinari, Fausta Mancini Lapenna, Cecilia Mangini, Loris Mannucci,
Arturo Manzano, Matteo Marangoni, Francesco Marchese, Emilio Marsili, Gian Carlo Menichetti, Susanna
Meschini, Walter Mignatti, Eucardio Momigliano, Anita Mondolfo.
Gianni Nardini, Sergio Nebbia, Gino Nogara, Adriana Noli.
Vittorio Ottaviano.
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Francesco Pardini, Ivano Parini, Raffaello Passeri, Antonio Pedrotti, Goffredo Petrassi, Giuseppe Pierangeli,
Giovanni Pioli, Eugenio Porta.
Umberto Ramella, Angelo Rezzani, Mario Riccamboni, Franco Rizzo, Giorgio Romano, Marco Romano.
Gilberto Salmoni, Luciano, Salomon, Giorgio Sansa, Giulio Scarrone, Bruno Sereni.
Mai Sewell Costetti, Luigi Scotti, Luigi Sirtori, G. B. Sivero, Corrado Sofia, Lina Stalla, Anna Stame Crociani,
Antonio Stame.
Michele Tedeschi, Aroldo Tellolj, Virgilio Titone, Giusto Tolloj, Michele Torre, Guido Torrigiani, Antonino
Trimboli, Ferruccio Troiani.
Jole Uslenghi.
Roberto Vacca, Giuseppe Vercelli, Silvana Verlengia, Ugo Veronesi, Adelmo Vivarelli, Mario Volpi.
Cesare Zaccaria, Luigi Zampa, Andrea Zanzotto, Ettore Zanzotto, Maria Zedeschi Rabbi.
Hanno inoltre aderito:
L’Associazione Goliardica Veneziana.
Il Consiglio Nazionale dell’ANPI.
Tommaso Di Salvo per l’Associazione “Benedetto Croce” di Ravenna.
Ettore Gentile, per il gruppo socialista del Consiglio Provinciale di Napoli.
Dario Giacomoni, per il Congresso dei Giovani Repubblicani Lombardi.
Marino A. Marini, per il Circolo di Cultura “Pietro Gobetti” di Udine.
Antonio Martelli, per il Comitato Direttivo della Federazione Giovanile Repubblicana di Milano.
CAPITOLO QUARTO
STATO E CHIESA
1. CRISI DEL CONCORDATO
L’arco temporale che va dalla nascita del settimanale di Benedetti sino al primo monocolore democristiano di
centro – sinistra con astensione socialista è fortemente caratterizzato da sistematici interventi delle alte
gerarchie ecclesiastiche nella vita politica italiana. “L’Espresso”, che si contraddistingueva come giornale
laico, “giornale d’assalto…un unicum nel quadro della stampa d’attualità italiana: una specie di spina nel
fianco del benessere”_, fissava la propria attenzione sugli ostacoli che si frapponevano al naturale sviluppo
della vita politica italiana. Il registrare tutto questo oggettivamente, automaticamente, è – lungi dal voler fare
un’apologia – una fatica che già contiene in sé un motivo di successo. In questo modo il lettore è trasportato su
alti livelli di radicalismo morale e politico dove, puntualmente, viene posto dinanzi ad una requisitoria severa,
e perfino un po’ acida e saccente, di tutti gli aspetti della vita italiana, e di questa Italia in cui “ogni cosa che
succede (…) finisce sempre nella commedia”_.
Altamente esemplificativo di questo modo di ritrarre la realtà è l’anticonfessionalismo de “L’Espresso”, anche
se sarebbe più corretto definire questo settimanale laico, con radici in una cultura di tipo illuminista,
completamente allergico a qualunque tipo di confessionalismo.
Le pressioni ecclesiastiche nei confronti dell’elettorato attivo erano in Italia una tradizione consolidata sin dal
primo dopoguerra. L’intervento elettorale della Chiesa cattolica durante la campagna del ’48, infatti, aveva
raggiunto delle punte molto elevate. “La DC – ha scritto P. Ginsborg – aveva beneficiato grandemente dello
zelante intervento, ad ogni livello, della Chiesa cattolica. Il 28 marzo, Pio XII avvisò i romani che la grande ora
della coscienza cristiana era suonata; il cardinal Siri _ e altri membri dell’episcopato ammonirono che era
peccato mortale non votare o votare per liste e candidati che non danno sufficiente affidamento di rispettare i
diritti di Dio, della Chiesa e degli uomini; nelle chiese i parroci rivolsero prediche che erano spudorati appelli
elettorali per la DC. Per dare un appoggio ulteriore il presidente dell’Azione Cattolica, Luigi Gedda, fondò i
comitati civici, gruppi di agitazione su scala locale il cui compito principale era quello di convincere i cattolici
ad andare a votare in massa il giorno delle elezioni e di istruire i vecchi e gli analfabeti su cosa dovevano fare
all’interno dei seggi.”_
“I comitati locali, in genere corrispondenti alle parrocchie, ammontano a diciottomila nel 1948 e ad altrettanti
nel 1953, mentre scendono a sedicimila nel 1960. Nati senza un legame formale con la gerarchia – ha scritto
Massimo Legnani – i Comitati rappresentano di fatto, specie sotto il pontificato di Pio XII, il tramite obbligato
tra la Chiesa e la DC di fronte alle consultazioni elettorali.”_
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Ad ogni scadenza elettorale, politica o amministrativa, le interferenze ecclesiastiche tornavano a far sentire la
propria voce. “Non ci sono limiti per la Provvidenza” – scriveva “L’Espresso” in occasione delle
amministrative del 1956: “ritenevamo che l’intervento elettorale della Chiesa cattolica avesse toccato durante
la campagna del ’48 la sua punta massima e non più raggiungibile nelle prove successive. La foga con cui la
Chiesa cattolica si è gettata in queste elezioni amministrative ha invece eguagliato, se non addirittura superato,
i ricordi di quell’epoca.”_ “L’Osservatore Romano” – dichiarava “L’Espresso” – aveva messo tutte le colonne
del suo giornale a disposizione della campagna elettorale, per rinfrancare i dubbiosi e convincere i riottosi.”_
Una settimana prima delle competizioni amministrative, venne distribuita ai fedeli della chiesa di San Petronio
di Bologna una notificazione degli arcivescovi e dei vescovi dell’Emilia Romagna: “Gli arcivescovi e vescovi
della regione Flaminia, sentono il dovere di rivolgervi in questo momento la loro parola di Pastori e di Padri
delle vostre anime. Se l’attuale competizione elettorale mettesse in gioco solo interessi d’ordine temporale i
vescovi, pur apprezzando quegli interessi, sarebbero lieti di tenersene al di fuori. Ma oggi sono in gioco, anche
e prima d’ogni altro, interessi spirituali: la libertà e la prosperità della vita religiosa nelle nostre città e
paesi…Non dunque uscendo abusivamente dai loro compiti spirituali, ma solo per difendere la causa di Dio e
della Chiesa, i vescovi di questa regione, successori degli Apostoli, maestri della dottrina di Cristo, prendono
oggi posizione e dettano alle coscienze cristiane, come è loro diritto e preciso dovere, queste direttive: 1. Nelle
attuali circostanze è grave obbligo di coscienza votare e votare efficacemente. Non si assolve quest’obbligo
dando scheda bianca. 2. È colpa grave dare il voto in favore del comunismo, che è essenzialmente ateo e
anticattolico, e al socialismo che lo affianca, e comunque a partiti, programmi e persone che, nei loro principi e
nell’azione che svolgono, siano in contrasto con la dottrina cattolica e le leggi di Dio e della Chiesa. 3. Nelle
contingenze attuali è anche dovere dei cattolici non disperdere i voti…Alla sensibilità della vostra coscienza
cattolica, o fedeli, noi Vescovi affidiamo le nostre direttive, pregando il Divino Spirito di illuminarvi e di
confortarvi nell’adempimento del vostro dovere civico e chiedendo alla dolce Madre Nostra, Regina del
mondo e Castellana d’Italia, di benedire con voi le vostre famiglie, i vostri comuni e dare al mondo la serenità
e la pace. Cristo regni sempre.
Bologna, 4 maggio 1956, Giacomo cardinal Lercaro e gli altri arcivescovi e vescovi della regione Flaminia.”_
In occasione delle consultazioni politiche del 1958, l’intero episcopato italiano sarebbe sceso direttamente in
campo, violando così gli articoli 20 e 43 del Concordato, l’articolo 7 della Costituzione e l’articolo 98 della
legge elettorale._
La preparazione della propaganda democristiana per le politiche del ’58 cominciò molto presto. Il risultato del
7 giugno 1953 doveva essere necessariamente superato e l’obiettivo da raggiungere era, per i fanfaniani, “un
nuovo nuovo 18 aprile”._
Nell’ottobre del ’57 si era svolto a Roma il Congresso dei comitati civici. “Se comunque fosse rimasto qualche
dubbio sull’attività politica dei comitati – commentava “L’Espresso” – esso è stato completamente dissipato
dal discorso del loro presidente Ugo Sciascia. L’Italia cattolica – egli ha detto – deve dimostrare a tutto il
mondo il suo contributo alla realizzazione di un nuovo ordine politico e sociale (…). Le direttive particolari
verranno a suo tempo. Ma, contro i dubbi e gli scetticismi, la meta fin d’ora è di giungere oltre il 18 aprile.”_ Al
coro si aggiungeva il cardinal Siri, voce autorevole dei vescovi italiani, dato come il più probabile successore
di Pacelli al trono pontificio. “Voi vi servite – diceva il cardinale in un discorso ai comitati civici – del diritto
d’associazione e questo diritto non diminuisce per il fatto che chiedete ispirazione e luce alla Chiesa. Il diritto
canonico e il diritto concordatario mettono taluni limiti all’attività del clero in ben determinati argomenti, e
mai in quello che fosse postulato dalla legittima difesa, ma tali limiti non sono messi ai laici da alcuna legge
anche quando questi laici si diportano da figli devoti della Chiesa”._
Il ministro dell’Interno Ferdinando Tambroni il 26 settembre del 1957 “affermava solennemente, in polemica
con l’on. La Malfa, che la Chiesa aveva sempre rispettato con lealtà le norme del Concordato, e impegnò la sua
responsabilità di ministro a impedire nel futuro ogni eventuale violazione di quelle norme.”_
La Democrazia cristiana intanto accusava i partiti laici sia di anticlericalismo, sia di combattere contro i mulini
a vento. La “querelle” tra cattolici e laici comunque continuava da entrambe le parti.
Intanto la Corte Costituzionale, con una sentenza del 2 dicembre del 1957, confermava la religione cattolica
religione ufficiale dello Stato italiano.
Di questa situazione di vassallaggio nei confronti del Vaticano, il fronte laico dei liberals accusava il partito
comunista per il loro voto favorevole all’istituzione dell’articolo 7 della Costituzione, articolo che ripristinava
il Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Nella primavera del ’57 gli “Amici del Mondo”
avevano proposto il loro sesto Convegno dal tema “Stato e Chiesa”. Il convegno era terminato con un ordine
del giorno in cui si chiedeva la denuncia del Concordato. “Un ordine del giorno – scriveva “L’Espresso” – che
non piace all’on. Togliatti”._ “I comunisti – aggiungeva il settimanale – non potendo confessare che il loro
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voto favorevole a quel partito fu il frutto di un basso machiavellismo nella speranza di dividere a mezzadria
l’Italia con la DC, tentano ora di sostenere che il Concordato è l’unica difesa dello Stato contro l’invadenza del
potere ecclesiastico. Di difese di questa sorta si farebbe volentieri a meno; esse in realtà non sono che
pericolosissimi strumenti d’attacco contro l’autonomia giuridica e politica della Repubblica, che sta
scomparendo ogni giorno di più.”_
La battaglia laicista de “L’Espresso” era nutrita di anticlericalismo che si giustificava con il clericalismo
dilagante a causa del dominio della Chiesa e della Dc. Si trattava tuttavia di un anticlericericalismo moderno,
privo di ogni grossolanità, teso verso il tentativo di rendere operante nella società italiana la religione laica, un
anticlericalismo che denunciava con l’arma dell’ironia, del sarcasmo e dello sdegno le collusioni del Vaticano
con gli ambienti speculativo – affaristici, tutte le forme di integralismo cattolico, il servilismo verso il potere
clericale dei grandi organi di informazione.
Forte, nel settimanale romano, era anche l’anticomunismo, vissuto però diversamente rispetto all’antifascismo
e all’anticlericalismo: ai comunisti si rimproverava la loro matrice sovietica, ma questa pregiudiziale veniva
meno quando il nemico da combattere era il medesimo. Come aveva affermato Gaetano Salvemini sulle pagine
de “Il Mondo”: “il giorno in cui i comunisti accetteranno la libertà, sarà possibile “abbandonare verso di essi
una posizione che ci pesa assai. Perché la nostra ostilità è permanente contro i fascisti e i clericofascisti e non
contro i comunisti”._
2. LA RAI – TV
Il 3 luglio del ’56 il consiglio di amministrazione della RAI – TV nominava il suo nuovo direttore generale:
Rodolfo Arata, già direttore de “Il Popolo”, organo ufficiale della Democrazia cristiana. Il 26 ottobre del 1944
veniva istituito un nuovo ente pubblico monopolistico, posto alle dipendenze del ministero delle Poste: la RAI,
Radio Audizioni Italia. “Questa soluzione – ha scritto Paolo Murialdi – consente al governo di intervenire sui
programmi radiofonici. Infatti, il sistema di garanzia e di controllo previsto non impedirà, come i fatti
dimostreranno, un sostanziale dominio democristiano.”_ In un articolo apparso sul settimanale radicale “Il
Mondo” si dichiarava che “la radio aveva sempre servito da strumento di propaganda democristiana e
riprodotto anche i discorsi dei più oscuri candidati della DC tacendo su tutti gli altri partiti o travisandone
propositi e programmi.”_
Nel 1956 Rodolfo Arata veniva nominato direttore generale della RAI – TV. “Il direttore di un giornale di
partito, anzi del partito di maggioranza – commentava “L’Espresso” – non può in alcun modo essere elevato ad
una funzione che richiede il massimo di imparzialità politica e di obbiettività giornalistica.”_ “L’Espresso”
non nascondeva il proprio disappunto per la strumentalizzazione di un ente che era alimentato dai fondi del
Tesoro e dal canone di abbonamento annuo. “Indipendentemente dalle qualità personali – commentava il
settimanale romano – Rodolfo Arata era l’ultima persona che potesse dirigere la RAI. Certo la DC non avverte
questi problemi o consapevolmente li risolve a suo vantaggio. Ma cosa fanno i suoi alleati di governo?”_
Una prima iniziativa per disciplinare, durante la campagna elettorale, le trasmissioni radiofoniche e televisive
fu presa nel ’58 dagli onorevoli Villabruna e La Malfa. L’istanza radicale e repubblicana aveva decisamente
messo in imbarazzo la DC. Erano due i punti del progetto radicale – repubblicano che, secondo “L’Espresso”,
dispiacevano al partito democristiano: “la richiesta che fino al giorno delle elezioni, la RAI – TV si astenga da
qualsiasi commento politico; il principio della parità di trattamento per tutti i partiti che affrontano la battaglia
elettorale. È naturale che queste proposte suonino ostiche alle orecchie dell’on. Fanfani e a quelle del governo
che lo rappresenta, scriveva “L’Espresso”. Assai meno naturale – aggiungeva il settimanale – è stata la
reazione di alcuni giornali di informazione di centro – destra, tra i quali si sono distinti “Il Corriere della Sera”
e “Il Tempo”. Questi giornali, proseguendo in una tattica ormai logora non hanno mancato di presentare il
progetto radicale – repubblicano come ispirato dalle sinistre (…). La verità è che questi giornali, insieme a tutta
la stampa conformista e qualunquista italiana, temono con pari ansietà il regresso elettorale democristiano e il
regresso elettorale comunista.”_
Secondo “L’Espresso”, la forza elettorale del partito comunista era il più prezioso tra gli alleati dello status quo
democristiano: la propaganda cattolica si basava fondamentalmente sul pericolo comunista e sull’avanzamento
elettorale del PCI. Ecco perché la stampa filogovernativa tacciava di comunismo ogni tipo di opposizione. “Le
sconfitte di Togliatti – aggiungeva il settimanale di Benedetti riferendosi all’editoria filodemocristiana – sono
le sue sconfitte, al pari delle sconfitte di Fanfani. Ed essa si rifiuta di supporre un avvenire in cui alcuni gruppi,
oggi di minoranza, possano dar vita ad un’alternativa a Fanfani e a Togliatti, liberando il paese da un ricatto
che dura ormai da quindici anni.”_
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La risposta del presidente del Consiglio Zoli alle richieste dei radical – repubblicani era stata negativa. Ciò
confermava un’accusa che “L’Espresso” aveva diverse volte formulato: “la RAI – TV non è al servizio dei
cittadini italiani, ma al servizio esclusivo del governo e del partito che lo esprime.”_
Quasi scoraggiato, alla vigilia delle consultazioni politiche del ’58, Benedetti dipingeva il quadro della
situazione: “Dopo aver tentato di resistere all’influenza del governo, della DC, dell’autorità ecclesiastica, la
Radio – TV si è arresa accettando di essere strumento di sfacciata propaganda unilaterale. Ogni sera l’insipido
notiziario televisivo tenta con falsa oggettività di dare un’idea gradevole del partito di maggioranza e dei suoi
comizi; subito dopo seguono, alla televisione, i documenti che illustrano con petulanza le opere del regime:
della DC, cioè, che s’arroga i meriti della generale operosità del popolo italiano.”_
Richiami per l’assoluta indipendenza della stampa e dell’informazione radiotelevisiva erano ripetuti spesso
sulle pagine de “L’Espresso”, così come ribadito nell’editoriale del primo numero._
Rivendicazioni in proposito dunque diventavano più sostenute nel momento in cui potenti organi di
informazione, come la Rai –Tv, davano prova di assoggettamento alle direttive del partito di maggioranza
relativa. “Non bisogna dimenticare che la stampa quotidiana, in quei giorni, subiva una certa crisi. Erano gli
anni in cui veniva esercitata, dalla destra, una forte pressione; assistevamo come a un riflusso, tornavano
vecchi nomi, tornavano vecchi stili”._
3. ‘SERVIRE LA CHIESA E NON SERVIRSENE’
Il 21 gennaio del ’58 il cardinale Alfredo Ottaviani aveva pubblicato su “Il Quotidiano”, giornale dell’Azione
Cattolica, un articolo intitolato “Servire la Chiesa e non servirsene.”_ La Chiesa, tramite uno dei maggiori
esponenti del suo porporato, sosteneva che i cattolici – includendo tra questi anche e soprattutto quelli investiti
di autorità politica – avevano l’obbligo di attuare la politica cattolica. “È il terzo articolo – scriveva il “Giornale
del mattino” – di una serie con cui “Il Quotidiano” risponde alla risorta campagna anticlericale, invitando i
cattolici a difendere la Chiesa.
Il porporato che regola la Congregazione del S. Uffizio, si rivolge prevalentemente ai cattolici ai quali chiede
una più decisa convinzione e un più generoso servizio della Chiesa, della sua dottrina e della sua missione
religiosa.”_
Con questo articolo veniva anche lanciato un violento attacco alla Democrazia cristiana, accusata di non essere
sufficientemente disponibile a piegarsi alla volontà della gerarchia ecclesiastica. L’accusa, anche se velata, era
diretta a quei democristiani che non rifiutavano i favori della Chiesa, ma che erano restii a renderle servigi.
“C’è persino dei cattolici in sede di autorità politica – aveva scritto il cardinal Ottaviani – che osano prendere le
parti di chi, non solo offende, ma addirittura massacra la Chiesa.”_ Il riferimento era stato interpretato come
diretto all’onorevole Del Bo. “Il presidente del Consiglio – scriveva “L’Espresso” – interpretando come diretto
contro un membro del governo l’attacco del cardinale, s’è affrettato ad umiliare il ministro Del Bo e se stesso,
imponendogli una specie di pubblica ritrattazione. Non contento di questa Canossa il ministro Del Bo si è
recato in pellegrinaggio espiatorio a Genova ed ha protestato all’eminentissimo cardinale Giuseppe Siri i sensi
della sua assoluta fedeltà alla causa della Chiesa.”_ Cominciava così il 1958, l’anno che avrebbe visto nascere
la terza legislatura repubblicana.
A Roma, Pio XII apriva la quaresima con un discorso ai parroci chiedendo, alle loro coscienze di pastori, se
non facesse parte del loro ufficio il dovere di vigilare sul buon nome di Roma e di impedire che una modesta
percentuale di calunniatori proseguisse “nella sua opera di devastazione con la speranza di tramutare il sacro
volto dell’Urbe in un aspetto (…) laico e quasi pagano.”_
La quaresima pre – elettorale, dunque, cominciava in chiave di crociata antilaica. “È doloroso – scriveva
“L’Espresso” – che proprio dal capo della Chiesa venga un incitamento di questo genere.”_
“La Chiesa in Italia è ossessionata da un unico pensiero, da un unico obiettivo, di fronte al quale tutto il resto
passa in seconda linea; la fondazione d’una società teocratica che abbia la funzione di piedistallo per la cattedra
di Pietro. È questo, da tempo immemorabile (…), l’ostacolo contro il quale urtarono gli sforzi di rinnovamento
della società italiana, la condizione che ha fatto debole lo Stato, ignoranti e misere le plebi, superficiale ed
esteriore la religione. La lotta contro questa fatale e ritornante tendenza alla teocrazia non è un fatto limitato
alle forze laiche, che oggi in posizione di minoranza, si battono coraggiosamente guadagnando i consensi
crescenti della pubblica opinione. È un fatto che deve interessare anche i cattolici. Anzi soprattutto i cattolici:
quelli almeno che non confondono il traffico delle indulgenze con la dottrina del Vangelo.”_
Intanto il 27 marzo “L’Espresso” pubblicava un’inchiesta di Eugenio Scalfari nella quale si accusava “il
ministro delle Finanze (Giulio Andreotti) di avere concesso a Giulio Pacelli, ministro della Costarica presso la
Santa Sede e a Stanislao Pecci, ministro dell’Ordine di Malta presso la Santa Sede, esenzioni fiscali che la
legge italiana, a cui i due diplomatici devono rispondere in quanto cittadini italiani, non ammette.”_
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Dopo cinque giorni di silenzio il ministro Andreotti confermava la notizia di Scalfari e precisava, “con un
candore suggerito dalla furbizia, che però i beneficiati dall’esenzione sono tre, aggiungendo il nome di Filippo
Serlupi Crescenzi, ministro della Repubblica di San Marino presso il Vaticano.”_ Non poteva mancare la
risposta de “L’Osservatore Romano”, “il cui linguaggio violento – commentava “L’Espresso” – è quello cui
crede di avere diritto un giornale che, sebbene distribuito quasi esclusivamente in Italia, non è tenuto ad
osservare la legge italiana in materia di diffamazione.”_ L’organo vaticano riferendosi a “L’Espresso” parlava
di “speculazione provocata da fogli socialcomunisti”. Secondo il settimanale di Benedetti, “L’Osservatore
Romano” con questa accusa aveva lo scopo di ingannare i suoi lettori, “notoriamente sprovveduti di
informazioni e di senso critico.”_
In un articolo pubblicato il 5 maggio “L’Osservatore Romano” negava che l’intervento dell’episcopato italiano
nella campagna elettorale _ potesse rappresentare una violazione dell’articolo 43 del Concordato e
dell’articolo 98 della legge elettorale. “La dichiarazione dei vescovi – affermava l’organo vaticano – non ha
affatto nominato la DC, ma ha semplicemente invitato i cattolici a rafforzare l’argine che difende in Italia gli
ideali e le aspirazioni della Chiesa.”_ Coglieva la palla al balzo il “Secolo d’Italia” il quale approfittava
dell’interpretazione fornita da “L’Osservatore Romano” sulla dichiarazione dei vescovi. L’organo del MSI
commentava: “Nessuna investitura esclusiva a chicchessia, nessuna preclusione, nessun veto, anzi piena
libertà, pur nell’unità degli intenti, a tutti i cattolici di votare per chi meglio credono, purché si tratti di partiti
che non violino l’etica cristiana.”_ “L’Osservatore Romano”, temendo che l’intervento dei vescovi venisse
interpretato come un semplice invito a votare per qualsiasi partito che non fosse laico, si affrettava a rettificare
il proprio commento a riguardo: “La dichiarazione vescovile – aveva scritto “L’Osservatore” in risposta al
giornale missino – parla esattamente non solo di unità di intenti, ma di unità di voto dei cattolici, mentre il
giornale missino parla di unità di intenti con dispersione di voti. Naufraga così – dichiarava in proposito
“L’Espresso” – la tesi minimalistica e il meschino espediente formale col quale le gerarchie cattoliche e il
giornale che ne è l’autorevole interprete vorrebbero dimostrare che i vescovi italiani non hanno violato né il
Concordato né la legge elettorale. L’indicazione della DC come il solo partito a favore del quale i cattolici sono
obbligati a votare, e le sanzioni verso tutti coloro che non seguiranno le istruzioni della gerarchia, configurano
senza possibilità d’equivoco il reato di abuso di potere previsto dalle leggi italiane.”_
In risposta ad un’inchiesta di Eugenio Scalfari sul tema “Chi comanda in Italia”, Mario Pannunzio dichiarava
che “la DC è ormai diventata una marionetta nelle mani della Chiesa. La Chiesa agisce direttamente nella vita
politica italiana, con una presenza attiva e scoperta (…). La Chiesa oggi, dal Pontefice ai cardinali, conduce
una politica chiaramente reazionaria e conservatrice in Italia e s’avvale delle forze reazionarie e conservatrici
per condurre una politica di potenza (…). Secondo me l’errore dei partiti laici, cioè per definire meglio in
questo caso dei liberali e dei socialdemocratici, è stato questo (…): ritenere che fosse possibile arginare il
clericalismo collaborando con la DC al governo. Hanno soltanto ottenuto di coprire con delle etichette
pseudolaiche l’affermarsi di un vero e proprio regime clericale. Il risultato è stato questo: che non c’è più un
presidente del Consiglio in Italia, ma c’è un presidente – vicario. Il vero presidente del Consiglio nel nostro
paese è il Pontefice. E ci sono alcuni laici che fingono di non accorgersene.”_ Ad una settimana dalle
consultazioni elettorali, in un editoriale in prima pagina, Arrigo Benedetti si chiedeva cosa significasse il
termine libertà per la Democrazia cristiana e per il potere ecclesiastico. “Il “Libertas” dello scudo crociato –
scriveva il direttore de “L’Espresso” – è un termine crudamente utilitario. Si chiede libertà d’insegnamento, si
chiede libertà per i vescovi e per i parroci, quando alla vigilia delle elezioni, violando il Concordato, la
Costituzione e la nostra legge elettorale, intervengono per concentrare il voto dei cattolici praticanti in un
partito unico. In nome di questa libertà strumentale, s’impedisce all’opinione pubblica di giudicare l’operato
del governo dopo tanti anni d’amministrazione inefficiente e spesso corrotta. Il gioco delle due parti consiste
nel far sì che apparentemente l’Italia conservi il suo aspetto democratico costituzionale. Nessuno, almeno per il
momento, propone di restituire il Quirinale al Papa o di limitare i poteri del Parlamento. L’Italia ha ancora le
apparenze che i costituenti le dettero nel ’47. L’operazione in corso non avrà la grossolanità di quella fascista,
ma, più sottile, cambierà il paese dall’interno, senza che (la maggior parte della gente se ne accorga …). Ormai
la distinzione tra potere ecclesiastico e religione non è più un cauto espediente polemico dei laici. È una
distinzione storica e doverosa (…). Si direbbe che il Vaticano abbia deciso di puntare sulle elezioni del 25
maggio come su una battaglia decisiva nella sua storia di potenza politica.”_
“Non bisogna dimenticare – ha scritto Arrigo Benedetti in occasione del decimo anniversario di pubblicazioni
de “L’Espresso” – che dieci anni fa il conformismo era generale (…). Appena ci si azzardava a dare dell’Italia
un’idea contraddicente quella consueta di un paese ormai pacifico, privo di problemi, addirittura ostile ad essi,
si veniva tacciati di scandalismo, accusati di lavorare per Mosca o, cio che è più offensivo, d’essere dei
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giornalisti irresponsabili, per i quali tutta la realtà è buona, pur di meravigliare i lettori, stupirli, insomma
diseducarli”._
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CAPITOLO QUINTO
“L’ESPRESSO”, I SOCIALISTI E I REPUBBLICANI
1. FANFANI E GLI INVITI AI SOCIALISTI
“L’Espresso” sembra, durante il suo primo decennio di pubblicazioni, un settimanale particolarmente adatto ad
un pubblico di riformisti impazienti: le ipotesi di una apertura a sinistra da parte della Democrazia cristiana non
convincevano completamente il settimanale di Benedetti e Scalfari. L’obiettivo primario che la Democrazia
cristiana avrebbe dovuto raggiungere non era, secondo il settimanale romano, una semplice maggioranza
governativa aperta ai socialisti, bensì l’attuazione di una politica sociale raggiungibile con l’ausilio del partito
di Pietro Nenni. Dalle cronache politiche del settimanale, infatti, si evinceva spesso il timore di un’apertura a
sinistra che trasformasse i socialisti in epigoni dei socialdemocratici.
“Noi ci battemmo, fin dal 1955 (…), con “L’Espresso” e con il partito radicale – ha scritto Eugenio Scalfari
diversi anni dopo – per un’alternativa di sinistra democratica, che fosse cioè il patto d’alleanza tra i laici e i
socialisti “ritrovati”._
Quando dopo il 25 maggio 1958 Fanfani, senza lasciare la segreteria politica, diventava presidente del
Consiglio e ministro degli Esteri di un governo DC – PSDI, per la prima volta nella storia dell’Italia
repubblicana si verificava l’intervento destabilizzante dei franchi tiratori, i quali avevano posto in minoranza il
ministero Fanfani respingendo una conversione in legge di un decreto sulla tassazione dei gas liquidi. La
presenza dei “franchi tiratori” in Parlamento veniva segnalata da “L’Espresso” con un articolo intitolato
‘Governo precario’. “Il voto della Camera (…) è qualcosa di più di un infortunio su un provvedimento fiscale.
È la risposta che le minoranze democristiane, battute al consiglio nazionale della DC, hanno dato all’on.
Fanfani per dimostrargli che con esse bisogna fare i conti ogni giorno e che l’esistenza del ministero è
condizionata dalle loro decisioni e dai loro umori”._
“È bastato che l’attuale presidente del Consiglio abbia messo in cantiere qualche provvedimento cautamente
riformista – scriveva Paolo Glorioso su “L’Espresso” – e il sospetto che nel futuro avrebbe fatto qualcosa di
più, per dare coraggio agli oppositori e immobilizzare (…) il governo”._ Il giudizio di Paolo Glorioso sui
timori delle opposizioni interne democristiane era dovuto anche agli inviti rinnovati da parte del segretario
della Democrazia cristiana, inviti rivolti ai socialisti affinché entrassero a far parte della sua maggioranza di
governo. L’invito, ribadito dall’on. Saragat, precludeva la possibilità di un ritorno ad una coalizione centrista
coi liberali. Questi inviti allarmavano sia le opposizioni interne alla Dc, sia “L’Espresso”, ma le motivazioni
erano diametralmente opposte. L’invito di Fanfani veniva considerato dal settimanale romano uno specchietto
per le allodole: “l’invito al PSI, nei modi e nelle forme con cui è stato fatto – dichiarava “L’Espresso” – è
soltanto una figura retorica (…). Il presidente del Consiglio tenta di ricondurre all’obbedienza la destra
democristiana e gli interessi che stanno dietro di essa, agitando lo spauracchio del governo coi socialisti. È
l’unica arma che Fanfani possiede in questo momento per superare la tempesta ed intimorire gli avversari. Ma
è un’arma spuntata. I suoi oppositori interni sanno perfettamente che da parte socialista il governo Fanfani non
potrà trovare, come ha detto l’on. Nenni, “né amicizia né tolleranza”. È dunque prevedibile che essi non si
faranno così facilmente intimorire dalla minaccia e che la fronda dei franchi tiratori andrà piuttosto
ingrossandosi che diminuendo nelle prossime settimane”._
Il centrismo, intanto, si disfaceva pezzo per pezzo. “L’esperimento Fanfani – secondo “L’Espresso” – nelle
intenzioni dei suoi promotori, doveva essere l’inizio della nuova fase. L’esperienza di sette mesi ha dimostrato
invece che esso è stato il prolungamento finale della formula centrista che ha governato l’Italia senza
interruzioni dal 1947 ad oggi, rinviando i problemi più gravi da un ministero all’altro. L’on. Fanfani ha
creduto, probabilmente in buona fede, d’essere l’uomo nuovo della terza legislatura. È stato invece un
epigono”._
Preannunciando una crisi di governo che veniva considerata da “L’Espresso” come l’epilogo dell’agonia del
centrismo, il settimanale romano proponeva ai suoi lettori un quadro globale della situazione politica italiana,
illustrando in che modo il governo Fanfani fosse considerato, sia a destra che a sinistra. Per la destra
democristiana – scriveva il settimanale di Benedetti – “la posta in gioco è il controllo del partito e la distruzione
della corrente fanfaniana. L’opera è già molto avanzata (...). Se la destra dello schieramento politico è tutta
vivacemente antifanfaniana, a sinistra la situazione non si presenta migliore per il governo. I comunisti temono
soprattutto che il processo di autonomia socialista giunga a termine e stimano l’attuale governo capace di
accelerarne le tappe (...). Per i socialisti il governo Fanfani – Saragat rappresenta il pericolo più grave: è il
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tentativo (…) di trasformare la spinta del PSI verso l’autonomia in una spinta verso il collaborazionismo e il
riformismo che ha caratterizzato la socialdemocrazia dal 1947 ad oggi. Non sembra però che il PSI sia disposto
a prestarsi al gioco: non per nulla Nenni non parla più di dialogo coi cattolici e di apertura a sinistra, ma
soltanto di alternativa socialista e democratica. La via del centrismo e del riformismo è ormai impraticabile: ha
dato al paese, nel bene e nel male, tutto quello che poteva dare. Pensare che Nenni voglia imboccarla significa
non aver compreso nulla del partito socialista e della realtà italiana attuale”._
2. “L’ESPRESSO” E IL XXXIII CONGRESSO SOCIALISTA
“Proprio nei giorni i cui maturava la crisi del governo Fanfani il Partito socialista teneva a Napoli il XXXIII
Congresso. Nei due anni trascorsi dal congresso precedente, quello di Venezia del 1956, occasioni per una
svolta definitiva non erano state oggettivamente offerte al PSI. ”_ Era emersa in questo congresso una querelle
tra due correnti: una facente riferimento a Nenni, l’altra a Vecchietti.
“Vecchietti ed i suoi amici – commentava “L’Espresso” – rimproverano a Nenni di abbandonare il terreno
dell’alternativa socialista e di scivolare sul piano inclinato socialdemocratico della mano tesa alla DC. Essi
sostengono che le forze cattoliche vanno tutte definitivamente ostracizzate dall’area democratica. L’inevitabile
conseguenza di questa posizione è di ribadire in modo permanente l’alleanza tra socialisti e comunisti nel
tentativo di creare attorno a questi due partiti la nuova maggioranza politica.
In sostanza quello che Vecchietti chiede è il ritorno al frontismo, cioè alla situazione esistente prima del
congresso di Venezia e perfino prima di quello di Torino. La posizione di Vecchietti è l’equivalente opposto e
simmetrico della posizione di Saragat: entrambi sulle opposte sponde, concepiscono le forze socialiste come
satelliti di un astro maggiore, in congiunzione col quale dovrebbero in permanenza muoversi”._ Tornava a
galla il netto rifiuto del settimanale romano, chiaro sin dal suo esordio: rifiuto di una visione manichea della
società italiana. “L’Espresso” era fortemente convinto che questo manicheismo si potesse superare ed arrivare
così a rompere la congiura dei due immobilismi contrapposti.
La formula esposta da Nenni al congresso era parallela alla formula che proponeva “L’Espresso”: un PSI,
svincolato dal PCI, che fungesse da deterrente al blocco di interessi conservatori che la DC rappresentava e che
si facesse promotore di una iniziativa di rinnovamento radicale della società italiana. Se ciò che la DC chiedeva
al PSI era di trasformarsi in un partito socialdemocratico e d’adottare la stessa politica di fiancheggiamento che
il PSDI faceva da anni, questa diventava ormai una richiesta evidentemente inaccettabile. “Il congresso
socialista – infatti – la respinse e si pronunciò per la formula che fu definita dell’alternativa, intendendo con ciò
contrapporre all’attuale maggioranza clericale e conservatrice una possibile futura maggioranza di sinistra
democratica, laica e socialista (…). E’ chiaro che una politica di sinistra democratica non può essere condotta
altro che da forze democratiche di sinistra. Esistono tali forze all’interno della DC? Nenni ritiene di si –
rispondeva “L’Espresso” – e le sollecita a provocare un chiarimento di fondo all’interno del partito”._
Il deputato socialista Francesco De Martino, al congresso di Napoli, aveva dichiarato: “Il nostro partito (…)
deve far di tutto per liberare le forze sane imprigionate nella DC e far scoppiare le contraddizioni del mondo
cattolico. L’alternativa democratica, ha aggiunto, la si pone raccogliendo intorno al PSI tutti i ceti che hanno
interesse al rinnovamento del Paese. Non si tratta d’eccitare le masse stanche ma di offrire ad esse una
prospettiva di reale avanzamento”._
L’ipotesi dell’apertura a sinistra emersa nel 1955 a Venezia, ed illustrata da Rodolfo Morandi, era stata così
eliminata; il principio dell’alternativa democratica era invece stato approfondito. Rimaneva, però, l’accusa di
chiusura su tre fronti che al congresso era stata mossa a Nenni, chiusura nei confronti della DC, del PSDI e del
PCI. “Il congresso dei tre no”, commentava “L’Espresso”, ma il segretario del partito socialista rigettava
queste accuse rispondendo con tre inviti: “Io non chiudo nulla”, aveva risposto Pietro Nenni ai congressisti.
“Col partito comunista, è vero, non è possibile un’alleanza giacché l’esperienza dimostra dopo 38 anni che le
serie divergenze del congresso di Livorno sussistono ancora; eppure i comunisti sanno che noi siamo arrivati
alle odierne posizioni dopo un lungo travaglio. Per cui è a noi che possono rivolgersi quando vogliono
risolvere le loro inquietudini (…). Pralognan è certamente un tema superato, continuava Nenni riferendosi al
progetto di unificazione socialista e socialdemocratica. Parlare di unificazione dopo il congresso
socialdemocratico di Milano è assurdo, ma le porte del PSI sono aperte non solo ai singoli socialdemocratici
che hanno a cuore una comune azione socialista ma ai gruppi che operano nel PSDI in disaccordo con l’attuale
segreteria (…). Anche ai democristiani ho detto di no, è vero, ha aggiunto l’on. Nenni, ma ho detto di no al
partito così come lo conosciamo, non ai cattolici che sinceramente condannano l’involuzione della loro classe
dirigente”._
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Il XXXIII congresso socialista dunque si concludeva su posizioni molto vicine a quelle de “L’Espresso”: la
chiusura nei confronti dei comunisti, dei socialdemocratici e dei democristiani non era permanente per il
settimanale di Benedetti e Scalfari. Era una chiusura contro il rifiuto dei comunisti ad entrare nell’area
democratica, contro la subordinazione satellitare dei socialdemocratici nei confronti del partito di maggioranza
e contro i blocchi conservatori della Democrazia cristiana posti ad ostacolo nel cammino del rinnovamento
della società italiana.
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3. “L’ESPRESSO” E IL CONGRESSO REPUBBLICANO
Nello stesso periodo in cui si teneva il congresso socialista, “L’Espresso” puntava l’attenzione anche sul
congresso del partito repubblicano, evidenziando quanto questo partito avesse accresciuto, negli ultimi tempi,
la propria simpatia e il proprio interesse verso le forze autonomiste del socialismo italiano. Parlando del partito
repubblicano come di un partito coraggioso, il settimanale romano si augurava che dal congresso di Firenze
venisse fuori “un partito repubblicano ancor più impegnato ad allargare a sinistra le alleanze democratiche e a
svolgere un’azione di critica e d’opposizione nei confronti del governo. Se questi saranno i risultati –
auspicava “L’Espresso” – il vecchio e glorioso partito di Cattaneo, di Garibaldi, di Mazzini avrà dimostrato
che gli anni e la tradizione non pesano e che il PRI è capace di interpretare le necessità politiche del paese. Il
congresso repubblicano di Firenze è l’antefatto indispensabile al congresso socialista di Napoli: l’uno si lega
all’altro, ed entrambi vanno inquadrati in un’unica prospettiva politica che vede finalmente sorgere in Italia un
grande schieramento d’opposizione democratica”._
A tal proposito, “L’Espresso” proponeva ai suoi lettori un’intervista all’onorevole Ugo La Malfa al quale si
chiedeva un giudizio sulla situazione del PSI e sulle accuse che venivano mosse a Pietro Nenni dal partito
comunista. “Tra le spregiudicate manovre intimidatorie della politica comunista – rispondeva l’onorevole
repubblicano – una delle più recenti e delle più sintomatiche è il tentativo di classificare la posizione politica di
Pietro Nenni come posizione politica di destra e di ridurla a semplice manifestazione di corrente all’interno del
partito. È evidente che il PSI, dopo oltre un decennio d’osservazione delle condizioni in cui si svolge la lotta
politica in Italia, si ponga il problema degli ulteriori sviluppi di questa lotta, ed è altrettanto evidente che
nell’esame degli elementi di giudizio, vi siano gravi e talvolta fondamentali discrepanze di giudizio in seno al
partito. Ma classificare questa diversità di giudizi come articolazione fra una destra e un centro e una sinistra, è
un arbitrio e una falsificazione (…). Nessuno potrà mai credere che la posizione politica di Pietro Nenni sia una
posizione di destra nel partito socialista italiano (…). Ma Pietro Nenni, a differenza di Palmiro Togliatti che ha
scelto la via di sacrificare la classe operaia e contadina italiana in una azione di tragica copertura del mondo
sovietico, s’è dovuto porre, ad un certo momento, il problema di quale sorte sia riservata alla classe operaia e
contadina che ai due partiti aderisce (…). La classe operaia e contadina italiana, che milita nei due partiti, non
è messa di fronte ad una soluzione di destra contro una soluzione di sinistra, ma ad una soluzione democratica
rispetto ad una soluzione totalitaria, e a una concreta azione politica di inserimento delle masse proletarie nella
vita dello Stato (che vuol dire del governo), rispetto ad un tentativo comunista che clamorosamente è fallito,
lasciando nell’insuccesso, nell’inedia e nella debilitazione quelle stesse masse che l’avevano seguito e
appoggiato”._
Tornava dunque l’elemento che contraddistingueva in politica il settimanale romano: il superamento dei due
blocchi contrapposti. Abbiamo già visto l‘importanza che ricopriva Ugo La Malfa per “L’Espresso”.
