Osservatorio sulla giustizia civile n. 4 a cura di Maria Concetta Rametta 3 febbraio 2009 1. Corte di Cassazione, sezioni unite civili, n. 1576 del 22 gennaio 2009, in tema di fondazioni bancarie ed agevolazioni fiscali. Le fondazioni bancarie sono gli enti nati dal processo di ristrutturazione degli istituti di credito pubblico, avviato con la c.d. riforma Amato (legge 218/90) e completato con la c.d. riforma Ciampi (d. lgs. 153/99), che ha dato luogo allo sdoppiamento degli enti originari in società per azioni, alle quali sono state attribuite le aziende bancarie, e in fondazioni, definite come enti conferenti il capitale, in cambio del quale detengono e conservano la titolarità delle partecipazioni nelle spa. La riforma Amato aveva lo scopo di rendere le banche italiane maggiormente competitive nel sistema comunitario ed in questo contesto il ruolo delle fondazioni era, in primo luogo, quello di garantire un equilibrio tra il controllo pubblico della banca e la gestione privata delle società; inoltre, secondo quanto statuito dall’art. 12 del d. lgs 356/90 esse dovevano perseguire scopi di pubblico interesse ed utilità sociale. La legge 218/90 aveva, tuttavia, attuato solo una privatizzazione formale delle società bancarie, tant’è vero che il d. lgs 356/90 riteneva necessaria l’autorizzazione del Ministero del Tesoro nel caso in cui la fondazione volesse vendere la sua partecipazione. Solo con la riforma Ciampi si verifica un’effettiva separazione tra la fondazione e la società con la dismissione completa delle partecipazioni detenute nella spa e la trasformazione della fondazione in persona giuridica privata senza scopo di lucro, con l’obiettivo di perseguire scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico. La giurisprudenza ha da sempre discusso sulla possibilità di estendere alle fondazioni bancarie l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste dall’art. 6 del DPR 601/1973 e dall’art. 10 bis della legge 1745/62, sia nel sistema antecedente il d.lgs. 153/99, che successivamente ad esso. Preliminare all’analisi della sentenza in oggetto è l’esame delle norme tributarie sopra menzionate e dell’evoluzione giurisprudenziale registratasi sul tema. L’art. 6 del DPR 601/73 dispone una riduzione della metà dell’IRPEG a favore degli enti ed istituti di assistenza sociale, società di mutuo soccorso, enti di beneficenza e assistenza, accademie, fondazioni ed associazioni storiche, letterarie, scientifiche aventi scopi esclusivamente culturali nonché degli enti il cui fine è equiparata per legge ai fini di beneficenza o di istruzione. L’art. 10 bis della legge 1745/62 esonera dalla ritenuta i dividendi spettanti a persone giuridiche pubbliche o a fondazioni che hanno esclusivamente scopi di beneficenza, educazione ed assistenza. L’orientamento giurisprudenziale prevalente estendeva le agevolazioni fiscali alle fondazioni bancarie sulla base della natura strumentale dell’attività di amministrazione della partecipazione societaria, necessaria al fine di raccogliere le rendite per realizzare gli scopi statutari di utilità sociale, e sulla base di quanto disposto dall’art. 12 del d. lgs 153/99. Tale norma, contenuta nella riforma Ciampi, riteneva applicabile l’art. 6 del dpr 601/73 alle fondazioni che, avendo adeguato i propri statuti a quanto disposto nel d. lgs. 153/99, perseguivano scopi di utilità sociale in modo prevalente e non avevano più natura di enti commerciali. La giurisprudenza sostenendo che essa avesse natura interpretativa e non innovativa, ritenne che fosse applicabile in modo retroattivo alle fondazioni già esistenti ed ai pregressi anni d’imposta. A fronte di tale impostazione si registrava un orientamento negativo, fondato sul fatto che le utilità sociali venivano perseguite dalle fondazioni non in modo esclusivo, come richiesto dalla norma, e sulla natura commerciale dell’attività di amministrazione delle partecipazioni nella società bancaria. A causa del contrasto la questione venne rimessa alle sezioni unite che si pronunciarono con la sentenza 27619/06, dopo aver effettuato un rinvio pregiudiziale alla corte di Giustizia europea con il quale si chiedeva se le fondazioni bancarie costituissero soggetti ai quali poter applicare le norme sulla concorrenza e sugli aiuti di stato, dato che, in caso di soluzione affermativa, l’applicazione delle agevolazioni fiscali alle fondazioni bancarie sarebbe risultata in contrasto con il trattato europeo. La Corte di Giustizia, considerando che per impresa deve intendersi qualsiasi ente che eserciti un’attività economica a prescindere dal suo status economico e dalle modalità di finanziamento e che per “attività economica” deve intendersi qualsiasi attività che consista nell’offrire beni e servizi o direttamente sul mercato o tramite il controllo di un altro operatore che fornisce al mercato tali beni, conclude ritenendo che non svolge attività economica la fondazione che possiede partecipazioni che attribuiscano solo i diritti connessi alla qualità di azionista; al contrario, deve essere considerata impresa (sottoposta pertanto alla disciplina sugli aiuti di stato) la fondazione che, attraverso le azioni possedute, partecipi alla gestione dell’azienda bancaria. Spetta poi al giudice nazionale verificare in concreto alla luce dei principi affermati se tali enti possano essere qualificati come imprese e se l’agevolazione fiscale di cui si discute possa essere considerata come un aiuto di stato. Le sezioni unite con la decisione del 2006 stabiliscono che, al fine di godere dell’esenzione tributaria, il soggetto richiedente deve dimostrare l’esclusivo perseguimento di fini di utilità sociale ed il fatto che l’attività di amministrazione delle partecipazioni azionarie nelle spa titolari dell’azienda bancaria abbia natura strumentale rispetto al conseguimento delle proprie risorse economiche. In tale ottica non rilevano le trasformazioni subite da tali enti con le leggi 218 e 356 del 1990, dato che esse prevedevano comunque un collegamento genetico tra le fondazioni e le società, ma può rilevare la stipulazione di patti parasociali dai quali si desuma che la fondazione ha natura di impresa avendo il potere di controllare e gestire l’attività bancaria. In questo caso l’art. 10 bis della legge del 1962 dovrà essere disapplicato i quanto l’agevolazione fiscale in esso prevista costituisce un aiuto di stato. La successiva giurisprudenza si è attestata nel senso indicato dalle sezioni unite del 2006: in particolare, si è precisato che la dimostrazione del perseguimento degli scopi di utilità sociale è posta a carico del soggetto che richiede l’agevolazione e che non si tratta di una prova impossibile, potendo essere data attraverso la produzione dei libri contabili o idonee certificazioni del collegio dei revisori; che la descritta verifica postula un’indagine sull’esercizio in concreto dell’attività d’impresa e presuppone che il relativo tema sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole del processo tributario, cioè mediante la proposizione della questione nel ricorso introduttivo; che il carattere di