Brest Litovsk 1918
La socialdemocrazia europea e l'isolamento della Russia
Introduzione al libro Trockij e la pace necessari Argo, Lecce, 20071
Sono trascorsi novanta anni dalla rivoluzione russa e quasi due decenni dal crollo dell'URSS, e
sembra sempre più difficile spiegarsi la sua dissoluzione senza un fattore esterno visibile. Difficile
perché sono in molti a essere interessati a evitare una riflessione: in primo luogo gli eredi della
burocrazia che sono al potere in Russia e nelle altre repubbliche, che hanno trasformato un potere
politico assoluto e senza controlli in proprietà privata; ma anche i loro complici stranieri nella
rapina delle risorse del paese e tutte le classi dominanti occidentali attraverso gli ideologi al loro
servizio, sono interessati a proiettare indietro l'orrore del GuLag e la putrefazione degli ultimi
decenni, per impedire la comprensione dei fattori che hanno portato al declino e alla caduta, e
vogliono cancellare perfino il ricordo della grande forza di attrazione che nei primi anni la
rivoluzione aveva avuto nel mondo.
In nome della "lotta all'ideologia", e della ricerca del "nuovo", si è affermata ed è divenuta a forza
egemone la vecchissima ideologia che considera possibile solo quello che esiste, ed è la negazione
di ogni utopia, di ogni progetto di trasformazione.
Le scelte di chi fu sconfitto, sono cancellate, con qualche rarissima eccezione. Si salvano forse
soltanto Rosa Luxemburg (la cui riflessione critica sulla rivoluzione russa è però in genere mutilata
e falsata) ed Ernesto Che Guevara. Ma il suo ricordo persiste quasi soltanto per la straordinaria
simpatia umana che suscita in chi lo scopre, anche se in ogni paese un certo numero di miserabili si
affannano a denigrarlo.2
Chi sta peggio è Trotskij, esorcizzato a ogni istante, tanto più se nonostante le periodiche
proclamazioni sulla sua morte definitiva, risulta ben vivo. Finché c'era l'URSS, ogni anno uscivano
in tutte le lingue opuscoli contro il trotskismo, e pochi si domandavano perché li facevano, se
proclamavano che Trotskij era "morto e sepolto". In realtà sul lungo periodo la vitalità del pensiero
di Trotskij risulta confermata: penso alla Francia in cui nello sfacelo della sinistra (dai verdi al
vecchio PCF) si è salvato solo un partito impersonato da un giovane postino trotskista, ma anche
all'Italia, in cui - nella rappresentanza parlamentare di quel che fu un giorno un grande e glorioso
movimento operaio – solo un senatore trotskista ha avuto il coraggio di opporsi alla guerra, ma
anche all'ipocrisia di "condannarla" pur votandone il finanziamento.
L'esito catastrofico del "socialismo reale" (che sarebbe stato "l'unico esistente", anzi "l'unico
possibile", secondo la formula coniata da Leonid Breznev, il penoso gestore del declino dell'URSS,
e accettata tranquillamente da gran parte del movimento comunista), invece di far condannare
all'oblio chi si era volontariamente accecato e aveva rifiutato di cogliere i sintomi di una crisi che
1
Il libro è ancora in circolazione e non viene quindi riprodotto. Questa è la seconda introduzione, che aggiorna quella
del 1979, La “terza via” dell’Austromarxismo. Introduzione e note a un saggio di Roman Rosdolsky, Socialdemocrazia
e tattica rivoluzionaria, Celuc, Milano, 1979. .
2
Penso ai recenti libri di Alvaro Vargas Llosa (il mediocre figlio del grande scrittore) o di Jorge Lanata, e a una serie
interminabile di articoli copiati l'uno dall'altro con presunte "rivelazioni" sulla crudeltà e il sadismo del Che. Sulla loro
filiazione dalle tardive insinuazioni di Régis Debray, rinvio al mio recente Il Che inedito (Alegre, Roma, 2006). Su
Debray, cfr. anche il mio Il filo spezzato, Adriatica, Lecce, 1996, pp. 168-170. Va detto che è sorprendente che gli sforzi
dei detrattori, a cui si è aggiunta la discutibile iniziativa degli eredi di affidare in esclusiva il monopolio sulla
pubblicazione a un editore come la Mondadori di Silvio Berlusconi, non sono riusciti a incrinare la popolarità di
Guevara, anche se hanno reso più difficile la conoscenza del suo pensiero più maturo, facilitando la sua trasformazione
in "mito".
maturava dagli anni Cinquanta, ha portato a rifiutare ancora più aggressivamente chi aveva
lucidamente predetto quell'esito.3
E la socialdemocrazia, il cui principale "merito" rivendicato per molti anni non erano lontane
conquiste sociali, ma quello di aver salvato l'Europa dagli orrori del GuLag (e che in realtà, come
vedremo, di quegli orrori era in vario modo corresponsabile), pretende di essere assolta e non ha
nessuna intenzione di stimolare un dibattito su quella tragedia.4 Eppure presenta un bilancio penoso.
L'internazionale socialista, incapace di fermare o almeno di opporsi alla prima guerra mondiale, e
assolutamente passiva durante i preparativi della seconda, 5 è stata una grande organizzatrice di
sconfitte: non solo ha aperto la strada a Hitler, ma anche, assai più recentemente, a Haider e, perché
no, a Berlusconi, che senza il discredito morale del craxismo non avrebbe potuto lanciarsi in
politica. E che dire del caso dell'ascesa vertiginosa di Le Pen, che negli anni in cui governava la
sinistra francese, con un peso determinante dei socialisti, ha potuto moltiplicare per cinque i propri
voti, arrivando in un drammatico ballottaggio a costringere le sinistre a turarsi il naso e votare per
l'esponente della destra Jacques Chirac?