Contrapposto al segretario Oronzo Reale, egli rappresentava nel piccolo partito repubblicano il filone che si
batteva per porre fine alle alleanza democristiane contratte esclusivamente con i partiti laici minori. Ugo La
Malfa trovava spesso su “L’Espresso”, ma anche su “Il Mondo”, lo spazio per poter auspicare una
maggioranza di governo allargata ai socialisti. L’accusa di manicheismo lanciata da “L’Espresso” e da La
Malfa non era diretta esclusivamente nei confronti del partito cattolico, ma anche nei confronti dei comunisti.
“Cade per l’attuale governo – affermava il settimanale romano – ogni speranza di guadagnare l’appoggio del
partito repubblicano; cadrà probabilmente, in conseguenza della scissione socialdemocratica,_ l’alleanza col
PSDI o comunque la sua utilità parlamentare. I residui del centrismo scompaiono e con essi la possibilità per la
DC di nascondere le proprie interne contraddizioni scaricandone il peso sui partiti alleati.
In queste condizioni la Democrazia cristiana ha due strade soltanto davanti a sé. La prima è di affrontare la
competizione col PSI sul suo stesso terreno delle riforme economiche e del progresso sociale. La seconda
strada è quella di assumere esplicitamente la guida delle forze conservatrici del paese. È una strada legittima e
anche essa può contribuire al chiarimento generale che col congresso di Napoli s’è appena iniziato”._
4. FANFANI E LA FINE DEL DIVERSIVO RIFORMISTA
“Fine d’un equivoco” titolava “L’Espresso” quando si apriva la crisi del ministero Fanfani. “Il ministero, nato
con le caratteristiche tipiche d’un diversivo riformista, del diversivo riformista ebbe fin dall’inizio tutte le
velleità, tutte le furbizie, tutte le contraddizioni. Perché potesse attuare almeno in parte il cauto riformismo che
si proponeva era necessario però che le forze conservatrici, delle quali la Dc è la più completa espressione
politica, appoggiassero l’esperimento e fossero disposte a sopportare i modestissimi sacrifici che esso
richiedeva. Ma i fatti hanno dimostrato che le forze conservatrici non vogliono pagare questo prezzo, per tenue
che esso sia, e il ministero è caduto dopo una vita corta e ingiuriosa”._
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Pur riconoscendo al ministero uscente un cauto riformismo, “L’Espresso” polemizzava contro la definizione di
governo di centro – sinistra con la quale si qualificava il governo Fanfani. “Perché di centro – sinistra?” si
chiedeva il settimanale romano. Per quali (…) atti politici legislativi o amministrativi questo governo debba
esser giudicato di centro – sinistra è un mistero”._ Laddove i giornali conservatori avevano visto un governo di
centro – sinistra, “L’Espresso” riconosceva la tipica politica democristiana dell’orientamento al centro.
Se però la morsa dei franchi tiratori era stata determinante nella caduta del governo Fanfani, “L’Espresso”
denunciava anche l’intervento della gerarchia vaticana.
Gli anatemi ecclesiastici contro Fanfani cominciarono dal cardinale Ottaviani con un articolo pubblicato sul
“Quotidiano” il 25 gennaio del 1959. “Qualcuno volle interpretarlo – commentava il settimanale romano che
prestava particolare attenzione alle interferenze ecclesiastiche nella vita politica italiana – come una
manifestazione parziale, simile a quella che aveva spinto lo stesso prelato, nel 1958, ad attaccare duramente
Fanfani, nel medesimo giornale (...). Dopo la riunione della direzione DC (2 febbraio), conclusasi col rilancio
del bipartito e con una richiesta personale di Fanfani a indire nuove elezioni in caso contrario, si mettono in
movimento l’arcivescovo di Genova Giuseppe Siri, l’arcivescovo di Torino Maurilio Fossati, presidente della
conferenza episcopale, l’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro, l’arcivescovo di Napoli cardinale Alfonso
Castaldo. La formula governativa che essi esplicitamente appoggiano è un quadripartito, o in caso contrario,
data l’aggressività del PSI dopo il congresso di Napoli, un monocolore appoggiato dalle destre (…). Questo il
muro – denunciava “L’Espresso” – forse il più resistente ed invalicabile che Fanfani s’è trovato davanti (...).
Ormai sentiva di non essere più il leader del suo partito. Lo stesso direttivo parlamentare designando insieme a
lui Scelba, Piccioni, Segni e Tambroni, lo aveva sconfessato”._
Il ministero Fanfani soccombeva, dunque, sotto le forze intestine del partito di maggioranza relativa.
“L’Espresso” aveva seguito questa agonia riportando settimanalmente i vizi che avevano caratterizzato questo
governo e gli ostacoli sopravvenuti all’attuazione del suo cauto riformismo. Un nuovo governo, quindi, ma le
profferte socialiste rimanevano le stesse: una soluzione di alternativa democratica.
“L’Espresso aveva debuttato nel mondo dell’informazione da più di tre anni e ormai si notavano palesemente i
componenti che annoverava nel suo coktail settimanale: il dibattito politico-culturale, lo scoop, cioè il colpo
giornalistico, e il notiziario. Questi saranno gli ingredienti che, seppur diversamente combinati lungo gli anni e
prevalendo ora uno ora l’altro, caratterizzeranno i primi dieci anni del settimanale di Benedetti prima e Scalfari
dopo.
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CAPITOLO SESTO
LE GRANDI INCHIESTE DE “L’ESPRESSO”
L’ASINO NELLA BOTTIGLIA’
Abbiamo sin qui osservato “L’Espresso” e la politica italiana nel senso più stretto del termine, ma
“L’Espresso”, seppur si qualifichi come giornale politico, non è legato solo alla politica che si svolge nella
“stanza dei bottoni”, ma anche alla politica intesa come il complesso dei provvedimenti e degli indirizzi
concernenti la vita pubblica. Politiche dunque sono anche le numerose inchieste condotte da “L’Espresso” in
questo decennio. Alcune resteranno famose, come ‘Capitale Corrotta = Nazione Infetta’, altre non verranno
ricordate sui manuali di storia del giornalismo, ma assurgeranno comunque a quella funzione maieutica
caratteristica de “L’Espresso”.
Nel 1957 Gianni Corbi con una serie di articoli dà il via ad una inchiesta intitolata ‘I pirati della salute’_, con la
quale rivela gli aspetti più scandalosi del mercato farmaceutico italiano, l’alto costo dei medicinali,
l’inefficienza dei controlli del comitato interministeriale prezzi, gli sproporzionati guadagni dell’industria del
settore, gli sprechi degli enti mutualistici.
Sempre lo stesso anno viene dato il via ad un’altra inchiesta che resterà famosa anche per le polemiche che
solleverà: Antonio Gambino dedica una documentata indagine_ sul problema delle case di tolleranza, sulla
prostituzione di Stato, sullo sfruttamento e sui delitti ad esso collegati. L’indagine è accompagnata da una ricca
documentazione fotografica che provocherà numerose polemiche, ma “L’Espresso” tornerà più volte ad
intervenire su questo tema, anche dopo l’approvazione della legge Merlin.
“Possiamo legittimamente ascrivere a titolo di merito – scriveva “L’Espresso” nel 1958 – l’approvazione della
Camera, avvenuta la settimana scorsa, al disegno di legge della senatrice Angela Merlin sulla chiusura delle
case di tolleranza. Il disegno di legge, che era stato approvato dalla commissione della Camera in sede
referente nell’inverno del 1956, aspettava da quasi due anni d’esser discusso in aula. Da quasi due anni
figurava costantemente al settimo punto dell’ordine del giorno, ma al settimo punto non s’arrivava mai prima
della fine della seduta. (…). Cosa ha determinato, nello spazio di poche settimane, il capovolgimento della
situazione e il passaggio della legge? Crediamo di non peccare di modestia se attribuiamo all’inchiesta sulla
prostituzione svolta da “L’Espresso” nei mesi di ottobre, novembre e dicembre una funzione determinante in
questo risultato. La documentazione da noi fornita, il materiale messo sotto gli occhi della pubblica opinione,
hanno suscitato una reazione così vivace e unanime da arrivare fino in Parlamento. I rappresentanti di tutti i
gruppi politici (ad eccezione dei monarchici, dei missini e dei liberali) chiesero al presidente Leone_ il
dibattito immediato; e questo fu concluso con la massima rapidità. Nel frattempo il procuratore della
Repubblica di Roma, su denuncia della questura, ha iniziato il procedimento penale contro “L’Espresso”
accusato di oltraggio al pudore per l’inchiesta sulla prostituzione. In quest’Italia bigotta e conformista era il
meno che potesse capitarci per aver difeso una causa onesta e averla imposta contro il silenzio compiacente
dell’ipocrisia ufficiale”._
Nel gennaio del 1958 Carlo Falconi disegna la geografia del potere in Vaticano e nella Chiesa cattolica negli
ultimi mesi del pontificato di papa Pacelli, descrivendo il mondo della curia, dei gesuiti, della diplomazia e
della finanza vaticana_.
Sempre nello stesso anno, in una inchiesta che abbiamo già incontrato, Eugenio Scalfari denuncia l’esistenza
di una categoria di evasori fiscali autorizzati dal ministro delle finanze, rivelando che l’onorevole Giulio
Andreotti (allora responsabile di quel dicastero) aveva esentato con un’apposita legge alcuni congiunti di papa
Pacelli dal pagare le tasse dovute allo Stato italiano._
Michele Pantaleone invece, a conclusione di una documentata inchiesta sui personaggi, gli ambienti, i metodi
della delinquenza siciliana ed i rapporti di essa col potere politico ed economico, chiedeva che venisse
costituita una commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia._
Nell’aprile del 1959 un’inchiesta condotta da un gruppo di redattori de “L’Espresso” in Campania, Calabria,
Lucania, Sicilia e Sardegna ha come tema “le condizioni di miseria africana in cui vive una parte della
popolazione italiana”._ “Torniamo nel Mezzogiorno 84 anni dopo l’inchiesta Franchetti – Sonnino che
spaventò tanto l’Italia”._
In un’altra famosa inchiesta “L’Espresso” denunciava chi ci fosse dietro le spalle dei grandi quotidiani italiani
e come fosse organizzata, gestita, indirizzata la loro attività: questi i problemi che “L’Espresso” aveva
affrontato e dibattuto nel 1959 con una serie di articoli di Gianni Corbi e Livio Zanetti._
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Nel 1962 per la prima volta in uno Stato non socialista si cerca di strappare dalle mani di potentissimi gruppi
privati uno strumento decisivo per il progresso del paese. “L’Espresso” si impegna nella battaglia per la
nazionalizzazione dell’industria elettrica con una serie di articoli, interventi e inchieste di Eugenio Scalfari._
Non si tratta solo di una semplice inchiesta, ma di una vera e propria battaglia – condotta su “L’Espresso” da
Eugenio Scalfari con significativi interventi di Riccardo Lombardi e su “Il Mondo” da Ernesto Rossi – a favore
della nazionalizzazione dell’industria elettrica. Si tratta di una di quelle lotte contro i monopoli che caratterizza
il settimanale romano, soprattutto sotto la direzione di Eugenio Scalfari.
‘Mille miliardi introvabili’_, nel 1963, è una denuncia dell’incontrastato dominio della Federconsorzi
sull’agricoltura italiana, degli scandali legati all’ammasso del grano, dei bilanci truccati, dei rendiconti mai
presentati da questo ente pubblico. ‘Mille miliardi introvabili’ è l’inizio di una inchiesta che “L’Espresso”
conduceva ancora allo scadere del decimo anno di pubblicazioni. L’inchiesta di Gianni Corbi e di Eugenio
Scalfari è l’inizio di una lunga campagna che “L’Espresso” conduce tuttora.
L’ultima grande inchiesta di questo decennio è ‘La cedolare di San Pietro’_ del febbraio del 1965. Lino
Jannuzzi rivela come il Vaticano, col consenso del governo, abbia sottratto al fisco alcune decine di miliardi
rifiutandosi di pagare la cedolare sui titoli azionari di sua proprietà.
Trattare nel dettaglio tutte queste inchieste non sarebbe stato possibile. Ho quindi deciso di puntare ‘l’occhio di
bue’ su un’inchiesta del 1958 – ‘Il romanzo giallo dell’olio d’oliva’, diventato famoso con lo slogan ‘L’asino
nella bottiglia’ – sia perché ricordata da Eugenio Scalfari nel suo ‘La sera andavamo in via Veneto’, sia perché
ancora di sorprendente attualità.
1. ‘L’ASINO NELLA BOTTIGLIA’
“Se state per andare a tavola, rimandate la lettura di questa inchiesta: potrebbe togliervi l’appetito”._
Cominciava così la famosa indagine sul “romanzo giallo dell’olio d’oliva”. Fu un’inchiesta di discreto
successo e di un’inaspettata risonanza, tanto da promuovere diverse interrogazioni parlamentari. Il successo di
questa inchiesta – aveva dichiarato Marialivia Serini in una tavola rotonda dei redattori de “L’Espresso” – sta
nel fatto che “tutta l’Italia frigge e condisce”. “La verità – aggiungeva Alberto Moravia nella stessa occasione
– è che in fatto di mangiare siamo tutti sensibili”. Infatti, concludeva Franco Lefèvre, “almeno due volte al
giorno gli italiani, dopo la nostra inchiesta, hanno avuto modo di ricordarsi che l’olio con cui friggevano e
condivano poteva essere fatto con grasso animale”._
“Nove litri su dieci dell’olio d’oliva in vendita con questo nome – denunciava infatti “L’Espresso” – invece di
contenere olio puro d’oliva come scritto sull’etichetta, contengono grassi ricavati dai corpi di animali morti per
malattia o per cause naturali: cavalli, buoi, muli, asini, montoni, bufali o balene”._
Nel primo articolo, ‘L’asino nella bottiglia’, l’articolo che diede poi il nome a tutta l’inchiesta, Gianni Corbi e
Livio Zanetti denunciavano dettagliatamente tutto il processo che portava alla sofisticazione dell’olio di oliva.
La denuncia era particolarmente importante e di rilevanza nazionale, poiché l’olio di oliva rappresentava uno
dei principali beni d’esportazione dell’economia italiana. Secondo le indagini svolte dai redattori de
“L’Espresso” con l’ausilio di tecnici, chimici e docenti universitari, le sofisticazioni alimentari erano uno dei
principali deterrenti dell’economia nazionale.
Ogni giorno, dichiaravano Corbi e Zanetti, grossi carichi attraccavano nei porti di Genova, di Napoli e di
Ancona sbarcando centinaia di tonnellate di avanzi di macello provenienti da tutto il mondo, per poi viaggiare
alla volta delle grandi fabbriche di sapone.
“Le fabbriche di sapone sono la chiave di tutto il sistema, denunciavano i due redattori de “L’Espresso”.
Ufficialmente i grassi animali importati in Italia dovrebbero servire a fabbricare saponi: di fatto solo una
piccola parte di essi è utilizzata a questo scopo. Il resto, dopo uno speciale trattamento, viene smistato
all’oleificio”._
Per rendere più chiari i nessi che legavano gli oleifici ai saponifici, Corbi e Zanetti spiegavano il procedimento
tecnico grazie al quale era possibile ricavare olio di oliva attraverso una carogna d’asino o di balena. Chimici
specializzati, scoprirono che, “sottoponendo il grasso animale a spremitura, era possibile separarlo in due
frazioni: una solida che si prestava bene alla fabbricazione del sapone; l’altra liquida che poteva essere
miscelata nella porzione del 15-20% direttamente nell’olio di oliva. Fu allora che i carichi di grasso animale
cominciarono a varcare sempre più numerosi le porte dei saponifici. Ma tale sistema di frode non si ritenne
sufficiente. Si pensò di ricorrere al processo chimico dell’ “esterificazione”. Fino ai primi anni dell’altro
dopoguerra, in Italia, si conosceva un solo modo per produrre olio commestibile: la spremitura delle olive. Fu
verso il 1921 che un industriale di Monza, Gerolamo Gaslini, importò dalla Germania un brevetto che
consentiva di utilizzare per la produzione d’olio commestibile anche gli scarti della spremitura. Questi scarti
sono costituiti dai noccioli e dalla polpa già spremuta, e vengono chiamati sanse. Le sanse contengono ancora
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una piccola percentuale d’olio d’oliva (circa il 6-8 per cento) ma si tratta di olio con un alto grado di acidità. Il
problema era dunque l’utilizzare questo 6 – 8 per cento d’olio residuo, eliminando l’acidità che lo rende
incommestibile. Col nuovo brevetto tedesco, Gaslini risolse il problema e in pochi anni riempì il mercato
italiano di oli estratti dalle sanse, cioè oli di seconda spremitura, che vennero venduti col nome di “olio d’oliva
rettificato B”. L’esterificazione è un processo abbastanza semplice (…): se si combinano degli acidi grassi con
la glicerina in presenza di un catalizzatore, si determina una reazione in base alla quale l’acidità viene
neutralizzata, e si forma una sostanza oleosa dalle caratteristiche molto simili a quelle dell’olio d’oliva ottenuto
per spremitura. Con questo processo, Gaslini conquistò il mercato italiano dell’olio nel giro di pochi anni.
Buona parte dell’olio commestibile consumato in Italia, in quel periodo, era olio di sanse esterificato. Gaslini
importava le sanse dall’Algeria, da Cipro, dalla Grecia, dalla Tunisia, da tutto il bacino del Mediterraneo:
esterificava e vendeva. In poco tempo diventò uno degli industriali più ricchi del nostro paese. Tuttavia
l’esterificazione degli oli di sansa rientrava ancora nei limiti della decenza. Ma a cominciare dal 1950-51,
intervenne un fatto nuovo: alcuni industriali intraprendenti si chiesero se non era possibile, invece di
esterificare l’olio di sansa, il cui prezzo è di 300 lire al chilogrammo, esterificare grassi animali e vegetali,
diversi dagli acidi grassi d’oliva, i cui prezzi sono enormemente inferiori a quelli delle sanse”._
È a questo punto che cominciava la trasformazione dei grassi animali, i quali, depositati in una turbina,
venivano fatti roteare energicamente finché il grasso non si divideva in due parti: “una perfettamente solida;
stearina; l’altra liquida: oleine animali. La stearina serve per il sapone o per le candele; le oleine hanno invece
un destino più nobile: lasciano la fabbrica di sapone per entrare finalmente nell’oleificio dove, al reparto
esterificazione, vengono trattate col vecchio sistema Gaslini e private della residua acidità”._
La realizzazione completa del travestimento consisteva nell’introdurre alcuni grammi di clorofilla e di altri
ingredienti naturali grazie ai quali si poteva ottenere il colore verde oro caratteristico dell’olio d’oliva.
L’ultimo tocco era l’introduzione di una piccola percentuale di vero olio d’oliva.
Di quanto olio d’oliva così confezionato si fosse fatto uso fino ad allora era difficile stabilirlo, soprattutto
perché il grasso animale che entrava in Italia veniva catalogato come grasso per la produzione di sapone. Per
dare comunque un’idea di questo traffico, “L’Espresso” pubblicava i dati inerenti l’importazione di grasso
animale:
“Anno 1951, q.li 546.935; 1952, q.li 733.338; 1953, q.li 668.604; 1954, q.li 962.793; 1955, q.li 1.092.660;
1956 (10 mesi), q.li 861.235”._
Questi erano i dati inerenti un periodo in cui la produzione di sapone andava progressivamente diminuendo a
causa dell’introduzione nelle abitudini casalinghe dell’uso del detersivo in polvere. Si notava però che, proprio
in questo periodo in cui i pronostici facevano immaginare sarebbe diminuita l’importazione di grassi per
saponi, i flussi di grasso animale erano invece notevolmente aumentati.
“Si può dunque affermare – dichiaravano Corbi e Zanetti – che il quantitativo di oli ricavati dal grasso animali
e immessi sul mercato nel corso di questi quattro anni, ascende ad alcune centinaia di migliaia di quintali.
Migliaia di quintali che i consumatori italiani hanno comperato come olio d’oliva, e regolarmente pagato come
tale, vale a dire una media di 700 lire al litro, quasi il doppio del suo valore reale.”_
Quando nel 1953 si ebbe il sentore di uno scandalo in proposito, il governo fece pubblicare sulla “Gazzetta
Ufficiale” un decreto legge, poi convertito in legge, che poneva gli industriali di fronte a due alternative: la
prima prevedeva il pagamento di una tassa speciale applicata alle importazioni di grassi liquidi d’origine
animale; la seconda invece invitava gli industriali a trattare il grasso importato con dei denaturanti atti a
rivelare la presenza dei medesimi, una specie di cartina di tornasole che doveva far scoprire nel liquido
spacciato per olio d’oliva ogni minima traccia di grasso animale.
Fu facile però per gli industriali ovviare a questo ostacolo: scartata la prima ipotesi adottarono la seconda come
via d’uscita: “i denaturanti elencati dalla legge – dichiarava “L’Espresso” – hanno una caratteristica comune:
non resistono alle alte temperature; uno di essi in particolare, il nitrobenzolo, sembrava fatto apposta per
l’occasione. Anche uno studente universitario del second’anno di chimica sa infatti che non occorrono molti
gradi di calore per far sparire completamente la più piccola traccia di nitrobenzolo; e il processo di
mistificazione dell’olio si svolge addirittura a 210-220°: temperatura più che sufficiente a eliminare questo e
altri denaturanti. I frodatori adottarono compatti il nitrobenzolo per la denaturazione dei grassi importati, e il
loro olio di carogna continuò così a presentarsi irriconoscibile sul mercato”._
Nel periodo in cui “L’Espresso” pensava ad una inchiesta sulle sofisticazioni alimentari, però, veniva alla luce
anche una nuova scoperta: l’olio puro d’oliva da tavola veniva ricavato, oltre che dalle carcasse degli animali,
anche dai tronchi degli alberi secolari. “E’ una trovata – scriveva il settimanale romano – che promette
guadagni anche più emozionanti di quelli realizzati finora. Dal legno di pino e di abete si ricava infatti il talloil,
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più noto comunemente come olio di pino, anch’esso da qualche tempo usato su vasta scala, in aggiunta al
grasso di bestia, da certi oleifici italiani”._
Il problema aveva ovviamente una valenza, oltre che morale, soprattutto politica. “Nonostante la gravità della
situazione – dichiarava il settimanale a rotocalco di Benedetti – il governo italiano dorme (...). Eppure non
sono mancate le proteste ufficiali e autorevoli. Ecco un ordine del giorno votato recentemente a Roma:
“Facciamo voti affinché vengano messe sotto controllo tutte le industrie che procedono alla preparazione degli
oli esterificati; che venga sollecitamente modificata la classificazione ufficiale degli oli commestibili, con
denominazioni che rappresentino una netta differenziazione fra l’olio d’oliva e gli oli di altra origine; che
venga rivista la legislazione in materia, tenendo presenti le norme vigenti negli altri paesi (dove gli oli
esterificati, anche quelli di sansa, sono proibiti) adeguandola realisticamente alle possibilità d’un efficace
controllo da parte degli organi di vigilanza”._
A questo ordine del giorno, votato il 10 aprile del 1958 al XX Congresso d’Igiene, seguivano le firme di
igienisti, di chimici, di esperti in merceologia di alti funzionari del Ministero delle Finanze, dell’Istituto
Superiore di Sanità, dei laboratori chimici delle Dogane e di quelli provinciali d’Igiene.
“Nello stesso periodo si svolsero a Roma numerosi incontri tra i dirigenti dell’Assolearia, con a capo il loro
presidente Angelo Costa, e i funzionari del ministero dell’Agricoltura. Il professor Paolo Albertario, direttore
generale della tutela economica dei prodotti agricoli, dopo molti anni di silenzio, fece capire agli uomini della
Assolearia che ormai non era più possibile ignorare il problema, se non si voleva correre il rischio di far
scoppiare uno dei più grossi scandali di questo dopoguerra (…). Persino alcuni grossi industriali iscritti
all’Assolearia e sinceramente preoccupati di rimanere fedeli a una loro tradizione d’onestà commerciale si
sono ribellati (…). Il danno che deriva a consumatori e a produttori da questa politica è molto grave: per i
consumatori, come abbiamo detto, comporta una taglia di circa 250-300 lire per ogni litro d’olio acquistato.
Per i produttori le conseguenze sono addirittura drammatiche. L’Italia produce ogni anno 2 milioni di quintali
di olio di oliva, (quest’anno 3.400.000 quintali in gran parte invenduti); insieme alla Spagna siamo i più forti
produttori del mondo. Ci sono intere zone del nostro paese, soprattutto quelle collinari, che fondano la loro
economia sugli alberi d’olivo. Da alcuni anni queste zone stanno attraversando una crisi profonda (…). L’olio
d’oliva, quello veramente puro, dà guadagni sempre minori; il prezzo che i contadini ne ricavano riesce appena
a coprire i costi di produzione (…). Come può il piccolo produttore calabrese o toscano in queste condizioni –
si chiedeva “L’Espresso” – competere con i grossi complessi industriali dell’Assolearia, che dispongono di
grandi attrezzature, chimici specializzati, intere flotte, influenze nei ministeri, e che possono acquistare gli
avanzi dei macelli di mezzo mondo e le cortecce di pino dell’altro mezzo a prezzi bassissimi e nelle
congiunture più favorevoli?”._
2. LA BALENA SPALMATA SUL PANE
“Che cos’è il burro? Una definizione ufficiale ce la dà la legislazione italiana alla voce “Sostanze alimentari”:
<<Questo nome è riservato alla materia grassa ricavata con operazioni meccaniche unicamente dal latte di
vacca>>. Sistemi diversi da questo – dichiarava “L’Espresso” – non sono dunque ammessi dalla nostra legge
(e nemmeno da quelle straniere); chi si serve, per fabbricare il burro, di grassi non derivati dal latte di vacca,
qualsiasi sia la loro origine, animale, vegetale o minerale, compie una frode commerciale perseguita dal
Codice.”_
L’inchiesta ‘L’asino nella bottiglia’, cominciata con la denuncia della sofisticazione dell’olio d’oliva,
continuava con la denuncia di altre manipolazioni alimentari. Il secondo capitolo dell’inchiesta interessava i
processi che portavano alla sofisticazione del burro che da più di dieci anni veniva perpetrata affianco a quella
dell’olio d’oliva. “Il romanzo del burro – affermavano Corbi e Zanetti, protagonisti anche in questo secondo
articolo – comincia nelle piantagioni di soia della Cina, nei palmeti del Marocco e del Congo. Nei boschi di
cocco di Ceylon e delle Filippine. Da qualche tempo anche i pescatori collaborano alla produzione del burro.
Dai pescherecci e dalle navi frigorifero che battono i banchi di Terranova, o dalle flotte baleniere che vanno a
caccia di cetacei nell’Antartide, i grassi di merluzzo e di balena arrivano ai burrifici. Anche essi serviranno a
rimpiazzare il latte di mucca, che ormai è sempre meno presente nei pani di burro italiani: la quantità del latte
di vacca nei prodotti sofisticati non supera oggi la misura del 15-20 per cento”. _
La sofisticazione del burro era favorita da una circostanza naturale, fisiologica. Il latte e i suoi derivati, infatti,
sono sostanze dalla struttura molecolare particolarmente complessa. Molto spesso i chimici, per semplificare
la classificazione del latte la definiscono considerando solamente gli elementi più importanti, che sono: grassi,
azoto, lattosio, ceneri e residuo magro secco.
Affermare con precisione quali debbano essere le peculiarità di un burro genuino è dunque molto difficile.
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“La legge – dichiaravano Corbi e Zanetti – stabilisce che il burro deve contenere almeno l’82 per cento di
sostanza grassa. Ma di quali grassi? L’importante, per il produttore, è di raggiungere questa percentuale
impiegando il minimo possibile di grasso derivato dal latte di vacca, cioè di panna. Da quando i chimici hanno
scoperto che anche con la panna di capra, di bufala o di pecora, col grasso di soia o di palma o di lino è
possibile ottenere un amalgama dalle caratteristiche molto simili a quelle del burro, da allora è cominciata la
crisi del latte, che viene utilizzato sempre meno”._
L’impiego di queste sostanze è vietato dalla legge per la fabbricazione del burro; il suo uso è legittimo, però,
per quanto riguarda la fabbricazione della margarina._ “Per impedire che dai depositi di margarinifici la soia o
l’arachide o il cocco dirottino verso le fabbriche di burro, lo stato ha emanato una disposizione – catenaccio,
che obbliga i fabbricanti di margarina a immettere nelle loro miscele una dose di sesamo. Il sesamo è una
sostanza facilmente individuabile, un rivelatore che ha il compito d’obbligare la margarina a restare per sempre
margarina”._
Anche questo provvedimento non rappresentava, però, un problema insormontabile per i frodatori. Infatti era
obbligatorio trattare col sesamo solo la margarina che sarebbe stata messa in vendita: l'altra, che non aveva
subito il trattamento al sesamo, partiva alla volta delle fabbriche di burro, contribuendo a far diminuire il suo
costo di produzione.
Ad ogni modo, per un buon chimico sarebbe stato facile smascherare la miscela burro – margarina. È a questo
punto che comincia il perfezionamento dei frodatori. E’ sufficiente ripercorrere esattamente il processo
attraverso cui si è sempre trasformato il latte di mucca in burro. Si screma il latte e si estrae la panna la quale,
messa in macchine centrifughe, una volta rassodata crea una massa omogenea e consistente, ovvero il burro. “I
falsari – affermavano Corbi e Zanetti – non si sono staccati da questo procedimento tradizionale. Il loro punto
di partenza,(infatti), resta il secchio di latte; con una differenza: che si tratta di latte scremato, dal quale cioè è
già stata tolta la panna, ed è rimasta solo la parte liquida, il siero. Al posto della panna che utilizzano
separatamente, i falsari raffinati immettono nel siero del latte olio di soia, di cocco o di pesce, restituendo così
al latte la sua parte di grassi. I quali reagiscono fra loro, si amalgamano, acquistano lentamente omogeneità, e
formano una nuova panna, non eguale a quella autentica ma in ogni modo molto simile. Così si ottengono non
una, ma due o tre scremature, e un’imitazione ben riuscita.
Rimane una difficoltà da superare: il colore. Infatti il burro, quello vero, ha un inconfondibile colore giallo –
paglia, mentre il suo sosia è quasi bianco e spesso addirittura incolore. Intervengono a questo punto le sostanze
coloranti, come il caratene, che costa poco e non è nocivo, o come il dimetil-amino-azobenzolo, che costa
ancora meno ed è un agente cancerogeno”._
Seguiva queste denunce il parere di un esperto, il professor Arnaldo Foschini, ordinario di Merceologia nella
facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Roma, il quale avvalorava le tesi esposte da
“L’Espresso”. “Posso dire – dichiarava il professor Foschini – che la descrizione dei procedimenti di frode, e le
statistiche che (…) documentano questa inchiesta, sono esatte. Per quanto riguarda altri passaggi dell’articolo,
relativi alle responsabilità delle autorità, mi mancano gli elementi sufficienti per esprimere un giudizio
convinto. E’ certo però che il problema non è stato mai affrontato in modo efficace”._
Alla domanda se l’olio sofisticato fosse dannoso, Foschini rispondeva: “E’ difficile rispondere. Il grasso
dell’asino morto, una volta depurato e purificato diventa una miscela di gliceridi, e i gliceridi non danneggiano
la salute, salvo il caso che non siano controindicati. Se però i gliceridi (animali o vegetali) vengono preparati
con il processo dell’esterificazione, esistono seri dubbi sulla loro digeribilità”._ Come contromisure per
stroncare le frodi il professore Foschini suggeriva “una proibizione assoluta delle riesterificazioni in tutti i casi,
nonché una revisione radicale della classifica degli oli d’oliva, che togliesse ai rettificati B (oli esterificati) il
diritto d’usare la denominazione di “Olio d’oliva”. Per stroncare la frode c’era un mezzo più efficace: renderla
poco conveniente; anzi non renderla conveniente affatto; ciò che potrebbe essere raggiunto – suggeriva il
professor Foschini – con l’istituzione di marchi di qualità assegnati dal consumatore stesso attraverso una sua
organizzazione, quale esiste già in Italia: la Lega Nazionale dei Consumatori”._
3. ‘UNA PALLA DI GRASSO SULLO STOMACO’
L’inchiesta di Gianni Corbi e Livio Zanetti sarebbe dovuta finire al suo secondo capitolo: quello sulle
sofisticazioni del burro. C’era però un particolare che stimolava la curiosità dei due redattori: la quantità di
grassi animale importati dall’Italia raggiungeva un livello altissimo che faceva concludere che la percentuale
di olio e di burro sofisticato fosse pressoché la totalità messa in commercio. Questo particolare spinse i due
redattori a svolgere altre indagini finché scoprirono che non solo l’olio e il burro erano soggetti alla
sofisticazione dei frodatori, ma anche l’alimento italiano per eccellenza: il pane.
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“Solo una parte del pane che si vende in Italia – scrivevano infatti Corbi e Zanetti nel terzo capitolo della loro
inchiesta – è fatto di pura farina e lievito. Il grosso della produzione è più raffinato: ai due elementi base,
infatti, s’è aggiunto una miscela d’olio e burro che serve a rendere più morbido e croccante il prodotto. Ormai
il consumatore italiano s’è abituato a questo tipo di pane, e lo preferisce a quello tradizionale. La maggior parte
dei panini esposti nelle vetrine dei fornai portano la dicitura “pane all’olio”, “pane al burro”, “pane fino” e
costa qualche lira di più. Ma sono i più richiesti.
Di questa evoluzione del gusto in materia di pane, hanno subito approfittato i frodatori. La legge italiana
stabilisce che i fornai, per condire il pane, possono usare solo olio, burro e, dietro speciale richiesta, strutto. Ma
lo strutto, l’olio e il burro costano tre, cinque, anche otto volte più del grasso ricavato dalle carogne di animali.
Così, poco alla volta, i grassi scadenti cominciarono a sostituire quelli prescritti dalla legge nella confezione
dei pani conditi, e le partite di pane sospetto divennero sempre più numerose. Perfino i grissini, consigliati per
le diete dei malati di stomaco, vengono lubrificati e lucidati con grassi residui di saponifici o di fabbriche di
candele”._
Proprio nel periodo in cui l’inchiesta ‘L’Asino nella bottiglia’ cominciava ad indagare anche sulle
sofisticazioni cui era soggetto il pane, a Forlì veniva chiusa una fabbrica di grissini. Lo stesso era successo a
Torino, a Parma, a Modena, a Foggia: tutte confezionavano grissini col metodo illustrato da Corbi e Zanetti.
Da uno studio condotto da fisiologi e medici risultava che il fegato degli italiani era costretto a digerire
quantitativi sempre maggiori di grassi di pessima qualità.
Scartate le ipotesi del denaturante e del controllo del grasso dal punto di partenza a quello di arrivo, proposte
avanzate nel primo articolo dell’inchiesta, “L’Espresso” suggeriva ora altre idee per combattere i frodatori:
“controllare il grasso non alla partenza, ma all’arrivo, quando sta per varcare i cancelli degli oleifici e dei
burrifici. Per ottenere questo risultato basterebbe spostare la guardia di Finanza dalle fabbriche di sapone a
quelle dell’olio e del burro che sono meno numerose (…oppure) aumentare le pene ai sofisticatori e ai loro
complici.
Chi ha avuto modo di sfogliare le sentenze dei tribunali italiani in materia di frodi alimentari – spiegavano
infatti i due redattori del settimanale romano – si trova spesso di fronte a sorprese sconcertanti: le pene inflitte,
che in altri paese europei come la Svizzera o la Francia, prevedono tre, cinque e perfino otto anni di reclusione,
da noi si limitano a 30.000, 20.000, 8.000 lire di multa. Ci sono recidivi che, alla terza condanna, sono stai
puniti con 12.000 lire”._ Il romanzo giallo dell’olio però sarebbe continuato.
4. “L’ESPRESSO” E IL PRESIDENTE DELL’ASSOLEARIA
La sera di sabato 28 giugno 1958 il dottor Angelo Costa, presidente dell’Assolearia riuniva una conferenza
stampa per presentare il punto di vista della sua associazione sul problema delle frodi nella produzione
dell’olio d’oliva. “L’Espresso” era rappresentato da Eugenio Scalfari, Gianni Corbi e Livio Zanetti. Dopo un
acceso contraddittorio tra i rappresentanti del settimanale romano e il dottor Costa, “L’Espresso” si faceva
promotore di un dibattito per chiarire con precisione tutte le responsabilità nel campo delle frodi, comprese
quelle del governo.
Per dare ai lettori un quadro completo del dibattito svoltosi nella sede della Confindustria “L’Espresso”
pubblicava un resoconto sommario della relazione del presidente dell’Assolearia dottor Angelo Costa, e il
testo stenografico della discussione che ne era seguita.
Il dottor Costa aveva affrontato il grave problema delle frodi: “La lotta contro le frodi è un modo essenziale di
proteggere l’olivicoltura e l’industria olearia”,_ aveva detto il presidente dell’Assolearia. Nel presentare
questo problema, il dottor Costa aveva descritto meticolosamente il processo che i frodatori seguono per
produrre olio sofisticato, tanto da sollevare il dubbio in Scalfari che il testo della conferenza fosse ispirato agli
articoli dell’inchiesta ‘L’asino nelle bottiglia’. “Ho ascoltato con molto interesse la sua relazione, aveva
affermato Scalfari nel corso della conferenza stampa. Per i quattro quinti essa sostiene le stesse cose, e direi
con le stesse parole, che i colleghi Corbi e Zanetti hanno sostenuto nella loro indagine. Se in materia d’olio noi
non fossimo dei novellini e lei non fosse un industriale d’antica esperienza, potremmo addirittura pensare che
lei abbia qui riassunto, ad uso dei colleghi della stampa, i concetti e i fatti esposti da “L’Espresso”._
Ciò avrebbe potuto rappresentare un motivo di vanto per il settimanale romano, se non fosse stato per il tono
polemico e di accusa con cui il dottor Costa aveva accennato agli articoli di Corbi e Zanetti. Se il dottor Costa
e i redattori de “L’Espresso” erano d’accordo sull’esistenza delle frodi nella produzione d’olio d’oliva, il
contraddittorio nasceva sulla misura in cui queste frodi si svolgevano. Il dottor Costa parlava di piccoli
laboratori clandestini; “L’Espresso” di frodi perpetrate a livello industriale. “Vorrei chiudere la mia relazione –
aveva dichiarato il presidente dell’Assolearia – accennando ad un articolo, pubblicato da “L’Espresso” che
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abbiamo distribuito in copia nel fascicolo che v’è stato consegnato all’inizio di questa conferenza. Questo
articolo è stato seguito, nel numero successivo de “L’Espresso”, dal parere d’un cosiddetto esperto, il
professore Arnaldo Foschini ordinario di Merceologia nella facoltà d’Economia e Commercio dell’Università
di Roma. Questo professore, di un’infinita ignoranza, superata forse dalla sua ingenuità, ha avallato le cose
scritte nel giornale. Ha dunque avallato sciocchezze di questo genere: che i profitti degli industriali che frodano
ammonterebbero a 50 miliardi l’anno, mentre anche assumendo per buoni i calcoli de “L’Espresso” non
s’arriva a più di 7 miliardi l’anno. “L’Espresso” pubblica anche una statistica sull’importazione di olio di sego;
da questa statistica si deduce che le importazioni di sego sono raddoppiate in quattro anni, e il giornale ne
ricava la conclusione che l’aumento d’importazioni è servito ad alimentare la produzione dell’olio fabbricato
con grassi animali. È una sciocchezza ed una falsità. “L’Espresso” ha affermato il falso sapendo che era falso.
Ha detto qualche verità mescolata con molte bugie per gettare il discredito su tutta una categoria. Noi intuiamo
chi ha dato informazioni a questo giornale. Chi ha dato queste informazioni e queste statistiche sa bene che,
negli stessi anni in cui aumentava l’importazione del sego diminuiva proporzionatamente l’importazione degli
oli di palma e degli oli di cocco per la fabbricazione del sapone. Oggi il sapone si fa al cento per cento con
sego: ecco la spiegazione dell’aumento delle importazioni. Per reprimere questi abusi, che danneggiano non
soltanto il consumatore ma anche l’industria olearia seria che è la stragrande maggioranza, la nostra
associazione non ha mancato di intervenire infinite volte presso i ministeri competenti. Siamo intervenuti
presso il ministero dell’Agricoltura e quello delle Finanze, suggerendo i provvedimenti opportuni per una
maggiore vigilanza. Nel fascicolo che è stato distribuito a tutti i giornalisti qui invitati troverete un elenco di
ben 57 lettere che l’Assolearia, a partire dal 1950, ha indirizzato agli uffici ministeriali. Ma per la consueta
lentezza della burocrazia italiana, ben poco è stato ottenuto”._
A questo punto, Scalfari prendeva la parola dicendo che sia il presidente dell’Assolearia, sia “L’Espresso”,
sostenevano che le frodi esistessero. “Lei afferma – diceva Scalfari rivolgendosi al dottor Costa – che le frodi
avvengono in quantità trascurabile, in piccoli impianti semi – clandestini; noi affermiamo invece che esse
sconvolgono tutto il mercato oleario, ed avvengono su vastissima scala per iniziativa della grande industria
olearia italiana. Lei, dottor Costa, ha fatto poco fa un’affermazione assai grave contro “L’Espresso”: ha detto
che noi abbiamo scritto il falso sapendo di scrivere il falso (…). Noi abbiamo effettuato la nostra inchiesta su
documenti forniti da tecnici, funzionari dello Stato, analisti dei laboratori chimici d’Igiene, dirigenti
dell’ufficio centrale dogane del ministero delle Finanze, professori d’Università. Noi non siamo dei tecnici e
non abbiamo la sua esperienza in materia olearia, dottor Costa. Abbiamo ripreso denuncie ed accuse fatte da
tecnici che non rappresentano alcun interesse personale o di categoria”._
Il lungo contraddittorio tra i redattori de “L’Espresso” e il presidente dell’Assolearia continuava con la
proposta degli ultimi di reincontrarsi in un dibattito pubblico, in modo da dare all’opinione pubblica un’idea
della situazione delle frodi olearie.