impresa commerciale è escluso dalla previsione statutaria o legale dell’esclusività del fine di utilità sociale e dall’accertamento dell’impossibilità di influenzare la gestione della società. La giurisprudenza ha, inoltre, escluso sostanzialmente la necessità del rinvio al giudice di merito per l’esame della sussistenza dei presupposti di fatto richiesti dalle norme agevolative ritenendo che se il tema della prova del perseguimento di tali finalità non è stato prospettato con il ricorso introduttivo non può più essere introdotto, rendendo inutile il rinvio. Da ciò è sorta la necessità della pronuncia in oggetto con la quale le sezioni unite confermano l’indirizzo sostenuto nel 2006. Già dalla rubrica normativa e, dunque, dall’interpretazione letterale che l’art. 12 delle preleggi pone come primo criterio interpretativo, si evince che la riforma Amato non aveva lo scopo di riformare il mondo degli enti non profit, ma quello di ristrutturare il sistema creditizio. Essa ha creato nel nostro ordinamento un ente nuovo di difficile classificazione ma che sicuramente non ha nulla a che vedere con gli enti di beneficenza di cui parlano gli art. 6 del dpr del 73 e 10 bis della legge del 1962; pertanto, sussiste una presunzione legale secondo la quale le fondazioni svolgono attività bancaria, che può essere superata solo con la dimostrazione della realizzazione di scopi sociali considerati prevalenti su quelli bancari. Nella riforma Amato il fine principale del legislatore era quello di assicurare alle fondazioni il controllo della gestione, considerando del tutto secondari i fini di utilità sociale. Il divieto della gestione diretta dell’azienda bancaria costituiva un limite strutturale ed un’ovvia conseguenza della riforma che voleva una scissione tra l’ente conferente e l’ente gestore; tuttavia, ciò non escludeva che in realtà il potere di direzione fosse nelle mani degli enti conferenti, tant’è vero che anche la Corte di Giusitizia ha affermato che la fondazione serviva ad assicurare la continuità operativa tra essa e la banca. La Corte di Cassazione ricorda ancora come per la giurisprudenza prevalente la detenzione di partecipazioni, che si traduce in un vero e proprio controllo, costituisce lo svolgimento di un’attività di impresa rapportabile al modello della holding. Alla stregua di tali considerazioni è evidente che le fondazioni bancarie descritte dalla riforma Amato non possono essere assolutamente assimilate agli enti di cui parlano le norme tributarie che prevedono le agevolazioni fiscali, né alle persone giuridiche che perseguono esclusivamente fini sociali, né agli enti elencati dall’art. 6 che sono caratterizzati da una delineata specializzazione e che non hanno scopo di lucro. Da ciò si deve escludere qualsiasi applicazione analogica o estensiva della norma: la prima è esclusa dall’eccezionalità della previsione, la seconda è scartata dalla stessa norma che non ammette la sua applicabilità al di là dei casi previsti dal legislatore. L’inapplicabilità dell’art. 10 bis discende, invece, dal fatto che tale disposizione trova spazio solo se lo scopo sociale è perseguito in via esclusiva. La Suprema Corte, infine, esclude la fondatezza dell’argomento, utilizzato dalla giurisprudenza favorevole in assoluto all’estensione delle agevolazioni fiscali, relativo alla natura interpretativa e, pertanto, retroattiva dell’art. 12 del d. Lgs 153/99. La riforma Ciampi ha trasformato le fondazioni bancarie in enti con personalità giuridica di diritto privato ed ha stabilito che esse devono dismettere le partecipazioni nelle società bancarie e possono esercitare imprese solo se strumentali ai fini statutari. L’art. 12 estende le agevolazioni fiscali solo agli enti che si adeguano a quanto previsto dalla normativa e che perseguano prevalentemente fini sociali ed opera solo dal momento della entrata in vigore della riforma e non retroattivamente 2. Corte di Cassazione, sezioni unite civili, n. 553 del 14 gennaio 2009, in tema di caparra confirmatoria. Con questa importantissima sentenza la Suprema Corte ha finalmente risolto una questione che ha alimentato il dibattito giurisprudenziale in questi ultimi anni in ordine al coordinamento dei rimedi descritti dall’art. 1385 c.c., in relazione alla caparra confirmatoria. Essa costituisce una somma di denaro o una quantità di cose fungibili che viene data al momento della conclusione del contratto da una delle parti e la cui funzione, a seconda della tesi cui si aderisce, può essere probatoria, sanzionatoria dell’inadempimento, o determinativa in modo forfettario del risarcimento del danno. L’art. 1385 stabilisce che, in caso di adempimento, la caparra va restituita oppure imputata alla prestazione dovuta ed, al contrario, in caso di inadempimento se è la parte che ha dato la caparra a non aver ottemperato all’impegno, l’altra potrà tenerla e recedere, se invece è inadempiente colui che l’ha ricevuta deve restituire il doppio della somma, salvo che l’altro voglia chiedere l’esecuzione o la risoluzione del contratto, insieme al risarcimento. Si ritiene pacificamente che i due rimedi previsti dalla norma per l’ipotesi dell’inadempimento del contratto, sono alternativi e non cumulabili e che le regole risarcitorie sono differenti a seconda del rimedio esperito dalla parte adempiente, nel senso che qualora decida di recedere e tenere la caparra (o chiedere il doppio) essa stessa costituirà il risarcimento del danno; se invece, chiede la risoluzione o l’esecuzione la norma prevede che il risarcimento è regolato dalle norme generali e, pertanto, il danno dovrà essere provato. La questione alla base del contrasto giurisprudenziale e proposta all’attenzione delle sezioni unite dall’ordinanza di rimessione riguarda, in particolare, la possibilità, per la parte che ha chiesto in primo grado la risoluzione ed il risarcimento del danno, di chiedere in secondo grado, avendo ottenuto solo la prima, il recesso e la ritenzione della caparra. Le sezioni unite, tuttavia, dopo aver esaminato le posizioni giurisprudenziali esistenti su tale problematica e su altre ad essa connesse, rilevano che, in realtà, le questioni da esaminare sono più articolate e riguardano: 1) i rapporti tra l’azione risolutoria e risarcitoria e quelli tra il recesso e la ritenzione della caparra; 2) il rapporto tra il recesso e l’azione di risoluzione (distinguendo i casi in cui questa abbia natura costitutiva o dichiarativa); 3) i rapporti tra la risoluzione di diritto, la rinuncia all’effetto risolutorio ed il recesso; 4) i rapporti tra l’azione di risarcimento e l’istanza di ritenzione della caparra; 6) la possibilità di ritenere la caparra, in assenza di azione risarcitoria, a prescindere dal rimedio caducatorio prescelto. Con riferimento alla prima questione, una prima impostazione ritiene che la parte che ha chiesto di recedere ben può modificare la sua istanza domandando la risoluzione ed il risarcimento del danno, poichè non si tratterebbe di una domanda nuova, e pertanto preclusa ai sensi dell’art. 345 cpc, ma di una perdurante facoltà, oltretutto di minore portata rispetto alla