FORME ESPRESSIVE DEL MOVIMENTO DELLE DONNE E TIPOLOGIE DI FONTI: TRA ORALITÀ, SCRITTURA E AUDIOVISIONE di Roberta Fossati Nota introduttiva Il rapporto tra le forme espressive presenti (come scelte precise di modalità comunicative) nella ”produzione” del femminismo e gli itinerari di auto-rappresentazione del movimento, è una fra le questioni significative presenti nell’ambito di un discorso sugli “archivi delle donne”. Silenzio, oralità, scrittura, (nelle sue diverse forme) hanno infatti caratterizzato diversamente momenti/obbiettivi differenti della politica delle donne in Italia: il silenzio come “uscita” dall’universo simbolico maschile e scelta di comunicazione non verbale correlabile alla centratura sull’obbiettivo della riappropriazione del corpo (“il corpo è mio e lo gestisco io”); l’oralità come “ presa di parola” significativa nell’interazione dei soggetti nell’autocoscienza; la scrittura come “risorsa” di verifica e di una trasmissione che superi l’immediatezza del vissuto e la pura identificazione con l’interlocutore all’interno del gruppo1. Oggi silenzio (e immagine), parola parlata e parola scritta costituiscono altrettanti “documenti” diversi di cui pensare l’organizzazione, la conservazione, la messa in circolazione per l’utilizzo. Per questa riflessione acquista notevole rilievo il lavoro che Roberta Fossati da tempo viene conducendo sulla varietà delle forme espressive e quindi della tipologia di fonti disponibili oggi per la ricostruzione della memoria del movimento delle donne e per possibili utilizzi in una “storia di genere” Maria Beatrice Perucci responsabile dell’area “ comunicazione e documentazione” GENDER - consulenza, formazione, ricerca Tra gli altri lavori si ricorda il seminario di approfondimento curato da Roberta Fossati nell’ambito del Corso “Documentariste esperte in metodologia di indicizzazione di genere e software dedicato”, Progetto NOW 1994 , Centro studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia (Oggi Fondazione Badaracco) All’epoca responsabile del Corso per il CSSMLDI 1 37 E. Fraire, Interno-esterno. un problema “interno” al movimento femminista, in “Ombre rosse” , 17, Roma, 1976, p. Le fonti della storia del movimento delle donne: oralità e scrittura Nel corso degli anni Settanta vi è stata in Italia una vasta produzione di materiali basati su fonti orali elaborati nel contesto del femminismo militante; molte donne appartenenti al movimento hanno sentito l’esigenza di non abbandonare le loro parole all’immediatezza e all’evanescenza della comunicazione orale, ma di fissarle, registrando con il magnetofono o prendendo appunti nel corso di incontri, discussioni, convegni, ma soprattutto durante le sedute di autocoscienza. Questa oralità (nel piccolo gruppo di presa di coscienza, nella cosiddetta “analisi selvaggia”, ma anche quella meno formalizzata dell’attenzione alle relazioni) è stata presto riconosciuta come una pratica dal forte potere eversivo, capace di produrre cultura e dare senso alla storia delle donne e al suo muoversi.2 Ma quale è stata la sorte di tutta questa quasi frenetica produzione? Molto materiale resta tuttora affidato soltanto alla registrazione su nastro, che garantisce una conservazione nel tempo, ma non assicura dai rischi di deterioramento sul lungo periodo (probabilmente sono parecchie le donne che possiedono nel loro archivio privato casalingo queste cassette, delle quali non esiste un censimento neppure approssimativo). Nella maggior parte dei casi, l’oralità è stata invece trascritta e pubblicata nelle riviste, nei ciclostilati e nei fogli volanti femministi; lo scopo della presentazione di testimonianze e di frammenti di discorso sembra essere quella di una fruizione urgente, allargata, contraddistinta dalla certezza della affermazione di una sorellanza che deve facilitare il riconoscimento reciproco attraverso esperienze condivise e l’identificazione di comuni obiettivi militanti. Negli stessi anni si assiste alla nascita di prodotti sempre basati su fonte orale (interviste, storie di vita, dialoghi fra donne) in cui è più evidente accanto alla finalità politica la preoccupazione