Intanto, ad avallare le ipotesi de “L’Espresso”, ovvero che le frodi fossero perpetrate su scala industriale e non
in piccoli laboratori clandestini, pensavano le varie denuncie della Guardia di Finanza. “L’ottava legione
territoriale della Guardia di Finanza di Firenze, dopo un’inchiesta durata sei mesi, proprio in quei giorni
presentava al Procuratore della Repubblica un rapporto penale di denunzia a carico di dodici persone per
associazione a delinquere, frode di commercio, favoreggiamento personale, contrabbando di acidi grassi
animali agevolati, abusiva introduzione dei medesimi in oleifici, abusiva circolazione di documenti falsi”._
In cinque mesi 6755 quintali di grassi destinati a fabbricare detersivi e saponette erano stati trasformati in olio
d’oliva, imbottigliati e messi in commercio. “Non si tratta – dichiarava “L’Espresso” – di piccoli oleifici, di
fabbriche semiclandestine. Lo stabilimento Giuriani, (uno di quelli denunciati dalla Guardia di Finanza di
Firenze), è il secondo per importanza della Toscana e quindi uno dei maggiori d’Italia (…). Finora sono stati
scoperti tre oleifici toscani. Ma quanti sono – si chiedeva il settimanale romano – gli oleifici grandi e piccoli,
sparsi in ogni regione d’Italia, che da anni esercitano questa frode su scala organizzata (…)? Intanto, mentre i
primi imputati si preparano a comparire davanti al giudice, il traffico continua. Possiamo dire con certezza,
infatti, che mentre scriviamo un grosso mercantile sta viaggiando dalla Grecia con un carico di olii di sanse
misti ad acidi grassi destinato a Bastia in Corsica; ma il punto di sbarco effettivo è qualche porto della
Sardegna settentrionale dove attraccherà clandestinamente. Un altro mercantile con lo stesso carico è sbarcato
poche settimane fa nel golfo di Taranto. Sono vere e proprie navi pirata, che ogni settimana (…) forniscono
agli oleifici il condimento per la nostra tavola”._
A questo punto, una volta smascherato il lavoro dei frodatori e avuta la conferma che le sofisticazioni
avvenissero sistematicamente e a livello industriale, il settimanale romano concentrava la sua attenzione sulle
responsabilità che coinvolgevano queste manipolazioni.
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5. IL DIVIETO DI ESTERIFICAZIONE CONCLUDE IL ROMANZO GIALLO DELL’OLIO DI OLIVA
Durante la conferenza stampa che si era tenuta sabato 28 giugno tra i rappresentanti della stampa e il dottor
Angelo Costa, il presidente dell’Assolearia aveva rivelato come fin dal 1950 l’associazione da lui presieduta
avesse segnalato ai competenti ministeri quanto avveniva nel campo oleario, suggerendo anche le misure e i
provvedimenti giudicati opportuni per reprimere le frodi, colpire i disonesti, tutelare gli industriali probi e i
consumatori ignari. “Il presidente dell’Assolearia – scriveva Scalfari – ha elencato ben 58 lettere da lui dirette,
volta a volta, al ministero dell’Agricoltura, a quello delle Finanze, a quello dell’Industria e Commercio, a
quello dell’Interno, a quello del Commercio Estero, all’Ufficio centrale Dogane, per lamentare la scarsa
vigilanza del governo, le imperfezioni legislative, la gravità delle frodi, la necessità d’affrontare il problema e
risolverlo una volta per tutte. L’effetto di queste lettere, nonostante l’indiscussa autorità del mittente, fu
modestissimo per non dire nullo se è vero che, quando noi cominciammo ad occuparci del problema nel giugno
di quest’anno, le frodi erano dilagate a tal punto da spingere i tecnici a rivolgersi alla stampa a grande tiratura
per uscire dalla situazione che si era venuta a creare._
Intanto il 24 luglio il “Corriere della Sera” pubblicava, sulla questione delle frodi olearie, un articolo del
professor Paolo Albertario, il direttore generale del ministero dell’Agricoltura cui era indirizzata la maggior
parte delle lettere di Costa, colui che avrebbe dovuto agire per stroncare le frodi e tutelare i consumatori.
Scriveva Albertario: “In questa materia della sofisticazione del prodotto s’è creata molta confusione di
idee…alcune realtà sono state esagerate, alcuni concetti svisati. Ma il fenomeno esiste ed è grave, ed è venuto
il momento d’affrontarlo e risolverlo al suo fondo, con decisione e senza mezze misure”._
“Dunque – commentava Scalfari in proposito – in questo felice paese, è accaduto questo fatto estremamente
singolare: per otto anni un direttore generale è stato bersagliato di lettere dal presidente dell’Assolearia per
reprimere le frodi che dilagavano nel settore; per otto anni, nonostante quelle lettere, il problema è stato
dimenticato nei cassetti di quel direttore generale senza peraltro che il presidente dell’Assolearia mostrasse
d’indignarsi eccessivamente. Alla fine un giornale indipendente e libero come il nostro prende a cuore il
problema, promuove una campagna, commuove l’opinione pubblica. Il governo si preoccupa, gli altri giornali
si muovono, la guardia di finanza arresta e denuncia i primi gruppi di speculatori, lo stesso direttore generale
che aveva dormito per otto anni dà segni di risveglio”._
“Dalle inchieste che il nostro giornale ha svolto e sta svolgendo in questo campo – dichiarava “L’Espresso” –
emergono responsabilità gravissime, omissioni colpevoli, inerzie inesplicabili, da parte di organi della
pubblica amministrazione che avrebbero avuto il dovere di stimolare governo e Parlamento ad intervenire su
questo problema, e che invece finora hanno avuto la sola preoccupazione di impedire che lo scandalo delle
frodi alimentari arrivasse al livello della pubblica opinione”._
Nel 1959 intanto, venivano alla luce nuove verità: quella dei controllori controllati. L’ufficio repressione frodi
di Milano, dal quale dipendevano anche le provincie di Pavia, Novara e Vercelli, era diretto dal dottor Dante
Laugero. Il coordinatore del servizio repressioni frodi di Milano, pur lavorando per lo stato era allo stesso
tempo un dipendente dell’Ente Risi. “L’Ente Risi – dichiarava “L’Espresso” – è un consorzio dei produttori di
riso, che s’occupa d’ammassare la produzione, di conservarla e di venderla. Il suo interesse, naturalmente, è di
vendere alle condizioni più vantaggiose possibili. Uno dei modi per guadagnare di più può essere quello di
smerciare per riso di prima qualità uno di seconda, per riso di seconda uno di terza e così via. Negli ultimi anni
è accaduto più d’una volta che la Guardia di Finanza denunciasse i magazzini di quest’ente per aver tentato
questa speculazione. Ora, l’organismo statale che in Italia ha il compito d’impedire che i commercianti di riso
facciano pagare al consumatore un prodotto pregiato vendendogliene uno più scadente, è il servizio
repressione frodi, braccio secolare della direzione ministeriale per la tutela dell’alimentazione. Dante Laugero
si trova così a dover controllare l’Ente da cui dipende come funzionario in ruolo stabile”._
Per fare un altro esempio, “L’Espresso” sottoponeva all’attenzione dell’opinione pubblica anche il caso
dell’ufficio repressioni frodi del Veneto. “Al servizio repressione frodi di Udine – dichiarava infatti
“L’Espresso” – da cui dipendono anche le provincie di Belluno e Treviso, c’è un altro coordinatore Giacomo
Striuli, che è funzionario d’uno degli enti che dovrebbe controllare. L’unica differenza è che in questo caso non
si tratta dell’Ente Risi, ma di un organismo molto più potente e più importante nel campo dell’alimentazione:
la Federconsorzi”._
“Il caso della Federconsorzi – scriveva “L’Espresso” nel marzo del ’63 – non è dunque uno scandalo come tutti
gli altri; non s’esaurisce semplicemente nella mancata presentazione d’alcuni rendiconti e nella mancata
documentazione sulla spesa d’alcune somme. Esso pone un problema morale, dal quale dovranno
inevitabilmente discendere alcune conseguenze politiche. Chi pensa che la fine della campagna elettorale porrà
termine alla polemica e farà rientrare nel silenzio e nella dimenticanza le accuse che sono state in questi mesi
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formulate, farà bene a disingannarsi. L’onorevole Moro e l’onorevole Fanfani, che sembrano sinceramente
volere una ripresa della politica di centro – sinistra per la prossima legislatura, debbono prepararsi a vedere
ripresentata, tra le prime condizioni che saranno poste dai partiti della sinistra laica e socialista, la richiesta
d’un chiarimento di fondo su questo tema che è divenuto ormai centrale per misurare la lealtà delle intenzioni
e dei propositi della democrazia cristiana”._
“Come Dante Laugero, anche Giacomo Striuli riceve lo stipendio e gli assegni familiari dai suoi avversari
teorici. La sua è una situazione imbarazzante: la Federconsorzi oggi è presente in quasi tutti i settori
dell’alimentazione italiana, dal vino al grano, all’olio, al burro. Nei suoi magazzini viene conservata la
maggior parte del grano che si produce in Italia”._
La responsabilità di tutto ciò veniva attribuita al governo. La campagna mossa da “L’Espresso” sembrava
desse alcuni frutti: “Un gruppo di deputati socialisti – dichiarava infatti Eugenio Scalfari – ha presentato alla
Camera un disegno di legge per promuovere una grande inchiesta parlamentare sulle frodi alimentari; deputati
di tutti i partiti, liberali, missini, democristiani, socialdemocratici, repubblicani, comunisti, si sono associati
all’iniziativa; convegni di vario tipo sono stati indetti in molte città d’Italia da parte di comuni, di partiti, di
gruppi di studiosi, di cooperative di consumatori; alcuni giornali quotidiani, in prima linea la “Stampa” di
Torino e il “Giorno” di Milano, hanno intensificato la loro campagna di denunce. Infine (ed è uno dei sintomi
più incoraggianti) molti industriali che operano nel settore alimentare hanno voluto manifestarci la loro
solidarietà e si sono dichiarati pronti ad appoggiare tutti gli sforzi che si propongano di impedire le frodi e di
tutelare i prodotti genuini contro la concorrenza sleale dei prodotti adulterati”._
“L’Espresso si batteva principalmente sul diritto del consumatore all’informazione. “Chi acquista una bottiglia
d’olio d’oliva – dichiarava infatti il settimanale di Benedetti – ha il diritto d’essere assolutamente sicuro che il
contenuto della bottiglia sia stato ottenuto spremendo olive, senz’altri procedimento chimici. Se quei
procedimenti sono stati invece adoperati l’etichetta dovrà menzionarli con chiarezza dimodochè il
consumatore possa decidere con piena cognizione di causa”._
“Perché – chiedeva Scalfari – non dare al consumatore la possibilità di sapere ciò che compra, e creare quindi
le condizioni per un sacrosanto ribasso dei prezzi? Perché continuare a render possibile, con una classifica
inadatta, sovrapprofitti di decine di miliardi che finiscono nelle tasche degli industriali?”._
“Enunciare questo obiettivo è molto facile – rispondeva lo stesso Scalfari – realizzarlo è difficilissimo. A
parole tutti sono pronti a collaborare; quando s’arriva ai fatti, cioè alla formulazione delle leggi, ciascuno degli
interessati oppone obbiezioni insormontabili, prospetta catastrofi per l’industria nazionale, minaccia
gravissime crisi, preannuncia chiusure di fabbriche e aumento di disoccupazione. Risultato: il governo, per
timore che tutti questi eventi catastrofici si verifichino effettivamente, non prende nessuna iniziativa e il racket
dei cibi adulterati continua ad operare indisturbato ai danni dei consumatori e degli industriali onesti. Intanto le
esportazioni dei nostri tradizionali prodotti versano in gravi difficoltà (…). Per uscire dalla confusione attuale,
per far cessare uno stato di disagio che minaccia di coinvolgere in un solo giudizio negativo produttori onesti e
speculatori, merci genuine e merci adulterate, c’è ormai un solo rimedio: predisporre una legge organica che
crei un organo di vigilanza dotato d’ampi poteri e di moderni mezzi d’indagine”._
Una campagna di stampa così vasta non c’era mai stata in Italia, dichiarava il direttore de “L’Espresso”. “Noi
non speravamo di vedere riecheggiati a tal punto i motivi del nostro allarme, scriveva Benedetti nel suo ‘Diario
italiano’. Qualche segno di sensibilità è venuto dal Parlamento (…). Speriamo che la polemica riprenda,
sorretta da animi intrepidi, e che non sia stata una tempesta effimera.
Perché lo sarebbe stata? Molte le spiegazioni possibili, ma la più evidente tiene conto del colpevole scetticismo
italiano, caratteristico d’una classe politica di cui si vanta le religiosità. Temporeggiano, lasciano che la
tempesta si sfoghi, fiduciosi dell’inconsistenza italiana. Sanno d’essere protetti dai difetti nazionali. Lasciateli
dire, sembra la massima cui si ispira l’attuale ceto politico dirigente, ed è perché giudichiamo delittuoso un
atteggiamento così scettico che noi seguiteremo l’indagine celebre per il titolo che le demmo iniziandola:
‘L’asino nella bottiglia’. Già, l’asino. Ormai – concludeva Benedetti – abbiamo l’impressione che l’asino nella
bottiglia sia addirittura il popolo italiano”._
La campagna di sensibilizzazione de “L’Espresso” avrebbe prodotto i suoi frutti. Nel 1960 il Parlamento
avrebbe approvato una legge sulla classificazione dell’olio e, ancora più importante, nel 1962 la commissione
agricoltura della Camera avrebbe “approvato un disegno di decreto legge che proibisce di esterificare gli olii
destinati ad uso commerciale”._
Le informazioni che “L’Espresso” aveva reso note con questa inchiesta provocarono vivaci reazioni nel settore
alimentare che si prolungarono per mesi e portarono, tra l’altro, in tribunale l’ex presidente della
Confindustria, Angelo Costa, allora presidente dell’Assolearia contro Arnaldo Foschini, titolare di
merceologia all’università di Roma. L’indagine giornalisica aveva messo in chiaro non solo il danno subito
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dalle tasche e dallo stomaco del consumatore italiano d’olio sofisticato, ma anche la drammatica situazione dei
produttori d’olio d’oliva vero ormai incapaci di smerciarlo su di un mercato invaso da prodotti adulterati. Costa
aveva accusato il professor Foschini d’essersi fatto trascinare dalla sua “ignoranza” ad assecondare le accuse
de “L’Espresso”. Da qui il “processo della frode” conclusosi il 17 dicembre 1959 con l’applicazione
dell’amnistia ad Angelo Costa condannato a pagare le spese.
Col decreto legge che fa divieto di produrre, vendere, detenere per la vendita o mettere comunque in
commercio per uso alimentare i grassi concreti e gli olii di qualsiasi specie di cui è vietata la raffinazione, il
governo era intervenuto in una materia molto delicata, e “L’Espresso” aveva avuto una parte fondamentale nel
sensibilizzare l’opinione pubblica su questo argomento.
Trasformazione della società in senso moderno per il settimanale di Benedetti e Scalfari significava dunque
anche questo: salvaguardia dei diritti in genere. Quella della lotta contro i monopoli, contro le grandi
concentrazioni a scapito degli utenti è un elemento che contraddistingue “L’Espresso” fra la stampa di attualità
settimanale italiana degli anni a cavallo tra la fine dei cinquanta e gli inizi dei sessanta. Diverse, come si è
visto, sono state le inchieste affrontate dal settimanale di Benedetti e Scalfari le quali però, pur trattando
argomenti distanti tra loro, convergevano tutte nel tentativo di sensibilizzare i propri lettori per la tutela dei
propri diritti.
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CAPITOLO SETTIMO
SANTA DOROTEA: DA FANFANI A MORO
1. LA BATTAGLIA CONTRO I CLERICOFASCISTI
Abbiamo già avuto modo di focalizzare l’attenzione sul laicismo de “L’Espresso”: elemento fondamentale che
caratterizza il settimanale di Benedetti e Scalfari in questo periodo. L’impronta anticonfessionale del
settimanale romano, seppur caratterizzata da toni violenti, era dettata non da prese di posizione aprioristiche,
ma dalle sistematiche interferenze dell’episcopato italiano.
“Il lungo pontificato di Pio XII – scriveva “L’Espresso” nel ’58 – ha avuto (…) una caratteristica dominante:
ha politicizzato la Chiesa in una misura che non s’era più verificata dalla caduta del potere temporale in poi
(…). La vita religiosa va cedendo il posto ad una pratica esteriore che inaridisce le sorgenti stesse della fede; la
carità cristiana va scomparendo e ad essa subentra, sempre più intransigente e bellicoso, lo spirito di
crociata”_. L’anticlericalismo che “L’Espresso” contrapponeva ai numerosi interventi ecclesiastici era un
tentativo di rendere operante nella società italiana la religione laica. Si trattava di un anticlericalismo moderno,
caratterizzato dall’ironia e dal sarcasmo: titolazioni gridate, commenti pungenti e talvota acidi, questo il
cocktail usato dal settimanale di Benedetti e Scalfari tale da renderlo un unicum nel panorama dei settimanali
degli anni cinquanta. “L’Espresso” raggiunge le punte più alte di questo anticlericalismo proprio verso la fine
del decennio, nel periodo in cui si assiste al tentativo da parte della Dc di mantenere in vita una formula di
governo centrista ormai logora e agonizzante.
Per allontanare le critiche di anticlericalismo rivolte a “L’Espresso”, Arrigo Benedetti raccontava nel suo
Diario italiano la storia di un parroco di un piccolo paese dell’Appennino emiliano che aveva dato la propria
vita per la Resistenza. “Noi laicisti, come ormai siamo definiti, veniamo di solito scambiati per mangiapreti,
gente che appena vede una tonaca domina a stento un moto di repulsione e che negli ecclesiastici trova solo
malizia. Sono le esagerazioni della polemica in corso”. _
Dopo la morte di papa Pacelli si assiste ad un tentativo di resistenza da parte dei vescovi ad abbandonare la
politica di intervento temporale di Pio XII. Quasi settimanalmente “L’Espresso” denunciava gli ostacoli che la
Chiesa cattolica interponeva al rinnovamento della politica italiana. Le polemiche del settimanale di Benedetti
erano non circa la scelta che l’elettorato attivo operava in cabina elettorale, bensì circa la sua genuinità. Con le
dimissioni di Fanfani da presidente del Consiglio, “L’Espresso” rinnovava la sua battaglia laica e, di fronte
all’ipotesi di elezioni anticipate, avanzava delle richieste: garanzie da parte del presidente della Repubblica
affinché lo scenario su cui si sarebbe svolta la battaglia per le eventuali elezioni politiche non fosse stato lo
stesso su cui si era svolta la battaglia che ebbe il suo epilogo il 25 maggio del 1958. “Ci sembra opportuno –
scriveva il settimanale romano – promuovere una campagna per far si che il corpo elettorale non confonda la
crisi del partito di maggioranza con la crisi della democrazia stessa. Diventa, infatti, doveroso stimolare le
inquietudini suscitate dalle ultime elezioni che, come noi abbiamo più volte ripetuto, non si svolsero in
condizioni normali e tali da renderci certi che il paese abbia, otto mesi fa, espresso veramente una volontà
politica (…). Se lo sfondo restasse quello della primavera 1958 le nuove elezioni sarebbero assurde (...). Una
riprova elettorale esige garanzie che comporterebbero, per esempio, lo scioglimento dei Comitati civici ed il
controllo di tutti i partiti sulla radio e sulla televisione”._
Fanfani aveva rassegnato le sue dimissioni: egli puntava ad un reincarico ed essendo consapevole che non gli
sarebbe stato possibile cumulare più a lungo il ruolo di segretario del partito e di presidente del Consiglio,
aveva presentato anche le sue dimissioni dalla segreteria politica della DC. Gronchi pensava ad un monocolore
pendolare da affidare a Tambroni, ma di fronte a questa prospettiva in casa Dc si costituì di fatto un vasto
fronte contrario che favorì la rapida e quasi unanime soluzione della crisi. Gronchi, quindi, sulla base delle
indicazioni avute nel corso delle consultazioni, affidava a Segni l’incarico di formare il nuovo governo.
“L’Espresso” riportava quelli che approssimativamente potevano essere i giudizi della gente su chi fosse lo
sconfitto di questa crisi, per poi proporre la propria visione. “Lo sconfitto è Fanfani – si diceva – dopo aver
perso il governo è stato abbandonato dagli amici, ha perso il partito”. “No, lo sconfitto è Gronchi”, si
rispondeva. “Era convinto che l’uomo più adatto per fare il governo fosse Tambroni, ma quando i notabili
democristiani si sono ribellati, hanno cominciato a riunirsi e a tempestare il Quirinale di telefonate, a
minacciare voti di sfiducia ha ceduto, ha ascoltato i più irrequieti(…). No – dicevano altri – lo sconfitto non è
Gronchi (…): lo sconfitto è Tambroni. Sono anni che pazientemente si prepara a diventare presidente del
Consiglio, cercando d’andare d’accordo con tutti (…). Ormai non era più il caso di parlare di uomini vinti o
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vincitori. Il vinto era uno solo, dichiarava “L’Espresso”: la Dc nel suo insieme (…). I gruppi parlamentari
democristiani non hanno temuto di rivelare pubblicamente la loro posizione all’on. Ferdinando Tambroni che,
ad un certo momento, sembrava scelto dal presidente Gronchi come il più adatto. Ormai la DC è così divisa
all’interno – affermava il settimanale di Benedetti – da non riuscire più a nascondere, di fronte all’opinione
pubblica, i suoi insanabili contrasti”._
Veniva intanto formato il ministero Segni il quale provocava non poche reazioni da parte de “L’Espresso”: “La
Dc – dichiarava il settimanale romano – accetta senza alcuna resistenza i voti della destra monarchica e fascista
i quali sarebbe ingenuo pensare siano stati concessi senza ampie concessioni economiche e senza soddisfacenti
assicurazioni morali”._ Il governo Segni “è stato considerato necessario per comporre i contrasti interni del
partito e per favorire una ripresa di contatti coi liberali e con la destra monarchica e missina (…). Questo
governo rappresenta non già una posizione transitoria, ma la condizione naturale e fisiologica della DC:
rappresenta la volontà ostinata di non qualificarsi in nessuna direzione, di valersi di tutti gli appoggi contrattati
non sulla base di scelte politiche ma sulla base di contropartite personali di sottogoverno: rappresenta
l’indifferenza verso tutti i programmi, purché consentano il solo ed unico obiettivo di mantenere e consolidare
il potere del partito sul governo e sullo stato (…). A quest’uomo, che rappresenta meglio d’ogni altro
l’incapacità democristiana di guidare il paese, è stato affidato l’incarico di liquidare l’eredità fallimentare
dell’on. Fanfani”._ Per un giornale che era entrato nel mondo dell’informazione perché stanco
dell’immobilismo centrista e deciso a supportare i cauti tentativi di allargare la maggioranza ai socialisti,
queste prese di posizione democristiane venivano giudicate delle involuzioni nel tortuoso cammino verso il
centro – sinistra. Del resto “L’Espresso” si presentava come giornale aggressivo, come giornale di notizie, di
scoop e di titolazione gridata: lette in quest’ottica, le denuncie del settimanale di Benedetti e Scalfari non
possono apparire come semplice ricerca del sensazionale finalizzate ad aumentare le vendite, ma appaiono
come il tentativo estremo di ribellione ad un partito di maggioranza che non riusciva a tenere il passo con le
esigenze di una società in rapida e profonda trasformazione. “L’Espresso”, lasciato da solo a rappresentare, col
suo formato a lenzuolo, le ragioni di un giornalismo che si potrebbe definire ‘à sensation’, tenta di nutrire la
realtà e di orientare le scelte politiche della gente. D’altro canto, compilando un settimanale non ci si può
limitare alla registrazione degli eventi – in ciò il settimanale arriverebbe in ritardo rispetto al quotidiano – ma
occorre rintracciarli ed interpretarli. “L’Espresso” assume dunque una funzione fortemente maieutica e lo fa
soprattutto in questo periodo, quando la nascita del centro – sinistra è ritardata dagli interventi vaticani e dalle
incertezze democristiane. Esemplificativo è l’atteggiamento del settimanale verso la destra democristiana.
L’on. Andreotti, esponendo durante una riunione della corrente “Primavera” di cui era il leader, il programma
che avrebbe sostenuto al congresso democristiano di ottobre, aveva fatto le seguenti affermazioni: “È erronea
l’equiparazione tra l’estrema sinistra ed estrema destra. Oggi non c’è pericolo di dittatura da destra; anzi, ciò
che deve preoccupare è la sua intrinseca debolezza. C’è invece un pericolo di dittatura da sinistra, non solo a
causa del PCI, ma del PSI (…). Il ministero Segni va sostenuto fino in fondo. Esso realizza la migliore formula
di governo e può durare fino alla fine della legislatura”._ Riferendosi a queste giustificazioni “L’Espresso”
titolava ‘La destra si vergogna’: “Non si comprende per quali ragioni – scriveva il settimanale romano – i
leaders delle correnti di destra della DC abbiano tanta cura d’allontanare dal governo Segni una qualifica che a
tutti fuorché ad essi può sembrare peggiorativa. Ciò starebbe a dimostrare quanto sia grande e diffusa nella DC
la preoccupazione che la scelta conservatrice fatta dal partito allontani larghe masse di militanti e di
elettorato”._
Lo spettro del passato, ‘L’ombra del ‘22’, cominciava ad ‘aggirarsi’ tra l’opinione pubblica dei liberals, tra
coloro che, come diceva Benedetti, volevano “che l’Italia esclusa (…), la nazione dei poveri, fosse ricordata
dai (…) legislatori”_,
“L’ombra del ’22 – scriveva “L’Espresso” – si è estesa (…) sul Viminale, proprio come trentasette anni fa.
Solo le apparenze sono diverse (...). L’unità del partito cattolico è condizionata dall’esterno; cioè da una
costante pressione ecclesiastica e da una non meno costante pressione di interessi economici che spesso si
identificano con la prima (…). Il primo passo (l’accettazione dei voti monarchici e fascisti) è stato fatto; il
secondo potrebbe essere rappresentato dalla legge elettorale e sarebbe questo il passo decisivo, definitivo”._
Uno degli obiettivi più importanti che la destra italiana si riprometteva in questa fase della lotta politica, infatti,
era la riforma della legge elettorale. “Il meccanismo dell’operazione – denunciava il settimanale di Benedetti –
è abbastanza chiaro: si vuole seppellire la proporzionale e varare un’edizione, possibilmente più abile rispetto
al rozzo tentativo del 1953, di legge maggioritaria. Questa legge dovrebbe essere fondata sul collegio
uninominale e consentirebbe il collegamento tra uomini appartenenti a partiti diversi ma affini”._
“ A Segni è toccata una sorte triste, dichiarava il direttore de “L’Espresso”. Egli un tempo si compiaceva
d’essere il leader dell’ala più avanzata del suo partito. Quando si sentiva dire che la DC è un partito di centro in
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marcia verso sinistra, si pensava non solo al compianto Ezio Vanoni, ma anche (ad Antonio Segni), l’uomo che
aveva dato il nome alla riforma agraria”._ Laicismo, anticonfessionalismo e apertura a sinistra, temi costanti
del settimanale di Benedetti e Scalfari. Elaborando uno stile oggettivo e nell’insieme ricco di motivi morali,
“L’Espresso” nutriva questi suoi tre temi chiave condensando la sua offensiva nel settore particolare della
politica.
1. MORO NEL ‘DIARIO’ DI BENEDETTI
Nel Consiglio nazionale del marzo 1959, nel convento di Santa Dorotea, vengono accolte le dimissioni di
Fanfani e Aldo Moro viene eletto nuovo segretario della Democrazia cristiana col compito di coprire a sinistra
la nuova maggioranza conservatrice formata dai notabili dorotei. “A questo compito ha finora adempiuto con
molto impegno e con indubbio successo, dichiarava “L’Espresso”. Durante i mesi della preparazione
congressuale effettuò i più abili tentativi di ricucitura tra fanfaniani e dorotei, beninteso su posizioni politiche
nettamente dorotee. Ciò diede comunque l’impressione che egli fosse assai più vicino alle tesi di Fanfani che
non a quelle di Segni. In definitiva chi se ne giovò fu appunto la destra dorotea che riuscì a vincere a Firenze
sfruttando l’equivoco di centro – sinistra consapevolmente alimentato da Moro. Da allora il segretario della Dc
ha continuato con la stessa abilità e lo stesso impegno a svolgere la funzione che gli era stata affidata dai suoi
compagni di gruppo alla Domus Mariae: non manca occasione per dimostrarsi insoddisfatto (moderatamente
insoddisfatto) del fiancheggiamento liberale-monarchico-missino al governo Segni; accenna con cautela alla
possibilità di nuove formule governative e di nuove amicizie parlamentari; raccomanda con pazienza. Con
questo sistema è riuscito ad incarnare alla perfezione lo slogan che De Gasperi coniò per la Democrazia
cristiana: come il suo partito anch’egli è un uomo di centro che marcia verso sinistra (…). Il tempo passa –
lamentava frattanto “L’Espresso” – e il famoso stato di necessità (del ministero Segni) risulta sempre più
congeniale alla maggioranza dorotea.”_
Come si è avuto modo di notare, in questo periodo della storia della Repubblica italiana “L’Espresso” può
apparire come un settimanale particolarmente adatto ad un pubblico di riformisti impazienti. L’Elezione di
Moro alla segreteria della Dc veniva cautamente giudicata positiva, ma assolvendo la funzione di spina nel
fianco dell’immobilismo politico, “L’Espresso” giudicava i fatti: e nei fatti restava un governo appoggiato
dalle destre, giustificato dalla Dc come governo di necessità.
È interessante però leggere alcune considerazioni del direttore de “L’Espresso” dal tono inconsapevolmente
profetico. Nella rubrica ‘Diario italiano’, ogni settimana Arrigo Benedetti ritagliava uno spazio tutto per sé nel
settimanale romano. Prendendo spunto da qualunque cosa avesse stimolato la sua attenzione nel giro dei sette
giorni che separavano i numeri de “L’Espresso”, Benedetti tracciava un quadro dell’Italia contemporanea. A
proposito di Moro aveva detto: “Abbiamo l’impressione che un giorno gli spetti un posto particolare nella
storia italiana (...). E’ un uomo di cui gli ultimi sviluppi politici prodottisi all’interno della DC dimostrano
l’abilità. Forse gli manca la spinta se non l’ambizione; quando invece nei prossimi mesi fosse sostenuto
dall’una e dall’altra, sarebbe ragionevole immaginarlo destinato a diventare un moderatore della politica
italiana. Potrebbe perfino, lui che senza volerlo ha dato un nome nuovo al partito, sul quale la protezione di S.
Dorotea resterà a lungo, rappresentare un’epoca. È difficile, ma non improbabile. Potrebbe acquistare cioè un
posto di rilievo come accadde ad altri uomini politici italiani nel passato. Chissà (…)! Dietro le spalle di Moro
c’è (…) la sconfitta dell’unica corrente democristiana che abbia, nel clima esaltante di fine guerra, nutrito
illusioni di poter fare coincidere le finalità del partito confessionale con quelle dei partiti marxisti affermatisi in
Italia nel primo quarto del secolo (…). Per il momento Moro ha l’aria di volersi servire del partito, popolare per
tradizione, per compiere un’azione ritardatrice, garantendo ambiguamente al governo di necessità dell’on.
Segni qualche settimana, forse qualche mese di respiro (...). Oggi, conquistato il partito, sembra consapevole
del posto così ricco di possibilità in cui è venuto a trovarsi con l’aria di non averlo voluto. A poco a poco, quasi
vincendo interne repugnanze, forse provocate solo da una particolare pigrizia, pensiamo che si renda conto di
essere veramente il nuovo leader (…). Gli s’apriranno davanti tutte le strade. Potrà ottenere ad un governo di
centro – sinistra le aderenze che non vennero concesse a Fanfani, lascerà intravedere chissà quali evoluzioni
all’on. Nenni (…). Alle strette potrebbe essere l’uomo dell’apertura a sinistra quando, dopo una nuova
consultazione elettorale, fosse diventata inevitabile. Non è il ritratto di un ipocrita, ma d’un uomo abile che
s’intona alla stagione sonnolenta appena cominciata e che s’adatta ai bisogni d’un paese incapace ormai di
vitali reazioni politiche. È per questo che nei confronti dell’on. Moro deve esercitarsi la cautela della sinistra
democratica. Interessi che ieri non accettarono di mimetizzarsi dietro la formula di centro – sinistra perché non
si fidavano dell’on. Fanfani, uomo capace d’impazienze sociali, potrebbero accettare di stare dietro al
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protagonista del congresso di Firenze, cui fin d’ora sono grati d’aver fatto svanire le apprensioni di quei giorni,
quando la vocazione popolare della democrazia cristiana pareva irresistibile”._
La stagione che comincia con la nomina di Moro alla segreteria del partito di maggioranza relativa, coincide
con un atteggiamento de “L’Espresso” più interessato e fiducioso nei confronti della Democrazia cristiana e di
quello che sarà il leader indiscusso dell’apertura a sinistra. Lo stile descrittivo, lineare, orizzontale del
settimanale, fa emergere la figura di un uomo che svela la sua ambiguità sin da subito, ma sul quale bisognava
puntare per realizzare una formula di governo di alternativa democratica, gettando così le fondamenta per la
realizzazione di una democrazia compiuta. “L’Espresso” si pone dinanzi al nuovo segretario della Dc, dunque,
con il suo tipico atteggiamento analitico, smembrando la realtà nei suoi particolari che, una volta analizzati,
andranno a costituire la realtà de “L’Espresso”.
3. CHIUSURA A SINISTRA
In vista del cambio di guardia alla segreteria democristiana i socialisti rilanciavano il dialogo con i cattolici.
“L’Espresso” puntualmente rinnovava il proprio interesse per un’alternativa democratica costituita da una
maggioranza allargata ai socialisti e riportava sulle sue grandi pagine i ripetuti e sistematici inviti che il partito
di Nenni rivolgeva a quello di Moro. “Non c’è alcuna contraddizione – aveva detto il leader socialista – nel
proporre una politica di alternativa all’attuale monopolio della Dc e nel dichiararsi al tempo stesso disposti ad
appoggiare una politica attraverso la quale la Dc (o meglio una parte di essa) riesca a rovesciare la situazione
ed a portare avanti un programma di effettivo progresso sociale”._ “Una commovente e spontanea umanità –
commentava sarcasticamente “L’Espresso” circa le risposte democristiane all’appello di Nenni – ha unito la
settimana scorsa tutto il moderatismo italiano. Occasione di tale unanimità è stato l’invito che Pietro Nenni e la
direzione del partito socialista hanno rivolto alle correnti democratiche della Dc affinché prendano finalmente
coscienza delle loro gravi responsabilità ed avviino una politica seria di progresso e di rinnovamento della
società italiana”._
Nell’ipotesi d’una sua vittoria congressuale, intanto, l’on. Fanfani prometteva molte cose: “una politica di
progresso, una severa lotta contro gli ingiusti privilegi della ricchezza, uno sviluppo economico più rapido
nelle regioni meridionali, un’inflessibile repressione degli abusi e della corruzione a tutti i livelli.”_
Approvando il programma proposto dall’on. Fanfani per il congresso della DC che si sarebbe tenuto in ottobre,
“L’Espresso” suggeriva all’ex presidente del Consiglio, qualora fosse venuto meno il sostegno della
maggioranza, di rivolgersi ai socialisti: “a colmare i voti delle probabili defezioni di parte democristiana –
dichiarava infatti “L’Espresso” – sono disponibili gli 80 voti dei deputati socialisti, a fronte dei quali non
vengono chieste contropartite. I leaders democristiani debbono ora spiegare al paese per quali misteriose
ragioni la DC può attuare un suo programma di governo servendosi del voto determinante dei fascisti e dei
monarchici, mentre non potrebbe attuare un suo programma di governo appoggiandosi al voto determinante
dei socialisti”._ “L’Espresso”, dunque, cercava di accelerare la scelta di centro sinistra. Il momento sembrava
quello opportuno: la corrente di sinistra della Democrazia cristiana poteva contare sull’astensione socialista
per attuare un programma di riforme sociali, ma le lotte intestine al partito di maggioranza relativa avrebbero
rallentato questa scelta.
Nel mese di ottobre, intanto, si teneva il VII congresso della Democrazia cristiana. Il 1° di novembre
“L’Espresso”, in via del tutto eccezionale, pubblicava un numero speciale interamente dedicato al congresso.
“Dobbiamo prima di tutto una spiegazione ai lettori”, scriveva in prima pagina Arrigo Benedetti. Perché un
giornale laico pubblica un supplemento al VII congresso DC? “La risposta è nei fatti, dichiarava il direttore. Il
partito di maggioranza è in crisi e non è una delle tante crisi da cui possono essere scossi i partiti democratici.
La DC è in crisi perché affronta di nuovo i temi che i cattolici italiani si trovarono davanti quando rinunciando
all’isolamento, di cui erano volontari prigionieri, decisero di fare della politica. Non si dimentichi che abbiamo
a che fare con un partito che si trova nell’eccezionale situazione di riscuotere la maggioranza relativa dei
suffragi e che, in seguito a ciò, assume la responsabilità di governare uno Stato sorto cent’anni fa a dispetto
della Chiesa”._
Completando le informazioni e i giudizi sul congresso democristiano, Benedetti constatava che il partito di
maggioranza si era diviso dopo una discussione durata cinque giorni. “Prevalsi i moderati, sostenitori della
formula Segni – affermava il direttore de “L’Espresso” – la Dc ha confermato la sua vocazione conservatrice.
L’on. Moro, strappata verbalmente a Fanfani l’idea di un partito di centro – sinistra destinato ad assolvere,
quando che sia, gli impegni del 25 maggio, ha dato modo alla Dc di non rinunciare alle comode, in quanto poco
costose alleanze di destra.”_ Direttamente proporzionale all’interesse mostrato da “L’Espresso” per il partito
socialista, era quello nei confronti della Dc, il perno attorno a cui ruotavano le possibilità di un’apertura a
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sinistra. Una profonda avversione per l’immobilismo centrista e una ancora maggiore per le involuzioni di
centro – destra, determinavano nel settimanale di Benedetti e Scalfari una viva attenzione per le mosse
democristiane.
Il segretario del partito socialista italiano rinnovava la proposta di dialogo con i cattolici, e la situazione
politica che si era creata lo spingeva a dettare alcune condizioni essenziali per aprire questo dialogo. Con due
articoli pubblicati sull’ “Avanti”, Pietro Nenni fissava con la massima chiarezza le condizioni irrinunciabili
alle quali il dialogo con la DC poteva essere proseguito. “L’Espresso” riportava le parti salienti di questi due
articoli pubblicati dall’organo di informazione socialista. “Il Popolo”, scriveva Nenni, “afferma l’impossibilità
per la Dc di contribuire in una maniera qualsiasi ad immettere il PCI in modo determinante nelle posizioni di
vertice dello Stato (…). Nessuno ha mai chiesto alla Dc niente del genere. Sempre fu detto che il cammino
verso un’eventuale intesa con noi non passava per via delle Botteghe Oscure (…). Implicava invece la
consapevolezza da parte nostra degli interessi e delle rivendicazioni generali dei lavoratori e delle masse
popolari, anche di quelle che fanno capo al PCI, e l’obbligo per noi, pena la sorte toccata alla socialdemocrazia,
di soddisfare tali esigenze conservando e guadagnandoci in ogni circostanza la fiducia dei lavoratori”._
Da quando il partito socialista aveva dichiarato la propria autonomia nei confronti del Pci, “L’Espresso” si era
sempre discostato dall’ostinato atteggiamento della destra cattolica di voler considerare socialisti e comunisti
due lati della stessa medaglia. La polemica de “L’Espresso” era diretta anche contro l’uso improprio della
parola socialcomunisti, usata dalle destre per svalutare il cammino percorso dai socialisti verso l’autonomia da
Botteghe Oscure. “Questo è dunque il punto essenziale della questione scriveva “L’Espresso” – ad eludere il
quale non valgono le furberie di Moro (…). Nessuno chiede alla Democrazia cristiana di rinunciare ai suoi
programmi, alla sua ideologia, al suo passato anticomunista. Allo stesso modo, se vuole veramente collaborare
coi partiti laici e col partito socialista, la Democrazia cristiana non può chiedere ad essi di non essere più laici
e di non essere più socialisti. Deve cioè decidersi a realizzare, nel quadro di una politica di sinistra
democratica, alcune cose concrete senza di che il discorso cade prima di cominciare. Queste cose, per ridurle
all’essenziale, sono due: la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’adempimento costituzionale in materia
di regioni (…). Si chiedono cose o già da anni attuate in tutti i paese liberali dell’Occidente europeo o previste
dalla nostra Costituzione e perciò strettamente doverose”._
Le richieste di Pietro Nenni convergevano con quelle de “L’Espresso”: l’attuazione di norme costituzionali
non ancora realizzate era uno dei principali punti di incontro fra i sostenitori di una apertura a sinistra.
“L’Espresso”, come era già avvenuto per la nomina dei cinque giudici della Corte Costituzionale nel 1955, era
in questo coro una delle voci più sostenute. Era dunque prevedibile il rammarico manifestato dal settimanale
romano circa i continui ritardi e ritrattazioni del partito di maggioranza relativa nei confronti delle ripetute
sollecitazioni dei socialisti per un’alternativa democratica.
4. LEONI, PICCIONI E ALTRI ANIMALI: SCONFITTA DEL TRIPARTITO
Cominciava il nuovo decennio, cominciava una nuova crisi per il partito di maggioranza relativa, la caduta del
ministero Segni sembrava imminente, ma un nuovo ministero si sarebbe formato soltanto in primavera. “La
crisi c’è” scriveva “L’Espresso” il 10 gennaio del 1960.
Il 20 gennaio era previsto il consiglio nazionale della Dc e sembrava che in quella occasione la sinistra DC
avesse intenzione di provocare la crisi. “Si prevede già la procedura che dovrebbe portare alle dimissioni del
governo: al consiglio nazionale la sinistra attaccherebbe i dorotei sul problema della politica economica e delle
collusioni del partito coi grossi potentati finanziari e industriali. Verrebbe presentato un ordine del giorno
d’aperta rottura, a seguito del quale i rappresentanti dei fanfaniani, dei sindacalisti e della Base
annuncerebbero la loro decisione di uscire dalla direzione del partito. L’immediata conseguenza sarebbero le
dimissioni di tutti i ministri appartenenti a queste correnti (Tambroni, Bo, Ferrari Agradi, Pastore, Del Bo,
Giardina) e quindi le dimissioni dell’intero gabinetto”.