istanza di risoluzione, di cui la parte continua ad essere titolare. In tale ottica, infatti, una domanda è considerata nuova se tende ad alterare, ampliandoli, i termini della controversia o a modificare la domanda originaria ed il suo fatto costitutivo, in modo da non poterla più assorbire; pertanto, poiché sia la domanda di recesso che quella di risoluzione tendono allo scioglimento dal contratto e discendono entrambe dall’inadempimento, si afferma che la domanda di recesso, essendo più limitata rispetto a quella di risoluzione, non altera i presupposti della domanda originaria e non costituisce una istanza nuova. Secondo la tesi contraria alla fungibilità dei due rimedi le domande di recesso da un lato e di risoluzione e risarcimento dall’altro sono diverse poiché hanno una causa petendi differente; per tale motivo, la domanda di risoluzione proposta in appello in sostituzione dell’istanza di recesso è una domanda del tutto nuova, preclusa ai sensi dell’art. 345 cpc. La Suprema Corte passa, quindi, in rassegna le decisioni relative alle ipotesi in cui si verifica una risoluzione di diritto, rispetto alla quale la sentenza ha natura dichiarativa. Alcune sentenze, pur sostenendo l’impraticabilità del recesso una volta avutasi la risoluzione ex lege, a seguito dello spirare del termine contenuto nella diffida ad adempiere, affermano, solo però con riferimento all’istanza risarcitoria, che l’esercizio dei diritti di cui al secondo comma dell’art. 1385, costituisce un istanza di risarcimento dei danni più limitata rispetto a quella esercitata secondo le regole generali. Una pronuncia del 1997, esaminando un’ipotesi in cui vi era stata sì la diffida ad adempiere (presupposto della risoluzione di diritto), ma in cui la parte aveva poi rinunciato ad essa con comportamenti concludenti, ha ritenuto possibile esercitare in queste ipotesi il recesso. Avverso tale posizione si è schierata unanimemente la dottrina, secondo la quale non è possibile rinunciare all’effetto risolutorio derivante dalla risoluzione di diritto: così come, ai sensi dell’art. 1453, la parte che chiede la risoluzione non può poi chiedere l’adempimento, allo stesso modo non si può inviare una diffida ad adempiere e, dopo lo spirare del termine, decidere di recedere da un contratto che ormai è stato risolto. Infine, altre pronunce, muovendo dalla funzione risarcitoria della caparra, hanno ritenuto ammissibile la domanda di recesso successiva ad una risoluzione di diritto già verificatasi, nel caso in cui però non era stato chiesto il risarcimento . Con riferimento ai rapporti tra la caparra ed il risarcimento dei danni, la giurisprudenza si divide tra chi ritiene che non si può domandare la caparra a titolo di risarcimento se si chiede la risoluzione, dovendosi provare il danno secondo le regole generali, e chi invece afferma che, anche nel caso di istanza di risoluzione, la caparra può avere la funzione di risarcire il minimum. Le sezioni unite, al fine di dare una soluzione della questioni indicate, ritengono necessario ricostruire la nascita e la ratio della caparra confirmatoria, inquadrandola nell’ottica del principio del giusto processo, il quale deve essere evitabile, celere e deve realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti secondo il canone della buona fede. La suprema corte, dopo aver evidenziato che il termine “caparra” viene usato nella norma sia per indicare il negozio accessorio al contratto con cui si stabilisce la dazione di essa (“a titolo di caparra), sia il suo oggetto (restituzione della caparra), con riferimento alla funzione dell’istituto sottolinea il fatto che le posizioni dottrinali e giurisprudenziali contrastanti sono dovute alla ecletticità della caparra, la quale, esclusa soltanto la funzione probatoria, è volta sia a garantire l’esecuzione del contratto, sia a svolgere una funzione di autotutela, evitando il ricorso al giudice, sia una funzione di liquidazione forfettaria, convenzionale e preventiva del danno. La descritta variabilità della finalità distingue, inoltre, la caparra confirmatoria da altre figure similari come la caparra penitenziale, che costituisce il corrispettivo del diritto di recesso, e dalla clausola penale, a differenza della quale la parte adempiente può decidere di chiedere il risarcimento del danno integrale secondo le regole generali, pur in assenza di uno specifico patto in tal senso. Nell’analizzare la questione principale tra quelle elencate sopra, ovverossia il rapporto tra la risoluzione ed il recesso, la cassazione evidenzia che il problema ha origini antiche. Infatti, già sotto la vigenza del codice civile del 1865, poiché era prevista a tutela della parte adempiente soltanto la possibilità di recedere o chiedere l’esecuzione del contratto, si discuteva sulla possibilità di domandare la risoluzione ed il risarcimento integrale del danno. Soltanto con il codice del 1942 il legislatore attribuisce tale facoltà, specificando nella relazione al re che la caparra serve a deflazionare il contenzioso, assicurando la rapidità nella composizione delle liti nel caso in cui la parte adempiente decida di recedere e ritenere la caparra, o a garantire il risarcimento dei danni qualora si scelga di adire le vie giudiziali chiedendo l’esecuzione o la risoluzione. Nell’immediatezza dell’emanazione del codice la dottrina, pur ritenendo pacificamente che i due rimedi fossero alternativi, si era divisa tra chi sosteneva che, nel caso in cui si fosse chiesta la risoluzione e non si fosse dimostrato il danno, nessun risarcimento poteva essere dato, e chi invece, temperava la rigidità dell’alternatività affermando che, in mancanza di prova del danno poteva essere attribuita in ogni caso la somma oggetto della caparra, che costituiva, pertanto, il minimum risarcibile. Negli anni sessanta comincia ad emergere l’idea secondo la quale, poiché il legislatore definisce in termini di recesso una serie di atti unilaterali diversificati tra loro sia per la causa che per gli effetti, il recesso non è una categoria giuridica autonoma, ma costituisce una diversa modalità di risoluzione del contratto e, più in particolare, di una ipotesi di risoluzione di diritto. Il recesso viene, dunque, definito come una forma di risoluzione stragiudiziale delle controversie che ha una funzione di semplificazione probatoria e che presuppone un inadempimento avente gli stessi caratteri dell’inadempimento che comporta la risoluzione giudiziale, di natura costitutiva. In quel periodo l’orientamento dominante riteneva, pertanto, possibile chiedere il recesso anche nel caso in cui fosse stata già richiesta la risoluzione, ciò fino al momento delle precisazione delle conclusioni. Solo recentemente l’impostazione consolidata viene scossa da decisioni minoritarie che, pur condividendo il principio per il quale il recesso costituisce un’istanza di contenuto minore rispetto alla risoluzione ed ha la stessa causa petendi, tuttavia è una domanda nuova e, quindi, preclusa, essendo differente sia il petitum immediato che quello mediato. Il primo è diverso perché trattandosi di una risoluzione