L'internazionale socialista ha avallato in molti periodi e paesi la più turpe politica coloniale: senza
risalire a tempi più lontani, si può ricordare il socialista francese Guy Mollet, che fu l'organizzatore
insieme al conservatore britannico Anthony Eden dell'ultima impresa coloniale a Suez, e in quegli
stessi giorni fu personalmente responsabile del rapimento dei dirigenti algerini con un atto di
pirateria aerea. Recentemente un libro di un generale francese, Paul Aussaresses, ha suscitato
scalpore in Francia e in Italia per la sua aperta rivendicazione di molti crimini nei confronti di
militanti algerini. La logica del generale nello scrivere questo libro (la cui pubblicazione in Francia
ha costretto il governo a ritirargli la Legion d'Onore, dato che certe cose si fanno ma non si
dicono...) è di sottolineare che tutti i poliziotti d'Algeria " utilizzavano la tortura, e i loro superiori
sapevano", con una esplicita chiamata di correo per i ministri socialisti, compreso Mitterrand.6
Questo per rimanere in Europa, in cui c'è anche il bel risultato di un laburismo britannico che con
Tony Blair ha fornito in Afghanistan e in Iraq un insostituibile sostegno alla politica di guerra
preventiva permanente di Bush; ma si potrebbe parlare anche dell'incredibile assortimento di
discutibili dirigenti raccolti dall'IS nel mondo: dal presidente del Perù Alán García, che proprio
mentre inaugurava il congresso dell'internazionale a Lima nel 1986 non esitava a far massacrare
centinaia di detenuti in rivolta nelle carceri; a Carlos Pérez che faceva lo stesso a Caracas nel 1989,
a Simon Perez, complice di Ariel Sharon e di Olmert...
L'elenco potrebbe allungarsi, ma sarebbe una fatica di Sisifo.
Il vero problema è che l'involuzione generale del movimento operaio, accelerata dal crollo dei paesi
del "socialismo reale", ha fatto dimenticare che cosa aveva determinato la grande frattura nella
storia mondiale ed europea all'origine della divisione tra comunisti e socialisti: la Grande Guerra, e
3
Si veda ad esempio quanto scriveva Trotskij, ne La rivoluzione tradita, prevedendo che in caso di crollo dell'URSS e
di restaurazione capitalistica, questa "troverebbe non pochi servitori tra i burocrati attuali, tra i tecnici, tra i direttori, tra
i segretari di partito, tra i dirigenti in generale". Lev Trockij, La rivoluzione tradita, Mondadori, Milano, 1980, p. 237.
4
Responsabilità fondamentali, vedremo, non solo nel soffocamento della rivoluzione in Europa, nel biennio rosso 19181919, ma anche sul terreno delle complicità con la burocrazia stalinista in diversi momenti cruciali.
5
Si pensi al partito socialista francese che chiude gli occhi di fronte alle manovre che prima e dopo Monaco vogliono
spingere la Germania nazista verso l'URSS, e poi, quando la guerra è risultata inevitabile, ed è stata persa, nel luglio
1940 spinge il suo "realismo" fino a votare i pieni poteri al collaborazionista maresciallo Petain: dei 142 deputati
socialisti, 108 li votarono senza fiatare (solo 28 si opposero e 6 si astennero...).
6
Paul Aussaresses: La battaglia di Algeri dei servizi speciali francesi 1955-1957, Libreria editrice goriziana, 2007. Il
libro ha suscitato scalpore anche in Italia (dove in genere della rivoluzione algerina nessuno parla) perché la folta
comunità argentina del Friuli ha protestato clamorosamente contro l'invito a presentare il suo libro rivolto dal III
Festival Internazionale della storia di Gorizia al generale Aussaresses, che si vanta di essere stato inviato in Argentina
per addestrare i generali di quel paese alla tortura.
la divisione elementare (tutt'altro che "ideologica" e "astratta") tra chi lottava contro la guerra e chi
invece la giustificava e collaborava al massacro.7
Il crollo dei partiti comunisti di derivazione staliniana ha trascinato con sé gran parte di coloro che
avevano tentato di staccarsene almeno in parte, formando la cosiddetta "nuova sinistra", e ha reso
molto esigue le file di coloro che hanno continuato a rifiutare di accettare l'esistente come
ineluttabile. La sproporzione con l'immenso apparato ideologico e propagandistico della borghesia
si è così accresciuta oltre ogni previsione.
È stato così più facile capovolgere il rapporto di causa ed effetto tra guerra e rivoluzione. Non dal
solo Nolte, ma da infinite voci provenienti formalmente da quello che una volta era il movimento
operaio, si è ribadito che tutte le tragedie del nostro tempo sono state provocate dall'ambizione di
"realizzare l'utopia". E non si metteva in discussione solo la rivoluzione russa del 1917, ma anche
quella francese del 1789, additata come il punto di partenza dell'errore. L'Unità, organo di quello
che si chiamava ancora partito comunista, nel 1988, in vista del bicentenario, ha diffuso come
supplemento (quindi in grande tiratura), una "cronaca della rivoluzione" francese scritta da un
seguace del "revisionista" Furet. 8
Così, in questo clima, si è dimenticata ogni responsabilità di chi aprì la strada al nazismo,
commissionando l'assassinio di Rosa e Karl, si è smarrita quasi ogni memoria del tragico
isolamento in cui si trovò la rivoluzione russa per la sconfitta della rivoluzione in Germania e in
Austria nel 1918, in Italia e in Francia negli anni immediatamente successivi. Le colpe dello
stalinismo sono enormi e certo se si tiene conto della mia bibliografia non mi si può certo sospettare
di volerle sminuire, ma non c'è dubbio che lo stalinismo non avrebbe potuto svilupparsi senza
l'isolamento della Russia nella sua tremenda arretratezza.