“La logica conforta queste previsioni – dichiarava prudentemente “L’Espresso” – anche se l’esperienza rende
doverose molte riserve”._
Un notevole passo in avanti, intanto, era stato fatto dall’on. Moro, il quale aveva rifiutato un’organica alleanza
tra l’estrema destra e la DC nel comune di Bari. Questo gesto, dichiarava “L’Espresso”, “equivale infatti ad
una palese sconfessione, tanto più importante in quanto avvenuta nella città dove l’on. Moro ha il suo collegio
elettorale, della formula su cui a stento si regge il presidente del Consiglio (…). Moro – si chiedeva il
settimanale romano – sa che, al punto in cui sono arrivate le cose, non è più il caso di trastullarsi con le
equivoche formule del centro – sinistra, ma si tratta ormai di porre esplicitamente il problema d’un programma
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negoziato col partito socialista (…)? Moro non è affatto disposto ad imboccare la via dell’apertura a sinistra –
rispondeva “L’Espresso” – ma si limita per ora ad un solo obiettivo: la crisi del governo”._
Dopo un anno di convivenza con dorotei, monarchici e missini, il partito liberale, intanto, usciva dalla
maggioranza parlamentare che sosteneva il ministero Segni, provocando quella crisi che la sinistra Dc
minacciava da tempo ma che era riluttante a determinare. “Questo governo scriveva “L’Espresso” – favorito
dodici mesi fa dalla destra economica italiana quale strumento idoneo a riparare i danni e scongiurare i pericoli
creati da Fanfani, sembra ormai troppo a sinistra per i gusti dell’on. Malagodi (...). I liberali mettono in crisi il
governo Segni addebitandogli pericolose indulgenze verso i socialisti; al tempo stesso si dichiarano anch’essi
(e chi, di questi tempi, non fa dichiarazioni del genere?) contrari ad ogni alleanza coi fascisti, quasi che dodici
mesi di convivenza nella stessa maggioranza parlamentare non abbiano alcun significato politico”._
Con la caduta del ministero Segni si aprivano per “L’Espresso” serie speranze per una decisiva apertura a
sinistra. Il 21 febbraio del 1960 “L’Espresso” registrava la nascita ufficiale del futuro centro – sinistra. “Il
comitato centrale del Psi e le riunioni avvenute quasi contemporaneamente la scorsa settimana, delle direzioni
dei partiti radicale, repubblicano, socialdemocratico, hanno segnato un passo avanti di fondamentale
importanza nello schieramento politico italiano e la nascita di quel fronte repubblicano che da tempo
l’opinione democratica attende quale unica via d’uscita dalla situazione presente”_.
Diverse contingenze facevano credere che dalla crisi del ministero Segni sarebbe nato un tripartito DC, PRI e
PSDI retto dall’onorevole sardo col sostegno dei socialisti. In un lungo articolo pubblicato su “L’Espresso”,
dal titolo ‘Leoni Piccioni e altri animali’ Eugenio Scalfari descriveva i passaggi che avevano portato all’ipotesi
tripartita e alla sua successiva sconfitta. “La lotta – scriveva Scalfari – è cominciata il giorno stesso delle
dimissioni del ministero martedì 23 febbraio (…). Fanfani, sindacalisti e basisti ritenevano che fosse venuto il
momento di riproporre al paese il governo di centro – sinistra caduto nel gennaio 1959 (…). Nel frattempo, in
tutti questi mesi, il PSI aveva dato (così sostenevano i leaders della sinistra democristiana) garanzie sufficienti
perché il suo appoggio potesse venire accettato senza timore di pericolose compromissioni. Questo d’altra
parte era anche il parere di Saragat e di La Malfa (...). Tra il 25 e il 29 febbraio il governo tripartito appoggiato
dai socialisti sembrò ormai cosa fatta (...). S’arriva così alla giornata del 3 marzo. Il meditato convincimento
(del presidente della Repubblica) è che il ministero tripartito con l’appoggio dei socialisti si possa fare e che
Segni possa presiederlo (…). Alle cinque del pomeriggio Moro viene chiamato al Quirinale: Gronchi vuole
personalmente accertarsi che il partito si impegnerà a fondo sulla formula di centro – sinistra, e comunica al
suo interlocutore che egli intende conferire a Segni un mandato rigido, impegnandolo sul tripartito e su un
programma chiaro che tagli fuori i liberali da qualunque possibilità di collaborazione, sia pure soltanto esterna
(…). Gronchi, che credeva di trovare in Moro un alleato, trova invece un deciso avversario. Il segretario della
Dc, dopo nove giorni di cautele e di prudenti manovre, scopre finalmente qual è il piano che ha sempre
coltivato come l’unico capace di risolvere i contrasti interni del partito e di soddisfare, sia pure senza
indecorosi cedimenti, le esigenze della gerarchia cattolica: un governo con repubblicani e socialdemocratici,
garantito dall’appoggio parlamentare del partito liberale. La candidatura di Segni e la genericità del
programma debbono appunto servire a realizzare questo obiettivo. Perciò le precisazioni programmatiche
chieste dal presidente della Repubblica sono inaccettabili, come pure inaccettabile è un mandato rigido ”._
Si giungeva così alla rinuncia di Segni. Puntualmente, benché il trono vaticano fosse ormai coperto da un
personaggio che sembrava dare garanzie di distensione nella vita politica italiana, sopraggiungeva il veto dei
cardinali ad una collaborazione democristiana coi socialisti. Per ora si può parlare solo di un veto documentato
esclusivamente da informazioni giornalistiche, non essendoci una letteratura dettagliata in proposito. Quel che
è certo però è il clima di pesanti pressioni dell’episcopato e della stampa cattolica contro l’ipotesi di una
maggioranza aperta ai socialisti.
Il “Corriere della Sera” infatti, dava notizia che il Vaticano avrebbe avvertito “che la Dc era libera di fare quel
che credeva, ma che per la Chiesa nulla era mutato e che non poteva impedire ad altri cattolici di ritenere
insufficienti le garanzie per il dialogo con il PSI”._
“La commedia d’una Dc – scriveva in proposito “L’Espresso” – che domanda prima al PSI di dimostrarsi
autonomo dal partito comunista, poi ai partiti della democrazia laica di spezzare i legami preziosi che negli
ultimi anni hanno stabilito col socialismo italiano, deve finire. Tutti i partiti italiani sono autonomi meno uno,
la DC, ed i fatti di fine settimana l’hanno dimostrato ad usura. È un partito stirpe ed è anche un partito –
finzione. Non ci interessa sapere chi sta dietro le quinte. Se ci sta cioè il Papa o se ci stanno i cardinali; se ci sta
l’Azione cattolica o ci stanno i coltivatori diretti di Bonomi; se ci sta la Confindustria o soltanto la Edison, che
si sente minacciata da vicino. Ci stanno tutti insieme, lo sappiamo, volti come sono ad un medesimo fine. Moro
ci deve dire se la Dc possa considerarsi partito autonomo. Le apparenze dicono il contrario. Alla vigilia della
formazione d’un governo che avrebbe avuto finalmente l’appoggio d’un vasto settore, la Dc ha infatti ceduto
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alla sollecitazione d’influenze che durante i congressi e i consigli nazionali non arrivano mai alla luce del
sole”._
“L’Espresso del 27 marzo – ha scritto Giuseppe Tamburrano – rivela che la domenica 20 marzo Segni ebbe un
incontro con Mario Ismaele Castellano, assistente centrale dell’Azione cattolica, nel corso del quale il
monsignore gli disse che i cardinali di curia e in particolare Siri non avevano fiducia nell’operazione di centro
– sinistra.”_
Normanno Messina, in questo articolo citato da Tamburrano, spiega dettagliatamente tutti i passi che avevano
portato alla rinuncia di Segni e alla nomina di Tambroni. “Segni ebbe un incontro che fece cadere
definitivamente il suo progetto: l’incontro con monsignor Mario Ismaele Castellano, vescovo di Colosse e
assistente centrale dell’Azione cattolica. Castellano è l’uomo che in tutto il periodo del governo Segni ha
curato i rapporti fra il Viminale e la segreteria di Stato vaticana; prima, era stato uno dei principali protagonisti
del pronunciamento dei dorotei. I rapporti fra lui e Segni sono di grande familiarità oltre che d’alleanza
politica.
Fin dall’inizio del colloquio, monsignor Castellano diede a Segni la notizia che l’avrebbe convinto a declinare
il mandato. Gli sforzi di Segni di limitare o d’annullare l’appoggio socialista al futuro governo, disse in
sostanza il vescovo, erano stati apprezzati e seguiti anche con una certa benevolenza, ma i cardinali di curia e
Giuseppe Siri, che da alcuni giorni era in continuo contatto telefonico con i suoi rappresentanti romani, non
avevano fiducia nell’operazione. Perché non avevano fiducia nell’operazione? Antonio Segni poteva intuirlo
abbastanza facilmente. Probabilmente, sui dirigenti vaticani aveva agito la stessa preoccupazione da cui egli
stesso era assillato: per condurre a termine il tentativo di sostituire l’appoggio socialista con quello liberale,
occorreva tempo e c’era pericolo che il presidente della Repubblica mandasse un messaggio alle Camere per
invitare i gruppi parlamentari a chiarire il loro atteggiamento e ad accelerare la soluzione della crisi. In pratica,
un’aperta censura al designato e all’intero stato maggiore doroteo. Ormai, per realizzare il suo piano, Segni
aveva bisogno dell’approvazione del presidente della Repubblica (…). Il presidente della Repubblica fu molto
esplicito: non intendeva modificare il mandato che aveva affidato a Segni. Se Segni si sentiva in grado di
formare una maggioranza precostituita intorno alla formula di centro – sinistra, poteva proseguire le trattative;
altrimenti era giusto che rinunciasse all’incarico (…). Da quel momento comincia una serie di colloqui (…). Il
più importante fu quello della Domus Mariae, dove Antonio Segni si recò appena lasciata l’abitazione di
Gronchi, per incontrarsi con il rappresentante del cardinale Giuseppe Siri, presidente della Conferenza
episcopale italiana. Ma la risposta di Siri era scontata in anticipo (…). Quando Antonio Segni lasciò la Domus
Mariae, il governo di centro – sinistra era fallito (…). Fu durante queste poche ore che nacque l’incarico
Tambroni. Mentre Segni era impegnato in una lunga discussione con Gui, Piccioni e Moro nell’estremo
tentativo di convincerli ad agire sul Quirinale perché anche la nuova designazione venisse affidata a lui,
Giovanni Gronchi convocava il presidente della Camera Giovanni Leone e gli offriva l’incarico. Leone, come
Gronchi s’aspettava, rinunciò. Poco dopo rinunciavano anche Piccioni e Gonella ai quali il presidente della
Repubblica aveva rivolto la stessa proposta, attendendosi la stessa risposta negativa. Alle sette di sera Segni
rinunciava ufficialmente all’incarico conferitogli dodici giorni prima da Gronchi. Mezz’ora dopo Fernando
Tambroni era il nuovo presidente designato”._
La successione di Moro a Fanfani, pur se cautamente ben vista da “L’Espresso”, non aveva dunque ancora
prodotto certezze per una collaborazione coi socialisti di cui si continuava a parlare. Si era così giunti alla
formazione di un nuovo ministero, ma l’apertura a sinistra di cui anche “L’Espresso” si faceva promotore era
ancora lontana. Nuove contingenze, però, avrebbero posto in maniera determinante le condizioni per una
svolta riformista. “Eravamo abbastanza soli in queste battaglie”, ha scritto Eugenio Scalfari. “L’opinione
pubblica, in quegli anni a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta, sembrava più sensibile ad altri argomenti: il
miracolo italiano, come allora fu battezzato il boom economico, nasceva dalla prima ondata d’un consumismo
fino ad allora abbastanza sconosciuto nel nostro paese; c’era gran voglia d’arricchirsi, di migliorare il tenore di
vita familiare, di procurarsi i primi oggetti che fungevano da status symbol: l’automobile, il frigorifero, la
televisione, l’abitazione di proprietà. Di fronte a queste aspirazioni, passavano in seconda linea gli scrupoli e le
prediche volte a riformare il sistema”._
“L’Espresso”, dunque, con il suo formato a lenzuolo, veniva lasciato solo nel quadro della stampa di attualità a
rappresentare un giornalismo di denuncia, di rottura con l’establishment, raggiungendo livelli di radicalismo
piuttosto alti. Il settimanale di Benedetti e Scalfari si trovava così a ritrarre un periodo della nostra storia
cercando di correggerne i vizi e le imperfezioni.
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CAPITOLO OTTAVO
TAMBRONI
1. GOVERNO ‘NECESSE EST’
In seguito alla nomina del ministero Tambroni il tono anticlericale del settimanale romano tornava a farsi
sentire; non erano sufficienti le giustificazioni di un governo di necessità a chiarire le scelte democristiane.
“L’Espresso” denunciava nuovamente le interferenze ecclesiastiche nella vita politica italiana, accusando la
Democrazia cristiana di scarsa autonomia.
Dopo il discorso di Tambroni alla Camera, “L’Espresso” esprimeva il suo severo giudizio. Dalla nascita del
settimanale alla nomina del ministero Tambroni gli interventi de “L’Espresso” atti ad indirizzare le scelte
politiche della Dc verso una maggioranza allargata ai socialisti, oltre che ai partiti laici minori, erano aumentati
in modo progressivo rispetto alle soluzioni governative di centro destra che il partito di maggioranza
continuava a tessere. Gli intenti fustigatori del settimanale con lo scopo di denunciare, correggere, indirizzare
diventavano dunque più violenti. Un settimanale nato con lo scopo preciso di combattere l’immobilismo
centrista caratteristico della seconda metà degli anni cinquanta, accentuava i suoi toni, a volte volutamente
apocalittici, di fronte alle scelte involutive della Dc. Dopo la nomina di Tambroni “L’Espresso” esprimeva i
propri dubbi su questo governo d’affari in attesa della chiarificazione politica. “L’Espresso” scriveva che
“sulle intenzioni del nuovo presidente designato esistono alcuni dubbi. Nelle sue prime dichiarazioni (…),
subito dopo aver ricevuto l’incarico dal capo dello Stato, egli ha sottolineato il carattere di ordinaria
amministrazione del ministero che avrebbe costituito, prefiggendosi come scopo principale di adempiere ad
alcune scadenze costituzionali improrogabili, prima fra tutte quella dell’approvazione dei bilanci. Il termine
per tale approvazione (o per la richiesta d’esercizio provvisorio) scade il 30 giugno: sebbene l’on. Tambroni
non abbia fatto alcun cenno al problema di elezioni anticipate, è evidente che egli pensa di arrivare almeno fino
al prossimo autunno. Potrebbe tuttavia essere tentato di proseguire più oltre, trasformando insensibilmente il
suo governo da un ministero di affari a quel monocolore pendolare che fu, per un certo periodo, nelle sue
aspirazioni”._
Negli ambienti politici si parlava di lui come dell’uomo nuovo, “l’uomo nuovo a cui si ricorre per carità di
patria nei momenti difficili”._ Perentoriamente Arrigo Benedetti affermava che Tambroni “uomo nuovo (…)
non lo è, trattandosi d’un notabile democristiano che ha fatto carriera non negli ultimi anni, cioè da quando il
travaglio dei cattolici politicanti si è fatto più aspro, bensì dai tempi di De Gasperi (…). Segni, succedendo a
Scelba, gli diede l’Interno che Zoli e Fanfani gli conservarono (…). Si dimostrò subito severissimo controllore
dell’ordine pubblico e più d’una volta Tambroni venne accusato d’essere soprattutto un ministro di polizia”._
L’unica cosa sembrasse certa a “L’Espresso” dopo l’insediamento del ministero Tambroni era la profonda crisi
in cui riversava il partito di maggioranza relativa. “Il partito di maggioranza è uscito squalificato dall’ultima
crisi, scriveva il settimanale romano (…). La Dc ha rivelato finalmente la propria natura. Ha dimostrato
d’essere un insieme confessionale di uomini che ormai considerano il potere come un diritto discendente da un
patto che essi hanno contratto non col popolo italiano ma con la Santa Sede”._
Prima che il presidente del Consiglio si rivolgesse alla Camera dei deputati per ottenere il voto di fiducia,
intanto, già si sapeva che si sarebbe rivolto alla destra per ricevere sostegno, e “L’Espresso lo aveva previsto:
“L’Espresso” esce a poche ore dal voto di fiducia, scriveva il settimanale il 10 aprile del 1960. “Si dice che sarà
ottenuto con la collaborazione dei deputati missini e si precisa ormai che Tambroni accetterà provvisoriamente
quei voti addossando semmai alla Dc, il partito che non può scegliere, il compito di decidere se i voti fascisti
possono essere accettati o no (…). Il governo ‘necesse est’ non inganni nessuno (…). Governare non è affatto
necessario e siamo sicuri che l’on. Tambroni non gliel’ha comandato nessun medico; a meno che…a meno che
non glielo abbia ordinato il confessore”._
Tambroni si volta dunque al paese, scriveva “L’Espresso” e “vuole definirne ed interpretarne le inquietudini,
squalifica la Camera, stabilisce pregiudizialmente che, chi gli dà il voto, salva il nome della patria all’estero e
non compromette il pane dei poveri in casa, autorizzando il MSI d’ora in poi a considerarsi il partito dell’amor
patrio per esser stato l’unico che ha risposto al richiamo angosciato d’un presidente del Consiglio andato allo
sbaraglio solo per il bene di tutti (...). Tambroni ha offeso il Parlamento, ha negato la funzione dei partiti, ha
riqualificato la estrema destra. E solo per restare presidente un giorno in più. Come impedire il sospetto che
egli volesse profittare delle occasioni che lo sviluppo dell’avventura poteva offrirgli?”_
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“L’Espresso”, però, riconosceva responsabile della situazione creatasi in Parlamento in occasione del voto di
fiducia soprattutto la Democrazia cristiana. “Messa di fronte alla necessità di decidersi pubblicamente per una
politica progressiva o per una politica conservatrice – scriveva il settimanale di Benedetti – la Dc sta andando
a pezzi. Le divergenze ideologiche, l’obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il peso degli interessi economici,
la lotta per il potere, hanno ridotto questo partito ad un livello di degradazione non più oltre compatibile con le
responsabilità che gli derivano dall’aver ottenuto la maggioranza relativa dei suffragi elettorali”._ In
concomitanza all’insediamento del ministero Tambroni, il settimanale “L’Espresso” riconfermava il suo
laicismo di ispirazione risorgimentale e accentuava i suoi toni accusatori. Le aperte collusioni della Dc con la
destra parlamentare urtavano direttamente contro l’antifascismo perenne professato dal settimanale.
Intanto, dopo il voto di fiducia ottenuto alla Camera con l’appoggio determinante del MSI, cominciavano i
propositi di dimissioni ai quali aveva dato il via l’on. Pastore, ministro per il Mezzogiorno, subito seguito
dall’on. Bo e dall’on. Sullo.
Dopo le dimissioni dei tre ministri il piano di Tambroni, come aveva scritto Livio Zanetti su “L’Espresso”, era
di “presentarsi al Senato con un discorso di replica diverso da quello fatto alla Camera, in modo da non
ottenere i voti del gruppo missino e passare con quelli della sola Dc, che fra i senatori ha la maggioranza
assoluta. Ciò avrebbe reso meno accentuata la caratterizzazione politica del governo e forse i tre ministri
dimissionari, Pastore, Bo e Sullo, si sarebbero convinti a rivedere la loro decisione: a patto naturalmente che
Aldo Moro, a nome del partito, li invitasse a farlo (…). Moro (…) gli fece chiaramente capire che l’unico modo
di rendersi utile al partito, ormai, era quello di dimettersi”._
In seguito alle dimissioni del governo Tambroni, rassegnate il 12 aprile, “L’Espresso” riportava il testo, inciso
su un nastro magnetico, della discussione che si era tenuta alla Camilluccia tra i dirigenti della Dc. In quella
occasione Tambroni aveva detto: “Né nei primi contatti con Moro, Gui e Piccioni (subito dopo la mia
designazione del 21 marzo) né successivamente nella riunione della direzione del partito (come pure nelle
riunioni dei direttivi del Senato e della Camera), fu mai posto il problema di respingere un certo tipo di voti.
Debbo dirvi che tanto la dichiarazione alle Camere che la mia replica a Montecitorio furono fatte d’accordo
con Moro, con Scaglia, con Salizzoni, con Gui e con Piccioni. Tutti sapevano bene che il mio governo avrebbe
avuto i soli voti di destra (…). È possibile oggi da parte nostra interrompere ancora una volta con decisioni di
partito l’iter parlamentare d’un governo? A mio parere occorre non farsi prendere la mano dai facili drammi.
Al Senato, dove disponiamo della maggioranza assoluta, siamo ancora in tempo per scolorire politicamente
quanto alla Camera è stato necessario colorire. Comunque, debbo dirvi che come presidente del Consiglio non
mi assumo la responsabilità delle dimissioni. Dovete deciderlo voi e non io (…). Per noi riuniti qui – aveva
risposto Moro – il problema è solo questo: le dimissioni dei ministri (…) hanno creato una insostenibile
situazione politica per il governo. Leggo a voi, per concludere, il comunicato della nostra riunione. Vi è la
nostra decisione di invitare il governo alle dimissioni”._.
Si concludeva così questa prima parentesi Tambroni. “L’Espresso” aveva denunciato le responsabilità di
questa svolta a destra addossandole soprattutto alla Democrazia cristiana, il partito che, come dichiarava il
settimanale romano, non sa scegliere.
2. FANFANI
In seguito alle dimissioni del ministero Tambroni, “Gronchi, su designazione della Dc e anche di Nenni, di
Saragat e di La Malfa, il 14 aprile incaricò Fanfani di formare il governo. Socialdemocratici e repubblicani
accolsero con favore la scelta del presidente della Repubblica. Lo stesso Nenni dichiarò che il suo partito
avrebbe dato l’astensione e che avrebbe votato a favore di singoli disegni di legge, qualora si fosse dato vita ad
un tripartito Dc – PSDI – PRI”._
“A distanza di un anno e due mesi dalla clamorosa caduta di Fanfani dal vertice della sua potenza politica –
scriveva “L’Espresso” – tutto sembrava ritornare ai giorni precedenti alla congiura dorotea del gennaio 1959.
<<Un ciclo si chiude>> dichiarò Saragat a Montecitorio non appena la notizia dell’incarico a Fanfani divenne
ufficiale”._
La situazione ben presto, però, prese una svolta. Era intervenuta la gerarchia ecclesiastica; si parlava di alcune
veline che sarebbero circolate negli ambienti della Democrazia cristiana, ritenute responsabili della rinuncia di
Fanfani a formare un gabinetto tripartito, si parlava di un piano Gedda. “Il piano Gedda – scriveva
“L’Espresso” – prevedeva (…) la formazione del secondo partito cattolico, il quale sarebbe nato senz’alcun
veto (ed anzi col benevolo e trasparente incoraggiamento) del Vaticano. Gedda, nella sua qualità di presidente
del Comitato civico nazionale, aveva già provveduto fin dai giorni dell’incarico a Segni, a nominare un
fiduciario in ogni parrocchia (…). I fiduciari avevano ricevuto istruzioni assai dettagliate: non appena a Roma
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si fosse costituito un comitato promotore per l’organizzazione del nuovo movimento dei democratici cattolici,
il fiduciario di parrocchia si sarebbe trasformato in un segretario di federazione. Il nuovo partito sarebbe così
sorto con istantanea e generale presenza in tutte le zone del paese, dotato di quadri, d’attivisti e di assistenti
ecclesiastici”. _
La situazione veniva definita ancora meglio il giorno di Pasqua da Franco Evangelisti, luogotenente di
Andreotti. “L’Espresso” riportava le sue parole: “Bisogna fermare assolutamente Fanfani prima che accetti
l’incarico. Se arriva a presentarsi alle Camere non ce la faremo più. Ma ormai siamo sicuri di fermarlo prima”.
Da dove nasceva l’ostentata sicurezza di Evangelisti, si chiedeva il settimanale di Benedetti? Quali notizie
nuove, quali nuovi alleati si erano pronunciati in favore della destra del partito?
“La notizia nuova era che, rompendo ogni cautela, la gerarchie ecclesiastica stava chiamando uno per uno gli
amici di Fanfani per invitarli a convincere il leader della sinistra Dc a desistere o, altrimenti, per spingerli a
rompere con lui (…). Interventi di questo genere non erano mai avvenuti in nessuna altra occasione, e non
c’era uomo, nel partito, che non si rendesse conto del loro significato”_. “La situazione è arrivata ora –
scriveva “L’Espresso” – al punto che un governo squalificato e dimissionario come quello di Tambroni viene
rinviato, per mancanza di altre indicazioni idonee a risolvere la crisi, dal presidente della Repubblica dinanzi al
Parlamento, mentre la Dc si trova di fronte all’alternativa di dover continuare a sostenere in Senato quel
governo che la direzione del partito ritenne insostenibile, o di provocarne la caduta in sede parlamentare”._
L’ironia della sorte voleva che questa situazione incresciosa si delineasse proprio intorno al quindicesimo
anniversario della Liberazione. “Il più lugubre dei 25 aprile – scriveva “L’Espresso”; come se nel 1875 si fosse
festeggiato il primo quindicennio dell’Unità d’Italia e dell’indipendenza a braccetto con Pio IX e i Borboni. A
quindici anni dalla Liberazione e dall’uccisione di Mussolini, uno dei partiti del CLN governa con i fascisti nel
momento in cui il partito che si richiama al fascismo precisa con chiarezza il proprio odio verso l’Italia uscita
dalla Resistenza”._
Per un settimanale che aveva a cuore il rinnovamento della società italiana e che, benché professasse fede laica,
vedeva nel dialogo tra i cattolici e la sinistra laica il binomio migliore per raggiungere questo rinnovamento, i
sistematici interventi della Chiesa ad intralciare questo progetto non potevano non scatenare dolorosi attacchi
anticlericali. La prima metà del 1960, finita con quelli che sono passati alla storia come i fatti di Genova,
comporta uno sforzo estremo di reazione da parte del settimanale al pericoloso slittamento verso destra
perpetrato dalla Democrazia cristiana. Il laicismo professato dal settimanale si coloriva dunque di
anticonfessionalismo e anticlericalismo caratterizzato dai toni esasperati della denuncia di chi vede venir
meno, giorno dopo giorno, i presupposti per la realizzazione di una democrazia compiuta, così come espresso
dall’elettorato attivo. “Le circostanze – dichiarava infatti il settimanale – hanno voluto che la Chiesa
nell’ultimo secolo fosse sempre contro l’Italia: ieri contro l’indipendenza e l’unità nazionale, oggi contro
l’esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione, che ci siamo dati dopo un libero dibattito. Le circostanze
hanno voluto tale dolorosa anomalia e ne hanno voluta anche un’altra che non è solo dolorosa ma che
richiederebbe anzi una condanna più severa. La Chiesa in Italia è, tra l’altro, una grande compagnia finanziaria.
I suoi legami con la grande industria e con l’alta finanza sono noti. Ciò che sta a cuore ai protagonisti
dell’economia italiana sta a cuore alla Chiesa, o per lo meno agli organismi finanziari che da essa dipendono
(...). Il veto non dipende soltanto dal cardinale Siri o dal cardinale Ottaviani. Esso esce dalla realtà che
c’irretisce. Il veto è la Chiesa, che in Italia esercita un vero e proprio potere politico; il veto è la stessa Dc da
quando ha accettato di essere il braccio secolare del papato. La forza delle cose l’ha dimostrato e il veto, si badi
bene, non si posta da sinistra a destra. Ieri il veto colpiva Togliatti, poi ha colpito Nenni; oggi colpisce La
Malfa, Reale, Saragat…Domani, chissà? È certo solo che non colpirà mai la destra. Come dimenticare le
espressioni d’ammirazione di cardinali e arcivescovi per il generalissimo Franco? Chiusura a sinistra, dunque;
chiusura al centro forse, mai chiusura a destra, dove coloro che hanno interesse all’immobilità morale del paese
s’incontrano con coloro che hanno interesse al mantenimento di alcuni determinati privilegi economici”._
3. ‘PUNTI FERMI’_
Il 18 maggio 1960 “L’Osservatore Romano” pubblicava un articolo che fece sensazione in tutto il mondo.
Sotto il titolo perentorio ‘Punti fermi’ il giornale vaticano affermava che la Chiesa ha il diritto di guidare,
dirigere e correggere i fedeli sul piano delle idee e sul piano dell’azione, che questo diritto si esercita anche nel
campo politico e sociale e che la Chiesa non può permettere ai fedeli di aderire, favorire o collaborare con quei
movimenti che adottano l’ideologia marxista e le sue applicazioni”._
La reazione de “L’Espresso” a questa nota fu particolarmente violenta: il settimanale romano imputava le
colpe dell’interferenza ecclesiastica direttamente al pontefice. “Il marxismo è l’antagonista momentaneo della
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Chiesa – si leggeva in un editoriale sulla prima pagina de “L’Espresso” del 29 maggio 1960 – la quale afferma
di voler avere d’ora in poi, e per sempre, una supervisione insindacabile sulla posizione politica di chiunque ad
essa aderisca e sia legato in quanto cattolico (…). E’ l’Italia che viene presa di mira cent’anni dopo la sua unità
(…). La nota dell’Osservatore pone un problema esclusivamente italiano, per cui in questo momento occorre
una grande chiarezza per limitare i possibili incresciosi equivoci di domani. Ai cattolici militanti nella
Democrazia cristiana il compito di rispondere seguendo gli stimoli della loro coscienza di cittadini e di credenti
(…). Se gli italiani accettano senza reagire la minaccia contenuta nella nota del 18 maggio, la Chiesa si sentirà
autorizzata a dare una formulazione ancora più solenne ed impegnativa alla concezione espressa già con
chiarezza nel più pericoloso e sovversivo articolo che sia uscito in Italia dopo gli anni del conflitto tra Stato e
Chiesa provocato dalla proclamazione di Roma capitale. Una reazione vivace, invece, potrà rappresentare per
l’attuale pontefice una remora che permetterà ad un istituto, per altro fornito di prudenza, di evitare prese di
posizioni irresponsabili destinate a provocare conflitti la cui portata oggi è forse inimmaginabile. Si deve
quindi reagire con vigore anche se si dovesse ricorrere non alle forme consuete con cui ci si rivolge ad una
autorità rispettabile anche se non accettata, ma ai modi fatali della polemica tra fazioni politiche. Il papato,
infatti, smette d’essere un’ istituzione religiosa e diventa, dal 18 maggio, un partito di carattere schiettamente
autoritario ed i cui fini, in quanto intesi a modificare l’attuale struttura dello stato italiano, possono dirsi
senz’altro sovversivi (…). Come non rendersi conto che questa volta trascinato nella polemica è lo stesso
pontefice, di fatto messosi a capo di una particolare fazione? Certe distinzioni diventano impossibili. Non
interessa più sapere se la nota de “L’Osservatore Romano” è stata scritta o ispirata dall’ambizioso cardinale
Giuseppe Siri, o dal direttore del giornale Raimondo Manzini, lieto forse di favorire con una nota così grave,
pubblicata alla vigilia del Consiglio nazionale della Dc, una particolare esitazione democristiana. Gli intrighi
di Siri, la faziosità di Manzini diventano fatti secondari. Noi riconosciamo un responsabile solo, il capo del
nuovo partito che vuole modificare la struttura della Stato italiano: Giovanni XXIII”._
Veniva messo in gioco questa volta lo stesso pontefice. Da più parti si era criticata questa nota vaticana (“il
settimanale gesuita di Amsterdam definì questa presa di posizione vaticana <<sconcertante>>; il “Newsweek”
rivelò che il cardinale Spellman aveva respinto la tesi dell’articolo; il senatore Kennedy fu fortemente
imbarazzato per il danno che il Vaticano aveva recato alla sua campagna presidenziale_; numerosissimi furono
i fogli cattolici, specie francesi ed americani, che giudicarono negativamente la posizione assunta da
“L’Osservatore Romano”_), ma “L’Espresso” puntava il dito direttamente sul successore di Pietro. Se in
principio, dopo la successione di Angelo Roncalli a Pio XII, “L’Espresso” guardava con simpatia al nuovo
Pontefice, i ripetuti interventi vaticani nella vita politica italiana spegnevano i primi slanci che avevano
accompagnato l’elezione Papa. Nella letteratura inerente la storia del centro – sinistra la figura di Giovanni
XXIII viene presentata come una figura di rottura “con l’indirizzo pacelliano, caratterizzato dalla commistione
tra politica e religione e dalla diretta e personale ingerenza del papa negli affari dello Stato e della Democrazia
cristiana”._
“E’ una tesi certamente valida – ha scritto in proposito Giuseppe Tamburrano – ma che non regge per i primi
due anni del nuovo Pontificato (…). Gli interventi politici (…) sono così numerosi da far pensare ad un unico
disegno che, data la struttura ecclesiastica, non può che essere stato concepito al centro”._
4. LIVORNO E BOLOGNA
Tambroni, riconfermato, attuava una ambigua politica economica popolare e abbassava il prezzo della benzina
e dello zucchero. “In un certo senso – aveva scritto Eugenio Scalfari su “L’Espresso” – il ribasso del prezzo
della benzina e, soprattutto quello del prezzo dello zucchero soddisfano alcune nostre ripetute richieste ed una
nostra antica e continuata campagna di stampa. Sono anni infatti che andiamo ripetendo la necessità di
diminuire il peso delle imposte sui consumi popolari, per concentrare invece l’attenzione del fisco
sull’accertamento progressivo dei maggiori redditi e dei più cospicui patrimoni. Sono anni che sosteniamo la
possibilità di comprimere i profitti del cartello zuccheriero, assolutamente ingiustificati in confronto ai prezzi
vigenti in tutto il resto del mondo. Abbiamo sempre affermato che una sostanziale diminuzione di prezzo
avrebbe provocato in breve tempo un aumento di consumi più che proporzionale, con vantaggio sia per l’erario
sia per gli stessi produttori. Le misure fiscali adottate dal governo Tambroni, e quelle già preannunciate da
parte del Comitati prezzi a carico delle aziende produttrici di benzina e di zucchero, realizzano dunque queste
aspettative deluse”._ C’era però una perplessità che Scalfari sollevava circa questi provvedimenti: l’uso
propagandistico che se ne stava facendo attraverso la radio, la televisione e i giornali filogovernativi.
“Abbiamo cioè la fondata sensazione – scriveva Scalfari – che l’on. Tambroni ritenga possibile esaurire una
politica economica con singoli atti amministrativi la cui importanza e la cui efficacia sono direttamente
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proporzionali alla politica economica generale entro la quale essi vanno inquadrati (...). Ribassare il peso
fiscale sulla benzina e sullo zucchero è una buona cosa; comprimere i profitti ingiustificati dei produttori è cosa
ancora migliore; illudersi che con queste due stampelle si possa raddrizzare una situazione politica è completa
illusione”._
“I recenti provvedimenti di ribassi del prezzo della benzina e dello zucchero – scriveva “L’Espresso” – hanno
aumentato anche di più i timori all’interno della Dc e il desiderio di uscire al più presto da una situazione nella
quale il presidente del consiglio tenta di riscattare l’alleanza con i missini con atti amministrativi d’indubbia
popolarità e d’evidente intonazione demagogica”._
Molto presto, però, “L’Espresso” denunciava l’altra faccia della medaglia di questa politica popolare.
Sopravvenivano infatti a Bologna alcuni violenti scontri tra forze di polizia e cittadini. “È ormai chiaro –
scriveva “L’Espresso” spiegando i perché di questa politica popolare e allo stesso tempo reazionaria – che l’on.
Tambroni non si rassegna al pensiero di dover scomparire dalla scena politica il 31 ottobre prossimo, dopo uno
squallido governo amministrativo malamente tollerato dal suo stesso partito ed appoggiato soltanto dai voti
fascisti. Egli coltiva invece propositi assai più ambiziosi e si sta comportando di conseguenza. Ha cominciato
varando alcuni provvedimenti economici (ribasso della benzina, dello zucchero, delle banane) che avevano lo
scopo di soddisfare aspettative popolari assai diffuse e che hanno potuto essere realizzati soprattutto a spese
dell’erario, senza suscitare seri contrasti con agguerriti interessi di settore che il governo non intendeva
alienarsi (...) Il piccolo riformismo amministrativo di questi provvedimenti non poteva tuttavia bastare all’on.
Tambroni, ne poteva rafforzare le prospettive per il suo governo di durare oltre i termini perentori che gli sono
stati imposti dal Parlamento e dal suo stesso partito. Ed ecco, a motivare una linea politica che dovrebbe
conciliare al governo tutta l’opinione conservatrice e reazionaria del paese, i fatti di Bologna. Dopo gli sgravi
fiscali (…) il manganello della Celere. Il presidente del Consiglio ha capito perfettamente la situazione e a
Bologna ha cominciato a passare dalla teoria alla pratica. Bologna d’altra parte ricorda un precedente terribile
alla memoria degli italiani: l’ondata fascista cominciò proprio dalle revolverate di palazzo d’Accursio._ È un
precedente che tutti oggi hanno il dovere di non dimenticare”._
Comparivano infatti su “L’Espresso” degli articoli significativi che mettevano in luce le avvisaglie di quello
che sarebbe successo nel luglio del 1960.
A Livorno e a Bologna vi erano stati degli scontri alquanto violenti tra forze di polizia e cittadini. “L’Espresso”
aveva precedentemente già denunciato la mobilitazione dei prefetti e dei questori ordinata dal governo. “La
sera di venerdì 29 aprile – scriveva infatti “L’Espresso” – poco dopo il voto di fiducia accordato dal Senato al
governo Tambroni, tutti i questori e i prefetti italiani furono invitati a considerarsi in stato di preallarme.
Qualsiasi manifestazione contraria al governo, dicevano in sostanza i fonogrammi inviati alle due cariche più
importanti delle provincie, deve essere rigorosamente evitata. Le disposizioni del Viminale sono state
applicate dovunque con grande energia”._
Uno di questi articoli significativi è di Fabrizio Dentice, intitolato ‘Livorno: non cercate la donna’. Il titolo
potrebbe far pensare ad una semplice rissa tra giovani teste calde. Invece Dentice individua tutta una serie di
fattori che condizionano gli scontri di Livorno.
E’ interessante leggere interamente questo articolo che svela sin da principio quale epilogo ci si doveva
aspettare dal governo Tambroni. Probabilmente la redazione de “L’Espresso” non immaginava ciò che sarebbe
successo nel luglio del 1960, ma questo articolo, insieme a quello di Andrea Barbato (‘Da Bologna il primo
squillo di tromba’) che descrive i fatti accaduti a Bologna, lascia presagire gli sviluppi di questa esperienza di
centro – destra. Dalla lettura di questi articoli, che sono riportati per intero in appendice, Dentice e Barbato
ricompongono un mosaico che solo dopo i fatti di Genova l’Italia avrebbe notato: quello di un disegno
preordinato dietro gli attacchi della polizia.
Prima delle vicende del luglio 1960, ha scritto Paolo Murialdi, “Tambroni può contare (…) sull’appoggio in
certi casi tiepido, in altri no, della maggioranza della stampa <<indipendente>> che accetta supinamente lo
stato di necessità cui si richiama l’atteggiamento dei democristiani”._
“L’Espresso”, invece, individua molto presto quali risvolti avrebbe potuto presentare il governo d’affari voluto
da Gronchi.
Le previsioni espresse dal settimanale di Benedetti sul governo Tambroni cominciavano infatti a compiersi.
Tambroni sarebbe rimasto in carica fino alla metà di luglio del 1960: quella data rappresenta un momento di
svolta nella vita politica italiana e “L’Espresso” avrebbe riportato dettagliatamente tutti i passaggi
caratterizzanti la fine di questo ministero.
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APPENDICE CAP. VIII
‘PUNTI FERMI’, “L’Osservatore Romano”, mercoledì 18 maggio 1960, pag. 1
“Nel conturbato periodo che il mondo presentemente attraversa e che è così denso di incognite e di gravi timori
per l’avvenire, un sintomo preoccupante, un fatto assai doloroso è costituito dalla grande confusione di idee
che, specialmente in alcune nazioni, si va diffondendo anche tra i cattolici in merito ai rapporti tra la dottrina
cattolica e le attività sociali e politiche, e tra la Gerarchia Ecclesiastica e i fedeli laici nel campo civile.
Anche la penosa crisi che tiene da tempo in agitazione il popolo italiano, è insieme sintomo ed effetto di quella
confusione che perturba in modo particolare i cattolici e il partito che intende esprimerne il pensiero sul terreno
politico.
Una malsana teoria laicista, recentemente individuata e deplorata dall’Episcopato italiano, in molti ha
offuscato i principi fondamentali della dottrina cristiana sulla struttura della Chiesa, sulla sua missione e sul
suo magistero. Si tende a staccare il cattolico dalla Gerarchia Ecclesiastica, restringendo i rapporti tra l’uno e
l’altra alla sfera del puro ministero sacro e proclamando la piena autonomia del credente nella sfera civile.
Donde l’assurda scissura di coscienza tra credente e cittadino, come se la religione cattolica fosse una fase
particolare e occasionale della vita dello spirito e non una idea – forza che impegna e orienta tutta la esistenza
dell’uomo.
Pertanto è utile e necessario richiamare questi principi basilari:
La Chiesa, costituita da Gesù Cristo come società perfetta con la sua Gerarchia, ha i pieni poteri di vera
giurisdizione su tutti i fedeli e quindi ha il dovere e il diritto di guidarli, di dirigerli e di correggerli sul piano
delle idee e sul piano dell’azione, conformemente ai dettami dell’Evangelo e in quanto è necessario al
conseguimento del fine supremo dell’uomo, che è la vita eterna. A tale scopo la Chiesa propone una verità da
credere, una legge da osservare e offre la grazia divina per l’esercizio di tutte le virtù, individuali, domestiche
e sociali. Il cattolico non può prescindere mai dall’insegnamento e dalle direttive della Chiesa, ma in ogni
settore della sua attività deve ispirare la sua condotta, privata e pubblica, alle leggi, agli orientamenti e
istruzioni della Gerarchia.
Il problema politico – sociale non può separarsi dalla religione, perché è un problema altamente umano e come
tale ha alla sua base un’esigenza etico – religiosa insopprimibile, come sono insopprimibili la coscienza e il
senso del dovere che in quel problema hanno largo ruolo.
Per conseguenza, la Chiesa non può rimanere agnostica, specialmente quando la politica tocca l’altare, come
disse il Papa Pio XI. Essa ha il dovere e il diritto di intervenire anche in questo campo per illuminare e aiutare
le coscienza a fare l’opzione migliore, secondo i principi della morale e della sociologia cristiana.
Salvi questi principi, e salva tale doverosa disciplina dei laici verso la Gerarchia, chiunque può rendersi conto
di quale aperto, vastissimo campo – di responsabili scelte, di ardite iniziative, di feconde attività – si offra
all’operosità civile dei laici cattolici affinché essi portino il loro contributo di opinioni e di discussioni, di
esperienze e di realizzazioni, per promuovere il progresso del loro Paese.
Sul terreno politico può presentarsi il problema di una collaborazione con quelli che non ammettono principi
religiosi: spetta allora all’Autorità Ecclesiastica e non all’arbitrio dei singoli fedeli giudicare della liceità
morale di tale collaborazione, e un conflitto tra quel giudizio e l’opinione dei fedeli stessi è inconcepibile in
una coscienza veramente cristiana: in ogni caso deve risolversi con l’ubbidienza alla Chiesa, custode della
verità.
L’antitesi irriducibile tra sistema marxista e dottrina cristiana è evidente per sé stessa, come quella che oppone
il materialismo allo spiritualismo, l’ateismo alla fede religiosa. Perciò la Chiesa non può permettere ai fedeli di
aderire, favorire o collaborare con quei movimenti che adottano e seguono la ideologia marxista e le sue
applicazioni. Tale adesione o collaborazione porterebbe inevitabilmente a compromettere e sacrificare i
principi intangibili della fede e della morale cristiana. È appena il caso qui di richiamare le chiare e ripetute
norme date a riguardo, dalla Suprema Sacra Congregazione del Sant’Uffizio.