di raggiungere risultati di scrittura esteticamente apprezzabili: converge in questo caso (e in questo decennio) il lavoro di donne autrici che hanno superato il livello del parlare/scrivere per sé nel foglio di propaganda o di sfogo, per giungere a creare una nuova “letteratura minore” o “letteratura transizionale”3 e quello di affermate scrittrici professioniste vicine al movimento che impregnano autobiografie, poesie, dell’ideologia del movimento, “azzerando” le loro scelte di linguaggio per dare voce alla protesta delle categorie femminili più oppresse4. Le fonti iconografiche, sia detto di passaggio, sono un’altra grande miniera a cui attingere per la ricostruzione del femminismo degli anni Settanta; al primo sguardo colpisce la loro grande varietà, la notevole freschezza e vivacità, la capacità di assimilazione di molte esperienze di avanguardia del nostro secolo (per es. la poesia visiva), il loro essere state, di fatto, anche il banco di prova ed il tirocinio di una professionalità femminile agli inizi per molte donne del movimento (donne divenute poi disegnatrici, grafiche, fotografe e così via) Nel corso degli anni Ottanta si riduce drasticamente la quantità di materiali provenienti dal movimento, che passa da una fase di militanza a quella che è stata definita una fase carsica. Si approfondisce il rapporto donna-scrittura; chi sceglie il terreno della comunicazione scritta lo utilizza consapevolmente nella ricerca della sua identità femminile (il corpo a corpo con la scrittura è corpo a corpo con se stesse e con le altre donne). Le fonti del movimento sono ora prodotti più elaborati e raffinati; il lavoro più impegnativo sulla scrittura accantona o rende opaca e irriconoscibile le fonte orale. 2 L. Passerini, Le fonti orali tra ricerca storica e pratica del movimento delle donne, in Fonti orali: storia, ricerca, racconto, Bologna, 1982, pp. 10-15. 3 B. M. Frabotta, Letteratura al femminile, Bari, De Donato, 1980 4 A. Guiducci, Due donne da buttare, Milano, Rizzoli, 1976 e La donna non è gente, Milano, Rizzoli, 1977. D. Maraini, Memorie di una ladra, Milano, Bompiani, 1973 e Donne mie, Torino, Einaudi, 1974. Riguardo ai contenuti si prendono le distanze dall’eccesso di ideologia e dalla ripetitività riscontrate nella scrittura precedente del femminismo. Con la nascita di numerosi centri di documentazione e ricerca sparsi su tutto il territorio nazionale, va approfondendosi e sedimentandosi anche la memoria del movimento: gli anni Ottanta vedono le prime significative ricerche sul movimento delle donne. Spezzoni di biografie singole e collettive permettono di cominciare a ricostruire le amicizie, i drammi, le rivendicazioni, le festosità e le ombre, i progetti creativi del movimento. Non a caso le ricerche privilegiano l’utilizzo della fonte orale per le vicende personali e dei gruppi delle femministe.5 Si può notare infine come non soltanto la già citata letteratura transizionale, ma anche la storia e l’antropologia che lavorano con fonti orali siano interessate all’identificazione di generi di scrittura conformi alla verbalizzazione di questa grande varietà di esperienze femminili degli ultimi decenni6, alla ricerca di scritture che non si giustappongano al parlato. Si accenna così alla possibilità di nuovi tipi di scrittura (nuovi generi letterari o nuove metodologie, nuove funzioni linguistiche?) fino al tentativo di definizione di una scrittura orale7. Le fonti ed i soggetti stessi di queste ricerche, insomma, sembrano esigere una scrittura, od una pluralità di scritture, che restituiscano lo spessore dell’oralità come campo di comunicazione tra le donne, usando tutti i mezzi espressivi che si presentino di volta in volta più adeguati. Semplificando, si possono riconoscere in molti testi, soprattutto questi interventi di scrittura, variamente intrecciati: il filo del tessuto è spesso rappresentato da una “scrittura autoesplorativa”, frutto dell’analisi e dell’autoanalisi sviluppatasi a partire dall’autocoscienza (e che trova quindi largo spazio già negli anni Settanta); a questa si intreccerebbe da un lato una “scrittura di ricerca”, corrispondente