stragiudiziale, la sentenza che la accerta ha natura dichiarativa, a differenza di quella costitutiva relativa alla risoluzione giudiziale; il petitum mediato è diverso perché la parte inadempiente con la sentenza costitutiva di risoluzione sopporta anche delle modificazioni nella sua sfera giuridica, mentre nel caso del recesso prende solo atto dell’accertamento giudiziale della verifica dei suoi presupposti. Inoltre, con riferimento alla possibilità di considerare la caparra come un minimum di risarcimento sempre attribuibile, anche autori recenti hanno condiviso tale idea e, muovendo dalla funzione risarcitoria della caparra, hanno sostenuto che il legislatore ha previsto la possibilità di chiedere il risarcimento integrale al fine di tutelare maggiormente il contraente adempiente che potrà quindi ottenere, oltre alla caparra, anche il risarcimento integrale del danno, se riesce a provarlo. In quest’ottica, pertanto, l’alternativa non è tra la risoluzione ed il recesso, ma tra i due rimedi risarcitori, autonomi rispetto agli strumenti dell’adempimento e della risoluzione. Andando ad esaminare le conclusioni della corte, si può iniziare col dire che le sezioni unite condividono la ricostruzione del recesso, previsto dall’art. 1385, come una forma di risoluzione stragiudiziale, avente come presupposto lo stesso tipo di inadempimento (colpevole e grave) che rende possibile chiedere la risoluzione giudiziale. L’inadempimento deve essere, quindi, imputabile, innanzitutto, perchè avendo, tra l’altro, la caparra funzione risarcitoria, in mancanza della colpa del debitore, il danno non può essere risarcito; in secondo luogo, perché se mancasse l’imputabilità, il contratto verrebbe risolto per impossibilità sopravvenuta, e ciò avrebbe l’effetto di caducare non solo il contratto principale, ma anche il negozio accessorio istitutivo della caparra. L’inadempimento, inoltre, deve essere grave perché altrimenti si darebbe alla parte la possibilità di recedere dal vincolo per un suo capriccio e ciò, porterebbe, anziché a rafforzare il vincolo contrattuale, ad indebolirlo. Se, dunque, il recesso è una modalità alternativa di risoluzione, la questione principale da risolvere diventa l’individuazione del rapporto tra l’azione risarcitoria e quella di ritenzione della caparra: infatti, se la parte anziché recedere decide di chiedere la risoluzione è spinto soltanto dal volere ottenere un risarcimento maggiore rispetto alla caparra, dato che in entrambi i casi il contratto verrà sciolto; ciò significa che il soggetto non sceglie tra l’azione di risoluzione ed il recesso, ma tra tenere la somma oggetto della caparra e chiedere il risarcimento integrale del danno. Le due azioni, però, secondo le sezioni unite sono morfologicamente incompatibili. Infatti, l’art. 1385, terzo comma, non prevede la possibilità di chiedere il maggiore danno, ma il risarcimento integrale del danno, secondo le regole generali richiamate dalla stessa norma e che non possono essere disapplicate. Il danno va, pertanto, provato ed il risarcimento è differente dalla caparra, la cui ritenzione viene, infatti, domandata perché la parte, anziché rischiare di non ottenere nulla in giudizio, qualora non riesca a dimostrare il danno subito, decide di accontentarsi di una somma forfettaria, ma di rapida acquisizione. Pertanto, opinando in senso contrario e consentendo alla parte di modificare le sue pretese, si darebbe la possibilità di eludere le norme in tema di onere probatorio, di realizzare abusi nelle strategie processuali e si favorirebbero liti temerarie, in contrasto con l’art. 111 Cost., con spreco di risorse economiche, necessarie al giudice per realizzare tutti gli accertamenti del caso. Tale tesi risulta, altresì, confermata dal confronto con la disciplina relativa alla clausola penale, nella quale si stabilisce che il risarcimento del danno ulteriore può essere richiesto solo se sussiste un patto in tal senso. Alla luce di quanto affermato si deve, inoltre, escludere la possibilità che la caparra possa costituire un minimum risarcibile, da attribuire anche qualora si chieda la risoluzione, non avendo senso chiedere, insieme alla risoluzione, come risarcimento ,soltanto la caparra, quando è possibile recedere più velocemente dal contratto, trattenendo direttamente la caparra. Infine, le sezioni unite escludono la possibilità che il contraente possa rinunciare all’effetto risolutorio discendente da una risoluzione ex lege, verificandosi esso in modo automatico allo spirare del termine indicato nella diffida, ai sensi di quanto disposto nell’art. 1454; opinando in senso contrario, la disponibilità dell’effetto opererebbe sine die, mancando una norma limitativa, in contrasto con gli altri meccanismi di risoluzione automatica e con l’affidamento nel frattempo creatosi in capo al debitore. In conclusione, le sezioni unite affermano i seguenti principi: 1) è inammissibile modificare la domanda di risoluzione in istanza di recesso, perché verrebbe vanificata la funzione della caparra di determinare in modo forfettario il risarcimento del danno ed evitare l’instaurarsi di un giudizio; 2) è inammissibile esercitare il recesso dopo aver inviato la diffida ad adempiere, perché il contratto è già caducato, essendosi verificata una risoluzione di diritto, e la domanda avrebbe il solo scopo di ampliare l’istanza risarcitoria, il che come detto prima costituisce una pretesa impossibile; 3) è inammissibile la rinuncia all’effetto risolutorio; 4) l’istanza di recesso è incompatibile con quella di risarcimento; 5)la domanda di ritenzione della caparra può essere presentata a prescindere dal nomen iuris utilizzato nell’introdurre la domanda caducatoria: se definita come risoluzione, il giudice dovrà, interpretando e qualificando la domanda, convertirla in domanda di recesso. 3. Corte di cassazione, sezioni unite civili, n. 30055 e 30057 del 23 dicembre 2008, in tema di dividend washing ed abuso del diritto. Con queste due sentenze gemelle la Suprema Corte ha risolto il contrasto relativo alla possibilità o meno di applicare, con riferimento alla disciplina precedente all'entrata in vigore dell'art. 14, comma 6-bis, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (introdotto dall’art. 7 bis del d.l.372/92), le agevolazioni fiscali nelle operazioni di "dividend washing" (sentenza n. 30055) e "dividend stripping” (sentenza n. 30057). Il dividend stripping consiste nella costituzione, a favore di una società residente nel territorio dello Stato, di un diritto di usufrutto su azioni o quote di una società italiana possedute da un soggetto non residente, al fine di consentire, da un lato, al cedente la trasformazione del reddito di partecipazione in reddito di negoziazione, al quale non si applica la ritenuta sui dividendi, e dall’altro, alla cessionaria di percepire i dividendi per i quali sono previsti vari benefici fiscali. Il dividend washing consiste, invece, nella stipula di un contratto di vendita, con il quale un fondo comune d’investimento oppure una SICAV cede ad una società di capitali una parte delle sue azioni, contestualmente ad un