È spiegabile che gli avversari tentino di rigettare o di aggirare con indegne mistificazioni le norme emanate
dalla Chiesa, come è accaduto in recenti episodi, anche per ingannare il popolo cristiano sulle loro manovre e i
loro veri obiettivi. Ma è sommamente deplorevole che alcuni, pur professandosi cattolici, non solo osino
comportarsi nella condotta politica e sociale in contrasto con la Chiesa, ma si arroghino anche il diritto di
sottoporne le norme e i precetti al proprio giudizio di interpretazione e di valutazione, con evidente
superficialità e temerarietà.
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Nell’ora grave che volge, è urgente fare appello alla coerenza e al senso di disciplina di tutti i cattolici, perché
tutti sappiano allinearsi non con le fragili opinioni di maestri improvvisati, ma con il pensiero e con le direttive
della Gerarchia Ecclesiastica, alla quale soltanto – come già accennammo – è riservato di giudicare se, in una
determinata situazione sociale e politica, siano di fatto coinvolti comunque o compromessi i superiori principi
di ordine religioso e morale.
A quelle direttive e a quel giudizio, ogni fedele ha il dovere di conformarsi anche nel campo politico: soltanto
così sarà sicuro di agire in armonia con la fede che professa e potrà contribuire efficacemente al benessere
morale e civile della patria. A suggello di queste considerazioni non ci è di meglio che riportare le gravi parole
che il Sommo Pontefice Giovanni XXIII, f. r., scriveva come patriarca di Venezia, qualche anno fa al suo
diletto popolo: “Infine, debbo sottolineare con particolare rammarico del mio spirito la constatazione della
pertinacia avvertita in alcuno di sostenere ad ogni costo la cosiddetta “apertura a sinistra” contro la posizione
netta presa dalle più autorevoli gerarchie della Chiesa…Anche su questo punto mi è doloroso il segnalare che
per dei cattolici ancora una volta ci troviamo in faccia a un errore dottrinale gravissimo e ad una violazione
flagrante della cattolica disciplina. L’errore è di parteggiare praticamente e di far comunella con una ideologia,
la marxista, che è la negazione del Cristianesimo e le cui applicazioni non possono accoppiarsi coi presupposti
del Vangelo di Cristo”. (Card. Angelo Roncalli, Scritti e Discorsi, vol. II, pag. 456)”._
Fabrizio Dentice, ‘LIVORNO: NON CERCATE LA DONNA’, “L’Espresso”, 1 maggio 1960, pag. 6/7
“Livorno. “Dalli al parà”, “Via i parà da Livorno”: per quattro sere, dal 18 al 21 aprile, migliaia di livornesi
hanno gridato queste parole, mentre in Piazza Grande e nelle strade vicine i giovani della città si azzuffavano
con i paracadutisti della Caserma dell’Ardenza. Sono state quattro sere d’incidenti sempre più gravi e sempre
più assurdi, che hanno visto nell’ultima la Celere lanciarsi inutilmente, armati di candelotti fumogeni,
all’assalto di barricate erette in Piazza Cavallotti coi banchi del mercato. I candelotti piovevano sfrigolando fra
i livornesi che li raccoglievano da terra e li lanciavano indietro tra le file della polizia, mentre dalle finestre
delle vecchie case scrostate e tenute insieme con spranghe di ferro, le donne davano manforte ai loro uomini
gettando pentole, orinali, piatti, tegole, biciclette.
È stata per sei ore fino all’una di notte, una vera battaglia, in cui s’era anche sparato, e non soltanto in aria,
perché due feriti d’arma da fuoco sono stati ricoverati all’ospedale. Dalle 10, sgombrato il campo dai
paracadutisti che gli ufficiali, per evitare cose più gravi, avevano riportato in caserma, erano rimasti di fronte
civili e polizia. Le camionette della Celere caricavano i livornesi, li disperdevano in piazza Grande e in via
Grande, li inseguivano nelle strade laterali. Ma qui improvvisamente dovevano fermarsi bloccando i freni per
non cozzare contro le automobili che i fuggitivi in un batter d’occhio sollevavano di peso dai posteggi lungo il
marciapiede e lanciavano di traverso in mezzo alla via. Al riparo di quegli sbarramenti i livornesi scagliavano
sugli agenti mattoni e selci e li ricacciavano indietro. E ricominciavano le fughe, gli inseguimenti, i colpi di
sfollagente, i pugni, le sassate, i caroselli delle jeeps. Da una parte e dall’altra, gli animi s’erano incattiviti, ci si
pestava con rabbia, quasi con ferocia. E quando alla fine i livornesi stanchi abbandonarono le barricate dopo
averle incendiate, duecento di loro rimasero nelle mani dei poliziotti, prigionieri di un conflitto che aveva
portato la città ai limiti dello stato d’assedio.
A Livorno non era successo niente di così grave da quando nel ’23 venticinquemila squadristi di tutta la
Toscana, con le ‘Disperate’ di Firenze e di Perugia in testa, avevano invaso la città per sciogliere con la forza
l’amministrazione socialcomunista e avevano ammazzato a pistolettate tre uomini per la strada…Si è
rivolto…adesso, contro i paracadutisti italiani con una violenza che ha stupito. Da una frase scostumata che un
paracadutista, la sera del lunedì di Pasqua, ha rivolto ad una ragazza sotto i portici di piazza Grande, si è
arrivati alle barricate. I toscani di oggi sono dunque più gelosi dei siciliani del Vespro? O per capire la loro
reazione dobbiamo guardare al di là delle sottane.
Come molti episodi della cronaca o della storia, gli incidenti di Livorno hanno una parte chiara, e una parte che
la logica non riesce a spiegare. Chiara è la natura del risentimento che ha portato i livornesi a reagire in massa;
sconcertante è la condotta dei comandi militari, che avrebbero potuto, con dei provvedimenti dettati dal più
comune buon senso evitare quanto è accaduto e non lo hanno fatto. Ma cominciamo dalla prima.
Venti giorni prima che i pugni volassero fra paracadutisti e civili sulla piazza di Livorno, altri pugni erano
volati sotto i portici di Borgo Stretto a Pisa, dov’è di stanza il Centro Militare di paracadutismo. Li avevano
provocati le divise di due paracadutisti tedeschi, venuti per qualche giorno a partecipare insieme ai nostri a
delle esercitazioni di lancio nel quadro della NATO. In molte parti della Toscana, i tedeschi hanno lasciato
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brutti ricordi che la vista d’un’uniforme basta talvolta a risuscitare. A Pisa, in particolare dove il fronte si fermò
sull’Arno per quarantacinque giorni dal luglio al settembre ’44, perdurano memorie atroci…
Vedendo i due tedeschi che uscivano da un bar insieme a cinque paracadutisti italiani, due giovani pisani
brontolarono: “Ecco qua! Ancora quelle divise che ci rompono le scatole!” I tedeschi non capirono, ma i
paracadutisti italiani risposero ai civili di stare zitti se non volevano buscarle. Si venne alle mani, e uno dei due
pisani, che era un pugile dilettante, mise a segno tre o quattro pugni che lasciarono il marchio. Arrivò altra
gente, e i paracadutisti pensarono che era meglio, per il momento, lasciar correre. Erano le 11 di sera, e
l’episodio, accaduto in un’ora in cui le strade a Pisa sono quasi deserte, passò inosservato.
I pisani perciò rimasero sorpresi quando la sera dopo in Borgo Stretto arrivarono 150 paracadutisti che
cominciarono a pestare i piedi ai passanti, prenderli a spinte e a schiaffeggiarli se protestavano. Si venne
ancora alle mani, ma questa volta i borghesi impreparati dovettero lasciare la strada ai militari organizzati.
Soddisfatti dal successo mentre accorreva la polizia i paracadutisti si lasciarono inquadrare da un sottufficiale
e tornarono in caserma cantando inni che non erano fascisti, ma che a molti pisani, lì per lì, parvero tali. Da Pisa
a Livorno corrono 20 chilometri…Così i 450 paracadutisti distaccati a Livorno…seppero subito dai compagni
quello che era accaduto e continuarono a pensarci. A Pisa lo scontro coi civili aveva dimostrato che i
paracadutisti sapevano farsi temere: quelli di Livorno, all’occorrenza, avrebbero fatto vedere che non erano da
meno…
La frase grossolana detta a una ragazza, o la mano impertinente calata su una signora non sono state la vera
ragione della collera dei livornesi. Nella loro antipatia verso i paracadutisti hanno avuto molto più peso altri
sentimenti. Da una parte c’è stato il fastidio di tanti giovani costretti a misurarsi le sigarette guardando alle
trentacinquemila di reddito mensile netto dei paracadutisti, come un traguardo economico invidiabile.
Dall’altra c’è l’ostilità d’una opinione pubblica politicamente orientata a sinistra, che è sempre stata molto
sensibile ai pericoli del militarismo, che ha sentito parlare dei parà d’Algeria, e guarda con sospetto agli
atteggiamenti troppo spavaldi di soldati diversi dagli altri, che in comune con i parà francesi hanno il nome e la
retorica.
In questa situazione non era difficile precedere che l’antipatia dei livornesi verso i paracadutisti e l‘aggressività
di questi ultimi potesse portare prima o poi a qualche rissa. Ma a Livorno c’è stato molto di più. È questa la
parte meno chiara della storia. Anche a Livorno la prima sera l’incidente fu di modeste proporzioni: pochi
pugni davanti a un bar fra un gruppetto di paracadutisti e una decina di giovanotti. Anche a Livorno come a
Pisa, la sera dopo i paracadutisti all’ora della libera uscita, si presentarono in massa, a gruppi organizzati in
piazza Grande. Ma a differenza che a Pisa, questa volta i giovani del posto li aspettavano e la spedizione
punitiva non ebbe successo. I paracadutisti, dopo due ore di botte, dovettero ritornare in caserma con la faccia
e il prestigio un po’ ammaccati. In piazza Grande rimasero di fronte soltanto civili e polizia: la lotta ingaggiata
coi paracadutisti continuò fra loro senza scopo.
A questo punto l’incidente sarebbe potuto finire. Bastava tenere i paracadutisti in caserma per qualche giorno,
o mandarli al cinema ad Antignano invece che a Livorno, aspettando che la situazione si scaricasse. I
paracadutisti non comparvero in piazza Grande e ogni pericolo pareva sventato. I giovani che a quell’ora fanno
sosta davanti ai caffè non potevano certo prendersi a pugni tra loro. Ma improvvisamente venne la polizia e
pretese di mandarli a casa. I livornesi resistettero. L’atmosfera, che stava ritornando calma tornò ad agitarsi.
Perché la polizia è intervenuta quando non era necessario? Forse il maggiore Mario Zetto, comandante del
battaglione dell’Ardenza non aveva informato il questore che quella sera i suoi paracadutisti sarebbero rimasti
a casa.
Questo è il primo punto incomprensibile. Ma ancora più strano è ciò che accadde il giorno dopo, giovedì 21
aprile. Tutti i livornesi, a cominciare dal sindaco Nicola Badaloni, ai dirigenti sindacali, ai rappresentanti di
tutti i partiti politici erano convinti che il ritiro dei paracadutisti sarebbe continuato almeno per qualche sera.
Era stato lo stesso prefetto della città, Francesco Di Lorenzo, a darne assicurazione, in un colloquio che aveva
avuto con loro alle sei del pomeriggio. Egli non avrebbe potuto fare affermazioni così impegnative, se a sua
volta non avesse ricevuto garanzie dal comandante di presidio, generale Ferrante.
Invece poco prima dell’ora di cena, i livornesi seduti ai tavolini di piazza Grande sentirono un grido che si
avvicinava: “Eccoli, eccoli!”. Poco dopo i paracadutisti a gruppi arrivavano nella piazza pronti a picchiare ed a
essere picchiati. E accadde l’inevitabile: i civili usarono le mani, le sedie, i tavolini dei caffè, le macchinette a
gettone sradicate dai supporti; i paracadutisti, i pesanti cinturoni bianchi, roteati come clave, e calati a colpire
con le grosse fibbie metalliche. Ci furono scene di ferocia; un capitano dell’Ardenza fu accoltellato alla gola;
un ragazzo di sedici anni, che la mattina andava a vendere pettini e gomme americane davanti alle scuole, ebbe
un occhio cavato da un colpo di cinturone.
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Da una parte e dall’altra, chi restava isolato veniva circondato dagli avversari e pestato finché i compagni o la
polizia non arrivavano a liberarlo. Poi i paracadutisti sparirono e ancora una volta livornesi e Celere rimasero
soli a darle e a prenderle senza motivo.
Che cos’era accaduto? È una domanda che molti continuano a rivolgersi con inquietudine anche ora che la
calma sembra tornata nella città, ma che quella sera gettava negli animi un grave turbamento. Più preoccupati
di tutti erano i dirigenti della Camera del lavoro e gli organizzatori comunisti e socialisti: il modo come s’era
arrivati al nuovo scontro era infatti talmente assurdo da risultare perfino sospetto. Si poteva avere addirittura
l’impressione che in un momento politico delicato, i paracadutisti fossero stati mandati in piazza proprio per
far nascere disordini e per far ricadere la loro colpa sui partiti di sinistra.
Forse in quelle ore drammatiche non c’erano in città due persone così vicine nelle loro apprensioni, come il
prefetto Di Lorenzo e il capo dei portuali Vasco Jacoponi. Il prefetto viene da Catanzaro, è a Livorno da tre
mesi, e i sentimenti dei suoi amministrati sono ancora per lui in gran parte misteriosi. Jacoponi è il più anziano
leader superstite della vecchia guardia livornese…
Ma entrambi si trovano di fronte allo stesso enigma, che veniva dalla caserma. Perché i paracadutisti erano
usciti? Quale ufficiale aveva potuto essere così pazzo da rompere la tregua rimandandoli in piazza Grande? Un
comandante di paracadutisti non deve avere la prudenza d’un rabbino; ma neppure si può credere che abbia
tanta voglia di giocarsi la carriera da mandare i suoi uomini, per puntiglio di corpo, a provocare una città.
Anche oggi, ripensando a quant’è accaduto è difficile persuadersi che abbia agito d’iniziativa, contravvenendo
agli ordini. C’è stato, nel corso del pomeriggio del 22 aprile un brusco cambiamento di programma: fino ad una
certa ora i comandi militari hanno fatto capire che essi stessi, come tutti gli altri, erano convinti
dell’opportunità di tenere i paracadutisti all’Ardenza. Poi, improvvisamente, fra le sei e le otto di sera hanno
cambiato idea. Come mai? Un portavoce del comando di presidio ha fatto sapere il giorno dopo che “erano
state fatte le dovute consultazioni e interpellato chi si doveva”. Queste parole vogliono significare che s'è’
obbedito a un ordine da Roma?
A Livorno quella sera molti hanno potuto pensarlo…”._
Andrea Barbato, ‘DA BOLOGNA IL PRIMO SQUILLO DI TROMBA’, “L’Espresso”, 29 maggio 1960, pag.
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“Piazza Malpighi ore diciotto e trenta di sabato 21, Giancarlo Pajetta, sul palco eretto nel fondo della piazza
lunga e stretta, davanti al palazzo del CONI, stava per affrontare la parte conclusiva del suo comizio del
vertice. Il commissario capo di PS, Pagliarulo, un dirigente della squadra politica della questura di Bologna che
fino ad allora aveva assistito al comizio in piedi ed in silenzio, alla destra del baracchino, si tolse dalla tasca un
pacchetto di carta velina bianca, l’aprì e ne estrasse una fascia di seta a tre colori, verde bianco e rosso. Era la
sciarpa che gli italiani sono abituati a cedere solo in un occasione: indosso al sindaco, di traverso sul petto,
nelle rare volte in cui si celebra in municipio un matrimonio civile.
Solo i bolognesi più anziani presenti in piazza Malpighi, solo quelli che hanno oggi più di sessant’anni,
capirono il significato di quella fascia tricolore, intuirono ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Solo essi
sapevano infatti che, subito dopo che il commissario Pagliarulo aveva indossato la sciarpa, sarebbero
immancabilmente echeggiati tre squilli di tromba, come un segnale di carica. Poi, ci sarebbe stata la battaglia.
Gli agenti dell’ordine, i carabinieri che fino ad allora avevano atteso ai bordi della piazza, seduti sulle
camionette davanti ai negozi, avrebbero avanzato per disperdere la folla. In caso di resistenza, avrebbero usato
la forza.
Il comportamento di Pagliarulo fu invece, almeno all’inizio, abbastanza diverso da quello dei suoi colleghi che
operavano a Bologna negli anni immediatamente precedenti alla marcia su Roma e alla vittoria del fascismo.
Allora nel 1920 e nel 1921, non passava giorno senza che si verificassero scontri sanguinosi davanti a palazzo
d’Accursio o alla periferia della città. Le squadre degli arditi, rinforzate dagli uomini giunti dalle campagne sui
18 BL messi a loro disposizione dagli agrari emiliani, si riunivano senza permesso nelle strade e nelle piazze. I
delegati di pubblica sicurezza, con la fascia sempre pronta a tracolla, ordinavano immediatamente al
trombettiere di suonare i tre squilli regolamentari, e lo scontro cominciava.
Quando Pagliarulo mise la mano in tasca per prendere la fascia, Gianfranco Pajetta parlava da più di un’ora.
Sul palco accanto a lui, c’era l’on. Giovanni Bottonelli, il segretario della federazione comunista di Bologna,
Guido Fanti, l’assessore provinciale Paolo Betti, l’assessore comunale Giorgio Scarabelli e pochi altri. Ogni
quarto d’ora, il campanile della chiesa all’estremità opposta della piazza, suonava a festa e per alcuni minuti le
parole dell’oratore non giungevano oltre le prime file degli ascoltatori. Un attivista del partito comunista, poco
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dopo l’apertura del comizio, aveva portato al palco della presidenza un biglietto, sul quale aveva scritto: ‘ ho
sentito il commissario dare un ordine. Appena metterà la fascia tricolore, la piazza dev’essere sgombrata. La
polizia è pronta ad intervenire’. Anche Pajetta, seguitando a parlare, aveva dato uno sguardo a quel biglietto e
seguiva dall’alto le mosse di Pagliarulo. Il parlamentare comunista, del resto, aveva avuto un chiaro
avvertimento delle difficoltà che avrebbe incontrato fin dal giorno prima, quando il quotidiano cattolico,
“L’Avvenire d’Italia”, di Bologna, in un corsivo in prima pagina, aveva deplorato che la polizia avesse
concesso ai comunisti il permesso di tenere un comizio in piazza Malpighi, mentre a poche centinaia di metri,
nello stesso momento, sarebbe passata per le vie centrali di Bologna la processione in onore di San Luca.
Per un’ora, Giancarlo Pajetta aveva parlato della conferenza al vertice, addossando ad Eisenhower la
responsabilità del fallimento dei colloqui di Parigi. Ricordando l’episodio dell’U2 abbattuto dalla contraerea
russa, aveva dichiarato che esistevano i documenti per provare che l’apparecchio americano si appoggiava
anche a due basi in territorio italiano. E s’apprestava a trarre le conclusioni del suo discorso con queste parole,
fedelmente registrate da un nastro magnetico: ‘Il governo italiano è stato un complice di questa attività
provocatoria, un complice…’
Fu a questo punto che Pagliarulo si mosse, fece un cenno al drappello di polizia che era a pochi passi da lui e
s’infilò rapidamente la sciarpa tricolore. ‘Onorevole’, gridò verso il palco, ‘le tolgo la parola. Ordino a tutti di
sciogliere il comizio!’ Solo pochi, nella grande piazza lunga quasi mezzo chilometro, sentirono le sue ultime
parole.
Pajetta, che ha oggi quarantanove anni e che ne ha trascorsi più di dodici nelle prigioni di Forlì, di Roma, di
Torino e di Civitavecchia, non capì, o finse di non capire, cosa stava accadendo. Malgrado l’ammonimento del
giornale cattolico bolognese e il bigliettino portato dall’attivista, non credeva che Pagliarulo avrebbe messo in
atto il proposito di sciogliere il comizio.
Pajetta aveva parlato centinaia di volte in tutta Italia, ma la polizia, se era giunta talvolta ad intimargli di
moderare i termini, non gli aveva mai tolto la parola. ‘No, caro’ rispose a Pagliarulo mentre le camionette degli
agenti già accendevano i motori all’altro lato della piazza, ‘no, mi dispiace, non sciogliamo proprio niente’. Gli
altoparlanti funzionavano ancora e le cinquemila persone radunate in piazza Malpighi sentirono perfettamente
le parole di Pajetta.
Subito dopo, il piano di Pagliarulo scattò. Il trombettiere della polizia suonò uno squillo di tromba, uno solo.
Fu l’ultimo suono che i bolognesi udirono attraverso l’altoparlante, perché subito dopo alcuni agenti si
precipitarono a tagliare i cavi della corrente elettrica, troncando a mezzo le proteste del deputato comunista. Ci
furono alcuni momenti di incertezza. Pajetta ha confessato di non aver creduto, anche dopo gli avvertimenti di
Pagliarulo, che il comizio stesse per sciogliersi. Bologna, è noto, è una roccaforte comunista, dove gli incidenti
fra polizia e cittadini sono rari proprio perché il rapporto di forze a favore delle sinistra è tale da scoraggiare
ogni tentativo di disturbare i loro comizi. Ma la sorpresa dei comunisti presenti in piazza Malpighi durò pochi
secondi, il tempo sufficiente perché le camionette della Celere li investissero. I cinquanta agenti avevano a loro
disposizione gli sfollagente, e i calci delle pistole, mentre il servizio d’ordine che i dirigenti del PCI
predispongono con molta cura ogni volta che si svolge una loro manifestazione al chiuso o all’aperto preparava
la prima linea di difesa”._
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CAPITOLO NONO
“L’ESPRESSO” E I FATTI DEL LUGLIO 1960
È il 1960: “L’Espresso” è ormai un giornale di battaglia. La sua titolazione è immaginosa, pungente, ironica. Il
suo stile espositivo non è orizzontale ma frastagliato; il feticcio dell’oggettività non lo annovera fra i suoi
adoratori più ferventi; l’impersonalità e l’anonimato non troveranno mai accoglienza piena fra le sue pagine. È
anche l’anno della consacrazione: Fellini fa del Mastroianni protagonista della ‘Dolce vita’ “un giornalista
impegnato, sia pure a modo suo, dalle cui tasche ogni tanto spuntava un Espresso”._ È anche anche l’anno
della grande manifestazione di Genova che avrà grande risonanza in tutta Italia. Forse il vero momento
creativo del centro – sinistra per “L’Espresso” è proprio questo: il sogno di una alternativa capace di non
fermarsi ai vertici e di coinvolgere tutte le forze vive del paese appare un obiettivo concretamente realizzabile.
Nella prima metà di maggio i giornali pubblicano la notizia che la direzione del MSI ha deciso di convocare il
VI Congresso nazionale a Genova per il 3 luglio. Il congresso si sarebbe tenuto con l’autorizzazione del
governo. Il 30 giugno la CGIL proclama lo sciopero generale, e nel capoluogo ligure scoppia il finimondo.
Per descrivere i fatti del luglio 1960, è interessante leggere gli articoli che “L’Espresso” propone per capire le
dinamiche con cui gli avvenimenti si sono svolti. Qui di seguito sono riportati gli articoli rappresentativi delle
giornate che caratterizzarono il luglio del 1960. Raccontano ciò che successe a Genova, a Reggio Emilia, a
Roma, a Licata, a Catania e a Palermo.
In questi articoli, “L’Espresso” propone un’analisi dettagliata delle giornate calde dell’estate 1960.
Dall’esposizione degli avvenimenti, fatta da Andrea Barbato,vengono fuori i lineamenti di un disegno
preordinato dovuto non a qualche partito o organizzazione – come volevano far credere, secondo
“L’Espresso”, molti giornali e i servizi della Radio – Tv – bensì al governo. A tal proposito, Paolo Murialdi ha
scritto: “Questa crisi ha messo a nudo i peggiori difetti, professionali e morali, del giornalismo italiano. Con
rare eccezioni, e con ripensamenti dell’ultima ora, i grandi quotidiani e la Rai – Tv hanno mostrato il loro
conformismo di fronte al potere, l’avvilente subordinazione agli interessi e ai timori dei padroni, anche quando
sono in pericolo le istituzioni democratiche, in primo luogo la libertà di espressione.”_
1. Andrea Barbato, ‘BALILLA L’HA IMPEDITO’, “L’Espresso”, 10 luglio 1960, pag. 2
“GENOVA. Il questore di Genova, Francesco Lutri, la notte fra venerdì e sabato 2 luglio, poco prima della
mezzanotte, salì di corsa lo scalone del palazzo della Prefettura genovese (…). Si recava nell’ufficio del
prefetto con un particolareggiato rapporto nella cartella e per spiegare qual era la situazione delle forze in
campo, cercando di prevedere cosa sarebbe successo il mattino seguente.
Mancavano poche ore all’inizio dello sciopero generale di protesta contro il congresso del Movimento Sociale
Italiano. Quattromila agenti di polizia, duemila carabinieri, duemila guardie di finanza erano disposte a
semicerchio intorno alla città e ne pattugliavano le piazze principali. Due colonne di autoblindate, giunte dalla
Lombardia, aspettavano ordini nei cortili delle caserme di Sanpierdarena e di Sestri. Chilometri di fili spinati
erano stati distesi in piazza De Ferrari in via XX Settembre, davanti al teatro Margherita. Ogni soldato, ogni
agente aveva in dotazione una cassa di lacrimogeni, ma l’ordine, questa volta, era di sparare contro i
manifestanti. Sulla pista dell’aereoporto di Sestri, intanto, l’elicottero della polizia si stava rifornendo di
lacrimogeni che doveva lanciare dall’alto, come aveva fatto il giorno prima sugli assembramenti. “E gli altri,
quanti sono?”, domandò il prefetto al questore dopo aver ascoltato il rapporto.
Qui le notizie si facevano più confuse. Lo sciopero generale, prevedeva Lutri, avrebbe portato nel centro di
Genova più di centomila persone. Tutta la fascia industriale genovese di ponente e di levante era pronta a
muoversi. A Portoria, a Caricamento, a Cornigliano, a Sestri Ponente, a Sanpierdarena, a Bolzaneto, erano
apparse scritte minacciose e la gente cominciava già ad uscire di casa, a radunarsi in piccoli gruppi.
Una ventina di trattori agricoli stavano per cominciare la marcia verso il centro. Avrebbero bloccato, come
carri armati, la serie di grandi strade che taglia in due Genova e che non è attraversata da alcuna strada
transitabile. Centinaia di litri di benzina erano serviti a confezionare le bombe Molotov che erano corse di
mano in mano nei quartieri del porto. I comandi di polizia di tutti i paesi della provincia genovese segnalavano
che alcune formazioni partigiane s’erano ricostituite e che erano pronte a scendere in città la mattina seguente.
Si parlava nuovamente della “Odino”, della III brigata Liguria, le due grandi formazioni che erano state le
protagoniste della lotta partigiana nel genovese. I quattrocento anarchici genovesi erano riusciti a sfuggire al
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controllo preventivo della polizia, venti mitra, che il 30 giugno erano stati strappati dalle mani degli agenti in
piazza De Ferrari, non erano stati più riconsegnati. Sulle strade fra l’Emilia e la Liguria il traffico era molto più
intenso del solito: autobus, motociclette, furgoni, rovesciavano una folla alla periferia di Genova. I quartieri
dietro porta Sant’Andrea, via Madre di Dio, i carrugi, il porto, erano sbarrati da barricate di pietre e legname
alte due metri.
“Cosa accadrà domani?” chiese inquieto il prefetto. E il questore non seppe rispondergli.
In quel momento, a Genova, c’era un uomo solo che poteva prevedere se ci sarebbe stata la battaglia di sabato
mattina, e dove si sarebbe svolta. Quell’uomo era Giorgio Gimelli, il presidente dell’ ANPI_ genovese. Il
prefetto si decise a chiamarlo, alla sede di via San Lorenzo 5. La conversazione fu secca, breve. “Come va
l’ordine pubblico?”, chiese il prefetto. Gimelli, che non s’aspettava quella domanda, rispose bruscamente: “E’
il suo mestiere: non voglio levarglielo”.
In via San Lorenzo, si studiava il piano d’azione. I convenuti parlavano in una stanza con le pareti coperte da
fotografie dei campi di concentramento nazisti (…).
Attorno al tavolino sono seduti i segretari dei cinque partiti antifascisti, (comunista, socialista, radicale,
socialdemocratico e repubblicano) della Camera del Lavoro, dei sindacati operai, delle associazioni partigiane,
delle commissioni interne delle grande industria genovesi. Il telefono suonava ininterrottamente: da Londra, da
Parigi, da Roma, si chiedeva cosa sarebbe successo a Genova il giorno dopo. Centinaia di telegrammi e di
lettere di solidarietà erano chiusi in una cartellina: avevano scritto operai di Milano e di Reggio Emilia,
senatori di Roma. Aveva scritto perfino il presidente delle ACLI genovesi, il parroco di Barbagelata, il paese
che era stato due volte raso al suolo dai tedeschi nel ‘45, e un redattore del “Nuovo cittadino”, il giornale del
cardinale Siri, arcivescovo della città. Quando, dopo un’ora di riunione, Gimelli telefonò al prefetto, fu per
dirgli: “Non posso rispondere dell’ordine pubblico. Noi facciamo lo sciopero, ma non sappiamo cosa farà la
folla”.
Gimelli e gli altri, in realtà, avevano un piano preciso: gli uomini che riuscivano a controllare avrebbero
attaccato i fascisti in vari punti della città, seguendo la tattica della guerriglia partigiana di montagna. Ma era
anche vero che la maggior parte dei genovesi che si sarebbero trovati il giorno seguente dinanzi alla polizia non
accettavano ordini da nessuno. Essi non dipendevano infatti da nessun partito e da nessun sindacato. In quelle
ore che precedevano l’alba, nella città silenziosa e pattugliata, la battaglia sembrava inevitabile. Cosa sarebbe
successo se, alle sei di mattina, lo sciopero generale fosse scattato? Oggi a Genova sono tutti d’accordo nel dire
che si sarebbe versato molto sangue. Nessuno poteva prevedere come si sarebbe svolto lo scontro del giorno
dopo. Infatti, quello che stava succedendo a Genova era un fatto nuovo nella storia dell’Italia del dopoguerra
(…). A Genova (…) anche se la prevalenza dei sentimenti è decisamente antifascista, il MSI può contare su
trentamila voti (…). Gli iscritti sono poche centinaia, ma Genova è il centro di alcune fra le più oltranziste
organizzazioni neofasciste, come il FUAN, il Fronte unitario di azione nazionale, e il movimento neonazista,
per lo più studenti fuoricorso che si reggono i pantaloni con cintole dell’esercito tedesco e che molestano le
ragazze ebree dell’università (…). Quando, tre mesi fa, lo stato maggiore missino decise di tenere il congresso
del partito al teatro Margherita di Genova, nessuno ignorava le difficoltà e l’ostilità che si sarebbero incontrate.
Quello che, invece, nessuno poteva prevedere era che i neofascisti a Genova si sarebbero trovati dinanzi non
solo a poche migliaia di agitatori comunisti, agli attivisti dell’estrema sinistra, a qualche portuale scatenato, ma
addirittura all’intera città, a tutti i giovani, ai professionisti, ai professori, ai commercianti…Gli slogans della
stampa e dei manifesti fascisti denunciavano chiaramente i propositi dei delegati missini. “Risaliamo al nord”,
“Torniamo a Genova”, s’intitolavano gli editoriali del “Secolo d’Italia”.
Le prime difficoltà per il congresso del MSI cominciarono alla metà di giugno quando una agenzia di viaggi, la
Polverini, incaricò un avvocato genovese di sentimenti fascisti di prenotare le camere d’albergo per i 600
delegati e molti altri posti per gli aderenti che dovevano essere sistemati negli alberghi del porto e nelle
locande popolari. Il rappresentante dell’agenzia non disse che si trattava dei congressisti fascisti e gli alberghi
concessero la prenotazione: 100 posti al Colombia, 120 al Savoia, 80 al Vittoria, 80 al Milano, 90 al Britannia,
70 al Gènes, 52 al Bristol, 40 al Plaza. Uno degli albergatori, avendo saputo di chi si trattava, tentò di rifiutare
l’ospitalità ai delegati, ma il questore minaccio di ritirargli la licenza. Alla fine di giugno, pochi giorni prima
dell’inizio del congresso, i dirigenti missini si preoccuparono di poter disporre, intorno al teatro Margherita e
in tutta la città, di alcune squadre di azione. In una delle riunioni del MSI, gli organizzatori del congresso
cercarono di calmare le preoccupazioni generali affermando che avrebbero schierato intorno al teatro 5.000
giovani armati di manganello e di cinghiere chiodate e che altri 8.000 sarebbero stati pronti nei quartieri
popolari e nel porto (…). Tuttavia, la mobilitazione delle squadracce dalle regioni confinanti con la Liguria e a
Genova stessa non diede i risultati sperati. Solo una squadra romana agli ordini di Giulio Caradonna prese
posto in una pensione dell’Angiporto. Per riconoscersi tra loro i giovani portavano un bottone nero
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all’occhiello della giacca. Quando questo particolare fu conosciuto dagli attivisti della CGIL, solo la forza di
persuasione dei dirigenti sindacali riuscì ad evitare che a Genova si svolgesse una caccia a tutte le persone col
segno del lutto sul bavero. Da Piacenza dovevano giungere cento camerati in camicia rossa, ma il prefetto, il
giorno prima del congresso, credendo che fossero attivisti comunisti, bloccò il loro autobus alle porte di La
Spezia. Nel porto di Genova, i propagandisti missini offrivano ventimila lire a testa ai portuali disoccupati
come prezzo di arruolamento, ma solo una decina accettarono , intascarono il compenso e non si fecero più
vedere. Quando le delegazioni fasciste arrivarono a Genova e tentarono un primo bilancio delle forze di cui
potevano disporre, s’accorsero che esse erano praticamente inesistenti. I seicento delegati del congresso, venti
falangisti spagnoli e una dozzina d’inglesi Mosley sparsi nella città, la squadra di Caradonna asserragliata nel
porto e i cui componenti fingevano d’essere commessi viaggiatori e marinai in licenza. I trentamila missini
genovesi non avevano risposto all’appello: erano tutti commercianti, piccoli borghesi, meridionali immigrati
che non volevano saperne di scendere in piazza. Contemporaneamente, negli alberghi, cominciarono i
sabotaggi. I facchini, i camerieri, tutti appartenenti al sindacato ‘Alberghi Mense’ della CGIL, riferivano
subito i discorsi dei delegati, si rifiutavano di servirli a tavola, annotavano e comunicavano i numeri delle loro
camere. Al Colombia, dove avevano preso posto tutti i capi del MSI, i camerieri incollarono sul fondo dei piatti
e dei bicchieri alcuni biglietti con scritte antifasciste. I conducenti dei taxi sbagliavano strada, i meccanici delle
autorimesse sgonfiavano le gomme delle macchine, le telefoniste ritardavano l’inoltro delle chiamate per
Roma. <<Genova è la città di Balilla>>, dicevano gli studenti, <<di quello vero…>>. È con questo stato
d’animo d’eccitazione e di paura che, dopo gli scontri di giovedì 30 e l’annuncio dello sciopero generale di
sabato 2 cominciò al primo piano dell’albergo Colombia la riunione decisiva, quella che avrebbe dovuto
stabilire se il congresso doveva tenersi ad ogni costo o se conveniva, invece, ritirarsi protestando. “E’ dal 25
luglio che scappiamo! È ora di fermarci!”, disse uno dei delegati. Ma gli intransigenti, i decisi, erano la
minoranza. I più, (tra cui erano squadristi che trent’anni fa avevano atterrito intere regioni), consigliavano la
moderazione, la calma. Non fu difficile far prevalere la tesi della fuga: la paura, il nervosismo, ebbero
facilmente il sopravvento. Intere delegazioni non erano arrivate o si tenevano nascoste per non essere costrette
a partecipare al congresso. Altri missini, leggendo in treno le cronache dei giornali, non erano scesi a Genova
ed avevano proseguito senza meta, scendendo a Milano, a Torino, a Imperia. Le squadre d’azione non erano
arrivate, le scaramucce della nottata avevano decimato e fatto fuggire i più focosi. Fu con un senso di sollievo
che, quando spuntò il sole, i missini cominciarono a fare le valigie, a consultare gli orari ferroviari. I più
spaventati, dopo aver chiesto protezione ai carabinieri per superare lo sbarramento dei dimostranti partirono
sui primi treni che trovarono alla stazione Principe, gli accelerati e i merci che andavano in Piemonte o i
Emilia. Salendo in retta sul treno per Roma, uno dei delegati disse a Pino Romualdi: ‘Ci vorrà del tempo prima
di riuscire a radunarli di nuovo…’ Così, la mattina di sabato 2 luglio, solo una decina di dirigenti missini
rimanevano a Genova per tenersi a contatto con le autorità cittadine. Per giustificare la sollevazione popolare
dei genovesi, essi si affrettarono a dare una spiegazione che era un atto di accusa contro un loro stesso collega
di partito: Carlo Emanuele Basile. “E’ stato un equivoco”, essi dissero: “noi non abbiamo mai pensato di
chiamare Basile a presiedere il nostro congresso”(…). La smentita dei fascisti alla candidatura di Basile come
presidente del raduno missino è comprensibile, Basile è l’uomo più odiato, non solo di Genova, ma dell’intera
Liguria. L’avevano soprannominato “il boia”, quand’era prefetto durante l’occupazione tedesca. Quand’egli
era capo della provincia alcuni gravi episodi lo avevano fatto esecrare dai genovesi. Era il tempo delle torture
alla Casa dello Studente, dei massacri della Benedicta, di Barbagelata, della Val Trebbia, di Torriglia…Basile
era ancora prefetto quando tedeschi e fascisti fucilarono cinquanta partigiani sul Turchino e distrussero il
villaggio di Cichero, accusandone gli abitanti d’aver rifornito d’acqua e di pane gli uomini della Resistenza
accampati sulle montagne liguri. Ma non solo il ricordo degli eccidi e delle torture suscitava lo sdegno dei
genovesi. Basile aveva organizzato in grande stile le deportazioni in massa degli operai della fascia industriale
che dalla zona del porto conduce a Sestri e a Sanpierdarena. Non c’era reparto di fabbrica, dall’Ansaldo Fossati
alla Cornigliano che non avesse avuto tra i suoi dipendente un reduce dai campi di concentramento o da quelli
di sterminio (…). Quando per la prima volta si fece il nome di Basile, persino alcuni parroci che avevano
collaborato o partecipato direttamente alla Resistenza, protestarono energicamente. Don Agostino delle Piane
scrisse da Barbagelata al Consiglio Federativo della Resistenza ligure: “Le nostre piaghe sono ancora aperte.
L’incendio acceso dai nazifascisti nell’agosto 1944 non è ancora spento. Invitiamo i partigiani di tutte le
formazioni a non dimenticare le promesse fatte, ad opporsi e a lottare con tutte le forze per impedire ai fascisti
di oggi di ricalcare le tragiche orme di quelli di ieri”. Genova è poi anche la città che ha dato il maggior numero
di partigiani combattenti, ed è stata la prima città d’Italia a cacciare i fascisti. Nell’aprile del 1945 (…) dalle
montagne, i cinquemila partigiani si unirono ai GAP e alla SAP cittadine, scesero con cinquanta pezzi di
artiglieria di medio calibro e quindici cannoni pesanti e investirono tutto lo spiegamento del generale Meinhold
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costringendolo alla resa dopo aver occupato tutti gli edifici pubblici, distrutto in piazza De Ferrari una
divisione che tentava di aprirsi la fuga verso la Val Polcevera, conquistato le alture e le caserme. Se tuttavia i
fatti di Genova possono trovare la loro spiegazione più logica negli episodi più drammatici della guerra
partigiana vissuti quindici anni fa, bisogna aggiungere che è stata soprattutto l’ultima generazione, i giovani
che del 1945 hanno solo un vago ricordo, a dare alle manifestazioni genovesi un carattere originale. È questa la
maggiore sorpresa implicita nei fatti di Genova. Altra novità è stato il carattere non frontista della potenziale
insurrezione. Nella sede dell’ANPI, non predominavano le tesi del partito comunista e nemmeno delle
associazioni partigiane dipendenti da esso. La presenza dell’on. Sandro Pertini è stata determinante. Egli ha
sempre parlato da socialista ed ha contribuito così a ricreare un clima politico spontaneo che forse non era più
esistito in Italia dopo il 25 aprile. I temi politici erano quelli del CLN. Così la partecipazione di partiti minori,
come il socialdemocratico, il repubblicano e il radicale è risultata superiore alla forza effettiva che questi partiti
sinora hanno avuto tenendo conto delle consultazioni elettorali. Per la prima volta in Italia si è assistito
all’automatica formazione di un’alleanza fra ceti operai e ceti intellettuali. Altro fatto importante, anche i ceti
della piccola e medi borghesia, specialmente quelli che economicamente non sono mai stati in contrasto con i
gruppi operai, hanno rinunciato al loro tradizionale atteggiamento conservatore o per le meno moderato. La
parole d’ordine di tutti era: “Bisogna rispondere di no alla provocazione fascista”. Essa è implicita nell’aver
solo per un momento pensato che Carlo Emanuele Basile potesse tornare a presiedere un congresso in un teatro
vicino al sacrario di coloro che morirono quando lui era capo della provincia.
Così, giovedì pomeriggio, il corteo antifascista risalendo verso piazza De Ferrari riempì il centro della città,
dando un’idea della moltitudine che ad esso aveva aderito. Lo scontro fu inevitabile. Cominciò alle cinque. La
Celere, con idranti, camionette, candelotti lacrimogeni, indietreggiò sotto la pressione della folla che usciva dai
vicoli. Un elicottero lanciava gas lacrimogeni. La polizia scientifica filmava le scene della lotta dal primo
piano del “Secolo XIX”, forse per studiarle domani allo scopo di stabilire se l’insurrezione era stata
organizzata o no (…). Erano gli stessi luoghi della ribellione del 23 aprile ’45. Il prefetto telefonò all’ANPI
verso le sei, dopo un’ora di scontri. Gli domandava che si ristabilisse l’ordine. Fu allora che Giorgio Gimelli,
presidente dei partigiani genovesi, partì a bordo d’una macchina con un commissario di polizia, coperto di
sangue. Gimelli fece il giro del fronte insurrezionale, disse a tutti di tornare a casa: “Il congresso del MSI non
ci sarà”, gridava; “né a Genova né in Liguria”…
In un primo momento nessuno voleva obbedirgli, poi, la notizia che il congresso non ci sarebbe stato si diffuse
e la calma tornò. Cosa sarebbe avvenuto se i partiti e le associazioni politiche non avessero controllato i
centomila genovesi scesi spontaneamente in piazza? Alle 7, il prefetto ormai era convinto che l’ordine poteva
essere garantito solo dagli antifascisti. Intanto, i delegati missini aspettavano. Cominciavano le discussioni, i
litigi, si parlava di far cadere Tambroni subito, di organizzarsi militarmente…
<<Possibile che dovesse succedere proprio nella città di Balilla?>> dicevano certi delegati meridionali non
ancora rimessisi dalla sorpresa.