* * *
La parte centrale di questo libro è stata pubblicata nel 1979, quando il processo di cancellazione
della memoria era cominciato ma non completato. Rileggendola oggi, non mi sento di dover
modificare una riga. Certo, allora mi preoccupavano soprattutto le illusioni riposte nella "terza via"
e in particolare nella sua variante austromarxista da diversi settori – soprattutto della cosiddetta
"sinistra sindacale" - che si presentavano come rivoluzionari, e avevano una certa influenza su gran
parte della "nuova sinistra". Ma la ricostruzione di come dirigenti sindacali e politici della sinistra
avevano potuto trattare cinicamente alle spalle dei loro iscritti, nell'Austria del 1918 non ha perso
certo la sua attualità, anche se di esempi in casa nostra ne abbiamo avuti parecchi in questi anni, in
cui i processi involutivi sono andati avanti al di là di ogni previsione.
Certo delle vicende della socialdemocrazia austriaca nel primo dopoguerra se ne parla sempre
meno, o solo nel quadro di una esecrazione complessiva e onnicomprensiva del cosiddetto
"Novecento", che si è sostituita nei τόποι negativi della sinistra al "terzinternazionalismo", termine
più circoscritto ma ugualmente fuorviante, perché metteva sullo stesso piano il Comintern
stalinizzato e grossolanamente subalterno a ogni esigenza della burocrazia sovietica, e quello dei
primi quattro congressi, in cui si confrontavano (e spesso scontravano...) giganti come Lenin e
Trotskij, Bordiga e Gramsci, Pannekoek e Frölich.9
7
Pur continuando a polemizzare con la socialdemocrazia, peraltro, i partiti comunisti al governo praticavano la stessa
politica: ad esempio la repressione feroce dei moti indipendentistici in Algeria e Madagascar nel 1945 fu organizzata
direttamente da un ministro comunista, Charles Tillon.
8
Michel Winock, Francia 1989, cronaca della rivoluzione, l'Unità, suppl. al num. 284 del 18/12/88.
9
La cesura netta tra i primi quattro congressi, ricchi di un'elaborazione complessa e a più voci, e gli ultimi tre, sempre
più impoveriti e rituali, può essere facilmente riscontrata sulle due ricche antologie dei documenti e dei principali
discorsi congressuali pubblicati in Italia: la Storia dell'Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, a cura
di Jane Degras, Feltrinelli, Milano, 1975 (tre grandi volumi di complessive 1.650 pagine), e quella di Aldo Agosti, La
terza internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974-1979 (tre volumi di due tomi ciascuno, per
complessive 3.000 pagine). Testi di grande interesse, ma ignorati dal grosso della sinistra, che ha magari letto tutto il
possibile dello schematicissimo Mao, ma ha disprezzato Lenin e il suo tempo.
Naturalmente non è solo questa vicenda ad essere stata cancellata: nel corso di molti decenni di
insegnamento universitario ho potuto verificare che di anno in anno gli studenti arrivavano senza la
minima idea di cosa erano stati realmente personaggi di primo piano e vicende importanti e tuttora
non senza ripercussioni: ho accennato a Guevara, Rosa Luxemburg e Trotskij10, ma anche Lenin,
Mao, ecc. Si badi bene: non è che se ne parla male, si ignora semplicemente la loro esistenza. In un
sondaggio fatto con un questionario tra gli studenti della Facoltà di storia dell'Università di Modena
emersero cose incredibili: Mao e Chang, ad esempio, sarebbero stati due imperatori cinesi, e la
Terza internazionale una società segreta della Comune di Parigi. Ed era un sondaggio di una
quindicina di anni fa. D'altra parte già nel 1989 avevo scoperto che tra gli studenti era convinzione
diffusa che le bombe di Piazza Fontana fossero state messe dalle Brigate Rosse!
Ora la situazione è ulteriormente peggiorata e potrei riportare una vera antologia degli orrori, da cui
mi trattiene la compassione per gli studenti, vittime della maggioranza del corpo docente della
scuola secondaria (e, nel caso della mia esperienza diretta, anche di parte di quello universitario...).
Se la maggior parte dei giovani studenti di facoltà umanistiche non sa nulla della ferocia delle
guerre coloniali dell'Italia, o degli schieramenti durante la prima guerra mondiale, o del fascismo,
ovviamente non può avere neppure il minimo sospetto che in Austria un tempo ci fosse un
fortissimo partito socialista, probabilmente il più forte dell'Europa del primo dopoguerra. Me lo
domandavano perfino diversi colleghi, anche "di sinistra" quando ho messo questo caso al centro di
un mio corso monografico. E perché occuparsi di un paese piccolo e insignificante come l'Austria?
Invece l'esperienza mi ha insegnato che riflettere su questa vicenda è sempre utile per varie ragioni.
Prima di tutto la responsabilità per il declino della fortissima socialdemocrazia austriaca, e poi il suo
crollo di fronte al clericofascismo locale prima che questo aprisse le porte a Hitler, non può essere
attribuita ad altri. A differenza della Germania, in cui la socialdemocrazia ha potuto scaricare la
responsabilità del suo non meno clamoroso fallimento sul settarismo del partito comunista che pur
minoritario poteva condizionarla e "disturbare il manovratore", in Austria il partito comunista,
spiazzato dalla fraseologia rivoluzionaria del partito socialdemocratico non ha mai contato nulla.
Per giunta l'azione del partito socialdemocratico si svolgeva in un paese ben ordinato, che
conservava accuratamente gli archivi, senza distruggerli. E così "abbiamo le prove" degli
ignominiosi accordi. Di questo parla egregiamente Rosdolsky, e non vale la pena di aggiungere
molto.