ad un’esigenza conoscitiva, scientifica, intesa nel senso che l’autrice vuole essere fedele osservatrice, fare ipotesi, verificare, documentare e dimostrare (già presente negli anni Settanta potrebbe confluire negli anni Ottanta, nelle problematiche legate al “sapere delle donne”); dall’altro lato, si trova una “scrittura ideologica”, corrispondente sia all’esigenza del fare politica, diffondendo la consapevolezza dell’orgoglio di appartenenza al sesso femminile e la necessità di un itinerario di liberazione. A questo ambito apparterrebbero tutti i testi di mobilitazione e di propaganda, ma anche tutta la scrittura che ha lavorato in un primo tempo al ribaltamento delle immagini negative del femminile e che ha proseguito lavorando sulla ricerca di simboli gratificanti del medesimo. Il quarto livello tocca invece la “scrittura espressiva” vera e propria, cioè la parte letteraria, poetica, fantasticata, nei testi prodotti, che va crescendo quantitativamente e qualitativamente fino ad offrire oggi produzioni ormai estremamente sofisticate. Due parole sulle fonti audiovisive In quanto alle videoregistrazioni come fonti prodotte all’interno del movimento negli anni ‘70-’80, esse non sembrano quantitativamente rilevanti, mentre un censimento di un eventuale patrimonio documentario televisivo è ancora tutto da fare. Diverso il discorso se si passa a considerare le fonti audiovisive come una potenziale enorme risorsa a disposizione per la ricostruzione della storia in generale e della storia dei decenni passati in particolare. 5 A. Calabrò e L. Grasso (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso, ricerca e documentazione in area lombarda, Milano, Angeli, 1985 6 A. Bravo, Ruolo familiare e sociale delle donne contadine all’inizio del secolo, in “Fonti orali, studi e ricerche”, 2/3, 1981, pp. 7-11. A. Bravo, L. Passerini, S. PicconeStella, Modi di raccontarsi e forme di identità nelle storie di vita, in “Memoria”, 8, 1983, pp. 101-113. 7 A. Gasco e L. Matteucci, Riflessioni intorno ad una ricerca di storia orale. Il matrimonio nella vita delle donne di una comunità contadina tra Otto e Novecento, in “Memoria”, 2, 1981, pp. 100-111. Le fonti audiovisive fanno parte, come è noto, del vasto campo definito “oralità di ritorno”: fenomeno tipico di una società alfabetizzata, esse dipendono, come per esempio anche il telefono e la radio da una civiltà della scrittura. Di utilizzo relativamente recente, esse condividono con le classiche fonti orali (materiali sonori registrati) la caratteristica di essere sollecitati, il più delle volte da un ricercatore-intervistatore. E come le fonti orali classiche esse pongono l’accento sulla soggettività sia dell’intervistatore che dell’intervistato, ma soprattutto sulla loro interazione (dentro, ma anche fuori, prima e dopo l’intervista); in altri termini esse permettono di dare valore all’aspetto qualitativo, individuale, di cogliere le sfumature, le ambiguità, le conflittualità, i desideri. Sono utilizzate oggi in psicologia, linguistica, storia8. Sia nella più tradizionale registrazione al magnetofono, sia in quella audiovisiva, il soggetto intervistato ci offre la sua testimonianza a tema (per es. il lavoro, la partecipazione a lotte sociali e politiche, la quotidianità) o narra la sua storia di vita (o uno spezzone della sua storia di vita). La testimonianza è preparata da un contatto informale, amichevole, che può essere molto rapido o più esteso. Il colloquio può avere una griglia rigida, o essere semi-direttivo, accompagnato da una domanda che lascia spazio, del tipo “raccontami la tua vita” o “raccontami i tuoi anni Settanta”. Per chi studia le fonti audiovisive è inevitabile riflettere sul carattere di complessa costruzione che queste condividono con le fonti orali per il largo spazio dato alle soggettività, si tratta dunque in ogni caso di fonti piuttosto sfuggenti, difficili da trattare, con qualche differenza non secondaria: la fonte audiovisiva, forse, esaspera i problemi che già hanno tormentato gli oralisti. Un primo aspetto riguarda le modalità con cui ogni soggetto costruisce la sua autopresentazione, comunica