<<Balilla s’è mosso!>> gridava nei carrugi la gioventù antifascista: <<Balilla ha impedito il congresso del
MSI!>>.”_
2. Andrea Barbato, ‘DOVUNQUE MAGLIETTE A STRISCE’, “L’Espresso” 17 luglio 1960, pag. 6/7
“Roma. Questo è il commento degli avvenimenti susseguitisi in Italia dal 5 all’8 luglio. I nostri corrispondenti
vi descrivono cos’è successo a Roma, Reggio Emilia, Palermo e Catania.
Esponiamo soltanto dei fatti. È da questa esposizione che escono fuori i lineamenti di un disegno preordinato.
Purtroppo, però, a differenza di quanto molti giornali indipendenti e soprattutto i servizi della Radio – TV
hanno voluto far credere, il disegno preordinato non si deve a qualche partito o a qualche altra organizzazione,
bensì al ministro dell’Interno (Spataro). “Lo Stato, dopo l’umiliazione subita a Genova, quando tutta la città
scese in piazza senza distinzione di ceto per protesta contro il congresso del MSI, ha voluto prendere la sua
rivincita. Il bilancio è tragico: dieci morti, centinaia di feriti, deputati oltraggiati. Dal nostro compendio esce la
conferma di quanto abbiamo già sostenuto la scorsa settimana in prima pagina. Protagonisti della protesta
unitaria che accomuna italiani dell’Italia settentrionale, dell’Italia centrale e dell’Italia meridionale, è la
gioventù. A Roma, a Reggio Emilia, a Palermo e a Catania vittime della violenza di Stato sono ragazzi con la
maglietta a strisce. I giorni della violenza cominciarono martedì 5 luglio. Per la prima volta la polizia, che a
Genova aveva dovuto retrocedere dinanzi ai dimostranti sconfitta da una spontanea insurrezione, intervenne
violentemente per sciogliere un corteo di dimostranti. Apparentemente questo grave episodio, avvenuto a
Licata all’estremità meridionale della Sicilia, sembrava isolato, senza legami con quanto stava accadendo nel
resto della penisola. Infatti il motivo dello sciopero generale e dell’agitazione, che vide il sindaco
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democristiano della piccola città siciliana in testa al corteo, era una protesta contro la disoccupazione e la
miseria, contro lo spostamento di una centrale termoelettrica da Licata a Porto Empedocle. Ma gli ordini che le
autorità locali avevano ricevuto e il modo in cui la polizia li mise in pratica, fecero capire subito che, dopo
Genova, il governo si preparava a respingere con la forza e con l’aggressione ogni tentativo di protesta. Gli
scioperanti di Licata avevano occupato la stazione ferroviaria, bloccato i treni, sbarrato il traffico sulle strade
statali 115 e 123. Verso sera, la polizia aprì il fuoco su di essi, uccidendone uno e ferendone molti altri. Quello
stesso giorno, martedì, in due diversi punti dell’Italia, a Roma e a Ravenna, si registrarono i primi attentati dei
fascisti (…). A Roma, la sede del partito comunista di via Sebino fu devastata da una bomba e un ufficio
commerciale russo incendiato in via Trasimeno. A Ravenna, la casa di Arrigo Boldrini, il, presidente dei
partigiani italiani, l’uomo che il generale Harold Alexander comandante delle truppe alleate sul fronte italiano
decorò nel 1945 di medaglia d’oro, venne incendiata. Ma furono, questi due piccoli attentati, gli ultimi
compiuti dalle squadre d’azione missine. Da quel momento, come già era avvenuto a Licata, doveva essere la
polizia, dovevano essere i prefetti e i questori, attuando i severi ordini di repressione ricevuti da Roma, ad
assalire i dimostranti. Fu proprio a Roma che il giorno seguente, mercoledì 6 luglio, il piano della polizia
apparve chiaro. La sensazione che gli agenti avevano ricevuto l’ordine di dare una prova di forza quel giorno
era abbastanza diffusa. Il comportamento degli squadroni a cavallo a Porta San Paolo, dove il 9 settembre del
’43 soldati e cittadini avevano combattuto contro i tedeschi, stupì tutti. La violenza dimostrata fu tale da far
pensare che un autentico desiderio di rivincita si fosse impadronito delle autorità (…). La questura aveva
saputo che, nonostante il divieto del prefetto, un gruppo di deputati si sarebbero recati a deporre due corone ai
piedi della lapide che ricorda i combattenti del 1943. E aveva diramato agli ufficiali una serie di disposizioni.
In ogni caserma, quella mattina, il discorso che venne ripetuto agli agenti fu, all’incirca, questo: “I deputati
vanno alle dimostrazioni popolari con l’intento di trascinare i cittadini i quali, senza i capi, non si spingono
contro la polizia. Gli agenti, pertanto, debbono regolarsi nei confronti dei parlamentari ancor più decisamente
che verso gli altri dimostranti. Bisogna tener presente che il parlamentare perde ogni immunità nel momento in
cui esso partecipa a manifestazioni proibite dalle autorità”. Anche a Porta San Paolo fu la polizia ad attaccare
per prima, con una carica di camionette, d’idranti, di cavalleria. L’on. Cesare Dami, dopo essere stato
bastonato e caricato su una camionetta, veniva trasportato per quasi mezz’ora nella carica, esposto ai colpi
d’entrambe le parti, servendo da riparo e da ostaggio alla gente che stava dietro di lui. L’on. Walter Audisio e
l’on. Ugo Bartesaghi, che erano scivolati a terra, vennero bastonati. Oreste Lizzadri, Pietro Ingrao e altri
deputati furono circondati e fermati, e furono costretti a salire su un cellulare sotto la minaccia dei mitra. Gli
agenti, soprattutto quelli in borghese gli gridavano: “Assassini, servi di Mosca, mascalzoni, vi facciamo vedere
noi!”. Per tutto il tempo che sono rimasti sul cellulare, i deputati furono sorvegliati da quattro agenti armati.
Anche un gruppo di deputati socialisti, composto da Gianguido Borghese, Riccardo Fabbri, Giuliana Nenni e
Aldo Venturini venne caricato e disperso da uno squadrone a cavallo. Quanto è accaduto all’on. Fernando
Schiavetti conferma che a Porta San Paolo c’era l’ordine di dare la caccia al deputato. Quando fu sopraffatto
dagli agenti, Schiavetti non disse d’essere un parlamentare ma, con la tessera in mano, dichiarò d’essere un
giornalista. “Dottore, tagli la corda, qui tira una brutta aria!”, gli disse un commissario, lasciandogli via libera.
Da San Paolo la lotta si trasferì in piazza Albania e in via Marmorata, era sempre la polizia ad avere
l’iniziativa: gli agenti rincorrevano le donne nei giardini, agitando gli scudisci lunghi un metro e le sciabole, o
avvicinandosi inosservati, in abito civile, alle spalle dei dimostranti, bloccarono i tram, dispersero con i
caroselli i bagnanti che tornavano da Ostia. La battaglia s’era ormai trasformata in una passeggiata punitiva
(…). Quando, dopo due ore, i manifestanti s’erano dispersi, il lavoro della polizia continuava: le case di
Testaccio furono rastrellate nella nottata una dopo l’altra, gli abitanti della borgata Gordiani e delle zone più
popolari di Ostiense e dell’Aventino, furono tenuti svegli tutta la notte mentre gli agenti perquisivano le
abitazioni. Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva fermato, interrogato, spesso
bastonato. Ma i fatti più gravi dovevano ancora accadere. Fu a Reggio Emilia, giovedì 7 luglio, che il desiderio
di rivincita del governo fece cadere cinque vittime. Si rifecero vivi, a Reggio, gli elementi più decisi della
Celere, i veterani dello sfollagente, gli uomini che nel ’50 e nel ’51, al tempo dei grandi scioperi delle officine
“Reggiane” erano temuti e segnati a dito: Giulio Caffaro, Aldo Casapina e il tenente della Celere Populizio,
soprannominato dai cittadini di Reggio “l’angelo biondo”. Ma questa volta lo sfollagente non l’adoperarono:
usarono presto i mitra, contro i fischi i cartelli e i sassi dei dimostranti. Quanto è accaduto a Reggio nel
pomeriggio del 7 luglio può essere considerato il caso più rappresentativo dei metodi usati dalla polizia e
costituisce nello stesso tempo la prova migliore che il questore di quella città non ha agito di sua iniziativa, ma
ha ricevuto ordini precisi dal Viminale e dal capo dei servizi della direzione generale della Pubblica sicurezza.
La direttiva era di non prevenire ma di reprimere con estrema decisione correndo, se necessario, il rischio di
qualche vittima. Il modo in cui s’è svolto il conflitto di Reggio e il rapporto di forza tra polizia e manifestanti
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hanno dimostrato chiaramente questa precisa intenzione. Gli agenti, innanzitutto, erano molto più forti e
numerosi dei loro avversari. Trecentocinquanta agenti pratici di judo si difendevano sparando da
duecentocinquanta dimostranti in camicia. La maggior parte degli agenti hanno tirato in aria. Altri no: hanno
mirato con attenzione (…). Inoltre, lo stato di tensione e di paure con il quale le autorità hanno voluto
giustificare l’eccidio, non è confermato dai risultati dei sequestri e delle perquisizioni: non si sono trovate
pistole né bottiglie Molotov. I pochi agenti all’ospedale non hanno riportato che contusioni. I propositi della
Celere erano apparsi chiari già la notte di lunedì 4 luglio. In piazza della Libertà, davanti al teatro municipale,
un ragazzo insanguinato era stato portato a braccia sul palco dove un gruppo d’oratori teneva un comizio per
l’abolizione del MSI. Passando davanti alla sede del Movimento sociale, era stato pestato a sangue dai fascisti.
La folla voleva dirigersi verso via Roma per vendicare l’aggressione. I tre ex comandanti partigiani Gianni,
Sbrigoli e Polvere si trovarono stretti tra i dimostranti e gli uomini della polizia. Mentre si svolgevano le
trattative, e già l’esodo dei dimostranti cominciava, le camionette s’avventarono sul sagrato della chiesa di via
Secchi. Quell’attacco di sorpresa era solo il preludio di ciò che doveva succedere tre giorni dopo, durante lo
sciopero generale. Dalla fine della guerra, nel comune come nella provincia, Reggio Emilia è stata
amministrata ininterrottamente dalle sinistre. In tutte le consultazioni elettorali i voti per il MSI non hanno mai
superato il 3%. A Reggio, insomma, uno sciopero contro persecuzioni locali missine ai danni delle sinistre
sarebbe certo un pretesto, mentre una manifestazione collettiva contro i fatti di Roma corrisponde senza dubbio
ai sentimenti della maggior parte della popolazione. Giovedì 7, il 90 % degli operai delle “Nuove Reggiane”,
quasi tutti giovani che non avevano mai conosciuto il fascismo, non entrarono nelle officine, noncuranti delle
voci d’allarme che circolavano per la città. “Oggi si sparerà”, dicevano molti. E lo confermavano anche gli
agenti della polizia giudiziaria. Solo il questore Edoardo Greco non aveva capito l’opportunità di rientrare
dalle ferie. Sarebbe tornato solo la notte di giovedì, quando ormai il sangue era stato sparso. Il comizio della
Camera del lavoro in programma per le 17 era stato compresso nella sala Verdi, un piccolo locale di piazza
della Libertà, cioè dove la polizia attaccò i dimostranti che s’erano radunati nei giardini pubblici (…). Il primo
a cadere è un ragazzo, travolto da una camionetta. Sarà poi l’unico, di ventun dimostranti all’ospedale che non
sia stato ferito da armi da fuoco. Il fuochista Afro Tondelli cadde ai piedi dei carabinieri che circondavano la
sala Verdi, colpito forse dagli uomini del commissario Casapina. Più tardi, piangendo, questi giurerà che i suoi
uomini hanno sparato sempre in aria. Dov’è certo che non tutti hanno sparato in aria è nel gruppo di Caffaro, il
capo – gabinetto della questura, appostato dietro la Banca d’Italia. “Erano ubriachi da far paura”, dirà poi la
gente. Controllavano ad angolo retto i punti dove caddero le altre quattro vittime: Ovidio Franchi e Emilio
Reverberi davanti San Rocco, Lauro Ferioli e Marino Serri in direzione del Municipale. Qualcuno vide uno di
questi giovani, che s’era nascosto nella facciata di San Rocco, uscire con le mani in alto e cadere subito dopo,
ucciso da una raffica di mitra. Stando alla testimonianza di un delegato reggiano al Comitato della Resistenza
un altro cittadino, caduto a terra, venne finito da un agente con una scarica. Quando si ristabilì la tregua, le
strade erano piene di centinaia di bossoli di mitra. L’8 luglio, all’indomani della sparatoria di Reggio, durante
lo sciopero generale, la polizia aveva ucciso altre tre persone in Sicilia, due a Palermo e una a Catania. Questa
volta le vittime della polizia non erano nemmeno operai e contadini, ma ragazzi delle borgate. Allo sciopero
generale, proclamato dalla CGIL per commemorare le vittime di Reggio Emilia, avevano partecipato anche
molti lavoratori degli altri sindacati. C’erano gli operai del cantiere navale, i metallurgici della OMSA, della
Bonelli Aero – Sicula, della Siemens, tutte aziende IRI. C’erano i netturbini, i ferrovieri, i tranvieri, gli edili,
ma soprattutto c’erano dei ragazzi, garzoni di bar e di fornaio, senza lavoro o già costretti per vivere ai
tradizionali espedienti imparati dai padri. E c’erano soprattutto i ragazzi dei quartieri operai,
quell’agglomerato di miseria che raccoglie a Palermo più di centocinquantamila persone ammassate in tuguri
semidiroccati vicino al porto della città. Erano riconoscibili, questi ragazzi, dalle magliettine a strisce, una
specie di divisa della categoria dato che si servono quasi tutti dallo stesso merciaiuolo ambulante (…). Alle due
del pomeriggio, cioè all’ora fissata per l’inizio della manifestazione, alcune centinaia di persone s’erano
raccolte in piazza Politeama. La maggior parte di esse ignoravano che il prefetto, poco tempo prima, aveva
proibito di tenere i comizi. Questi palermitani stavano riuniti intorno all’on. Gennaro Miceli, deputato operaio
dei cantieri e segretario della Camera del Lavoro, che proprio allora li invitava a tornare a casa. Di colpo, la
polizia cominciò a giostrare per la piazza con le jeeps, distribuendo manganellate a afferrando con violenza
quanta più gente poteva. I dimostranti reagirono. Si mossero subito i più giovani. Mentre gli operai anziani
rimanevano fermi, incerti sul da fare, le magliette a strisce s’agitavano in mezzo alla piazza. Pompeo
Colaianni, deputato regionale, i sindacalisti e i dirigenti di partito giravano fra i gruppi per persuaderli a
sciogliersi, e molti fra gli operai seguirono l’invito. Ma era difficile trattenere le magliette a strisce (…). Presto,
nel centro della città, rimasero la polizia e i ragazzi. Per evitare i caroselli delle jeeps, i ragazzi costruirono
sbarramenti con rami d’albero e lastre di marmo tolte dalle panchine di viale della Libertà. Ruppero il selciato
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dov’era più sconnesso, abbatterono le garitte dei vigili urbani. Anche in questa distruzione sembrava esserci
una logica: le proprietà dei privati vennero rispettate; i dimostranti si accanirono invece, contro quelle del
comune, l’autorità, per essi, più diretta e comprensibile. I giovani avevano disposto i loro fragili sbarramenti
agli angoli delle strade che sbucavano in via Roma e in viale della Libertà, le due arterie centrali di Palermo.
Anche i ragazzi più piccoli a un certo momento si inserirono nel tragico giuoco. Bambini dagli otto ai dieci
anni fecero da retroguardia ai più grandi e la loro infallibile gioia distruttrice s’esercitò con il lancio di pietre
sui semafori e sui lampioni, mentre intorno piovevano i candelotti lacrimogeni. Rispettarono soltanto i
“lampi”, gli archi eretti per la festa della patrona della città, santa Rosalia. I gruppi d’operai che erano rimasti
nella zona ormai non riuscivano più a riportare la calma. Verso le cinque del pomeriggio, i candelotti
lacrimogeni avevano invaso di fumo tutte le strade del centro, ma la guerra fra polizia e ragazzi continuava. Il
frazionamento dei dimostranti in tanti piccoli gruppi impediva ai dirigenti sindacali di mettere ordine. Essi non
riuscivano a raggiungere tutti i punti occupati dai ragazzi dietro gli sbarramenti. Dove erano arrivati, avevano
potuto parlare, ma si erano anche accorti di trovarsi di fronte a gente che non conoscevano, a facce
d’adolescenti induriti dalla sofferenza che parlavano un linguaggio diverso da quello degli operai organizzati.
Allora, i sindacalisti andarono dal presidente della Regione per fargli una proposta: invitare il prefetto a
fermare la polizia, mentre loro sarebbero tornati dai dimostranti a parlamentare. Dopo molte discussioni il
presidente della Regione accettò la proposta, ma non servì a nulla. Quando infatti le macchine dei parlamentari
con gli altoparlanti uscite da palazzo d’Orleans stavano per imboccare la via Maqueda, in piazza Massimo
erano già partiti i primi colpi di mitra. I pochi deputati, i dirigenti sindacali che riuscirono a raggiungere il
luogo degli scontri ormai non potevano più far nulla. La polizia sparava e colpiva. Un ufficiale, in via Roma,
gridò ad una camionetta carica d’uomini col mitra: “Spianate la strada!”. Le sirene delle autoambulanze
annunciarono i primi feriti, poi i due morti. Il mastro muratore Andrea Vella Gridò: “Ragazzi, non fate pazzie,
smettetela…”. Gli spararono una pallottola nella fronte. Vicino a lui, pochi secondi dopo, cadde Andrea
Gangitano, giovane manovale disoccupato. Una donna che stava ferma a guardare venne colpita allo stomaco
(…). La battaglia andò avanti ancora, fino a tarda sera. Per otto ore i disperati di Palermo avevano cercato di
tenere i comizi. La sera, quelli che non erano stati fermati dalla polizia rientrarono nelle loro case, andandosene
a dormire insieme con i loro fratelli, quattordici in una stanza, nei tuguri di Capo dell’Albergheria, di Calsa, di
Borgo e di Monte Pietà. Le persone che avevano partecipato alle dimostrazioni di Catania nello stesso
pomeriggio non erano in prevalenza ragazzi come a Palermo. Uguali, però, furono le reazioni e i metodi della
polizia. Anche a Catania gli agenti della Celere risposero in modo sproporzionato alle sassate dei dimostranti,
sparando raffiche di mitra che uccisero un disoccupato di ventidue anni e ferirono quindici persone. A
Genezzano, un paese dei Castelli romani, la polizia non ha ucciso nessuno. Del resto non c’erano dimostranti
da caricare. C’erano soltanto alcune scritte sui muri: “Abbasso il governo” e un gruppo di giovanotti riuniti in
piazza a guardarle. I carabinieri ne scelsero tre; il muratore Enrico Todi, il contadino Arcangelo Camicia e il
falegname Marco Eufemia. Li portarono in caserma e li picchiarono con un nervo di bue. I tre ragazzi non
avevano voluto raccontare al maresciallo, forse perché non lo sapevano, chi era l’autore delle scritte apparse
sui muri._
3. ‘VIOLENZA DI STATO’
“Era necessario?” _
“L’Espresso” si poneva questa domanda cercando di dare una risposta ai gravi avvenimenti che si erano
verificati nella prima metà del luglio 1960. “Ormai è chiaro”, era scritto in prima pagina il 17 luglio 1960. “Il
governo provvisorio ed amministrativo ha voluto ad ogni costo una sanguinosa rivincita sulla sconfitta
infertagli dal civismo e dal patriottismo dei genovesi. Non s’è voluto ammettere che a Roma, città di più di due
milioni d’abitanti, alcune centinaia di persone, nonostante i divieti, si recassero ad onorare la memoria dei
caduti di Porta San Paolo. Di fronte ad una situazione che in qualsiasi altro paese del mondo occidentale (…)
avrebbe visto una polizia pronta a intervenire soltanto se ci fossero state violenze, si è passati all’offensiva. A
Reggio Emilia, dove in fatto d’antifascismo la città è unanime, non c’era da temere violenze. Invece, ci sono
state: quelle della polizia. Ora, noi non vogliamo dire che la presenza della forza pubblica sia di per sé una
provocazione. Non deve essere così. Impossibile dimenticare, però, che la Celere ha ormai una determinata
colorazione politica. È una forza istruita per sostenere il governo. Quanto è avvenuto la settimana scorsa
dimostra, poi, che la Celere svolge i compiti affidatigli addirittura con slancio quando si tratta di difendere un
governo uscito dal connubio fra democristiani e fascisti. Hanno picchiato, hanno sparato perché quello dell’on.
Tambroni è, finalmente, il governo loro. Ciò dipende da un errore commesso dall’on. Mario Scelba quando era
ministro dell’Interno. Egli epurò la polizia. A pochi anni dalla fine della Resistenza escluse gli elementi
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partigiani i quali non dessero un affidamento che consisteva nel ripudio del loro passato. Uomini sicuri, spesso
d’origine neofascista, entrarono a far parte della Celere. Siccome ci si proponeva di contenere la spinta a
sinistra, si chiuse un occhio volentieri quando domandarono di far parte del nuovo corpo di polizia uomini che
avevano avuto a che fare con la repubblica di Salò. Sono precedenti che spiegano le violenze della scorsa
settimana”._ Pur presentando la cronaca degli avvenimenti del luglio in maniera obiettiva, il giudizio del
settimanale romano era particolarmente forte. Anche se giudizi simili erano venuti quasi esclusivamente da
giornali organi di partiti marxisti (se si fa eccezione de “Il Mondo”, considerato espressione del partito
radicale), non sarebbe giusto, a dover di cronaca, annoverare “L’Espresso” in questa sezione del mondo
dell’informazione italiana. Diverse volte si è visto “L’Espresso” rivendicare il proprio non allineamento, e
anche in questa occasione veniva rinnovato il loro non aderire ad alcun partito, in particolar modo ad alcun
partito di matrice marxista.
“Gli stessi carabinieri – scriveva infatti il settimanale di Benedetti – a cui era sempre andata la simpatia dei
cittadini, hanno assunto ora modi da cui trapelava un odio che, senza essere marxisti, possiamo definire di
classe. Si vede che gli ordini erano perentori. Bisognava dare respiro ad un governo condannato dall’opinione
pubblica e dalla stessa Democrazia cristiana (…). Si delinea una stagione di violenza promossa dal governo. È
un elemento nuovo nella lotta politica. Si cerca di convincere il paese che uno scoppio rivoluzionario è vicino.
Non si vuole riconoscere la spontaneità della grande protesta. Non s’ammette che le nuove generazioni,
quando scendono in piazza, lo facciano solo perché stanche e vergognose di vivere in un paese governato da un
ceto corrotto e ipocrita. L’opinione pubblica moderata deve sventare la manovra del governo Tambroni. È
evidente che si è voluto accentuare una crisi per conservare un potere di cui fin da ora non ci si sa servire senza
uccidere. Addebitando i fatti al comunismo, si cerca di giustificare la violenza di Stato di fronte alla pubblica
opinione interna ed estera. E la responsabilità non va fatta risalire solo a Tambroni, deciso a mantenere il posto
conquistato pochi mesi fa, in condizioni difficili. L’intiera Dc è di fatto corresponsabile. Non si può escludere
nessuno, né le più alte cariche dello Stato, né gli uomini della direzione del partito. Possiamo apprezzare le
sofferenze morali di qualche esponente democristiano, ma siccome essi hanno avuto finora le occasioni
politiche derivanti dal potere, ci sembra ingiusto che a discriminarli bastino le pene di cui si lamentano così
volentieri (…). Questi democristiani dalle buone intenzioni ma incapaci di ricavare da esse uno stimolo
all’azione, devono smentire a voce alta la tesi del governo: che, cioè, quanto è successo in Italia non è stato
spontaneo ma solo frutto del comunismo internazionale. Chi, oggi parla di complotti è in malafede. Come
sempre, la calunnia ha fini reconditi. Il comunismo internazionale cerca certo di profittare degli errori
commessi dall’attuale classe dirigente, ma la protesta partita da Genova è autonoma. Si protesta contro una
situazione insopportabile. Nessun motivo a sé stante sarebbe bastato. Nessuno è disposto a morire per avere
aumenti salariali, per eliminare l’affarismo politico – ecclesiastico, o per affermare l’autonomia dello Stato
laico, ma si muore appena viene individuato il motivo capace di riassumere nel suo insieme la crisi che
attraversiamo: il connubio cattolico – fascista imposto dalla Dc. Esso dice tutto, spiega tutto. Significa
soggezione dello Stato alla Chiesa, predominanza padronale, affarismo e corruzione politica, superstizione,
brutalità poliziesche, tutto. È il ricordo della nostra storia recente che ha eccitato qualche centinaia di migliaia
di italiani e, soprattutto, di giovani. Insorgono moralmente e vogliono esprimere la loro indignazione in
pubblico appena diventano coscienti delle terribili rassomiglianze fra l’Italia della sconfitta e quella
democratica. La classe dirigente, invece d’apprezzare la lezione di Genova, ha risposto con la violenza. Non è
quella del 20 – 22. Allora, lo Stato era debole per cui si limitava, col pericoloso proposito di stabilire un
minimo d’equilibrio politico, a spalleggiare lo squadrismo fascista. E quello squadrismo, non lo si dimentichi,
aumentò la sua pressione via via che lo Stato, servendosi della polizia e dell’esercito, gli fece da battistrada. La
situazione ora è diversa. Lo Stato si serve d’una forza politicamente fedele, scende in piazza, trasforma
pacifiche dimostrazioni politiche in risse sanguinose. Nella responsabile proposta per una tregua avanzata l’8
luglio dal presidente del Senato è il riconoscimento di questa realtà. La tregua è impossibile se una delle fazioni
armata di mitra resta sul campo. La polizia torni ad essere la polizia: contenga, sorvegli le pubbliche
manifestazioni, ma rifiuti la parte che il governo del connubio cattolico – fascista gli vuole assegnare: quella di
strumento utilizzato per consolidare il suo vacillante potere. La polizia italiana non deve esser costretta a
scendere così in basso (…). La violenza è assurda ovunque. A Genova e a Reggio, dove i cittadini hanno voluto
affermare soltanto il loro diritto a esprimere pubblicamente un’opinione; a Roma dove non c’era nulla che
potesse giustificare l’aggressività della Celere e dei carabinieri; in Sicilia, dove la protesta politica ha la
sfumatura passionale che assume in città economicamente depresse. È assurda dovunque ed è vergognoso solo
supporre che essa sia diventata in Italia un elemento usato per conservare ad ogni costo il potere”._
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CAPITOLO DECIMO
CAMILLA CEDERNA: IL LATO DEBOLE
“Seduta su una sedia settecentesca con lo schienale rigido imbottito di velluto blu, una gamba ripiegata sotto il
sedere, il gatto acciambellato sulla pancia, davanti al tavolo fratino che era anche il tavolo da pranzo: è la prima
immagine che mi viene in mente della Camilla quando scriveva”. Così la ricorda Giulia Borgese. “Spesso il
collo era inclinato a tenere stretta la cornetta del telefono mentre lei batteva a macchina – una Olivetti ICO nera
dai tasti consunti – velocissima con due dita, o se no prendeva vorticosamente appunti sulle grandi pagine delle
agende da tavola che le arrivavano a decine per Natale e che usava come notes. Con un modo di scrivere – non
si può certo parlare di calligrafia – che solo lei, poi, riusciva a decriptare”._
Ecco come Camilla Cederna dava vita ai suoi grandi articoli, alle inchieste, alle interviste, ai personaggi del
secolo, ai resoconti dei viaggi. Nasceva con Camilla il giornalismo di costume, ironico, fustigatorio. Questa
prima donna del giornalismo italiano, passata alla storia come la “signora delle bombe, degli anarchici in volo
dalle finestre delle questure e degli editori appesi ai tralicci”, sarà in principio una sorta di “signora dei
merletti”. Soleva, del resto, motteggiare così: “Trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose
gravi”_.
Le grandi potenzialità della sua “penna che fulmina” trovarono verifiche e riscontri quasi immediati nella
galleria di personaggi noti del tempo che essa presentava. Il giornalismo di Camilla Cederna, un giornalismo
ironico, spesso addirittura denunciatorio, una satira di costume, non prevedeva tuttavia giudizi personali
espliciti. Il suo modo di esprimersi era fatto di racconti, di cronaca, di una accurata e spesso impietosa
descrizione dello stile di vita dei suoi personaggi. Era questo lo stile che contraddistingueva la sua rubrica “Il
lato debole” su “L’Espresso”. “Il lato debole” era nata dall’esigenza della redazione di via Po 12 di allargare la
propria fetta di lettori. Era stata pensata come una rubrica dedicata alle donne che sostituisse quella dedicata
allo sport. Ma sin da principio “Il lato debole” si scostò dai luoghi comuni sugli interessi delle donne – quali
moda, cucina e giardinaggio – e ben presto cominciò a rappresentare gli aspetti tipici della società italiana,
appunto il suo lato debole. Quello di Camilla era il racconto della Milano degli anni cinquanta, la Milano
risorta dalla guerra e ormai ricca e prosperosa. Alla rappresentazione di “nobili dame della Milano
cattolico-liberale – ha scritto in proposito Eugenio Scalfari – e ninfette in cerca d’autore, capitani di ventura dai
volti volitivi e abbronzati ed evasori incalliti del fisco e del codice di commercio, checche grandiose e
rinascimentali e checche leziose e variamente infiocchettate, registi celebri, soprano celebri, arrampicatrici
celebri e celebri guardarobiere di night club e celeberrime puttane”_, Camilla mescolava una recondita
simpatia. Il suo in fondo era desiderio di verità, esigenza di chiarezza, in perfetta sintonia con la linea de
“L’Espresso”, la rivista che la consacrò fra le stelle del giornalismo insieme al suo lato debole. Tutto ciò
avveniva nonostante alcuni aspetti del rinnovamento dei costumi da lei trattati potessero apparire azzardati ad
una società, quale era quella che settimanalmente “L’Espresso” cercava di delineare, barricata nelle trincee
della tradizione.
È all’insegna, dunque, di quel suo stile aggressivo ma elegante e spiritoso, parimenti severo e lieve, che
prendono corpo i suoi ritratti di personaggi tipo, scelti come specchio di costumi, norme e consuetudini che
stavano mutando in fretta. Camilla tratteggia ad esempio il tipo della donna maligna: “La maligna non parte
mai in quarta contro una persona – scriveva Camilla – anzi, quanto più gli amici si mostrano indifferenti alla
signorina Tal dei Tali, o quanto più la giudicano una nullità, tanto più la nostra eroina li incoraggia a trovarla
affascinante. <<Non so proprio perché ce l’avete con quella poveretta. Non la conoscete. È un angelo, cara,
brava, abbiate pazienza, anche bella, sarei così contenta che foste gentili con lei…O Dio, non dico proprio
portarsela in casa. Ma si, è una vecchia storia, poverella, ma lei non ne ha colpa, è una malattia. Si, è un po’
cleptomane>>.
Tac. La signorina Tal dei Tali è servita. La sua tattica, e qui sta il suo inganno, è proprio di cominciare con la
difesa ad oltranza.”_
Tantissime erano le tipologie di persone che la Camilla nazionale descriveva, mettendo in risalto, con
sarcasmo ed ironia, il loro lato debole. Descriveva anche la tipologia della donna indiscreta: “Sua prerogativa –
ci fa notare la Cederna – è la sistematica violazione di domicilio morale, fisico, sensorio del prossimo (…). Se
è innamorata, cosa che finge d’essere abbastanza spesso, sceglie il momento che non è sola con l’amato per
sedergli in grembo e contargli le ciglia, o per nascondergli la testa nel collo e mugolare. L’indiscreta è sempre
esibizionista, per cui l’avremo vicina a colazione in bikini, e il suo ombelico sudato ci darà la nausea.
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Generalmente aspetta il momento che qualcuno si siede sul divano a leggere, per sdraiarsi pesantemente sullo
stesso divano e cacciargli i piedi in grembo (…). Quello che ci offende è l’assoluta sicurezza, che annulla la
nostra prima qualità umana: il libero arbitrio. Ci chiedesse, almeno, prima: “Vuoi vedere il mio costato mentre
mangi il risotto? Vuoi assistere a un rito amoroso assirobabilonese? Ti fa niente trovare qualche cicca nel
barattolo della crema detergente?”._
La narrazione di questi e altri costumi risulta sempre caratterizzata da un piglio satirico, filtrato da quanto di
più veritiero e spietato ci possa essere: i luoghi comuni. Ed è proprio da qui che prendono vita i suoi famosi
discorsi a tema, quelli che prendono di mira il lato debole. Ad esempio i discorsi in P: “Passeggiatrici. Molto
più belle di una volta. Non le distingui dalle signore. È uno scandalo; in certe strade non ci sono che loro,
almeno una volta erano nascoste, adesso sono diventate sfacciate. Ho riconosciuto una di loro: era una maestra
d’asilo. Si usa molto la coppia: madre e figlia. Ma sai quanto guadagnano? Anche tre, quattrocento mila lire al
mese. In certi paraggi sono rimaste quelle mostruose. Vorrei sapere chi è che va con quelle lì. Il bello è che di
clienti ne trovano sempre. Poverette, devono avere un bello stomaco anche loro. Dì, tu ci andresti con un uomo
così?”_
O dei discorsi in L: “E il lavoro? Bè, si tira avanti. Nessuno paga. È così per tutti. Brutti momenti. E il lavoro?
Non c’è malaccio. Grazie a Dio è un buon momento. Oltre a tutto sa lavorare. Lavora in proprio. Si, lavora per
conto terzi. Lavorare non è mica facile. Di lavorare sono capaci tutti. Si lavora, si lavora, e poi alla fin fine? Un
lavoro qualsiasi, pur di lavorare, che so, anche il fattorino. Un lavoro qualsiasi, preferibilmente non so, una
casa editrice, un giornale, una casa di mode. Se fosse possibile, soltanto mezza giornata. Sul lavoro cambia da
così a così. Lavora bene, perché viene dalla gavetta. Lavora bene, perché è un signore. Hai visto com’è giù? È
il lavoro. Hai visto com’è ringiovanito? È il lavoro”._
O ancora, dei discorsi in T: “La televisione? Si, ce l’abbiamo, purtroppo. Cosa vuoi, piace a mio marito.
L’avete anche voi poveretti? Non parlarmi della televisione: infame. E poi fa male agli occhi. La televisione ha
ucciso la conversazione. La televisione è uno strazio. Ecco, pensa tu che mio marito passa le sere così. Vuoi
telefonargli adesso? Figurati se ti risponde: è lì che si beve il Telematch. Così non si può andare avanti: io o la
televisione. Ma si, tu e la tua televisione! Io qualche volta vado a guardarla dalla portinaia”._
La volontà di analisi della società italiana, si spingeva così profondamente in Camilla da condurla sino ad
affrontare tematiche che, sebbene in linea con lo stile del settimanale, risultavano avanti rispetto allo stile
medio della stampa di attualità a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. L’inchiesta ‘Come perdono
l’innocenza’ del 1964, su come le ragazze perdevano la loro verginità, in anni in cui era ancora tabù parlarne,
esemplifica questo aspetto della Cederna. Benchè condotta al di fuori delle pagine dedicate alla sua rubrica “Il
lato debole”, questa inchiesta richiamava comunque il suo stile investigativo e allo stesso tempo ironico. “Io
ammetto soltanto il bacio”, scriveva Camilla riportando le opinioni delle ragazze. Lo confesso, sono portata
all’avventura”. “Faccio tutto fuorchè quello naturalmente”. “Baci? Moltissimi”. “Quella? È una che fa tutto”.
“Due su dieci direi”. “Su dieci al massimo tre”. “La comunità le condanna”. “Oh, oggi quasi tutte”. “Nel nostro
ambiente fa scoppiare dal ridere una che lo è ancora”. “Petting? Si, petting”. “Secondo me ha ancora un gran
valore”. “Macchè, sono soltanto complessi”. “Un ingombro, un fastidio, cosa sono tutte queste storie?”.
“Decisamente io sono pro”. “Per la verità un guaio io lo ho avuto. Ho dovuto andare dallo psicanalista, dopo”.
“Difficile restar brave oggi con tutte le occasioni che ci sono”. “Io la vedo come un regalo, che bisogna portare
intatto al marito. Non si può buttarlo per la strada”. “Per una ragazza non c’è più la via del disonore, oggi c’è
quella della Svizzera”. “I tempi sono cambiati, le esperienze prematrimoniali sono necessarie per la buona
riuscita di un matrimonio”. “Se diciamo di no, il maschio ci rispetta di più, questo è certo”._
Ma di fronte alla Milano che cambiava, Camilla descriveva anche gli ultimi detentori di uno dei dei dialetti più
schietti e pittoreschi italiani. Presentando una lista delle più vivaci apostrofi che i tassisti milanesi erano soliti
rivolgere ad automobilisti incerti e pedoni maldestri, Camilla scriveva: “Tires via, candelàber!” “Via de là
Maramaldo!” “Brutt tarlücch!” “Varda là el papagàl!” “Sacranon d’on pampàla!” “Teston de vitell!” “San
gnanca camminà sti vagabond de la madonna!” “Va là befana!” (a una signora), “Cammina, stambècch!” (a
una ragazza lunga e stretta), “Ma mi ciàpi el mitra per quel là, bestia d’on cioccolatt infescià”._
Camilla racconta anche di travestiti, come Coccinelle e Kiki, con lo stesso stupore con cui avrebbe potuto
descrivere una passeggiata di Doris Day in via Montenapoleone: “Uscite dal nobile albergo milanese dove
dorme il direttore del Corriere Mario Missiroli, ammirate per la strada da giovani industriali, teppisti,
impiegati, vigili e massaie, le due vistose ragazze (una bionda e una rossa) tutte e due con gli occhi blu, la
prima molto somigliante a Marilyn Monroe) arrivarono di corsa dalla sarta francese Miréne, si tolsero le
pellicce, apparvero protervamente scollate. Appena sedute, si misero a parlare volubilmente coi presenti, tutti
convenuti per assistere alla prova dei loro nuovi vestiti: un palloncino rosso di Dior per la bionda, un paletot
nero foderato di visone zaffiro per la rossa. <<Con questo tempo orrendo a Milano mi tocca sempre dormire
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coi bigodini>> disse la bionda in francese e spiegò: <<Quelli a rullo, molto grossi, così mi viene anche il mal di
testa>>. Poi disse che dalla pellicciaia s’era appena ordinata un vestito tutto fatto di pelo di scimmia, con alta
cintura judo di raso nero; che, mentre alla sua amica piacciono tanto le perle, lei va matta per i brillanti. Infatti
s’atteggio a Marilyn abbassandosi una ciocca sulla fronte, sporgendo le labbra, scollandosi ancora di più e
strizzando l’occhio a un immaginario marito occhialuto e indulgente. La rossa invece che aveva una gran
scollatura dorsale raccontò i suoi sogni per lo più macabri, tombe fresche per esempio, con sopra una coroncina
e un velo da sposa. <<Ça veut dire que je deviendrai une vieille fille>> esclamò con una risata-gorgheggio
all’idea di rimanere zitella. Chi sono queste due pazzerelle dipinte come affreschi, dal naso invisibile, le ciglia
a ventaglio, le unghie ad artiglio, le braccia candidissime e le smorfie da consumate civette? Sono due enigmi
viventi che da due mesi “intrigano” la saggia Milano: Coccinelle, la prima, Kiki Moustique la seconda, ex
uomo la prima, e ancora giovanotto Kiki.”_ Lo stile elegante e spiritoso, insieme lieve e severo, che lei aveva
inventato per trattare il costume o per tracciare i suoi celebri brevi ritratti dei tipi rampanti, i famosi
arrampicatori, o dei nuovi snob, dei maniaci di ogni novità, nuove mode per casa vestiti letture polica viaggi,
tic sociali rappresentava la linfa de “Il lato debole”. Con “Il lato debole” Camilla otteneva il risultato di essere
letta e seguita da quegli stessi personaggi e gruppi sociali che settimanalmente metteva in berlina con un
dileggio a volte quasi affettuoso e correzionale. Per questi aspetti, la Cederna fu gran parte de “L’Espresso”,
essendo forse quella che meglio rispecchiava sulla pagina la lezione professionale e politica di Benedetti.
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CAPITOLO UNDICESIMO
IL CENTRO SINISTRA
Nell’autunno del 1955 “L’Espresso” cominciava le sue pubblicazioni proponendosi di sorreggere un incontro
tra i partiti della democrazia laica e socialista, il Psi, il Psdi, il Pri e i cattolici, organizzati politicamente nella
Democrazia cristiana. “Sviluppare un’azione pubblicistica verso tale obiettivo – ha scritto Arrigo Benedetti – è
il compito che mi venne affidato dai garanti, cioè da coloro a cui lo statuto della nostra società editrice assegna
la scelta del direttore responsabile.”_
L’obiettivo preciso del settimanale di Benedetti e Scalfari era, sin dal suo primo numero, quello di poter
raggiungere, dando colore alle battaglie dei laici, una trasformazione moderna della società italiana. E’ in
quest’ottica che vanno lette le severe requisitorie, i rimproveri, le titolazioni gridate, i caratteri, insomma, che
contraddistinguono il settimanale di Benedetti e Scalfari. Un atteggiamento ambivalente percorre le grandi
pagine de “L’Espresso”: il dito puntato intervallato dalla mano tesa ai cattolici, atteggiamento indirizzato al
raggiungimento di una democrazia completa, come previsto dalla Costituzione.