Ma questa nuova edizione del libro esce in occasione di un anniversario importante. Novanta anni
dalla rivoluzione russa.11 Che c'entra la rivoluzione russa con la socialdemocrazia austriaca? A uno
sguardo superficiale poco, ma in realtà negli anni decisivi per le sorti della rivoluzione russa, la
socialdemocrazia europea in generale e soprattutto quella austriaca hanno avuto un ruolo
determinante nel suo isolamento in un paese arretrato e distrutto dalla guerra. Il caso analizzato da
Rosdolsky è particolarmente significativo. Non solo Troskij ma anche Lenin e tutto il gruppo
dirigente bolscevico nei primi giorni del 1918 attendevano con ansia gli sviluppi della rivoluzione
nei due imperi centrali, preannunciata - soprattutto in quello austroungarico - da un'ondata di
scioperi spontanei senza precedenti. Fu la disillusione per l'esaurirsi delle mobilitazioni operaie che
portò i dirigenti bolscevichi a dover accettare le condizioni imposte dai due imperi, ancora peggiori,
e di molto, di quelle rifiutate all'inizio delle trattative per l'armistizio. Non avevano avuto torto, e lo
10
Naturalmente chi pensa che degli sconfitti non vale la pena di parlare, come il direttore dell'Istituto Gramsci, Silvio
Pons, non se ne preoccuperà certo. Si veda la sua incredibile dichiarazione contro Luigi Cortesi e soprattutto contro il
"comunismo alternativo" apparsa sul CdS del 21 luglio 2007. Lo stupore nasce dal fatto che il Pons è direttore
dell'Istituto Gramsci, cioè di un'istituzione intitolata a un comunista che fu per gran parte della sua vita controcorrente e
"alternativo" a quei dirigenti che allo stalinismo trionfante si inchinavano...
11
Non ho mai capito troppo la passione per gli anniversari, e particolarmente quelli degli anni che finiscono per zero:
non ho mai capito perché il trentesimo anniversario sia più importante del ventinovesimo, o perché si debba ricordare
Guevara l'8 ottobre e non in qualsiasi altro giorno dell'anno. Ma alla fine mi sono reso conto che c'è un fondo razionale
nella scelta di certe ricorrenze: solo in questi casi i supplementi culturali dei grandi quotidiani si ricordano di personaggi
e vicende altrimenti dimenticati, e raggiungono anche i pigri e i distratti. Alla fine mi sono rassegnato, e ho perfino
adottato questo criterio per decidere il titolo di alcuni dei miei corsi monografici.
dimostrano non solo e non tanto i documenti trovati da Rosdolsky ma l'esplosione simultanea dei
due imperi appena otto mesi dopo la firma di quel trattato capestro.12
Ma intanto il danno era stato fatto: gran parte della sinistra non bolscevica russa dopo la firma di
quel trattato si convinse della fondatezza delle accuse mosse a suo tempo dal governo provvisorio di
Kerenskij a Lenin, e lo considerò complice dell'imperialismo tedesco ed agente del Kaiser. Non era
solo una questione di reputazione: da quel giudizio sommario discese la rottura con i bolscevichi
dell'unico alleato importante, il partito socialrivoluzionario di sinistra, che rappresentava un
prezioso tramite con i contadini, in cui era ben radicato.
Per questo vale la pena di affrontare prima di tutto la vicenda di Brest Litovsk e il dibattito
accesissimo che lacerò lo stesso partito bolscevico, e lo lasciò del tutto senza alleati.
Lo scontro nella Russia sovietica sulla pace di Brest Litovsk
I bolscevichi, arrivati al potere, si erano impegnati immediatamente nella realizzazione della pace,
che era uno dei punti essenziali del loro programma e, senza dubbio, aveva contribuito in maniera
determinante a spostare verso di loro le grandi masse contadine inquadrate nell'esercito,
inizialmente influenzate dai social-rivoluzionari (che erano invece «difensisti», cioè fautori del
proseguimento della guerra a fianco dell'Intesa). Il decreto sulla pace era stato approvato dal
congresso dei Soviet già l'8 novembre 1917, e subito dopo il Commissario del popolo per gli Affari
esteri, Trotskij, propose per radio agli alleati e agli imperi centrali una pace generale. La
dichiarazione di pace era stata tuttavia ignorata da ogni parte, e le armate russe intanto si
disgregavano per la «pace separata» che ogni contadino-soldato realizzava abbandonando la sua
trincea e tornando al villaggio (tanto più in quanto l'altro decreto fondamentale del Consiglio dei
Commissari del popolo, quello sulla terra, lo spingeva a tornare a casa per partecipare alla
liquidazione e alla spartizione dei latifondi).
Il 21 novembre, il governo sovietico ordinava al capo di Stato Maggiore, generale Nikolaj
Duchonin, di prendere contatti con il comando tedesco per immediate trattative di armistizio,
destituendolo subito dopo per il suo rifiuto.13 Contemporaneamente, attraverso le missioni militari
dei governi alleati, si tentava ancora di arrivare a una conferenza generale per la pace. I governi
dell'Intesa ignorarono queste proposte, puntando su un rapido crollo del potere sovietico, per cui
lavoravano assiduamente, finanziando i primi tentativi di organizzare bande armate di ex-ufficiali e
di cosacchi.
Il nuovo capo di Stato Maggiore e Commissario del popolo alla difesa, il sottotenente Nikolaj
Krylenko, recandosi personalmente al fronte riuscì il 27 novembre a far accettare alle autorità
militari tedesche che, a decorrere dal 2 dicembre, si avviassero trattative per l'armistizio, che veniva
firmato il 15 dicembre a Brest Litovsk. Il testo prevedeva due norme assolutamente insolite in un
trattato militare: l'impegno delle potenze centrali a non spostare truppe sul fronte occidentale e
l'accordo su misure di fraternizzazione tra le truppe contrapposte e la circolazione di materiale
12
Un altro aspetto, che posso qui appena sfiorare e su cui esistono versioni contrastanti, riguarda l'atteggiamento dei
socialisti austriaci nei confronti della repubblica dei consigli ungherese del 1919, e di quella sorta negli stessi mesi in
Baviera. Se non ci fu l'aperta collaborazione alla repressione (come fu per i socialisti cecoslovacchi, che ebbero una
parte attiva nel soffocamento dell'Ungheria), e forse furono inviati effettivamente piccoli contingenti di armi leggere
alla repubblica sorella, certo non ci fu nessun impegno sostanziale per romperne l'isolamento. Va detto che una aperta e
concreta solidarietà con le due repubbliche dei consigli, entrambe confinanti con l'Austria, avrebbe potuto cambiare il
corso della storia europea. Nella repressione delle due esperienze infatti si forgiarono forze reazionarie che avrebbero
poi combattuto al fianco di Hitler o sarebbero confluite nel suo stesso partito. Sulla vicenda ungherese esiste un gran
numero di libri, che ne parlano sia pure ai margini della tragedia del 1956 mentre su quella bavarese esistono
pochissime testimonianze. Interessante quella di Paul Frölich, che la pubblicò con lo pseudonimo di P. Werner. La
traduzione italiana pubblicata nel 1922 dalla libreria editrice del PCd'I è stata ripubblicata nel 1970 in reprint: P. Werner
(Paul Frhoelich, sic), La repubblica bavarese dei consigli operai, Samonà e Savelli, Roma, 1970.