un’immagine di sé, utilizza un suo stile di narrazione. La fonte audio-video, fra l’altro oggi così ampiamente usata, così manipolabile e manipolata, da un lato esalta le possibilità di autopresentazione di un soggetto, dall’altro come mezzo che sollecita un protagonismo e contemporaneamente intimidisce, con lo scorrere inesorabile della registrazione (ancor più del magnetofono che talvolta viene dimenticato dal testimone nel corso dell’intervista), stimola a coprire i silenzi, ad accelerare i discorsi, colmare i vuoti; crea un’esigenza di teatralizzazione che può influire sui ritmi della narrazione, forse anche sul flusso della memoria, che è sollecitata a frammentare/narrare in tempi rapidi. Un secondo aspetto riguarda la leggibilità/fruibilità della fonte. Nell’utilizzo delle fonti orali la trascrizione costituisce una fase molto importante e problematica: è veramente “fedele” quando rende con efficacia ciò che è stato detto, e quando chi trascrive esplicita i criteri con cui ha effettuato la trascrizione. In altre parole, esiste un’estetica della trascrizione che consiste in una leggibilità godibile, che sappia unire fedeltà documentaria ed efficacia comunicativa. Ma, qualora si consideri la cassetta trascritta un materiale di indagine storica, anche le lungaggini, le ripetizioni, la stessa ripetitività dello stesso corpus di testimonianze risultano accettabili; in un certo senso, prima di tutto è importante salvare tutta l’informazione rilevante (la cassetta, ascoltata più volte, è pazientemente trascritta salvando lo stile narrativo, i modi del raccontare dell’intervistato/a). Il mezzo video pone nel montaggio problemi analoghi a quelli della trascrizione per l’informazione e poi per la lettura. Ma la natura stessa del mezzo, che (a meno che lo storico, che pur ne condivide alcune caratteristiche, non si appiattisca nel poliziotto!) è comunque più spettacolare e presume, già da parte del testimone, l’esistenza di un pubblico, accentua la necessità di adottare un criterio estetico. Più che nella fonte orale classica, allora, essere minuziosamente fedeli alla fonte, salvando tutto, tutta l’informazione rilevante, è un modo, alla fine, per tradirla. Un esempio: alcuni tagli assolutamente necessari per la fruibilità del materiale, rendono necessario scartare qualche breve pezzo che conserverebbe un certo suo valore informativo. Un altro esempio: le voci sussurrate, le parole pronunciate troppo velocemente possono essere salvati per una trascrizione leggibile, non passano alcuna informazione se salvate al video. 8 L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria., Firenze, La Nuova Italia, 1988. Una possibile soluzione, che mi pare praticabile in generale, ma ancor più per un eventuale patrimonio di testimonianze di donne, una storia dei movimenti femminili ed una “storia di genere”, può essere quella di assumere queste caratteristiche di costruzione soggettiva della fonte, già tipiche delle fonti orali, ed esaltarle: essere fedeli alla soggettività dell’intervistato/a significherebbe in tal caso non solo rispettare l’intelligenza e le emozioni, sapendo che nessuno si presta e riesce di fatto a stare sotto l’occhio della videocamera senza questa premessa, ma attivare i testimoni in modo tale che ciascuno di essi/e accetti di divenire attore/attrice di se stesso/a. E’ proprio da questa accettazione dello stare al gioco, dell’essere, nel senso narrativo, attori di se stessi, costruttori di una propria vita veramente vissuta, ma anche liberamente raccontata, in quel preciso momento, con alcune precise sollecitazioni, che può configurarsi ed esprimersi il “tema forte” della vita del testimone. Il presente, con l’esperienza acquisita, l’interazione che si crea, carica di senso la rievocazione; la memoria, in quel preciso momento in cui avviene l’intervista, cerca i rivoli, i canali possibili da percorrere per ritrovare e costruire ciò che è stato. Il canovaccio, lo scenario che il narrante sceglie per sé sono allora, come è stato già osservato nella metodologia delle fonti orali, ma ancor più forse per quelle audiovisive, ciò che più fedelmente ci parla.