Del resto, i suoi toni accusatori non si limitano alla registrazione degli eventi, ma li rintracciano, li percorrono,
assumendo quella funzione maieutica che lo caratterizza. Questo il filo conduttore che collega i poli di questa
ricerca, anche se i toni apocalittici tipici de “L’Espresso” saranno più funesti soprattutto nei suoi primi cinque
anni di vita, caratterizzati da pesanti interventi vaticani e ripetute subordinazioni dei cattolici alle direttive
ecclesiastiche. Dalla svolta del luglio 1960, il settimanale comincia ad assumere un atteggiamento più pacato,
dettato dalla apparente realizzazione di quella trasformazione della società tanto auspicata. Trasformazione
moderna della società italiana, dunque, che per “L’Espresso” significava ingresso dei socialisti nell’area di
governo, per il raggiungimento di una democrazia compiuta, e nazionalizzazione dell’industria elettrica per
combattere il grande monopolio della Edison, la società privata che gestiva in Italia la produzione e la
distribuzione dell’energia elettrica. Il sostegno de “L’Espresso” alla politica di apertura a sinistra, però, non era
dettato da un appoggio incondizionato al partito socialista, ma da una situazione politica considerata
estremamente debole e precaria perchè costretta ad escludere dalla direzione dello Stato due forze popolari
quali il partito socialista e il partito comunista, rappresentanti insieme il 40 per cento del corpo elettorale. “Se
rispetto al partito comunista – si leggeva su “L’Espresso” – vi sono le pregiudiziali che derivano dal suo
comportamento politico nei paesi che esso ha sotto il suo diretto controllo (…), rispetto al partito socialista, che
da anni ha ribadito una sua concezione democratica del potere, e cerca di svilupparla in ogni campo del vivere
collettivo, tale pregiudiziale non ha più ragione di essere. Ed il fatto che essa continua ad essere posta, spesso
in maniera pretestuosa, che non risponde alla realtà dei fatti obiettivamente valutati, induce a ritenere che, sotto
la bandiera della lotta al PSI, non si manifesti una preoccpuazione democratica, ma la volontà precisa di
salvaguardare, attraverso un vecchio equilibrio politico, un sistema politico costituzionale, economico, sociale,
di contenuto moderato, quando non addirittura conservatore o potenzialmente reazionario”._
Nel 1963, dunque, il Psi entra nella maggioranza di governo realizzando uno fra i più importanti obiettivi
perseguiti dai liberals de “L’Espresso”. Al suo primo nascere la maggioranza di centro – sinistra fu salutata dal
settimanale come un evento senza pari: “S’è finalmente insediato il primo governo, da quando l’Italia è
costituita ad unità, nel quale cattolici e socialisti siedono insieme, mentre sono rimasti confinati
all’opposizione i tradizionali portatori delle idee e degli interessi conservatori”._ Il 1963 è l’anno della svolta,
“l’anno delle grandi speranze”, come lo definisce “L’Espresso”. “Un anno così pieno d’avvenimenti subitanei
e carichi di conseguenze per il futuro, da fare dubitare che tanti se ne siano potuti produrre in un così breve
periodo di tempo. La scomparsa, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, di Giovanni XXIII e di John
Kennedy, due uomini che, nell’ordine spirituale e in quello temporale, rappresentarono quanto di più potente,
di più avanzato, di più coraggioso si fosse mai avuto da molti anni. La firma tra Stati Uniti e Unione Sovietica
d’un primo trattato che, pur con obiettivi assai limitati, è un passo avanti verso la pace e la comprensione tra i
popoli; un dissidio aspro, non più nascosto da frasi di circostanza, tra Mosca e Pechino; un contrasto non meno
profondo tra Washington e Parigi; Adenauer sostituito da Erhard alla testa della Germania occidentale; i
laboristi prossimi a prendere il posto dei conservatori nella direzione del governo inglese: dovunque una sete di
novità, un’inquietudine diffusa, un’insoddisfazione crescente verso le istituzioni tramandate dal passato, le
verità ritenute troppo certe, le consuetudini fattesi consunte e logore (…). Il 1963 rimarrà sicuramente nella
storia del nostro paese come l’anno delle grandi speranze, dei forti contrasti, d’una fresca apertura verso
l’avvenire”._
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Il 1963 è però anche l’anno del passaggio del testimone alla direzione del settimanale: dopo aver fondato e
fatto prendere il largo a “L’Espresso”, il settimanale che Alberto Asor Rosa ha definito “l’avvenimento forse
più rilevante nel campo della stampa periodica settimanale che l’Italia abbia conosciuto in questo secondo
dopoguerra”_, Arrigo Benedetti cede la poltrona ad Eugenio Scalfari. Probabilmente Benedetti si rendeva
conto dei mutamenti, del resto già visibili, che l’imminente ingresso dei socialisti nell’area di governo avrebbe
comportato nel mondo politico. Questi mutamenti avrebbero avuto ripercussioni anche sul settimanale
“L’Espresso”: dopo l’esperienza del luglio 1960, infatti, i temi classici del settimanale quali il laicismo
anticlericale, la polemica contro il moderatismo democristiano, la denuncia degli scandali, sembrano
attenuarsi. La nuova stagione si apre invece all’insegna del privilegio dell’analisi economica comportando un
atteggiamento più costruttivo nei confronti di una formula di governo che “L’Espresso” aveva sempre
sostenuto. Lo stile del settimanale sarebbe comunque rimasto spiccatamente descrittivo, lineare, leggero, privo
di fronzoli, ma scevro ormai da toni requisitori e saccenti. Al di là di queste differenze che un passaggio di
direzione può comportare, e in questo caso differenze dovute soprattutto alla situazione politica creatasi, non è
comunque difficile intravvedere una continuità di scuola e di metodo tecnico che, da Benedetti a Scalfari,
fanno de “L’Espresso” “un unicum nel quadro della stampa d’attualità italiana: una specie di spina nel fianco
del benessere”._
1.CONVERGENZE PARALLELE
Dopo i fatti del luglio 1960, dopo l’incontro tra le forze popolari e quelle della democrazia laica scese insieme
in piazza a Genova, il governo Tambroni è costretto a dimettersi. Nel luglio dello stesso anno, sotto la regia di
Aldo Moro, Amintore Fanfani ricostruisce un governo che verrà immediatamente battezzato delle
‘convergenze parallele’. “L’Espresso” parla di “un governo interamente democristiano, nato da una situazione
d’emergenza, al quale ciascuno degli altri partiti di centro, convergendo parallelamente, fornirà il proprio
appoggio (…). Il nuovo governo non sarà né di centro né di centro – sinistra.”_ Assensi, dissensi ma soprattutto
astensioni erano tutti voti preziosi messi insieme, ma ogni partito restava con le sue autonomie: si trattava di
accordi su un programma senza che questo comportasse rinuncie alle proprie ideologie. Era questa una formula
che sarebbe caduta non appena le condizioni di normalità democratica fossero state ripristinate e fosse
ricominciato il dibattito politico fra i partiti. “Nei primi sei mesi di vita del governo delle convergenze parallele
– scriveva “L’Espresso” – non è successo niente di rilevante fuorché la riforma della legge elettorale
provinciale e lo svolgimento delle elezioni amministrative (...). Ma ripristinare la legalità democratica dopo la
gravissima crisi di luglio non era compito da esaurirsi con la semplice riforma di una legge elettorale e con la
convocazione dei comizi. C’erano altre cose da fare non meno importanti (…). C’era da aprire un’inchiesta sul
comportamento della polizia e soprattutto dei suoi capi durante le fasi finali del governo Tambroni. Occorreva
sapere fino a che punto l’apparato dello Stato fosse stato disossato e corrotto durante le drammatiche settimane
di Genova, di Roma, di Reggio Emilia e di Palermo (…). Purtroppo a queste aspettative non fu dato alcun
seguito”._ Era questo per “L’Espresso” il vero ripristino della normalità democratica: il far luce sulle situazioni
oscure createsi con il governo Tambroni. Del resto il settimanale romano si era presentato sin da principio
come rivista dedita alla verità: “i lineamenti del settimanale – aveva scritto Arrigo Benedetti – erano chiari in
noi, avremmo voluto essere un giornale dedicato alla verità comunque”._
“Farò le poche cose indispensabili – aveva dichiarato Fanfani accettando il mandato del presidente della
Repubblica – per garantire la legalità, consentire che riprenda il dialogo tra i partiti; poi me ne andrò (...). Il
dialogo tra i partiti – era la risposta de “L’Espresso” alle dichiarazioni del presidente del Consiglio – è ripreso
fin dal 7 novembre 1960, cioè dal giorno successivo alle elezioni amministrative; nessuno attenta alla legalità,
ma il presidente del consiglio resiste pervicacemente alla testa d’un ministero che è il più immobilista di quanti
si siano avuti in Italia dal 1945 ad oggi”._
Una profonda avversione per l’immobilismo centrista, ricordiamo, aveva mosso il gruppo di intellettuali,
scrittori, giornalisti che nell’autunno del ’55 avevano fondato “L’Espresso”. Questo immobilismo continuava
ad essere perpretato dalla Democrazia cristiana anche dopo il luglio del 1960: la svolta a destra aveva
procurato solo profonde ferite e l’unica alternativa alla politica centrista rimaneva quella appoggiata con
insistenza da “L’Espresso”: una politica di riforme sociali raggiungibile con l’ingresso dei socialisti nella
maggioranza di governo. Con il passare degli anni, maturava sempre più ne “L’Espresso” la convinzione che
con i socialisti nella “stanza dei bottoni” – per usare un’espressione tanto cara a Pietro Nenni – si sarebbe
potuto realmente raggiungere quella trasformazione della società italiana in senso moderno.
Dopo il XXXIV congresso dei socialisti, le insistenze de “L’Espresso” affinchè la Dc ponesse termine
all’immobilismo delle convergenze parallele diventavano più insistenti: “il partito nella sua grandissima
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maggioranza è ormai saldamente attestato sulle posizioni programmatiche e politiche che Nenni anticipò al
congresso di Venezia e ribadì a quello di Napoli. L’autonomia dal Pci, il neutralismo in politica estera, la
coscienza d’appartenere al socialismo occidentale e non al movimento di idee che fa capo al comunismo
sovietico, sono ormai patrimonio comune dei socialisti italiani. D’altra parte è del pari patrimonio comune la
decisione di non prestarsi in nessun caso ad imitare l’esperienza saragattiana e a non rinunciare al contenuto
classista e marxista del partito”._ Diventava a questo punto ingiustificabile per “L’Espresso” il ritardo che
rallentava il cammino verso l’apertura a sinistra e soprattutto la sopravvivenza del ministero Fanfani. “La
convergenza d’alcuni partiti – scriveva Benedetti nel suo Diario italiano – ottenuta in un momento difficile,
quando per carità di patria gruppi politici affini accettarono di collaborare con gruppi politici non affini,
fingendo momentaneamente che fossero venute meno le ragioni di un antico contrasto, ha dato luogo ad una
situazione molto delicata che bisogna liquidare subito se se ne vuole uscire indenni”._
A giustificare le lamentele de “L’Espresso” faceva da supporto, con l’elezione di Papa Giovanni XXIII, anche
il mutato clima nella Chiesa cattolica. “La destra cattolica – scriveva infatti “L’Espresso” – controlla una parte
rilevante dell’episcopato, ha i suoi rappresentanti autorevoli nel Sacro collegio e negli uffici della curia
vaticana, ma non esprime più, come ai tempi del pontificato Pacelli, la linea unitaria e ufficiale della Santa
Sede nei confronti delle cose italiane”._ “L’Espresso” addossava le responsabilità dell’immobilismo
democristiano direttamente al partito di maggioranza relativa, non riconoscendo più alcun veto posto dal
Vaticano. “Sono tutti miei figlioli! Lasciateli fare”_, aveva detto Giovanni XXIII. Secondo “L’Espresso” però
la volontà democristiana era altrove: “Quali giustificazioni restano oggi ad un veto contro l’ipotetica
collaborazione dei democristiani coi socialisti, coi socialdemocratici e coi repubblicani?”_ Interveniva nel
dibattito in corso sulle pagine de “L’Espresso” anche il segretario del partito socialista, coagulo delle speranze
espresse dal settimanale di Benedetti e Scalfari. Alla domanda circa quale peso avessero i veti cattolici e
confindustriali sulla svolta a sinistra, l’onorevole Pietro Nenni rispondeva: “Veti ecclesiastici ce ne sono,
seppure risultano in parte affievoliti. I veti confindustriali fecero fallire la svolta della primavera 1960 (…).
D’altro canto, è evidente che ogni discorso da sinistra con la Dc cade se non progredisce il processo
dell’autonomia politica dei cattolici e della loro liberazione dal peso dei tradizionali interessi della destra
conservatrice e reazionaria, per la quale la religione è un mezzo d’esercizio e di abuso del potere”._
Riconoscendo affievoliti i veti della destra cattolica, “L’Espresso” vedeva ora come ostacolo alla apertura a
sinitra i grandi interessi confindustriali che sarebbero stati minacciati dall’ingresso dei socialisti nella
maggioranza di governo e dalla conseguente politica di riforme sociali. Trasformazione della società in senso
moderno infatti significava per “L’Espresso” lotta contro i monopoli che, in assenza di concorrenza,
permettevano di assecondare gli interessi dei grandi magnati dell’industria a scapito dei consumatori. “A
bloccare la politica di svolta a sinistra – dichiarava il settimanale – indebolite le forze di resistenza della destra
cattolica, rimane ancora con tutto il suo peso la destra economica italiana. Alfonso Gaetani, presidente della
Confagricoltura, non ha esitato addirittura a lanciare un appello a tutte le forze economiche italiane affinchè in
questo momento di grave pericolo per loro escano dall’inerzia e mettano in opera tutti i mezzi per impedire un
evento che Gaetani considera nefasto agli interessi del paese. Ma è veramente, quello che stiamo attraversando,
un momento di grave pericolo per le forze economiche italiane? O lo è soltanto per quei ristretti gruppi di
privilegio che hanno fin qui preteso di rappresentare l’intera classe imprenditoriale del paese?”._ Le ingerenze
della destra cattolica non sarebbero riuscite a bloccare la svolta a sinistra né tanto meno la stagione delle
riforme che si aprì con il governo Fanfani del 1962: la nazionalizzazione dell’industria elettrica ne è un chiaro
esempio. Nel 1962 la democrazia cristiana, scevra ormai da veti cattolici e confindustriali, avrebbe potuto
attuare una politica di riforme insieme ai socialisti. Il peso degli industriali si sarebbe fatto sentire nuovamente
in occasione del famoso “rumore di sciabole” del luglio 1964, che vedrà protagonisti di un processo, ma solo
nel 1967, il generale De Lorenzo e il settimanale “L’Espresso”. Fino ad allora si potè attuare una politica di
trasformazione della società italiana in senso moderno così come delineata da “L’Espresso”.
2. LA STAGIONE DELLE RIFORME
E’ il 1962. Siamo alla svolta! Al congresso della Democrazia cristiana a Napoli il segretario del partito, Aldo
Moro – ricorda Eugenio Scalfari – convince dopo sette ore i convenuti sulla necessita’ di incamminarsi verso
sinistra per dare l’avvio a una nuova politica. In un comunicato Ansa si legge che la Dc ha votato per “l’80 per
cento a favore del centro – sinistra”._
“All’VIII congresso di Napoli – scriveva Antonio Gambino su “L’Espresso” – la Dc è apparsa un partito
solidamente compatto dietro i suoi due leader (il segretario Aldo Moro e il presidente del consiglio Amintore
Fanfani) e sicuro sulla politica da seguire. Quattro quinti degli oratori e altrettanti tra i delegati presenti nella
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sala hanno mostrato d’appoggiare senza più dubbi il progetto di un governo di centro – sinistra sostenuto (con
il voto diretto o l’astensione) dai socialisti (...). Il congresso di Napoli ha mostrato che esiste una vasta
maggioranza favorevole al centro – sinistra ed una piccola minoranza contraria”._ “L’Espresso”, che fin dal
primo numero aveva favorito il riavvicinamento tra cattolici e socialisti, non poteva esaminare
spregiudicatamente le circostanze in cui l’incontro tanto agognato stava per avvenire. “È evidente – scriveva il
settimanale – che il Psi non può prestarsi ad un’operazione esclusivamente parlamentare e ripetere l’esperienza
socialdemocratica. Proprio perché le elezioni politiche s’avvicinano, i socialisti devono evitare il rischio di
deludere il corpo elettorale per opposte ragioni. Possono infatti deluderlo qualora, partecipando direttamente o
indirettamente alla nuova maggioranza, non impongano l’attuazione delle parti essenziali del loro programma.
Scuola, regioni, fiscalità ecco i punti essenziali di un programma (...). Un giornale come il nostro proprio
perché fin dall’autunno del ’55 pose ai lettori il problema dell’incontro tra cattolici e socialisti non può non
guardare ai nuovi problemi che si intravedono al di là del congresso di Napoli”._ Fanfani dunque scioglie il suo
precedente governo, apre a sinistra e ottiene il sostegno del PSI. Viene varato così il IV governo Fanfani, un
tripartito Dc, Psdi e Pri con astensione socialista. Il programma presentato da questo governo soddisfa
pienamente le aspettative de “L’Espresso”, soprattutto “i sei punti del nuovo programma economico che
differenzia nettamente dalle enunciazioni programmatiche dei precedenti governi. Essi sono: la riconosciuta
necessità d’una politica programmata, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’anagrafe tributaria, la
riforma delle società per azioni, l’imposta cedolare d’acconto e la nuova politica agricola.”_ “La nominatività
dei titoli azionari è uno strumento indispensabile per attuare questa progressione delle imposte. Senza di essa
l’evasione da parte dei possessori dei grandi pacchetti azionari diverrebbe estremamente facile e il sistema
fiscale (…) acquisterebbe caratteristiche regressive a danno dei ceti più poveri. Questo inconveniente si
verifica in parte anche oggi, proprio per l’inefficiente funzionamento del meccanismo della nominatività”._
L’entusiasmo iniziale per questo nuovo programma di governo era notevole anche se “L’Espresso” aspettava
che tale programma venisse attuato per poter esprimere completamente il proprio assenso: l’appoggio dei
socialisti era per il settimanale una condizione necessaria ma non sufficiente per garantire l’attuazione di quel
programma di governo. In un Diario italiano del marzo 1962 Benedetti scherzava sulla loro vicinanza al
potere: “Sentirsi chiamare, magari per scherzo, governativi fa un effetto curioso; però avviene e lo scherzo lo si
coglie sulla bocca di colleghi che lavorano in giornali governativi da più di quarant’anni. Non basterebbe
questo rovesciamento di posizioni a lasciare intravedere la portata di quanto ora sta succedendo in Italia? È
troppo presto per rispondere affermativamente, ma se la formula di centro – sinistra andrà in effetto, cioè se
dopo l’astensione benevola dei socialisti, l’on. Fanfani sarà capace di cominciar a fare approvare dal Consiglio
dei ministri il programma portandolo poi in Parlamento, allora, dopo la verifica della nuova maggioranza,
parlare di svolta avrà un senso, ed il rovesciamento delle posizioni cui alludono gli scherzosi colleghi dei
giornali ex eternamente governativi sarà un fatto compiuto. Infatti solo dopo tale verifica potremo dire che la
rottura con la destra economica c’è stata”._
Sebbene sino alla fine del suo mandato il IV governo Fanfani attuò un programma di governo positivamente
appoggiato da “L’Espresso”, nei primi due mesi di attività questo ministero incontrò le rimostranze del
settimanale. Abbiamo già avuto modo di notare quanto questo settimanale sembri adatto ad un pubblico di
riformisti impazienti; lo dimostra una volta ancora l’impazienza con cui la rivista di Benedetti e Scalfari
rivendicava l’attuazione del programma presentato da Fanfani.
“Caduto nell’inverno scorso (…) il governo di convergenza (…) s’accettò l’idea di un’azione governativa che
risolvesse al più presto possibile alcuni problemi tra i quali la nuova sistemazione delle fonti e della
distribuzione dell’energia elettrica, la nuova politica fiscale relativa alla Borsa, la nuova politica scolastica, la
mezzadria…Certo, il governo non ha mancato di prendere, nelle sue prime riunioni a palazzo Chigi, alcune
importanti decisioni; ma come negare che si tratta di un’attività legislativa che se aveva carattere d’urgenza
non può dirsi tale da caratterizzare un governo che avendo ottenuto provvisoriamente la fiducia con
l’astensione socialista deve preoccuparsi di arrivare al più presto al consolidamento della propria maggioranza,
ottenendo dai socialisti non un’astensione ma il voto favorevole? Il tatticismo del governo (…) ha deluso, nei
primi due mesi della sua attività, l’opinione pubblica che genericamente viene definita di sinistra democratica
(…). Nelle ultime settimane quello di Fanfani non ha più l’aria di essere un governo di rottura con il passato.”_
“L’apertura a sinistra, la svolta non c’è stata; finora i socialisti si sono limitati ad aiutare il governo con
l’astensione ed il fantasma del centrismo torna ad ossessionare coi suoi deludenti ed umilianti ricordi i
socialdemocratici e i repubblicani”._
Nella primavera del ’62, però, i toni de “L’Espresso” nei confronti del IV ministero Fanfani tornavano a
colorirsi di entusiasmo: cominciavano le discussioni per l’approvazone della legge sulla nazionalizzazione
dell’energia elettrica. Quella della lotta ai monopoli era, come abbiamo visto, un elemento portante nella
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rivista di Benedetti e Scalfari, una lotta che aveva contraddistinto il giornale per circa sette anni: dalla sua
nascita alla approvazione della legge sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Nell’aprile del 1962 si era tenuto alla Camera di commercio di Milano un incontro tra le forze confindustriali e
il ministro del Bilancio Ugo La Malfa. L’onorevole repubblicano incontrava in questa occasione i più tenaci
avversari del centro – sinistra e soprattutto della politica economica di cui “L’Espresso”, insieme al gruppo
della sinistra democratica di cui anche La Malfa faceva parte, era stato per anni uno dei maggiori sostenitori ed
interpreti. “In questo incontro La Malfa – riportava “L’Espresso” – ha dimostrato che i fondi per pagare i
prezzi di esproprio all’industria elettrica ci sono; ha ricordato che paesi molto più liberali del nostro come per
esempio l’Inghilterra hanno nazionalizzato da tempo, senza che sia avvenuta alcuna catastrofe economica, e ha
concluso dicendo che il nuovo governo è deciso ad assumersi la piena responsabilità della politica scelta”._
Nel giro di pochi mesi Fanfani in Parlamento fece approvare la riforma della scuola, la nazionalizzazione
dell'energia e l'imposizione di una ritenuta sulle cedole azionarie che avviava la lotta contro l’evasione fiscale.
“Il governo insediato nello scorso febbraio – scriveva “L’Espresso” – ha portato avanti una mole di lavoro che
in pochi mesi supera di molto quanto fu fatto da altre coalizioni ministeriali in anni di stentata
amministrazione. Ma non è l’aspetto quantitativo che più importa: è il salto qualitativo che contraddistingue il
governo di centro – sinistra da quelli che lo precedettero. Problemi negletti per anni, che pure rappresentavano,
a giudizio di tutti, gli aspetti essenziali della società italiana, sono stati per la prima volta affrontati ed avviati a
soluzione. Centri di potere che s’ergevano fuori e spesso contro il potere dello Stato sono stati individuati e
ricondotti sotto il controllo pubblico. Il tenore di vita dei gruppi sociali meno favoriti ha compiuto in pochi
mesi un passo avanti di considerevoli proporzioni e ciò è avvenuto senza che l’equilibrio economico del paese
ne riuscisse turbato né lo slancio produttivo interrotto. Il bilancio di questi primi otto mesi di governo è dunque
positivo, ma il disegno politico che ha sorretto lo sforzo amministrativo è ancora più importante e degno
d’essere proseguito fino in fondo”._
L’arco di tempo che va dalla costituzione del IV governo Fanfani fino alla delusione provocata dal fallimento
della formula di centro sinistra, comporta per “L’Espresso” una variazione nei toni usati per la cronaca politica.
Le denuncie contro le ripetute interferenze ecclesiastiche nella vita politica italiana, segnalate dal settimanale
con titolazioni sarcastiche tra il serio e il faceto, cedono il posto ad un’accurata analisi dei temi economici. I
toni si fanno più pacati e anche l’anticlericalismo, che aveva caratterizzato “L’Espresso” nei primi anni del
nuovo decennio, assume toni sbiaditi.
Il disegno politico del governo Fanfani non sarebbe però stato terminato: rimaneva inadempiuta la
realizzazione del disegno di legge sulle regioni, benchè Fanfani avesse pronunciato un discorso in cui
affermava che “il programma del governo di centro – sinistra doveva essere integralmente attuato e che i dubbi
e le incertezze non avevano altro effetto che quello di ostacolare l’unico disegno politico serio per far
progredire il paese”._ Erano intervenuti i dorotei a sbarrare l’attuazione del programma del IV ministero
Fanfani. “La leva sulla quale gli avversari di Fanfani premono per far saltare il governo è rappresentata dai
disegni di legge sulle regioni (…). Sebbene l’istituzione delle regioni sia tassativamente prevista dalla
Costituzione, la Democrazia cristiana s’era fino allo scorso febbraio sempre rifiutata di adempiere a
quest’obbligo e la ragione non stava in un improvviso mutamento d’opinioni e di dottrina, ma in
considerazioni molto più pratiche: la Dc non era disposta ad ammettere che tutta la fascia dell’Italia centro –
settentrionale che va dall’Emilia alla Toscana all’Umbria e alle Marche potesse essere governata da
amministrazioni regionali d’estrema sinistra, composte da comunisti e da socialisti (…). Quali garanzie
davano i socialisti, chiesero a Moro i capi della corrente, di non rinnovare nei consigli regionali le alleanze
d’estrema sinistra coi comunisti già in atto in molti grossi comuni, a cominciare da quello di Bologna?
Garanzie ufficiali su questo punto non c’erano state e si pensava che Nenni non fosse in condizione di darne, in
parte perché premuto dalla sua ala sinistra e in parte per obiettive considerazioni elettorali…I socialisti infatti
(né potevano fare diversamente) rifiutarono e fissarono come scadenza ultima quella del 10 gennaio 1963. Se
entro quella data la Democrazia cristiana non avesse assunto l’impegno di portare fino in fondo la discussione
parlamentare per l’approvazione delle leggi regionali, il comitato centrale del Psi avrebbe constatato
l’inadempienza democristiana e ne avrebbe tratto le conseguenze politiche”._
La scadenza non era stata rispettata dal partito di maggioranza relativa il quale motivava “politicamente
l’inadempimento rispetto agli impegni presi considerando che non esistono le necessarie condizioni di stabilità
politica”._ Sebbene la motivazione addotta dalla Democrazia cristiana fosse stata respinta dai socialisti, il
ministero Fanfani sarebbe rimasto in carica sino alla fine del suo mandato. Nenni respingeva questa
motivazione “perché subordinava la Costituzione ad un criterio politico di partito con un metodo che, per poco
che venga allargato, comporta la fine d’ogni garanzia costituzionale; in secondo luogo perché, con questa
motivazione, l’esperienza di centro – sinistra viene abbassata al livello di un espediente di tattica parlamentare.
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Essa è invece per me tutt’altra cosa: è movimento di massa, è incontro di base tra forze laiche democratiche e
socialiste, è trasformazione dei rapporti sociali e delle strutture economiche (...). Il colpo del 10 gennaio è forte
e a sottovalutarlo si finisce per divenirne complici. Ma se c’è un modo per evitare che sia il primo passo verso
una generale arretramento, esso consiste nel qualificarlo per ciò che è, facendo appello alle forze di base, ivi
comprese, e direi in primo luogo, quelle cattoliche; facendo appello al corpo elettorale che avrà tra poco
l’occasione di giudicare uomini e partiti”._
Al termine della legislatura si chiudeva la stagione delle riforme, salutata da “L’Espresso” come un evento
senza pari. Si era conclusa con un affievolimento nello slancio riformista, ma aveva comportato il
raggiungimento di uno degli obiettivi principali per il settimanale romano: la nazionalizzazione dell’industria
elettrica, l’emblema della trasformazione della società italiana in senso moderno.
3. LA LOTTA AI MONOPOLI: LA NASCITA DELL’ENEL
L’Enel, l’Ente Nazionale per l'Energia Elettrica, nasce con la legge n.1643 del 6 dicembre 1962 e, di fatto,
inizia la sua attività nel 1963 con il graduale assorbimento di circa 1.250 imprese elettriche.
Nel periodo in cui “L’Espresso” cominciava le sue pubblicazioni, emergeva sempre più robusta e incontrollata
“la forza dei monopoli, delle grandi centrali di collegamento finanziario che legavano tra di loro gli interessi
economici più potenti del paese, accrescendo (…) il potere di condizionamento politico. Tutto lo sviluppo
economico ne risultava deformato (…). C’era un’Italia ricca – denunciava Eugenio Scalfari – che tendeva a
divenire sempre più ricca e un’Italia povera la quale, pur progredendo lentissimamente in cifre assolute,
regrediva a ritmo accelerato nelle proporzioni relative”._
La politica dei prezzi attuata allora in Italia presentava, secondo “L’Espresso”, aspetti tipicamente
monopolistici. Da qui nasceva per il settimanale la necessità della nazionalizzazione di un’industria privata,
necessità che aveva senso soltanto in due casi: “il primo è che essa gestisca un servizio pubblico di rilevante
importanza; il secondo è che essa eserciti la sua attività in condizioni di monopolio e che non esistano altri
mezzi idonei a ristabilire un minimo di libera concorrenza. Entrambi questi due casi ricorrevano per l’industria
elettrica, così come, a suo tempo, ricorsero per l’esercizio statale delle ferrovie o per quello dei telefoni e della
radio. Ma sarebbe difficile trovare nella realtà italiana attuale molti altri esempi che invochino provvedimenti
di nazionalizzazione”._
Le tariffe erano fortemente discriminate tra i vari tipi di utenza. Ne risultava una struttura di prezzi assai
onerosa per i consumi domestici, per la piccola forza motrice e per la piccola e media impresa. Le regioni
meridionali e comunque quelle prevalentemente agrarie pagavano i prezzi più elevati rispetto alla media
nazionale. Nel settore della grande industria si alternavano forniture di energia a condizioni particolarmente
favorevoli e contratti molto onerosi. “Noi sostenevamo – ha scritto Eugenio Scalfari ricordando diversi anni
dopo quel periodo di lotte contro i monopoli – che la nazionalizzazione dell’energia aveva come scopo finale
quello di riscattare dal monopolio privato un settore chiave dell’economia nazionale e di ristabilire una parità
di punti di partenza in favore degli imprenditori operanti in tutti i rami della vita economica. Una misura
liberale, insomma, non dissimile da quelle volute ai loro tempi da Silvio Spaventa con la nazionalizzazione
delle ferrovie e da Giolitti con il monopolio pubblico delle assicurazioni sulla vita”._
Per far meglio comprendere ai suoi lettori che potere detenessero le grandi industrie elettriche in Italia
“L’Espresso” disegnava una carta geografica molto istruttiva: “Il mercato è suddiviso in quattro feudi
principali. Il feudo lombardo – emiliano amministrato dalla Edison; il feudo veneto amministrato
dall’Adriatica dell’Elettricità; il feudo toscano – laziale amministrato dalla Centrale; il feudo meridionale e
insulare amministrato dalla SME. Al vertice dei quattro gruppi (i primi tre completamente in mani private,
l’ultimo a mezzadria tra privati e IRI) sta una formidabile holding finanziaria: la società Strade Ferrate
Meridionale o Bastogi. La Bastogi non ha nulla a che vedere con strade ferrate. Essa ha una funzione
particolare, anzi addirittura unica nel sistema finanziario italiano: è la centrale di direzione economica della
grande industria, è la santa alleanza, la tavola rotonda attorno alla quale siedono in permanenza i rappresentanti
dei sette o otto gruppi industriali maggiori del nostro paese”._
“In questa situazione – scriveva Eugenio Scalfari nel 1962, ricordando come cominciò la battaglia de
“L’Espresso” per la nazionalizzazione dell’industria elettrica – fu relativamente facile per noi individuare nella
battaglia antimonopolistica il tema fondamentale della nostra azione, il punto costante di riferimento di una
politica economica di sinistra che, ancora tra molte incertezze, cominciava a prendere forma (…). Prendere
quei temi nel 1955, cercare d’adattarli alle condizioni reali, affidarli ad un’opinione pubblica di formazione
liberale: ecco i problemi non facili che consapevolmente affrontammo sette anni fa e che in un certo senso
hanno costituito il motivo permanente della politica economica di questo giornale.”_
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Nasceva da qui per “L’Espresso” la necessità di un grande progetto di elettrificazione che prevedesse il
riordino, l’ammodernamento e lo sviluppo della rete di distribuzione. Nei sette anni in cui il settimanale si
cimentò nella lotta contro i monopoli non si trovò solo lungo la sua strada. Quella della battaglia per la
nazionalizzazione dell’industria elettrica non era una lotta che caratterizzava solo “L’Espresso”, ma vedeva
uniti sotto l’egida dello stesso nemico da combattere anche il settimanale radicale “Il Mondo” e tutta la sinistra
democratica, compresa quella socialista capitanata da Riccardo Lombardi. La battaglia era condotta
parallelamente su “Il Mondo” da Ernesto Rossi e su “L’Espresso” da Eugenio Scalfari. Sin dalla nascita del
settimanale di Benedetti e Scalfari quella della lotta contro il monopolio della Bastogi, la società che
controllava la produzione e la distribuzione dell’energia elettrica, era stata una costante. La battaglia prese
corpo e divenne determinante però solo dopo il governo Tambroni della primavera del ’60 e soprattutto dopo il
convegno degli “Amici del Mondo” sul tema “Le baronie elettriche”.
Fu proprio in questo periodo che si svolse il convegno, fiancheggiato da una martellante campagna di stampa
condotta in parallelo dal “Mondo” e dall’ “Espresso” e appoggiato da comizi, manifestazioni di circoli e club
collegati alla sinistra democratica, laica e socialista. “Cominciammo a lavorare per quel convegno – ha scritto
Eugenio Scalfari – nel giugno del ’59. Le riunioni durarono tutta l’estate. Oltre ad Ernesto Rossi a Leopoldo
Piccardi a Mario Pannunzio a Riccardo Lombardi a Ugo La Malfa a Bruno
Visentini a Felice Ippolito, si unirono a noi col passare del tempo anche alcuni dirigenti e tecnici della
Confederazione delle aziende municipalizzate, della Confederazione del Lavoro, della Commissione
interministeriale dei prezzi (…). Estendemmo perciò i nostri contatti e la nostra richiesta di informazioni. Agli
uomini più quotati della banca italiana sottoponemmo l’aspetto finanziario della nazionalizzazione e con essi
discutemmo le ripercussioni che avrebbero potuto verificarsi nelle Borse a seguito dell’esproprio dei pacchetti
azionari appartenenti ai gruppi elettro – commerciali”._ Fu proprio in questa occasione che nacque quella che
fu battezzata la linea Carli – Lombardi, il governatore della Banca d’Italia e quello che era ritenuto da
“L’Espresso” come l’ interprete del socialismo moderno.
“L’Espresso” ebbe fin dall’inizio grande attenzione per i fatti e i personaggi dell’industria e fu sempre molto
vicino alle posizioni della Banca d’Italia, ma questa alleanza in apparenza paradossale prese maggior vigore
quando Eugenio Scalfari assunse la direzione del settimanale. La posizione di Carli e della Banca centrale
furono uno dei punti di riferimento costante de “L’Espresso”, che volle essere difensore dell’interesse generale
contro le manomissioni corporative, del mercato e del libero accesso ad esso contro gli sbarramenti d’ogni
genere e tipo e della stabilità della moneta contro gli assalti dei gruppi svalutazionisti e inflazionistici. “A Carli
– aveva scritto Eugenio Scalfari” – d’altra parte quell’alleanza tornava particolarmente gradita, poiché era stata
fino ad allora regola costante che la politica della Banca centrale fosse sostenuta dalla destra e osteggiata dalla
sinistra per un gioco delle parti dovuto assai più all’automatismo della tradizione che alla consapevolezza degli
interessi reali. L’alleanza tra lui e noi fu la prima rottura di quella sciocca regola e giovò non poco alla Banca
per accrescere la sua centralità nel panorama delle forze in campo e a noi per radicare nel concreto il nostro
liberalismo radicale.”_
L’altra faccia della medaglia fu per “L’Espresso”, come abbiamo già avuto modo di notare, Riccardo
Lombardi, l’azionista diventato socialista, leader riconosciuto di quello che allora era il socialismo moderno.
Insieme a Lombardi “L’Espresso” sostenne la battaglia per la nazionalizzazione dell’industria elettrica e quella
per la nominatività dei dividendi azionari, che fino ad allora erano stati soggetti soltanto ad un’imposta secca e
senza alcun riguardo ai criteri della progressività.
I socialisti volevano l’integrale statizzazione del settore elettrico, senza formule miste e senza
compartecipazione di privati. “Per far ciò – scriveva Eugenio Scalfari su “L’Espresso” – proponevano lo
scioglimento delle società elettro – commerciali e la conversione obbligatoria delle azioni elettriche in
obbligazioni, valutando le azioni ad un equo prezzo stabilito in base alle quotazioni di Borsa. Le stime davano
una cifra di 1.500 miliardi di lire e per questa cifra si sarebbero dovute emettere altrettante obbligazioni
garantite dallo Stato.
<<Il mercato non reggerà>>, ripeteva Carli con ostinazione. << Spetta a lei difenderlo e farlo tenere>>,
replicava Lombardi. <<La Banca d’Italia non è in grado di difendere le quotazioni?>>.
<<La Banca d’Italia può far tutto>>, ribatteva Carli, <<tranne il miracolo dei pani e dei pesci. Se dovremo
difendere le obbligazioni sarà molto difficile che lo stato possa finanziare sul mercato con altre emissioni gli
altri investimenti pubblici che sono in programma. Spetta a voi scegliere>>. Da questo dilemma s’è usciti con
la soluzione che La Malfa, Lombardi e Carli hanno escogitato: si creerà una azienda nazionalizzata come
volevano i socialisti; tutti gli impianti elettrici e le linee di trasporto e distribuzione dell’energia verranno
passati ad essa, ed essa li gestirà in condizione di monopolio senza alcuna partecipazione di privati. Ma le
società elettro –commerciali non saranno sciolte: continueranno ad esistere mutando per legge il loro oggetto
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sociale che potrà essere qualsiasi altro fuorchè quello di produrre e vendere l’energia. L’indennizzo non verrà
dunque versato ai singoli azionisti delle società, ma alle società stesse che da imprese elettro – commerciali
saranno quindi trasformate obbligatoriamente in semplici società di capitali. Il pagamento (ecco la novità più
importante) non avverà più per mezzo di obbligazioni ma in lire contanti. Tuttavia i 1.500 miliardi
d’indennizzo non saranno versati di colpo, bensì in 10 annualità a partire dal 1963 e a finire nel 1973. Man
mano che le annualità verranno a maturazione, lo Stato reperirà i 150 miliardi necessari attraverso l’emissione
di altrettante obbligazioni sul mercato finanziario. Un’emissione di 150 miliardi l’anno non desta nessuna
preoccupazione su un mercato che già oggi assorbe valori mobiliari ad un ritmo di 1.300 miliardi annui ed è
destinato ad espandersi utleriormente.”_
Ancorato da una parte alla linea di Carli e della Banca d’Italia, dall’altra a quella di Lombardi, “L’Espresso” si
venne a trovare in una signolare posizione: da essere stato il giornale che più intensamente aveva preparato
l’ingresso dei socialisti nell’area di governo, una volta costituito il centro – sinistra, invece di appiattirsi nella
difesa dei ministeri Moro, il settimanale assunse una posizione sempre più critica.
Il convegno degli “Amici del Mondo” tenutosi al Teatro dell’Eliseo aveva posto in maniera non più
dilazionabile il problema della nazionalizzazione dell’industria elettrica: “L’argomento di studio e di
discussione teorica – scriveva “L’Espresso” – è diventato un’arma di battaglia politica. Un governo può farsi o
può cadere se assumerà o rifiuterà questo punto dal suo programma. Debbono gli italiani continuare a pagare
esose tariffe, che non hanno confronti con quelle vigenti nei paesi più progrediti dell’Occidente? Debbono gli
azionisti delle grandi società elettriche assistere impotenti alla sistematica spogliazione che i gruppi di
controllo azionario effettuano ai loro danni? Debbono le industrie consumatrici di energia subire una politica
di discriminazione nei prezzi che favorisce alcuni gruppi a danno della grandissima maggioranza degli
operatori? Deve lo Stato tollerare la massiccia evasione fiscale delle società elettriche, delle holdings che le
controllano, degli amministratori che le dirigono? Può il paese ammettere che, con i denari degli utenti, queste
società finanzino grandi giornali, premano sui partiti e sulla pubblica amministrazione, diffondano una
atmosfera di sospetto e di corruzione? I capi delle holdings elettriche negano, naturalmente, che gli addebiti ad
essi contestati corrispondano alla realtà. Affermano anzi che l’industria elettrica italiana deve essere
considerata benemerita per i servizi che ha reso al paese. Ma le prove raccolte dai relatori del convegno del
“Mondo” e discusse pubblicamente durante due giorni al teatro Eliseo da parlamentari, economisti, docenti
universitari, tecnici, dirigenti di grandi aziende pubbliche straniere, dimostrano il contrario: dimostrano, sulla
base di dati ufficiali non sospettabili di preconcetta faziosità, che la politica della Edison, della Centrale e della
Adriatica ha rappresentato in tutti questi anni l’handicap più grave che ostacola l’equilibrato sviluppo
dell’economia italiana”._
“Lo stesso giorno in cui iniziavano i lavori al teatro dell’Eliseo – ha scritto Eugenio Scalfari – il presidente
dell’Anidel e consigliere delegato della Edison, Vittorio De Biasi, fu intervistato dalla Rai e presentò le nostre
tesi come demagogiche e pericolosissime, sia dal punto di vista economico che da quello politico: un vero e
proprio salto nel buio che avrebbe aperto la strada al partito comunista e avrebbe travolto l’assetto complessivo
della società italiana. Era la prima volta che la più autorevole personalità del trust elettrico nazionale scendeva
in polemica diretta e pubblica con noi. Decidemmo di non lasciarci sfuggire l’occasione e proponemmo alla
direzione della Rai d’organizzare un dibattito con i rappresentanti del trust. La proposta fu accolta. Il 6 aprile,
sotto la presidenza del liberale Enzo Storoni, si svolse un match del tutto inconsueto per quei tempi: in favore
della nazionalizzazione Piccardi ed io, contro Vittorio De Biasi e il vice segretario della Confindustria, Franco
Mattei. E poiché quel primo round non aveva potuto compiutamente esaurire i vari aspetti controversi della
questione, il 4 maggio ci fu un secondo dibattito tra i medesimi interlocutori”._ L’ostruzionismo del presidente
dell’Anidel e consigliere delegato della Edison Vittorio De Biasi continuò e comportò un carteggio che lo vide
protagonista insieme ad Eugenio Scalfari sulle pagine de “L’Espresso”.
Gli sviluppi politici che si ebbero successivamente, culminati nella legge sulla nazionalizzazione, discesero in
buona parte da quelle discussioni e da quei convegni de “Il Mondo” e de “L’Espresso”, dalle campagne di
stampa e dalle iniziative politiche che ad esse fecero seguito.