13
Duchonin non solo aveva rifiutato ogni incontro con i generali tedeschi, ma aveva tentato di scagliare contro il
governo dei soviet le sue truppe, che lo uccisero a bastonate, nonostante l'intervento di Krylenko. Un gran numero di
ufficiali che volevano proseguire a ogni costo la guerra furono in quei mesi fucilati o linciati dai soldati.
propagandistico tra le file tedesche. I bolscevichi avevano chiesto la prima misura per esercitare
un'ultima pressione sulle potenze dell'Intesa, dimostrando di non essere «agenti del Kaiser» (come
ripeteva incessantemente la propaganda dei menscevichi e degli altri fautori del proseguimento
della guerra), mentre la seconda corrispondeva evidentemente alle loro concezioni generali. I
generali tedeschi accettarono la prima misura, peraltro con una clausola che poteva parzialmente
renderla vana, perché in realtà prevedevano la possibilità di beneficiare ulteriormente della crisi
dell'impero russo, e avevano quindi l'interesse a mantenere una parte delle truppe pronte per una
nuova avanzata verso l'Est; quanto alle misure di fraternizzazione, il capo della delegazione tedesca,
generale Hoffmann, scrisse nelle sue memorie di averle accettate per poter esercitare un controllo su
quel che già stava manifestandosi in molti punti del fronte, cercando di limitare attraverso una
precisa regolamentazione sia gli incontri di fraternizzazione tra i soldati, sia la circolazione di
materiale propagandistico. D'altra parte, i generali, e ancor più i diplomatici, tedeschi e austroungarici presenti a Brest Litovsk erano premuti da spinte contrastanti: da un lato, la voracità della
casta militarista, dall'altro, le preoccupazioni per i sintomi inquietanti di crisi che cominciavano
sempre più di frequente a manifestarsi nell'esercito e soprattutto nelle retrovie (e che esploderanno
alla luce con i poderosi scioperi di gennaio a Vienna, Budapest e poi Berlino, e la sollevazione dei
marinai della base navale austroungarica di Cattaro, nei primi giorni di febbraio).
Le trattative finali di pace si aprirono il 22 dicembre e furono quasi subito sospese per dare tempo
agli altri belligeranti di rispondere ai numerosi messaggi lanciati dal governo sovietico. Quando i
lavori saranno ripresi, tuttavia, nessuna iniziativa era stata presa dall'Intesa, tranne il lancio dei «14
punti di Wilson», dalle notevoli ripercussioni propagandistiche, ma privi di implicazioni pratiche.
Alla testa della delegazione russa è comparso Leone Trotskij, in quel momento la figura più
prestigiosa della rivoluzione russa dopo Lenin, che ha il mandato dal Comitato centrale del Partito
bolscevico di tirare in lungo le trattative, cercando di evitare la firma delle pesantissime condizioni
proposte nella prima sessione (praticamente, l'annessione di tutti i territori dell'ex impero russo
occupati dalle potenze centrali). Trotskij impone una svolta nello stesso stile di lavoro della
delegazione russa, che mantiene le distanze dagli interlocutori, utilizzando in maniera rigorosa le
trattative come una tribuna rivolta al proletariato mondiale, e in primo luogo a quello tedesco e
austriaco. I delegati sovietici rifiutano significativamente ogni rapporto al di fuori di quello di
lavoro con i diplomatici e ufficiali tedeschi e austroungarici, interrompendo persino l'abitudine di
pranzare insieme introdotta nella prima fase della conferenza, e sviluppando invece apertamente
un'intensa propaganda verso i soldati semplici dell'esercito tedesco.
Le notizie dell'ondata di scioperi nell'Austria-Ungheria pesarono gravemente sulle trattative,
preoccupando non solo il conte Czernin (come è ampiamente documentato dal Rosdolsky), ma
anche il capo della delegazione tedesca, il ministro degli Esteri Kühlmann. Tuttavia, tra le due
tendenze che si scontravano al vertice della politica tedesca, il peso di quella più aggressiva
rappresentata dallo Stato Maggiore dell'esercito era preponderante. Il 18 gennaio 1918, il generale
Hoffmann tagliò corto alle esitazioni e gettò letteralmente sul tavolo delle trattative una carta
geografica su cui era stata tracciata una linea blu oltre la quale le truppe tedesche non intendevano
ritirarsi. Tutte le dichiarazioni sull'autodeterminazione dei popoli a cui avevano acconsentito i
diplomatici dei due imperi nella prima parte delle trattative venivano brutalmente accantonate. La
rappresentanza dell'impero austro-ungarico, la cui posizione militare era assai debole e su cui in
quei giorni pesava anche l'incertezza per gli esiti degli scioperi in atto nella capitale e in altre città
importanti, e le delegazioni degli alleati minori (Bulgaria e Turchia), dovette allinearsi alle pretese
del comando militare tedesco, che dichiarò apertamente che per autodeterminazione intendeva
quella già realizzata o da realizzare successivamente nei territori occupati, sotto il controllo
dell'occupazione militare. Le inquietudini dei rappresentanti dei paesi alleati, naturalmente, non
discendevano da particolare sensibilità per i principi dell'autodeterminazione, ma dall'urgenza di
realizzare quanto prima la pace, per sfuggire a condizioni interne disastrose, che il Rosdolsky ha
documentato per l'Austria-Ungheria, e che spingeranno la Bulgaria a ritirarsi unilateralmente dalla
guerra prima della sua conclusione.