contratto di acquisto delle stesse azioni da parte del primo venditore, successivamente all’acquisizione dei dividendi da parte della società. Lo scopo dell’operazione consiste sia nell’usufruire del trattamento fiscale agevolato sui dividendi, riservato alle società di capitali, sia nel consentire all’acquirente di diminuire le componenti attive del reddito d’impresa, considerando la minusvalenza risultante dalla differenza del prezzo dell’originaria vendita e di quello della seconda cessione. La questione oggetto del contrasto giurisprudenziale rileva, come detto, soltanto per il periodo antecedente all’entrata in vigore del d.l. 372/92, che ha escluso espressamente la possibilità di godere di un credito d’imposta in relazione a tali operazioni. Secondo un primo orientamento, poiché mancava una disposizione normativa che lo vietasse, il trattamento fiscale più favorevole era applicabile sia per il dividend washing che per il dividend stripping; secondo, invece, l’impostazione più recente accolta dalla decisione della Cassazione n. 20398/05 in ordine al dividend washing, le agevolazioni fiscali non vanno riconosciute in ragione della nullità dei due contratti, derivante dalla mancanza della causa negoziale. La citata pronuncia aderisce al primo orientamento solo nel punto in cui sostiene di non poter considerare quanto statuito nell’art. 37 del dpr 600/73 come una clausola generale antielusiva, poichè esso fa riferimento a fattispecie civilistiche, quali la simulazione e l’interposizione fittizia, che non sempre ricorrono, proprio come nel caso del dividend washing; tuttavia, anche nel caso in cui si volesse ritenere che l’art. 37 sia una norma generale, il principio, affermato nel passato, secondo il quale prima dell’introduzione di tale disposizione, non esisteva una clausola generale antielusiva, deve essere rivisto alla luce della giurisprudenza comunitaria. Questa infatti, ha sostenuto, anche se in settori diversi da quello fiscale, che le norme comunitarie non possono essere utilizzate in modo abusivo. Nonostante, quindi, la mancanza di una regola specifica del settore fiscale che reprima l’abuso del diritto, quanto detto dalla giurisprudenza comunitaria in altri settori evidenzia in ogni caso l’esistenza di un principio tendenziale che deve spingere l’interprete a cercare degli strumenti nell’ordinamento nazionale al fine di reprimere tali fenomeni. Abbandonata la strada volta a fondare un eventuale orientamento negativo sulla mancanza di una norma di divieto, la corte di cassazione con le sentenze in oggetto sostiene la soluzione negativa ritenendo che i contratti sono inefficaci nei confronti del fisco per mancanza di causa. Infatti, sulla base del fatto che, trattandosi di un collegamento negoziale, la causa va cercata nell’intera operazione, e non con riferimento ai singoli negozi, la suprema corte evidenzia che il fine che sorregge l’operazione di dividend washing non è uno scopo economico, ma è il fine di conseguire un risparmio d’imposta, e ciò costituisce un mero motivo, non idoneo pertanto a fondare la causa negoziale. Ricordando come sia stato più volte affermata, in relazione ad altri settori, l’esistenza di un divieto generale di abuso del diritto (si veda da ultimo la sentenza, resa a sezioni unite, n. 23726/07), le sezioni unite sostengono l’inapplicabilità delle agevolazioni fiscali alle operazioni in esame ritenendo esistente un principio generale antielusivo e reputando che la fonte di esso, per i tributi non armonizzati, non risiede nella giurisprudenza comunitaria, ma nei principi costituzionali posti in tema di tributi dall’art. 53, e cioè nei principi della capacità contributiva e della progressività nell’imposizione. Deriva da tale disposizione che il contribuente non può utilizzare in modo distorto a suo favore le norme che prevedono benefici fiscali, anche se così agendo non violi specificatamente una disposizione legislativa, salvo che vi siano delle ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino gli atti, ragioni che però non possono consistere nel mero risparmio fiscale. La sopravvenienza di norme che sanciscono espressamente il principio antielusivo non possono essere richiamate per contrastare la tesi descritta in quanto esse non fanno che confermare l’esistenza della regola generale. Pertanto, l’introduzione dell’art. 14, comma 6-bis, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che riduce la convenienza fiscale delle operazioni di dividend washing e di dividend stripping, conferma l’illiceità delle operazioni poste in essere anche precedentemente alla sua entrata in vigore, in quanto volte ad eludere le norme tributarie. Ancora, contro tale principio non si può richiamare neanche la riserva di legge stabilita dall’art. 23 Cost., poiché riconoscere l’esistenza del generale divieto di abuso del diritto nel settore fiscale non significa imporre al contribuente altri obblighi tributari che non derivino dalla legge, ma escludere l’efficacia degli atti posti in essere al solo fine di eludere la normativa fiscale. Infine, la Cassazione, muovendo dal principio secondo il quale sono rilevabili d’ufficio le eccezioni poste a vantaggio della PA in una materia non disponibile, qual è quella tributaria, afferma che l’inopponibilità dell’operazione nei confronti dell’amministrazione finanziaria può essere rilevata d’ufficio dal giudice. In relazione a tale punto, la suprema corte esamina, altresì, i caratteri del giudizio tributario sottolineando che i poteri d’indagine del giudice in tale processo sono limitati dalla pretesa fatta valere dall’amministrazione finanziaria, la quale secondo i principi generali, va provata dall’attore. Tuttavia, le sezioni unite precisano che se ciò che si chiede in giudizio è il disconoscimento di una minusvalenza, il tema relativo all’esistenza e alla validità dei negozi dai quali essa ha tratto origine, è acquisito al processo per effetto dell’allegazione del contribuente, che a sua volta deve provare l’esistenza dei presupposti e l’applicazione del beneficio fiscale di cui richiede l’applicazione. Pertanto, se l’oggetto della domanda è costituita dalla pretesa della PA e la questione della validità ed opponibilità dei contratti entra nel giudizio come contenuto dell’eccezione del contribuente, il giudice può d’ufficio rilevare le cause di invalidità ed inopponibilità del contratto, salvo che ciò non sia precluso, nella fase di impugnazione, dal giudicato interno eventualmente già formatosi sul punto o, nel giudizio di legittimità, dalla necessità di svolgere indagini di fatto. 5. Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 29832 del 19 dicembre 2008, in tema di danno da demansionamento. Nell’ambito del rapporto lavorativo l’esecuzione della prestazione da parte del lavoratore costituisce non solo un obbligo, ma anche un diritto autonomamente tutelabile. Lo svolgimento dell’attività lavorativa costituisce, infatti, uno degli strumenti attraverso i quali ciascun soggetto esplica la propria personalità ed accresce la propria professionalità. Si tratta, quindi, di un diritto soggettivo cui corrisponde l’obbligo del datore non solo di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto, ma anche di non lasciarlo in totale inattività. A fondamento di ciò, l’art. 2103 c.c. stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto, a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza diminuzione della retribuzione. Qualora al lavoratore vengano assegnate mansioni superiori, egli non solo avrà diritto alla retribuzione corrispondente, ma l’assegnazione diventerà definitiva, salvo il caso in cui egli abbia sostituito un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, se si protrae per più di tre mesi; occorre tuttavia, considerare che per raggiungere tale soglia l’adibizione non necessariamente deve essere fatta per un periodo continuativo, ma i tre mesi possono essere anche raggiunti sommando singoli periodi più brevi e distanziati tra loro, poiché tali modalità esprimono un implicito intento elusivo della norma da parte del datore. Nel caso in cui il divieto posto dalla norma citata venga violato, il lavoratore potrà chiedere sia la condanna del datore all’assegnazione alle mansioni per le quali il soggetto era stato assunto, sia il risarcimento del danno, che viene definito “danno da demansionamento”. Con la pronuncia in oggetto la Corte di Cassazione ribadisce alcuni principi sul tema. In primo luogo, afferma che, essendo l’art. 2103 una norma imperativa, la sua violazione comporta la nullità del provvedimento datoriale e la condanna all’adempimento in forma specifica, costituito dal ripristino dello status quo ante. Il lavoratore può chiedere, pertanto, al giudice di essere riassegnato alle proprie mansioni e anche se, in linea di massima, non può rifiutarsi di adempiere al provvedimento datoriale, potrà sempre invocare l’art. 1460 c.c.; tuttavia, il giudice deve valutare, alla luce di una comparazione dei comportamenti delle parti con riferimento non solo alle obbligazioni principali, ma anche a quelle collaterali, se il rifiuto di adempiere come legittima reazione al comportamento del datore sia logico, ragionevole, trovi giustificazione nella gravità dell’inadempimento del datore e non contrasti con i doveri di lealtà e correttezza. Al contrario, non è possibile invocare la norma citata nel caso in cui l’inadempimento riguardi un’obbligazione non incidente sulle esigenze vitali dal lavoratore. In secondo luogo, la Corte affronta il tema della risarcibilità del danno morale alla luce dei principi statuiti dalle sezioni unite con la recente decisione n. 26972/08, che ha risolto in senso negativo il contrasto in ordine all’autonomia della categoria del danno esistenziale. Com’è noto, le sentenze della Corte di Cassazione n. 8827 e 8828 del 2003 hanno ricondotto il risarcimento del danno al sistema bipolare disegnato dal codice, proponendo una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059, a seguito della quale l’inciso contenuto nella norma, secondo il quale il danno non patrimoniale va risarcito “nei casi determinati dalla legge”, va inteso in senso ampio facendo riferimento non solo all’art. 185 del codice penale, ma altresì all’art. 2 della costituzione, configurandosi, pertanto, un danno non patrimoniale risarcibile anche nelle ipotesi in cui venga leso un diritto inviolabile della persona. All’interno della categoria del danno non patrimoniale così inteso, il riferimento operato negli anni alle varie figure di danno biologico, esistenziale, estetico etc., ha valore puramente descrittivo, poichè tali figure non costituiscono autonome categorie di danno, delle quali il giudice deve tenere conto ai fini della determinazione del quantum del risarcimento, dovendo egli al contrario fare attenzione nel valutare tali elementi per evitare duplicazioni risarcitorie. Con riferimento al risarcimento del danno morale che, nella visione tradizionale dell’art. 2059, era limitato ai soli casi in cui il fatto costituisse reato, la suprema corte sostiene, alla luce della nuova interpretazione della norma, che esso va esteso ai casi in cui il danno derivi dalla lesione di un interesse della persona costituzionalmente garantito. Infine, la suprema corte affronta il tema, già esaminato dalle sezioni unite con la pronuncia n. 6572/06, dell’individuazione dell’onere della prova incombente sul lavoratore nel caso in cui richieda il risarcimento del danno da demansionamento ed afferma, riprendendo quanto già statuto in quella sede, che nelle ipotesi di dequalificazione del lavoratore il danno non patrimoniale non deriva automaticamente dall’inadempimento del datore per cui va allegato da chi lo richiede; in particolare, mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all’esistenza di una lesione all’integrità psicofisica accertata medicalmente, il danno esistenziale, che al contrario di quanto ritenuto dalle sezioni unite del 2006, come detto sopra, non costituisce un’autonoma categoria, ma è soltanto un elemento da considerare nella quantificazione del danno non patrimoniale, va allegato e provato, anche per presunzioni. Per quanto concerne i caratteri della responsabilità datoriale per la violazione dell’art. 2103, la suprema corte ricorda che si tratta di una responsabilità contrattuale, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione ed essa va esclusa nei casi, la cui ricorrenza va provata dal datore, in cui manchi l’intento di svilire il lavoratore, o vi sia una ragione giustificativa connessa all’esercizio dei poteri imprenditoriali, tutelati dall’art. 41 Cost., o dei poteri disciplinari la cui prova spetta in tal caso al datore. 5. Corte di Cassazione, prima sezione civile, n. 402 de 12 gennaio 2009, in tema di ragionevole durata del processo. Il diritto ad una ragionevole durata del processo è stato introdotto dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti del’uomo e delle libertà fondamentali e successivamente è stato riconosciuto, nel nostro ordinamento, dall’art. 111 della Costituzione (come modificato dalla legge 2/99) e dalla legge Pinto (n. 89 del 2001). In questa sentenza la suprema Corte esamina il problema della quantificazione del risarcimento del danno derivante dalla irragionevole durata del processo. Al riguardo, occorre ricordare che una delle quattro sentenze a sezioni unite emanate dalla Corte di Cassazione nel 2005 aveva sancito, al fine di determinare il quantum risarcitorio, la necessità di attenersi ai parametri indicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo . La decisione in oggetto, innanzitutto, contestando quanto rilevato dal ricorrente, nega la possibilità di predeterminare in modo rigido quale debba essere la durata ragionevole del processo, dovendosi a tal fine, ai sensi dell’art. 2 della legge Pinto, valutare una serie di elementi, quali il comportamento delle parti, del giudice e di tutte le autorità che intervengono nel processo e la complessità della fattispecie; tuttavia, ricorda che alcune pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno segnalato, come parametri con valenza puramente indicativa, i termini di tre anni per il giudizio di primo grado, di due anni per il processo