“Abbiamo oggi la soddisfazione (e credo sia giusto sottolinearlo) – aveva scritto Eugenio Scalfari in occasione
della costituzione del IV ministero Fanfani che nel suo programma contemplava un disegno di legge sulla
nazionalizzazione dell’industria elettrica – di vedere quelle conclusioni, cui eravamo per conto nostro arrivati,
costituire il programma del nuovo governo e della nuova maggioranza parlamentare che attorno ad esso si è
formata”._
4. IL CENTRO – SINISTRA
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“Nel linguaggio politico corrente – ha scritto Vittorio Foa – il centro – sinistra è quell’alleanza di democristiani
e socialisti che ha governato l’Italia per quasi tutti gli anni sessanta (…). Centro – sinistra voleva anche dire
fine della lunga dipendenza dei socialisti dai comunisti, riemergere del partito socialista come riconoscibile
soggetto politico, impaziente di governare avviando una politica di riforme. Per i democristiani centro –
sinistra voleva dire apertura a sinistra che significava anche una rottura della sinistra: l’inclusione dei socialisti
e l’esclusione dei comunisti”._ Da questa definizione non filtra alcun entusiasmo per l’esperienza politica che
ha caratterizzato pressocchè tutti gli anni sessanta. Naturalmente questo è un giudizio dato con il senno di poi,
ma al suo nascere il centro – sinistra fu salutato come una svolta senza precedenti. “Oggi il centro – sinistra –
aveva dichiarato Ugo La Malfa – può essere definito il tentativo di fare una politica di riforme insieme con un
grande partito tendenzialmente moderato”._ “L’Espresso”, scemata la breve stagione delle riforme nella quale
aveva riposto speranza, accoglieva la formazione del primo governo Moro con ostentata delusione, giudicando
insufficiente ed inadeguata la partecipazione dei socialisti alla nuova formazione governativa. “I socialisti
appaiono inevitabilmente relegati in una posizione di secondo piano (…). E’ difficile poter dare dell’onorevole
Moro un giudizio pienamente positivo. Egli s’è rivelato un negoziatore tenacissimo ed un abile uomo di
partito; non s’è rivelato un uomo di stato. L’interesse del paese, proprio ai fini di quella battaglia democratica
nei confronti del comunismo che rimane il maggior problema della democrazia italiana, avrebbe richiesto nel
nuovo governo una presenza socialista adeguata, uno slancio e una capacità di iniziativa che non appaiono
dalla struttura del ministero”._ Restava però la fiducia espressa dal settimanale nei confronti dell’iniziativa dei
socialisti, affinchè non scivolassero verso la strada che aveva percorso sino ad allora la socialdemocrazia di
Saragat. La fiducia veniva riconfermata anche dopo la scissione socialista. Infatti il Partito socialista
sperimentava la coabitazione al governo diviso al suo interno, lacerato da una corrente autonomista,
rappresentata da Tullio Vecchietti e Lelio Basso, che non accettava la collaborazione con la Dc nei termini in
cui era stata imposta da Moro. “Vecchietti e Basso fonderanno un nuovo partito che si chiamerà PSIUP. La
ribellione della sinistra ha rafforzato i dorotei e i socialdemocratici indebolendo Nenni. Ora il rischio che
Nenni corre è d’essere sospinto sulle posizioni di Saragat”._
La speranza nei confronti dei socialisti di Nenni e Lombardi rimasti legati alla formula di centro – sinistra
affinchè non diventassero epigoni della socialdemocrazia veniva dunque riconfermata da “L’Espresso”. “I
socialisti – secondo il settimanale romano – avrebbero perso lungo la strada un gruppo certamente meritevole
di considerazione, ma dimostratosi incapace di padroneggiare la realtà e di muoversi in essa avendo
chiaramente dinanzi agli occhi la distinzione, necessaria per chi voglia fare politica, tra le cose possibili e
quelle semplicemente immaginate. Una perdita certo dolorosa per gli antichi legami sentimentali formatisi tra
compagni ma, al limite, perfino utile, nella misura in cui essa dia al PSI al tempo stesso una concezione più
moderna dei problemi che debbono essere risolti e un’accresciuta intransigenza nel pretenderne la soluzione
secondo le naturali linee di sviluppo della democrazia italiana”._ L’esperienza filogovernativa de
“L’Espresso” doveva però durare ben poco: la sua adesione alla formula di centro - sinistra restava valida
finchè si fosse attuata una politica di riforme sociali, ma dopo la breve stagione riformistica conclusasi con il
IV ministero Fanfani, “L’Espresso” tornava sulle sue posizioni originarie di opposizione all’immobilismo: “In
carica da oltre tre mesi e a sessanta giorni di distanza dal voto del Parlamento – scriveva “L’Espresso” – il
governo Moro è praticamente fermo e la sua attività, sembra, almeno finora, limitarsi all’ordinaria
amministrazione (...). Stupisce che di questo stato di cose e dei gravi rischi che gli sono connessi non si
rendano conto l’on. Moro e l’on. Nenni, i due uomini cioè che hanno la maggiore responsabilità politica e i
maggiori poteri di coordinamento e di iniziativa (…). I governi non possono durare a lungo sull’immobilismo,
specie quando siano sorti con il proposito di rappresentare una svolta decisa nella vita politica italiana”._
Sin dal suo esordio nell’informazione “L’Espresso” aveva seguito il cammino dei socialisti di Nenni, a volte
assecondandolo, altre ‘fustigandolo’ come si fa con un animale da tiro per indicargli il cammino. Pur avendo
espresso quasi sempre simpatia per la politica di Pietro Nenni, il settimanale romano, che dal giugno 1963 era
diretto da Eugenio Scalfari e non più da Arrigo Benedetti, riconosceva alcuni errori dei socialisti che li avevano
resi complici dell’immobilismo del primo governo Moro. “ Ci fu, quando nel febbraio del 1962 i socialisti
s’avvicinarono per la prima volta alle responsabilità del potere, una ventata di speranze in tutta l’opinione
democratica che da anni ne fiancheggiava e ne sosteneva l’azione. Si credeva che la presenza d’un partito
incorrotto e depositario d’una secolare tradizione d’onestà e sacrifici, valesse a bonificare una classe dirigente
che aveva dato mediocre, per non dire pessima, prova di sé, confondendo interessi di gruppo o addirittura di
persone con l’interesse pubblico. Si ritenne che l’ingresso dei socialisti nel governo segnasse la fine del
sottogoverno, del regime di clientela, della spartizione dei posti, della corsa alle prebende del sistema feudale
che avevano finito per spezzettare lo Stato, la sua amministrazione, gli enti che ne dipendono in altrettante
baronie chiuse che, invece di seguire le direttive del potere centrale, finivano per imporre ad esso i propri
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interessi ed i propri egoismi. (…). Questa era la prima riforma che ci si attendeva dal centro – sinistra (…): la
riforma del costume, la distinzione tra i partiti e l’amministrazione, la severa punizione di chi per anni aveva
sgovernato la ricchezza nazionale o l’instaurarsi di un metodo nuovo, più efficiente e soprattutto più pulito. Su
questo punto capitale, perché non dirlo?, i socialisti finora hanno deluso (…). Eppure questa era la più urgente
e in un certo senso la più popolare delle riforme: non costava denari, avrebbe conciliato al nuovo governo
larghissimi consensi, avrebbe restituito allo Stato la sua capacità di funzionamento, avrebbe ridato fiducia e
spinta alle forze democratiche. Non è ancora troppo tardi per recuperare il tempo perduto. Ci vuole soltanto
decisione e volontà politica”._ Era del resto questa una delle principali lamentele che il settimanale aveva
espresso durante gli anni dell’agonia del centrismo, la linfa dei suoi scoop, delle sue titolazioni gridate: la
speranza che l’ingresso dei socialisti nella maggioranza di governo, insieme ad una ventata di riforme
comportasse anche la fine del sistema clientelare nell’amministrazione dello stato, scemò insieme al famoso
“rumore di sciabole” del luglio del 1964. Sarà ancora “L’Espresso” protagonista di questo capitolo della storia
italiana, ma questa vicenda esula dalle coordinate temporali che riguardano questo lavoro.
Nel luglio del ’64 viene nominato il secondo governo Moro, caduto il primo il 26 giugno sul capitolo 88 del
bilancio della pubblica istruzione. Il governo Moro seconda edizione provoca ne “L’Espresso” solo amarezza
per delle speranze svanite.
Genericamente viene definito centro – sinistra tutto l’arco temporale degli anni sessanta, ma “L’Espresso”
individua sin dal luglio del 1964 il carattere fittizio che contraddistinguerà la seconda metà di questo decennio.
La responsabilità della destra economica nella caduta del primo ministero Moro era ben chiara nel settimanale
romano; erano tuttavia ancora assenti gli elementi che caratterizzeranno l’inchiesta ‘Complotto al Quirinale’ di
Lino Jaccuzzi – che fu alla base dello scandalo Sifar e del processo “Espresso”- De Lorenzo – del 14 maggio
1967.
L’incipit dell’articolo con cui “L’Espresso” dichiara la sua posizione di fronte al secondo governo Moro è
comunque particolarmente significativa: <<Ora la borghesia impaurita dal nostro abbaiare morde e morde
sodo. Si difende accanitamente, quasi prima dell’attacco>>. “Così scriveva, nell’aprile del 1921, Giacinto
Serrati in una lettera rivelatrice del dramma del partito socialista sotto i colpi dello squadrismo. Fatte le debite
proporzioni tra la situazione di allora e quella di oggi e notate tutte le differenze che sono numerose e profonde,
si deve tuttavia concludere che quelle parole conservano un’attualità che sarebbe stolto ignorare”._
L’incontro tra democristiani e socialisti doveva rappresentare per “L’Espresso” l’incontro di due forze storiche
della vita politica italiana, portatrici di ideologie e d’esigenze diverse, talvolta addirittura contrastanti, ma
convinte entrambe della necessità d’accantonare le divergenze e di porre l’accento sui numerosi e gravi
problemi che richiedevano, per essere risolti, una volontà comune ed un comune impegno democratico. “I
socialisti – dichiarava “L’Espresso” – avrebbero dovuto francamente e lealmente accettare le articolazioni
economiche e sociali del nostro paese, senza tuttavia rinunciare alla possibilità d’indirizzarle verso obiettivi
più compatibili con gli interessi collettivi, troppo spesso nel passato lesi a favore di interessi di gruppo, ben
presto trasformatisi in privilegi. Obiettivi, come si vede, ambiziosi, di ardua realizzazione; i quali avrebbero
richiesto al tempo stesso misura e chiarezza di idee da parte del gruppo dirigente socialista e coraggio e audacia
da parte del gruppo dirigente democristiano. È doveroso ammettere oggi che questi requisiti sono purtroppo
mancati sia nell’uno che nell’altro partito sicchè, da questo punto di vista, le responsabilità gravano equamente
su entrambi, mentre l’onorevole Moro, dal canto suo, ne porta personalmente una parte non lieve. Comunque,
dopo le dimissioni del 26 giugno scorso, risultò chiaro a tutti che il governo non era caduto sul capitolo 88 del
bilancio della pubblica istruzione, ma che quello era stato soltanto l’ultimo episodio d’una più lunga serie, la
quale obbediva alla volontà della Democrazia cristiana, e in particolare del gruppo doroteo, ora insperatamente
rinforzato dal soccorso dell’onorevole Fanfani, di spostare a destra l’asse politico e programmatico del
governo. Questa volta è apparsa d’altra parte manifesta nei venticinque giorni di trattative svoltesi a Villa
Madama. I rappresentanti della Dc, scavalcando i deboli tentativi di mediazione compiuti da Moro, non hanno
trascurato occasione per umiliare il partito socialista, forzandolo ad accettare un programma di governo nel
quale (…) esso non ha altro ruolo che quello del penitente o del parente povero a malapena tollerato (…). Non
soltanto rinvio a tempo lungo della riforma regionale, ma addirittura la pretesa assurda di riconoscere il
principio del finanziamento statale alle scuole private, che avrebbe dovuto provocare, e purtroppo non
provocò, l’indignato rifiuto non soltanto dei socialisti ma dei socialdemocratici. Sarebbe stato assai meglio di
questo mediocre compromesso ministeriale un franco rifiuto da parte socialista a sottoscrivere un accordo che,
se fosse il medesimo dello scorso novembre, non avrebbe rischiesto venticinque giorni di drammatiche
trattative, e se il medesimo non è (come non è) non ha altro significato che quello d’un governo moderato, un
governo di penitenza per chi troppo presunse di sé e ben poco fece per realizzare gli obiettivi prefissi (…). Ma,
una volta imboccata questa strada, è difficile sperare che la destra si accontenti. Nelle prossime settimane e nei
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prossimi mesi chiederà di più e sarà lei a decidere i modi e i tempi della nuova crisi politica. Allora risulterà
chiaro, anche a chi oggi non ha voluto intendere, come la politica del meno peggio sia talvolta soltanto quella
del peggio senza aggettivi”._
“Dal 1955 a oggi – aveva scritto Arrigo Benedetti – sono successe tante cose: alcuni motivi polemici che anni
fa ci appassionavano sono diventati meno attuali, senza per altro perdere la loro importanza, per esempio le
relazioni tra lo Stato e la Chiesa; altri (quello della pubblica moralità) invece sono diventati attualissimi;
mentre l’incremento della ricchezza generale propone nuovi problemi di giustizia sociale ed equilibrio
politico. La funzione de “L’Espresso” rimane dunque inalterata. Dal 1955 ad oggi abbiamo fatto sì che la
pubblica opinione diventasse sensibile ai problemi essenziali d’una concezione moderna dello Stato”._
L’Espresso e il gruppo di cui esso era l’espressione evitò di abbandonare quel ruolo di contropotere, che
distingue un giornale vivo da un organo di pura registrazione dei fatti.
Rimase comunque un giornale interessato all’esperimento politico che si svolgeva; ma altresì intenzionato a
mantenere un’opzione sull’avvenire, non avendo abbandonato l’ipotesi d’un’alternativa democratica alla Dc e
soprattutto andando ad accentuare una pressione critica nei confronti di riforme mal fatte e di preoccupanti
degenerazioni del sistema democratico.
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_ ‘Il nostro gas’, cit.
_ ‘L’Ultimo venerdì di Rebecchini’,cit.
_ ‘L’Ultimo venerdì di Rebecchini’, cit.
_ ‘L’Ultimo venerdì di Rebecchini’,cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘Rebecchini ha tre modi per difendersi’, “L’Espresso”, 5 febbraio 1956
_ Arrigo Benedetti, ‘Rebecchini ha tre …’, cit.
101
_ ‘L’Ultimo venerdì di Rebecchini’, cit.
_ All’epoca Arrigo Benedetti era ancora direttore de “L’Europeo” ed Eugenio Scalfari collaboratore de “Il
Mondo” e di “24 Ore”.
_ Enzo Storoni ricoprì questa carica fino alla fine dell’amministrazione Rebecchini
_ ‘L’Ultimo venerdì di Rebecchini’cit.
_ Leone Cattani e Aldo Natoli
_ Bruno Villabruna era deputato del Partito Liberale, ed era stato segretario di questo partito prima di Malagodi
_ Arrigo Benedetti, ‘Devono farlo i romani il processo a Roma, “L’Espresso”, 17 giugno 1956,
_ Filippo Sacchi, nato a Vicenza, laureato in lettere, scrittore. Dal 1914 corrispondente dall’estero del
“Corriere della Sera”, dopo il 25 luglio fu direttore del “Corriere d’Informazione”, del “Corriere di Milano” e
del “Corriere Lombardo”. Nel 1956 collaborava a “La Stampa” e al settimanale “Epoca”.
_ Filippo Sacchi, ‘Perché gli italiani non amano Roma’, “La Stampa”, 10 giugno 1956
_ Filippo Sacchi, ‘Perche gli italiani…’. cit.
_ Filippo Sacchi, ‘Perchè gli italiani…’, cit.
_ Filippo Sacchi, ‘Perché gli italiani…’, cit.
_ ‘Il Comune di Roma sperava miliardi a beneficio delle imprese edilizie private?’, “Avanti !”, 4 dicembre
1956; ‘Emersa dal processo dell’Immobiliare la verità sugli scandali dell’Immobiliare’, “Avanti !”, 11
dicembre 1956; ‘La Giunta votò per l’albergo Hilton sotto la pressione dell’Immobiliare’, “l’Unità”, 2
dicembre 1956; ‘L’Immobiliare guadagnò un miliardo con una variante del piano regolatore’, “l’Unità”, 5
dicembre 1956
_ Giuseppe Dalla Torre, ‘Molto rumore per nulla’, “L’Osservatore Romano”, 2 – 3 gennaio 1957,
_ Arrigo Benedetti, ‘Devono farlo i romani…’, cit.
_Anonimo, “Paese Sera”, 7 – 8 giugno 1956
_ Anonimo, “Paese Sera”, 8 – 9 giugno 1956
_ Bruno Visentini, tra i fondatori del P.d’A., fu coautore con Ezio Vanoni, del quale fu sottosegretario, del
primo esperimento di riforma fiscale.
_ Bruno Visentini, ‘ Responsabilità dei politici’, “L’Espresso” 6 gennaio 1957
_ “L’Espresso”, 22 dicembre 1957, pag.4
_ Arrigo Benedetti, ‘La nostra assoluzione’, “L’Espresso”, 6 gennaio 1957
_ Giuseppe Dalla Torre, ‘Il naufragio dei puritani al teatro di Temi’, “L’Osservatore Romano”, 31 dicembre
1956 – 1 gennaio 1957.
_ Arrigo Benedetti, ‘La nostra assoluzione’, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘La nostra assoluzione’, cit.
_ Giuseppe Dalla Torre, ‘Il naufragio dei puritani al teatro di Temi’, “L’Osservatore Romano” 31 dicembre
1956 – 1 gennaio 1957
_ Arrigo Benedetti, ‘Rebecchini ha tre …’, cit.
_ Giuseppe Dalla Torre, ‘Il naufragio dei puritani …’, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘La nostra assoluzione’, cit.
_ Giuseppe Dalla Torre, ‘Il naufragio dei puritani …’, cit
_ Arrigo Benedetti, ‘La nostra assoluzione’, cit.
_ Anonimo, “Il Paese”, 30 dicembre 1956
_ Aldo Natoli, “l’Unità”, 30 dicembre 1956
_ Nel 1957 un parroco della città di Prato, dietro esplicita richiesta del vescovo di quella diocesi, aveva
condannato dal pulpito come pubblici concubini, due giovani sposi che avevano contratto matrimonio civile
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario italiano’, “L’Espresso”, 12 gennaio 1958
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario italiano’, cit.
_ “L’Osservatore Romano”, 28 dicembre 1957
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario italiano’, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario italiano’, cit.
_ Antonio Cardini, ‘Tempi di ferro’, Bologna, Il Mulino 1992, pag.310
_ Anonimo, “Il Mondo”, 7 gennaio 1958.
_ In appendice è riportata la lista completa dei cittadini solidali con “L’Espresso”
102
_ Nel dicembre del 1955, l’ala sinistra del Partito Liberale si era scissa dal partito guidato da Malagodi, per
dare vita al Partito radicale
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’, cit., pag.56
_ Anonimo, ‘Non Possumus’, “Il Tempo”, 5 gennaio 1958
_ Anonimo, ‘Silenzio e paura’, “ Il Mondo”, 14 gennaio 1958
_ Nello Ajello, ‘Il settimanale di attualità’, cit. pag. 222
_ A. Benedetti, ‘Caratteri’, “L’Espresso”, 24 gennaio 1957
_ Il cardinal Siri era il presidente della giunta ecclesiastica che sovrintendeva all’opera dei comitati civici.
_ Paul Ginsborg, ‘Storia d’Italia dal 1948 ad oggi’, Torino Einaudi 1989, pagg. 154/55
_ Massimo Legnani, ‘Profilo politico …’,cit., pag.130
_ ‘Elezioni e concordato’, “L’Espresso”, 20 maggio 1958
_ ‘Elezioni e concordato’, cit.
_ Lettere al direttore, ‘Elezioni e clero’, “L’Espresso”, 24 novembre 1957, pag. 2
_ Concordato fra la Santa Sede e L’Italia in nome della Santissima Trinità, art. 20: “I Vescovi, prima di
prendere possesso della loro diocesi, prestano nelle mani del capo dello Stato un giuramento di fedeltà
secondo la formula seguente: Davanti a Dio e sui Santi Vangeli, io giuro e prometto, siccome si conviene ad un
Vescovo, fedeltà allo Stato Italiano. Io giuro e prometto di rispettare e di far rispettare dal mio clero il re ed il
Governo stabilito secondo le leggi costituzionali dello Stato. Io giuro e prometto inoltre che non parteciperò ad
alcun accordo né assisterò ad alcun consiglio che possa recar danno allo Stato italiano ed all’ordine pubblico e
che non permetterò al mio clero simili partecipazioni. Preoccupandomi del bene e dell’interesse dello Stato
italiano, cercherò di evitare ogni danno che possa minacciarlo”; art. 43: “Lo Stato italiano riconosce le
organizzazioni dipendenti dall’Azione Cattolica Italiana, in quanto esse, siccome la Santa Sede ha disposto,
svolgano la loro attività al di fuori di ogni partito politico e sotto l’immediata dipendenza della gerarchia della
Chiesa per la diffusione e l’attuazione dei principi cattolici. La Santa Sede prende occasione dalla stipulazione
del presente Concordato per rinnovare a tutti gli ecclesiastici e religiosi d’Italia il divieto di iscriversi e militare
in qualsiasi partito politico. Costituzione italiana, art. 7: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale;
D.P.R. 30 marzo 1957, n.361, art. 98: Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di
un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere e
funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere
gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati ed a vincolare i suffragi degli eletti a
favore o in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione, è punito con la
reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire centoventimila a lire ottocentomila.
_ ‘Gronchi e Fanfani’, cit.
_ ‘Crisi del Concordato’, “L’Espresso”, 3 novembre 1957, pag. 2
_ ‘Crisi del Concordato’, cit.
_ ‘Crisi del Concordato’, cit.
_ ‘Processo ai laici’, “L’Espresso”, 6 ottobre 1957, pag. 3
_ ‘Religione di Stato’, “L’Espresso”, 8 dicembre 1957, pag. 4
_ Gaetano Salvemini, ‘Complesso pontificale’, “Il Mondo” , 17 maggio 1955
_ Paolo Murialdi, ‘Storia del giornalismo italiano’, Bologna Il Mulino 1996, pag. 189
_ Anonimo, ‘Le avvisaglie del regime’, “Il Mondo”, 22 aprile 1958,
_ ‘La RAI in parrocchia’, “L’Espresso”, 8 luglio 1956, pag. 2
_ ‘La RAI in parrocchia’, cit.
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Missiroli risponda’, “L’Espresso”, 13 aprile 1958, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Missiroli risponda’, cit.
_ ‘La radio del regime’, “L’Espresso”, 20 aprile 1958, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Lo spauracchio’, “L’Espresso”, 11 maggio 1958, pag. 4
_ Editoriale anonimo…, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘Breve storia …’, cit., pag. 90
_ Cardinal Alfredo Ottaviani, ‘Servire la Chiesa e non servirsene’, “Il Quotidiano”, 21 gennaio 1958
_ ‘Goffe interpretazioni di un articolo del card. Ottaviani’, Giornale del Mattino, 22 gennaio 1958, pag. 1
_ Cardinale Alfredo Ottaviani, ‘Servire la Chiesa …’, cit.
103
_ ‘L’Umiliazione dello Stato’, “L’Espresso”, 2 febbraio 1958, pag. 4
_ ‘Quaresima antilaica’, “L’Espresso”, 23 febbraio 1958, pag. 4
_ ‘Quaresima antilaica’, cit. pag. 4
_ ‘Chiesa e libertà’, “L’Espresso”, 9 marzo 1958, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Missiroli risponda’, “L’Espresso”, 13 aprile 1958, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Missiroli risponda’, cit.
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Missiroli risponda’, cit.
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Missiroli risponda’, cit.
_ Per maggiori informazioni in merito alla Conferenze episcopale qui citata vedasi il IV paragrafo del III
capitolo a pag. 56
_ ‘Vescovi e magistrati’, “L’Espresso”, 11 maggio 1958, pag. 4
_ ‘Vescovi e magistrati’, cit.
_ ‘Vescovi e magistrati’, cit.
_ Eugenio Scalfari, ‘Il voto laico. Chi comanda in Italia’, “L’Espresso”, 11 maggio 1958, pag. 6
_ ‘L’Italia in vendita’, “L’Espresso”, 18 maggio 1958, pag. 1
_ Arrigo Benedetti, ‘Breve storia …’, cit. pag. 91
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’ cit., pag. 131
_‘Governo precario’, “L’Espresso”, 30 novembre 1958, pag. 4
_ Paolo Glorioso, ‘I Franchi tiratori’, “L’Espresso”, 14 dicembre 1958, pag.3
_ ‘L’arma segreta’, “L’Espresso”, 14 dicembre 1958, pag. 4
_ ‘Dopo Napoli’. “L’Espresso”, 4 gennaio 1959, pag. 4
_ ‘Crisi profonda’, “L’Espresso”, 21 dicembre 1958, pag. 4
_ Piero Craveri, ‘La Repubblica dal 1958 al 1992’, Volume 24, Torino, Utet, 1995cit., pag. 14
_ ‘Nenni e Vecchietti’, “L’Espresso”, 28 dicembre 1958, pag. 4
_ ‘Nenni e Vecchietti’, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘Il congresso dei tre no’, “L’Espresso”, 25 gennaio 1959, pag. 1
_ Arrigo Benedetti, ‘Il congresso dei tre inviti’, “L’Espresso”, 25 gennaio 1959, pag. 5
_ ‘Un partito coraggioso’, “L’Espresso’, 23 novembre 1958, pag. 4
_ Ugo La Malfa, ‘La vera sinistra’, 9 novembre 1958, pag. 2
_ La scissione dell’ala sinistra del PSDI, guidata dall’onorevole Matteo Matteotti, si ebbe in seguito al XXXIII
congresso del partito socialista. Il MSUI, il movimento che si formò da questa scissione, confluì nel partito
guidato da Pietro Nenni
_ ‘La scelta della DC’, “L’Espresso”, 25 gennaio 1959, pag. 4
_ ‘Fine d’un equivoco’, “L’Espresso”, 1 febbraio 1959, pag. 4
_ ‘Le prospettive di Saragat’, “L’Espresso”, 4 gennaio 1959, pag. 4
_ ‘L’ora mistica di Fanfani’, “L’Espresso”, 8 febbraio 1959, pag. 3
_ Gianni Corbi, ‘I pirati della salute’, “L’Espresso”, 31 marzo 1957
_ Antonio Gambino, ‘Rapporto sul vizio’, “L’Espresso”, 20 ottobre 1957
_ Giovanni Leone, presidente della Camera dei Deputati
_ ‘L’effetto e la causa’, “L’Espresso”, 9 febbraio 1958, pag. 4
_ Carlo Falconi,‘Dietro il trono di Pio XII ’, “L’Espresso”, 5 gennaio 1958
_ Eugenio Scalfari, ‘I nipoti del papa’, “L’Espresso”, 30 marzo 1958
_ Michele Pantaleone, ‘La mafia e il potere’, “L’Espresso”, 30 novembre 1958
_ ‘L’Africa in casa’, “L’Espresso”, 26 aprile 1959, pag. 1
_ ‘L’Africa in casa’ cit. pag. 16
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti,‘Le grandi famiglie della rotativa’, “L’Espresso”, 31 maggio 1959
_ Eugenio Scalfari, ‘La corrente elettrica’, “L’Espresso”, 17 giugno 1962
_ Gianni Corbi ed Eugenio Scalfari, ‘Mille miliardi introvabili’, “L’Espresso”, 27 gennaio 1963
_ Lino Jannuzzi, ‘La cedolare di San Pietro’, “L’Espresso”, 14 febbraio 1965
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino nella bottiglia’, “L’Espresso” 22 giugno 1958, pag. 6
_ ‘La tavola rotonda de “L’Espresso”, “L’Espresso”, 4 gennaio 1959, pag. 6/7/8/9
104
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino nella bottiglia’, “L’Espresso” 22 giugno 1958, pag. 6
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.,
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘L’asino …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘La balena spalmata sul pane’, “L’Espresso”, 29 giugno 1958, pag.9
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘La balena …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘La balena …’, cit.
_ Nel 1958 la margarina costava 600 lire al chilo, contro le 1100 in media del burro
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘La balena …’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘La balena …’, cit
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Perché frodano’, “L’Espresso”, 29 giugno 1958, pag. 9
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Perché frodano’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Perché frodano’, cit…
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Una palla di grasso sullo stomaco’, “L’Espresso”, 8 novembre 1958, pag. 3
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Una palla …’, cit.
_ ‘La truffa dell’olio’, “L’Espresso”, 6 luglio 1958 pag. 10
_ ‘La truffa dell’olio’, cit.
_ ‘La truffa dell’olio’, cit.
_ ‘La truffa dell’olio’, cit.
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Le saponette fantasma del commendator Camaggio’, “L’Espresso”, 3 agosto
1958, pag. 3
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘Le saponette …’, cit.
_ Eugenio Scalfari, ‘Le 58 lettere di Angelo Costa’. “L’Espresso”, 3 agosto 1958, pag. 2
_ Eugenio Scalfari, ‘Le 58 lettere …’, cit.
_ Eugenio Scalfari, ‘Le 58 lettere…’, cit.
_ ‘Avvelenati col consenso della legge’, “L’Espresso”, 22 novembre 1958 pag. 1
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘I controllati pagano i controllori’, “L’Espresso”, 6 dicembre 1959, pag. 6
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘I controllati pagano …’, cit.
_ ‘Bonomi e i suoi complici’, “L’Espresso”, 31 marzo 1963
_ Gianni Corbi e Livio Zanetti, ‘I controllati pagano…’, cit.
_ Eugenio Scalfari, ‘Il racket alimentare’, “L’Espresso”, 29 novembre 1959, pag. 2
_ Eugenio Scalfari, ‘Il racket alimentare’, cit.
_ Eugenio Scalfari, ‘La paura d’aver coraggio’, “L’Espresso”, 12 ottobre 1958, pag. 2
_ Eugenio Scalfari, ‘Il racket alimentare’, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘I grandi negligenti’, in Diario italiano, “L’Espresso”, 13 dicembre 1959, pag. 4
_‘Il divieto d’esterificazione conclude il romanzo giallo dell’olio d’oliva’, “L’Espresso”, 22 luglio 1962, pag.
5
_ ‘Un papa troppo politico’, “L’Espresso”, 19 ottobre 1958.
_ Arrigo Benedetti, ‘Un prete’, in Diario italiano, “L’Espresso”, 23 marzo 1958, pag.4.
_ ‘Le garanzie che aspettiamo da Gronchi’, “L’Espresso”, 1 gennaio 1959, pag. 1
_ ‘Dc mangia Dc’, “L’Espresso”, 8 febbraio 1959, pag. 1
_ ‘L’ombra del ‘22’, “L’Espresso”, 22 febbraio 1959, pag. 1
_ ‘Segni e la realtà’, “L’Espresso”, 15 febbraio 1959, pag. 4
105
_ ‘L’alleato Andreotti’, “L’Espresso”, 5 luglio 1959, pag. 4
_ ‘La destra si vergogna’, “L’Espresso”, 22 marzo 1959, pag. 4
_ ‘La tavola rotonda de “L’Espresso”’, “L’Espresso, 4 gennaio 1959, pag. 6
_ ‘L’ombra del ‘22’, cit.
_ ‘Il miraggio del listone’, “L’Espresso”, 22 febbraio 1959, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario italiano’, ‘Segni e il destino’, 2 agosto 1959, pag. 4
_ ‘Pazienza ambigua’, “L’Espresso”, 13 dicembre 1959, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario italiano’, ‘Moro’, “L’Espresso”, 29 novembre 1959, pag. 4
_ ‘L’invito di Nenni’, “L’Espresso”, 29 settembre 1959, pag. 4
_ ‘Domande a Fanfani’, “L’Espresso”, 20 settembre 1959 pag. 4
_ ‘Domande a Fanfani’, cit.
_ ‘Domande a Fanfani’, cit.
_ Arrigo Benedetti, ‘La grande crisi’, “Speciale per il congresso DC”, pag. 1, supplemento a “L’Espresso” 1
novembre 1959
_ Arrigo Benedetti, ‘Limite confessionale’, “L’Espresso”, 8 novembre 1959, pag. 4
_ ‘Le condizioni di Nenni’, “L’Espresso”, 10 gennaio 1960, pag. 4
_ ‘Le condizioni di Nenni’, cit.
_ ‘La crisi c’è’, “L’Espresso”, 10 gennaio 1960, pag. 4
_ ‘Moro e la crisi’, “L’Espresso”, 3 gennaio 1960, pag. 4
_ ‘Un governo per Malagodi’, “L’Espresso”, 28 febbraio 1960, pag. 4
_ ‘L’Italia a sinistra’, “L’Espresso”, 21 febbraio 1960
_ Eugenio Scalfari, ‘Leoni Piccioni e altri animali’, “L’Espresso”, 13 marzo 1960, pag. 4
_ A.A. ‘Oggi consiglio dei ministri per discutere sulla situazione politica. Polemiche e congetture che spinsero
Segni a rinunciare all’incarico’, “Corriere della Sera”, 30 marzo 1960, pag. 1
_ ‘Il veto ha funzionato. Ha vinto il cardinale’, “L’Espresso”, 27 marzo 1960, pag. 1
_ Giuseppe Tamburrano, ‘Storia e cronaca del centrosinistra’, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1971,
pag. 31
_ Normanno Messina, ‘Come si è arrivati a Tambroni’, “L’Espresso”, 27 marzo 1960, pag. 3
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo…’, cit. , pag. 204
_ ‘Elezioni subito’, “L’Espresso”, 27 marzo 1960, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario Italiano’, ‘Tambroni’, “L’Espresso”, 3 aprile 1960, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, ‘Diario Italiano’, ‘Tambroni’, cit.
_ ‘Quarantena democristiana’, “L’Espresso”, 3 aprile 1960, pag. 1
_ ‘Il lamento di Fernando’, “L’Espresso”, 10 aprile 1960, pag. 1
_ ‘L’ambizioso Tambroni’, “L’Espresso”, 17 aprile 1960, pag. 1
_ ‘Fine d’un partito’, “L’Espresso”, 17 aprile 1960, pag. 4
_ Livio Zanetti, ‘Trappola dorotea’, “L’Espresso”, 17 aprile 1960, pag. 6
_ ‘Il calice di Fernando’, “L’Espresso”, 17 aprile 1960, pag. 7
_ Luciano Radi, ‘Tambroni trent’anni dopo: il luglio 1960 e la nascita del centro sinistra’, Bologna, Il Mulino,
1990, pagg. 95/96
_ Eugenio Scalfari, Livio Zanetti, ‘Pasqua di reazione’, “L’Espresso”, 24 aprile 1960, pag. 6
_ Eugenio Scalfari, Livio Zanetti, ‘Pasqua di reazione’, cit.
_ Eugenio Scalfari, Livio Zanetti, ‘Pasqua di reazione’, cit.
_ ‘Elezioni necessarie’, “L’Espresso”, 1 maggio 1960 pag.4
_ ‘Il ricatto del secondo partito’, “L’Espresso”, 1 maggio 1960, pag. 1
_ ‘Il ricatto del secondo partito’, cit.
_ In appendice è riportato il testo completo dell’articolo ‘Punti fermi’
_ Giuseppe Tamburrano, ‘Storia e cronaca …’ cit., pag. 30
_ ‘Il partito del Papa’, “L’Espresso”, 29 maggio 1960, pag. 1
_ J.F. Kennedy è stato il primo presidente cattolico degli Stati Uniti d’America
_ Giuseppe Tamburrano, ‘Storia e cronaca …’, cit., pag. 31
106
_ Giuseppe Tamburrano, ‘Storia e cronaca …’, cit., pag. 33
_ Giuseppe Tamburrano, ‘Storia e cronaca …’, cit., pag. 32-33
_ Eugenio Scalfari, ‘L’illusione di Tambroni’, “L’Espresso”, 22 maggio 1960, pag. 2
_ Eugenio Scalfari, ‘L’illusione di Tambroni’, cit.
_ ‘Paura dorotea’, “L’Espresso”, 22 maggio 1960, pag. 4
_ Sede del comune della città di Bologna
_ ‘I fatti di Bologna’, “L’Espresso”, 29 maggio 1960, pag. 4
_ ‘Mobilitati i questori’, “L’Espresso”, 22 maggio 1960, pag. 5
_ Paolo Murialdi, ‘La stampa italiana del dopoguerra’, Laterza, Bari, 1973, pag. 367
_ ‘Punti fermi’, “L’Osservatore Romano”, mercoledì 18 maggio 1960, pag. 1
_ Fabrizio Dentice, ‘Livorno: non cercate la donna’, “L’Espresso”, 1 maggio 1960, pag. 6/7
_ Andrea Barbato, ‘Da Bologna il primo squilli di tromba’, “L’Espresso”, 29 maggio 1960, pag. 8
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’, cit., pag. 207
_ Paolo Murialdi, ‘La stampa italiana del dopoguerra’, Laterza, Bari, 1973
_ Associazione Nazionale Partigiani Italiani
_ Andrea Barbato, ‘Balilla l’ha impedito’, “L’Espresso”, 10 luglio1960, pag. 2
_ Andrea Barbato, ‘Dovunque magliette a strisce’, “L’Espresso” 17 luglio 1960, pag. 6/7
_ ‘Violenza di Stato’, “L’Espresso”, 17 luglio 1960, pag. 1
_ ‘Violenza di Stato’, cit.
_ ‘Violenza di Stato’, cit.
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 7
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 37
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo…’, cit., pag. 35
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 38
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 41
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 53
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 17
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 19
_ Camilla Cederna e Claudio Risè, ‘La sedicenne d’assalto’ in ‘Come perdono l’innocenza’, “L’Espresso”, 15
marzo 1964, pag. 17
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’, cit., pag. 50
_ Camilla Cederna, ‘Il lato debole’,cit., pag. 34
_ Arrigo Benedetti, Editoriale, “L’Espresso”, 2 giugno 1963, pag. 1
_ ‘Perché occorre l’aiuto dei socialisti’, “L’Espresso”, 29 ottobre 1961, pag. 3
_ ‘L’anno delle grandi speranze’, “L’Espresso”, 29 dicembre 1963, pag. 1
_ ‘L’anno delle grandi speranze’, cit.
_ Alberto Asor Rosa, ‘Il giornalista: appunti sulla fisiologia di un mestiere difficile’, in ‘Storia d’Italia’,
‘Intellettuali e potere’, Einaudi, Torino 1981, pag. 1264
_ Nello Ajello, ‘Il settimanale di attualità’, cit., pag. 222
_ Eugenio Scalfari, ‘Il governo geometrico’, “L’Espresso”, 24 luglio 1960 pag. 6
_ ‘I salvatori della patria’, “L’Espresso”, 1 gennaio 1961, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, ‘Breve storia …’,cit., pag. 51
_ ‘Fanfani non se ne va’, “L’Espresso”, 1 ottobre 1961, pag. 4
_ ‘La Malfa e la Dc’, “L’Espresso”, 9 aprile 1961, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘Le scadenze’, 15 ottobre 1961, pag. 4
_ ‘La destra i vescovi i monopoli’, “L’Espresso”, 17 dicembre 1961, pag. 1
_ Carlo Falconi, ‘Sono tutti miei figlioli’, “L’Espresso”, 4 marzo 1962, pag. 6
_ ‘La volontà democristiana è altrove’, “L’Espresso”, 15 ottobre 1961, pag. 1
_ ‘La volontà democristiana è altrove’, cit.
_ ‘Perché subito’, “L’Espresso”, 22 ottobre, 1961, pag. 3
107
_ ‘La destra i vescovi i monopoli’, 22 ottobre 1961, pag. 3
_ Comunicato Ansa, 1 febbraio 1962, ore 18, 13
_ Antonio Gambino, ‘Fanfani contro Moro’, 4 febbraio 1962, pag. 3
_ ‘Perché la Dc apre a sinistra’, “L’Espresso”, 4 febbraio 1962, pag. 4
_ Gianni Corbi, ‘90 giorni di tempo’, “L’Espresso”, 11 marzo 1962, pag. 2
_ ‘Lettere al direttore’, “L’Espresso”, 11 dicembre 1955, pag. 4
_ Arrigo Benedetti, Diario italiano, ‘La vicinanza del potere’, “L’Espresso”, 18 marzo 1962, pag. 4
_ ‘Un governo che ha bisogno di coraggio’, “L’Espresso”, 6 maggio 1962, pag. 1
_ ‘La sorte del governo’, “L’Espresso”, 13 maggio 1962, pag. 1
_ ‘La Malfa e gli industriali’, “L’Espresso”, 15 aprile 1962, pag. 4
_ ‘La scadenza del 10 gennaio’, “L’Espresso”, 16 dicembre 1962, pag. 1
_ Eugenio Scalfari, ‘Tutti pensano al governo del ‘63’, “L’Espresso”, 23 dicembre 1962, pag. 3
_ Eugenio Scalfari, ‘Tutti pensano …’, cit.
_ ‘Nenni risponde: cadrà il governo?’, “L’Espresso”, 14 gennaio 1963, pag. 4
_ ‘Nenni risponde: cadrà il governo?’, cit
_ Eugenio Scalfari, ‘Sette anni di pressione’, “L’Espresso”, 25 febbraio 1962, pag. 2
_ Padanus, ‘Che altro si può nazionalizzare?’, “L’Espresso”, 12 agosto 1962, pag. 3
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’, cit., pag. 109
_ Eugenio Scalfari, ‘I segreti della Bastogi’, “L’Espresso”, 22 giugno 1957, pag. 2
_ Eugenio Scalfari, ‘Sette anni di pressione’, cit.
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’, cit., pag. 105
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’, cit., pag. 219
_ Eugenio Scalfari, ‘Il destino delle azioni’, “L’Espresso”, 24 giugno 1962, pag. 3
_ ‘Lo scontro elettrico’, “L’Espresso”, 20 marzo 1960,pag. 6
_ Eugenio Scalfari, ‘La sera andavamo …’, cit., pag. 105
_ Eugenio Scalfari, ‘Sette anni di pressione’, cit.
_ Vittorio Foa, ‘Questo Novecento’, Einaudi, Torino 1996, pag. 268
_ Ugo La Malfa, ‘L’occasione storica’, “L’Espresso”, 28 aprile 1963, pag. 3
_ ‘Il prezzo chiesto ai socialisti’, “L’Espresso”, 8 dicembre 1963, pag. 1
_ ‘La scissione’, “L’Espresso”, 22 dicembre 1963, pag. 1
_ ‘I socialisti dopo la scissione’, 19 gennaio 1964, pag. 1
_ ‘Si può cadere anche restando fermi’, “L’Espresso”, 16 febbraio 1964, pag. 1
_ ‘L’errore dei socialisti’, “L’Espresso”, 10 maggio 1964, pag. 1
_ ‘Quanto durerà?’, “L’Espresso”, 26 luglio 1964, pag. 1
_ ‘Quanto durerà?’, cit.
_ Arrigo Benedetti, Editoriale, “L’Espresso”, 2 giugno 1963, pag. 1
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