La linea tracciata dal generale Hoffmann lasciava in mano tedesca l'intera Polonia, la Lituania, la
Bielorussia, e tagliava a metà la Lettonia, pretendeva le isole di Moon da cui era facilissimo
minacciare Pietrogrado, e lasciava nel vago i confini meridionali, sostenendo che sarebbero stati
concordati con la delegazione della Rada ucraina, il cui potere traballante sarebbe stato spazzato via
di lì a pochi giorni dal soviet di Kiev, ma che le truppe tedesche riconobbero ugualmente e poi
imposero con le loro armi per alcuni mesi, utilizzando i menscevichi e i social-rivoluzionari ucraini
come un vero e proprio governo fantoccio.
La delegazione sovietica chiese allora una sospensione per consultazioni. Al suo ritorno a
Pietrogrado si sviluppò un accesissimo dibattito nel partito bolscevico tra i sostenitori della
necessità di rispondere al ricatto tedesco con la «guerra rivoluzionaria» (come avevano fatto i
giacobini durante la Rivoluzione francese) da una parte, e Lenin, inizialmente in netta minoranza,
che proponeva di firmare subito a qualsiasi condizione. Trotskij oscillò a lungo, essendo contrario
sia alla «guerra rivoluzionaria» (per cui mancavano le condizioni minime), sia alla firma del
trattato, per timore che si rafforzassero nel proletariato europeo, e soprattutto in quello dei paesi
dell'Intesa, le calunnie seminate dai socialsciovinisti, che presentavano i dirigenti bolscevichi come
«agenti dell'imperialismo tedesco».
Dopo numerose contrastanti votazioni, prevalse momentaneamente la proposta di Trotskij, «né pace
né guerra» (cioè, non firmare il trattato capestro, ma cessare unilateralmente le ostilità, facendo
appello alla volontà di pace della maggior parte dei soldati delle potenze centrali, e soprattutto
contando su una prossima esplosione delle situazioni rivoluzionarie che si erano già preannunciate
nei due imperi nei grandi scioperi spontanei contro la guerra).
La conferenza di Brest Litovsk riprese il 30 gennaio, in una situazione apparentemente più
favorevole per i bolscevichi: la Rada ucraina era stata spazzata via e la sua sovranità era ristretta,
come dichiarò allora Trotskij, alle stanze benevolmente concesse alla sua delegazione dal comando
tedesco a Brest Litovsk; soprattutto pesava a favore dei sovietici lo sciopero generale ancora in atto
in Germania. Ma, quando divenne evidente che lo sciopero in Germania era rifluito (per
l'opportunismo o l'insipienza dei capi riconosciuti del proletariato tedesco), la delegazione delle
potenze centrali riprese tutta la sua aggressività e firmò un trattato separato con i fantocci della
Rada ucraina l'8 febbraio. Il 10, Trotskij denunciava violentemente le pretese tedesche e dichiarava:
«la Russia, mentre si rifiutava di firmare una pace annessionistica, da parte sua dichiara finito lo
stato di guerra con la Germania, l'Austria-Ungheria, la Turchia e la Bulgaria». La sera stessa, la
delegazione ripartì per Pietrogrado, lasciando sbalorditi gli avversari, che non si aspettavano una
mossa cosi inconsueta nella tradizione diplomatica. Trotskij aveva agito secondo il mandato
ricevuto dal Comitato centrale bolscevico, e in base alla convinzione che le possibilità di una ripresa
del conflitto da parte tedesca non superassero il 25%. Successivamente, dichiarò di essere convinto
che aveva avuto ragione Lenin a proporre di firmare subito la pace, anche a costo di sacrificare
momentaneamente le esigenze dei popoli di Polonia, Bielorussia, Lettonia, ecc., a cui sarebbe stata
imposta una falsa «autodeterminazione» con le baionette tedesche, ma a condizione di preservare la
rivoluzione russa, che in quel momento particolare non era in grado di organizzare la difesa da
un'invasione tedesca in caso di mancato sviluppo della rivoluzione in Germania. Tuttavia, le
memorie, apparse molti anni dopo, dei principali interlocutori di Trotskij nelle trattative, e in
particolare del ministro degli Esteri austroungarico, Czernin, e di quello tedesco, von Kühlmann,
confermano che l'ipotesi su cui si fondava l'atteggiamento bolscevico in quella fase delle trattative
non era infondata: non solo gli esponenti del logoratissimo impero austro-ungarico, ma lo stesso
capo della delegazione tedesca, von Kühlmann, erano favorevoli all'accettazione della proposta di
Trotskij, e uno scontro molto aspro si svolse tra capi militari ed esponenti governativi alla presenza
dell'imperatore, che ancora una volta appoggiò le tendenze più aggressive dello Stato Maggiore.
Il 18 febbraio, le truppe tedesche rompevano l'armistizio invadendo nuovi territori sovietici, ben
oltre i confini proposti inizialmente dal generale Hoffmann. Lo spostamento di Trotskij a fianco di
Lenin determinava una nuova maggioranza nel partito bolscevico, e il governo sovietico lanciava un
appello per la firma immediata del trattato. Ma Hoffmann non aveva fretta, e solo il 23 febbraio
faceva giungere le sue condizioni: la più gravosa riguardava il ritiro delle truppe sovietiche
dall'Ucraina, per facilitare un'ulteriore avanzata tedesca, che doveva rimettere in sella la Rada
fuggitiva.