d’appello, e di un anno per il giudizio in cassazione. Il ricorrente, in particolare, proponeva, tra i motivi di ricorso, il fatto che la sentenza impugnata, disattendendo quanto affermato dalla giurisprudenza comunitaria, non attribuiva il risarcimento per ogni anno di durata del processo, ma per ogni anno eccedente la durata ragionevole. La Suprema Corte, da un lato, afferma che i parametri di durata ragionevole indicati dalla Corte Europea devono essere tendenzialmente rispettati (salvo che il giudice possa discostarsi dai criteri indicati dall’art. 2 della legge Pinto in modo ragionevole e motivato), dall’altro sostiene, invece, che il risarcimento non va dato per ogni anno di durata del processo, dato che tale principio, seppur sancito dalla corte europea dei diritti dell’uomo, non è vincolante per il giudice italiano, il quale deve al contrario attenersi a quanto stabilito dall’art. 2, terzo comma, della legge Pinto, che fa riferimento solo agli anni eccedenti la durata ragionevole. La Corte, quindi, ribadisce i principi più volte espressi in altre pronunce in ordine ala quantificazione del risarcimento, ricordando che il danno non è in re ipsa, ma costituisce, comunque, una conseguenza normale della violazione dell’art. 6 della convenzione europea, salvo che vi siano circostanze dalle quali il soggetto abbia tratto vantaggio e che possono portare ad escludere l’esistenza di un danno. In secondo luogo, riprendendo quanto detto dalle sezioni unite prima ricordate, ribadisce che devono essere seguiti i criteri di quantificazione indicati dalla corte europea poiché, essendo essa l’organo deputato ad interpretare le norme della convenzione, le sue sentenze sono vincolanti per il giudice italiano. Con riferimento a tale questione, dato che la corte europea indica come misura minima di indennizzo 1000 euro, la corte di cassazione afferma che qualora il giudice voglia attribuire un risarcimento minore, non può farlo sulla base della modestia della pretesa azionata, ma deve considerare le condizioni economiche del soggetto richiedente e l’impatto che sulla sua sfera, anche patrimoniale, il processo, ha avuto a causa della sua durata ingiusta. Infine, la suprema corte chiarisce un’affermazione della corte europea in merito alla possibilità, nelle cause di particolare importanza, quali sono a titolo esemplificativo le cause di lavoro e quelle previdenziali, di attribuire al danneggiato una somma aggiuntiva rispetto al risarcimento del danno quantificato alla luce di parametri indicati. Infatti, la corte europea non ha detto che in questo tipo di controversie la somma aggiuntiva va data automaticamente: pertanto, anche se la fattispecie concreta costituiva una causa di lavoro, deve essere il giudice a valutare , alla luce di tutte le circostanze concrete, se dare o meno tale somma ulteriore. 6. Corte di Cassazione, prima sezione civile, n. 28753 del 3 dicembre 2008, in tema di contratto con se stesso e responsabilità del notaio. L’acquirente di due immobili conviene in giudizio il notaio rogante gli atti poiché, avendo, dopo l’acquisto, scoperto che i beni erano stati soggetti a pignoramento, aveva dovuto pagare una consistente cifra al fine di liberare gli immobili dalle garanzie su di essi stipulate. Il convenuto contesta le richieste dell’attore deducendo che, in relazione al primo atto di acquisto, l’acquirente aveva stipulato il contratto sia in qualità di acquirente sia come rappresentante del venditore ed aveva egli stesso rilasciato delle dichiarazioni mendaci sulla libertà dell’immobile; rispetto al secondo contratto, il notaio rileva che, successivamente ad esso, era stato esonerato dall’obbligo di effettuare le visure catastali. A seguito del rigetto delle pretese attoree da parte del tribunale, la corte d’appello sostiene che quanto dichiarato dall’acquirente, in veste di rappresentante sulla libertà degli immobili, ricade sotto la responsabilità della parte rappresentata, senza che l’acquirente sia per questo impossibilitato ad agire contro il venditore e contro il notaio, il quale nel primo atto, non era stato esonerato da alcun obbligo. Con riferimento, invece, al secondo atto la corte d’appello ritiene priva di valore la dichiarazione di esonero del notaio, poiché successiva al contratto di vendita. Il notaio propone, pertanto, ricorso per cassazione sostenendo che, poiché l’acquirente era anche venditore, era venuta meno la tutela derivante dall’obbligo, posto in capo al notaio, di acquisire le visure catastali, prevista dalla legge al fine di garantire l’acquirente dall’esistenza dei vincoli sul bene, tutte le volte in cui, però, tale soggetto sia diverso dal venditore. La cassazione ritiene errata la pretesa del notaio che nega in assoluto la propria responsabilità nei casi di contratto con se stesso, nei quali il negozio è pur sempre stipulato tra due parti e le dichiarazioni fatte dal soggetto, in qualità di rappresentate, non gli impediscono di agire in qualità di acquirente contro il venditore e contro il notaio. 7. Corte di Cassazione, seconda sezione civile, n. 29032 del 12 dicembre 2008, in tema di azione revocatoria e litisconsorzio necessario. La suprema corte con questa pronuncia ribadisce i principi consolidati relativi alla necessità del debitore, alienante di un immobile, di partecipare al processo tendente alla revocatoria dell’atto di disposizione da lui compiuto, sussistendo un’ipotesi di litisconsorzio necessario; infatti, poiché a causa dell’accoglimento della domanda di revocatoria il terzo acquirente viene sottoposto ad azione esecutiva, egli diventa creditore del debitore, ai sensi dell’art. 2902, secondo comma. Si tratta di un litisconsorzio che, ovviamente, permane in tutti i gradi del giudizio ed, inoltre, non ha rilevanza il fatto che una parte sia rimasta contumace. Il difetto d’integrità del contraddittorio può essere rilevato in ogni stato e grado del giudizio, salvo che sul punto si sia formato un giudicato interno. 8. Corte di Cassazione, terza sezione civile, n. 29146 del 12 dicembre 2008, in tema di doppio grado di giurisdizione. A seguito della riforma con la quale il legislatore ha escluso la possibilità di proporre, avverso le sentenze del giudice di pace, il regolamento di competenza, la sentenza in oggetto ha stabilito che la parte che voglia contestare la pronuncia di tale organo giurisdizionale sotto il profilo della competenza potrà, ai sensi degli artt. 339 e 360 cpc, proporre appello, nei casi in cui il valore della causa non superi i due milioni di lire, e ricorso per cassazione, se il valore è inferiore. La ricorrente, nel caso di specie, contesta la violazione del doppio grado di giurisdizione, poiché la causa non rientrava nella competenza per valore del giudice di pace ed il tribunale, in sede di appello, invece di rinviare al giudice di primo grado competente, si era pronunciato nel merito. La suprema corte rigetta il motivo, ritenendo che il doppio grado di giurisdizione non ha copertura costituzionale e che i casi in cui il giudice d’appello può rimettere la causa al giudice di primo grado sono tassativamente indicati