La decisione bolscevica di accettare persino queste nuove misure vessatorie determinava pesanti
ripercussioni sia nel partito (dimissioni di vari esponenti dai loro incarichi), sia col partito
socialista-rivoluzionario di sinistra, che fino a quel momento aveva condiviso con i bolscevichi la
responsabilità di governo, e che, per protesta contro il trattato, non solo si ritirò dal Consiglio dei
Commissari del popolo, ma sviluppò un'opposizione talmente violenta da costringere ben presto i
bolscevichi a pesanti misure repressive nei suoi confronti.14
Tra le ripercussioni indirette del trattato di Brest Litovsk (a cui i dirigenti bolscevichi furono
costretti dalla verifica che le direzioni riformiste erano riuscite ad arginare le prime manifestazioni
rivoluzionarie in Germania e in Austria), ci fu, quindi, anche la scelta forzata di gestire il potere
sovietico da soli, cosa che non avevano mai teorizzato e previsto, ma a cui si trovarono costretti
dalla violenta reazione dei socialisti rivoluzionari al trattato.
La necessità di un governo esclusivamente bolscevico trovò ampie teorizzazioni in età staliniana, al
punto che negli stessi partiti comunisti europei si è finito per cancellare ogni traccia del fatto che la
concezione della «dittatura del proletariato» per i bolscevichi non implicava affatto una «dittatura di
partito», per giunta «monolitico», senza nessuna dialettica interna, come divenne negli anni della
guerra civile il Partito comunista, che pure aveva consentito sistematicamente piena libertà di
tendenza al suo interno fino al 1921 (quando questo diritto viene limitato temporaneamente, ma non
soppresso, tanto è vero che, ancora per alcuni anni, le opposizioni poterono presentare in sede
congressuale documenti contrapposti a quelli della maggioranza).
Le conquiste territoriali tedesche si rivelarono, comunque, effimere; il trattato fu firmato il 3 marzo
1918 dalla delegazione sovietica, che rifiutò persino di leggerlo, per sottolineare che subiva una
costrizione e che rifiutava la finzione di una trattativa che era impossibile dati i rapporti di forza in
quel momento.
Ma, già nel novembre dello stesso anno, lo sfacelo dell'Impero tedesco e di quello austro-ungarico
rendevano assolutamente nullo il trattato, anche se, al termine della lunghissima e feroce guerra
civile, alimentata e sostenuta militarmente da molti Stati capitalistici, Italia compresa, e vinta dalla
nuova Armata Rossa, costruita e addestrata in condizioni diffìcilissime sotto la direzione di Trotskij,
lo Stato sovietico avrebbe ugualmente dovuto registrare alcune mutilazioni in diverse parti del suo
territorio.
Ma il danno maggiore era irreparabile: i bolscevichi erano rimasti soli al governo, e in quel terribile
1918 fecero errori su errori.15 Soprattutto nei rapporti dei soviet con le campagne.
Il rapporto città-campagna
L’accerchiamento delle potenze imperialiste, una vera “guerra civile internazionale”, incoraggiò la
riorganizzazione degli esponenti del vecchio regime, che cercarono di approfittare delle prime
14
Non solo tutti i partiti del movimento operaio russo, ma anche la quasi totalità dei partiti socialisti europei criticarono
aspramente la "capitolazione" di Lenin e Trotskij a Brest Litovsk. Non lo fecero solo quelli dei paesi dell'Intesa,
schierati dietro ai rispettivi imperialismi, e furiosi comunque per il ritiro russo dalla guerra, ma anche quelli degli
Imperi centrali. Perfino Rosa Luxemburg: nel suo contraddittorio saggio sulla rivoluzione russa, accanto agli elogi al
"merito storico" dei bolscevichi, "passati all'avanguardia del proletariato internazionale con la conquista del potere
politico", c'è anche una severa critica al loro atteggiamento a Brest Litovsk. "Mentre essi che non si erano lasciati
minimamente mettere in soggezione dalla votazione popolare dell’Assemblea costituente russa (...), a Brest Litovsk
propugnarono il referendum sull’appartenenza statale delle nazionalità non russe dell’impero come il vero palladio di
ogni libertà e democrazia, genuina quintessenza della volontà dei popoli e come suprema istanza in questioni di diritto
politico delle nazioni". In Rosa Luxemburg, Scritti scelti, a cura di L. Amodio, Einaudi, Torino, 1975, pp. 583-584.
15
Li ha analizzati lucidamente Roy Medvedev nel suo bel libro Dopo la rivoluzione. Primavera 1918, Editori Riuniti,
Roma, 1978.
incrinature dei rapporti tra i soviet cittadini e le campagne. 16 Lo stesso Lenin scrisse di aver sentito
dire a un vecchio contadino che “i bolscevichi erano buoni, ma i comunisti erano cattivi”. Il partito
bolscevico aveva cambiato il suo nome in quello di partito comunista nel marzo 1918, ma gli iscritti
erano più o meno gli stessi. Cos’era successo? Semplicemente che i contadini avevano apprezzato
molto dei bolscevichi la tenace battaglia per la pace e soprattutto il decreto sulla terra, ma erano poi
entrati in conflitto col potere sovietico, in cui dal marzo 1918 i comunisti erano rimasti soli a
governare, per il ritiro dei socialrivoluzionari di sinistra.
Il conflitto tra i contadini e i soviet non era ideologico, ma concretissimo (ed era anzi un conflitto di
interessi tra città e campagna)17. I contadini avevano coltivato la terra conquistata nel corso della
rivoluzione prima di tutto per soddisfare i propri bisogni. Gli appezzamenti ottenuti erano quasi
sempre troppo piccoli per assicurare un surplus sufficiente a rendere conveniente un viaggio per
collocare le eccedenze in zone lontane dove rendevano di più (ad esempio in una zona cerealicola
ovviamente il grano vale poco, perché tutti ne hanno), e in ogni caso il caos dei trasporti, dovuto
agli effetti prolungati della guerra, e a quelli incipienti della guerra civile, rendeva meno
interessante uno sforzo per aumentare la produzione oltre il fabbisogno familiare.