dall’art. 354 cpc. E tra questi non rientra l’erronea negazione della propria competenze da parte del giudice di primo grado. Pertanto, in questa ipotesi il giudice d’appello deve direttamente decidere nel merito. L’ultimo motivo di ricorso riguardava la violazione e la falsa applicazione del d. lgs. 50/92. Nella fattispecie concreta all’esame della suprema corte si dibatteva, infatti, dell’efficacia di un diritto di recesso esercitato dall’acquirente di un bene che, essendo stato personalizzato a seguito delle indicazioni fornite dall’acquirente stesso, era divenuto un bene infungibile e non più commercializzabile. Di conseguenza, il venditore riteneva applicabile il decreto 185/99 che, relativamente ai capi confezionati su misura, esclude la possibilità di esercitare il diritto di recesso. Ma la Cassazione rigetta anche tale motivo, muovendo dal fatto che il diritto di recesso era stato pattuito dalle parti mediante l’inserimento nel contratto di una clausola, con la quale esse rinviavano, per le modalità attraverso le quali esercitare tale facoltà, al d. lgs. 50/92. 9. Corte di Cassazione, sezione lavoro, n. 27475 del 19 novembre 2008, in tema di impresa familiare. A fronte di una separazione personale, uno dei due coniugi che partecipava, in costanza di matrimonio, alla gestione dell’impresa familiare, avendo l’altro venduto l’azienda a sua insaputa, chiede al tribunale la declaratoria del proprio diritto di prelazione, ai sensi del quinto comma dell’art. 230 bis c.c., ed il riscatto ai sensi dell’art. 732, richiamato dalla prima norma. Il tribunale e la corte d’appello accolgono tali richieste. La parte soccombente propone, quindi, ricorso per cassazione per violazione e falsa applicazione delle due norme, avendo la corte d’appello ritenuto applicabile il riscatto anche nel caso dell’impresa familiare, quando invece l’art. 230 bis ritiene applicabile l’art. 732 solo se compatibile, riguardando il retratto successorio. La suprema Corte rigetta il ricorso e chiarisce un problema interpretativo insorto da tempo in ordine alla corretta lettura dell’inciso “se compatibile”, contenuto nell’art. 230 bis in relazione all’applicabilità dell’art 732. Se secondo una prima impostazione, infatti, all’ipotesi della cessione dell’impresa familiare si può applicare solo il diritto di prelazione, la cui violazione dà luogo al risarcimento dei danni, al contrario, seconda un’altra tesi, si può applicare anche l’art. 732, adattandolo alle specificità dell’impresa familiare. La suprema corte muove, in primo luogo, dal dato letterale: l’art 230 bis rinvia all’altra norma non per l’esercizio del diritto di prelazione, ma in relazione a tale facoltà in generale, con riferimento, quindi, non solo alla fase in cui essa viene azionata, ma anche alla successiva fase del riscatto presso terzi: da tale precisazione deriva che il limite della compatibilità riguarda sia il diritto di prelazione che il riscatto. Andando, poi, a considerare la ratio della norma, la sentenza rileva che essa si ispira a finalità di protezione di coloro che hanno prestato il loro lavoro all’interno dell’impresa familiare, con particolare riferimento, dato il momento storico di riferimento, al lavoro femminile: valori, questi, di rilievo costituzionale la cui tutela deve, pertanto, portare ad un’applicazione più ampia della norma ed a considerare applicabile all’impresa familiare, pur sempre nei limiti della compatibilità, anche l’istituto del riscatto. La suprema corte supera, infine, le obiezioni sollevate in relazione a tale interpretazione. Si eccepisce, infatti, che tale lettura contrasta con la certezza nella circolazione dei beni, poichè il terzo acquirente dell’azienda, non esistendo forme pubblicitarie al riguardo, non può sapere che essa costituiva un’impresa familiare e rimane, quindi, soggetto alla coattiva retrocessione. Inoltre, non sarebbe possibile utilizzare l’art. 732 per l’istituto, perchè la norma ritiene esercitabile il diritto di riscatto “finchè dura la comunione ereditaria”, termine inapplicabile all’ipotesi della cessione dell’impresa familiare. Contro la prima critica la cassazione, alla luce di un’interpretazione sistematica, ricorda che vi sono altri casi in cui il legislatore ha ritenuto prevalenti sulla sicurezza nella circolazione dei beni, la tutela del lavoro e della famiglia. Si pensi alla prelazione riconosciuta, ex art. 8 della legge 590/65, nel caso di alienazione, a favore del coltivatore diretto di un fondo rustico in concessione sulla base delle coltivazione esercitata da due anni, senza che sia prevista alcuna forma di pubblicità. Avverso la seconda obiezione, invece, ribatte che il termine finale per l’esercizio del riscatto nel caso di cessione dell’impresa familiare è costituito dal momento in cui cessano i diritti di partecipazione su di essa, coincidente con il momento di liquidazione della quota. 10. Corte di Cassazione, terza sezione civile, n. 973 del 16 gennaio 2009, in tema di contratti agrari e diritto di riscatto. Una coltivatrice diretta di un fondo altrui e proprietaria di un fondo confinante, a seguito della vendita da parte dei proprietari del campo in cui svolge la sua attività chiede il riscatto del fondo venduto senza rispettare il suo diritto di prelazione, derivante dal suo essere sia coltivatrice diretta di esso che proprietaria del fondo vicino. Il tribunale accoglie la domanda e condanna il venditore a restituire i soldi agli acquirenti. In sede di ricorso per cassazione la parte attrice contesta la sentenza di secondo grado che aveva ritenuto possibile per i venditori proporre appello, ritenendo che solo gli acquirenti potevano essere considerati legittimati a resistere. La suprema corte rigetta il ricorso, affermando che pur non essendo i venditori litisconsorti necessari nel giudizio di retratto agrario, nel caso di specie sono parti del processo, da un lato, perché chiamati in causa dall’attrice che ha chiesto l’accertamento del suo diritto di prelazione, e dall’altro, perché, essendo destinatari di un provvedimento giudiziale a loro sfavorevole, hanno interesse a proporre appello. Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata, seppur l’azione di riscatto agraria può essere esperita nei confronti del solo riscattato, tendendo ad una pronuncia di mero accertamento, nulla vieta che si possa citare in giudizio anche il venditore al fine di far accertare con effetto di giudicato il diritto di prelazione. Di conseguenza il venditore rimasto soccombente, a fronte della sentenza di accertamento del diritto di riscatto, potrà sicuramente impugnarla, presupponendo essa l’accertamento del diritto di prelazione. La suprema corte accoglie, invece, un altro motivo di ricorso, col quale si contestava la mancata considerazione, da parte della corte d’appello, della simulazione del prezzo e la conseguente condanna della coltivatrice a pagare il prezzo effettivamente sborsato dagli acquirenti, sulla base di un principio consolidato secondo il quale, nei casi di riscatto agrario, il prezzo che il retraente deve pagare è quello indicato nel contratto di vendita.