La conseguenza fu che le città furono affamate come mai durante la guerra. I soviet di fabbrica
organizzarono spedizioni nelle campagne per procurarsi cibo, con le buone o le cattive maniere. I
contadini venivano pagati con i nuovi rubli stampati dal potere sovietico, di cui tuttavia diffidavano
a causa dell’inflazione galoppante (non era una situazione solo russa ma di tutta l’Europa del primo
dopoguerra, con il famoso caso limite della Germania). Per i contadini non erano che pezzi di carta,
sicché preferivano i vecchi rubli zaristi (e lo Stato sovietico fu costretto per questo a stamparne un
certo quantitativo, che naturalmente si svalutavano non meno degli altri). Il problema vero è che
vecchi o nuovi rubli non avevano un quantitativo equivalente di prodotti industriali da acquistare,
per il crollo della produzione dovuta a vari fattori, a partire dal blocco dei porti da parte delle
potenze antisovietiche, dalla mancanza di carburante, di pezzi di ricambio, dalla difficoltà di far
giungere sul luogo di produzione le materie prime per il caos dei trasporti. La produzione scese al
13% di quella del 1913, e quelle poche fabbriche che funzionavano erano per giunta destinate a
sostenere lo sforzo militare imposto dall’aggressione e dalla guerra civile che divampava.
Non era facile distinguere le responsabilità esterne e le cause profonde di questa situazione: per
molti contadini è più semplice dire appunto che “i comunisti sono cattivi, i bolscevichi erano
buoni”. Se i contadini non si uniscono stabilmente ai “bianchi” è solo perché il programma di questi
(in larga misura ufficiali superiori di estrazione aristocratica) puntava apertamente a cancellare la
riforma agraria; ma molti contadini tenteranno di combattere gli uni e gli altri formando le famose
bande “verdi” poi mitizzate dagli anarchici.
16
Ovviamente l'attacco era stato iniziato da Germania e in misura minore Austria-Ungheria nell'intervallo tra
l'armistizio e la pace di Brest Litovsk, ed era continuato in spregio agli accordi anche dopo; ma intanto diverse potenze
dell'Intesa, non solo avevano rifiutato le richieste di aiuto del governo rivoluzionario di fronte all'attacco tedesco, ma
avevano cominciato a intervenire contro la giovane repubblica sovietica. In Siberia Giappone e Stati Uniti, la Francia
sul Mar Nero, la Gran Bretagna bloccava Arcangelo e Murmansk, mentre per conto delle potenze dell'Intesa un nutrito
gruppo di cecoslovacchi (30.000 ex prigionieri di guerra) venivano scagliati contro la rivoluzione, e anziché
raggiungere il fronte occidentale, occupavano la transiberiana collegandosi con i giapponesi che avanzavamo da
Vladivostok... Victor Serge, L’anno primo della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1967, p. 220.
17
In realtà i veri soviet erano solo quelli urbani, basati sul proletariato di fabbrica e su delegati eletti ma revocabili in
qualsiasi momento senza formalità. I soviet dei soldati avevano avuto una funzione transitoria, ma diversa e non c'erano
più dopo la decomposizione del vecchio esercito. I soviet nelle campagne già nel 1918 hanno lo stesso nome ma sono
un'altra cosa, soprattutto perché i delegati non sono di fatto revocabili, essendo eletti in circoscrizioni larghissime in cui
era impossibile che tutti si conoscessero come in una fabbrica in cui c'era un passato comune.
Scheda
Lenin e i contadini
Tra le varie calunnie che sono state rimesse in circolazione nella grande operazione anticomunista del
cosiddetto Libro nero del comunismo, curato da Stéphane Courtois e rilanciato in Italia da Mondadori (con la
grande sponsorizzazione di Berlusconi) c’è il mito di un Lenin spietato e pronto a sterminare i contadini
perché refrattari al comunismo. In realtà nelle Opere di Lenin, che raccolgono anche i più piccoli appunti
presi durante il convulso periodo della guerra civile, si trovano molti scritti che provano il contrario (non si
dimentichi che non erano destinati alla pubblicazione, anzi Lenin si sorprese che si cominciasse a raccogliere
mentre era ancora in vita tutti i suoi scritti, dicendo che non ne capiva l'utilità, dato che erano tutti disorganici
e contingenti, e scritti per esigenze specifiche concrete).
La stessa frase sui bolscevichi buoni e i comunisti cattivi era stata detta per stimolare alla riflessione sulle
cause di una crisi di relazioni che poteva essere tragica per la rivoluzione. Sono interessanti ad esempio le
lettere con cui Lenin sottopone all’attenzione dei collaboratori la figura di un contadino che ha avuto modo
di incontrare, Ivan Afanasievic Cekunov, che “simpatizza con i comunisti, ma non entra nel partito perché va
in chiesa, è cristiano”. Quello che conta è che “migliora l’azienda” e nel suo distretto “con l’aiuto degli
operai, è riuscito a ottenere la sostituzione di un cattivo potere sovietico con uno buono”. Soprattutto dice la
verità: “i contadini hanno perso la fiducia nel potere sovietico”. Lenin ne propone la fucilazione? Niente
affatto, ed anzi conclude che “è a gente simile che dobbiamo aggrapparci con tutte le forze per ristabilire la
fiducia delle masse contadine”. Lenin fa molte proposte di inserimento di Cekunov in apposite strutture del
potere sovietico, e raccomanda che in ciascuna zona sarebbe meglio trovarne tre, con le stesse caratteristiche:
“vecchi”, e soprattutto “senza partito e cristiani”. ( Lenin, Opere, v. 45, Editori riuniti, Roma, 1970, pp.5960).
Al tempo stesso, Lenin si occupava di molte piccole cose concrete, come il ridimensionamento del
costosissimo Bolscioi per finanziare le campagne di alfabetizzazione e le sale di lettura (ma le sue proposte
vennero respinte!); gli aumenti incontrollati di personale senza copertura; gli sbarramenti eccessivi per i
visitatori del Cremlino; la scelta degli accessori per la fabbricazione degli stivali; ecc.. Insomma era un uomo
assai lontano dal fanatico settario descritto da chi vuole impedirci di riflettere su quella straordinaria
esperienza.
Abbiamo già accennato al fatto che i rapporti tra i bolscevichi e i contadini si erano deteriorati
anche per la scelta dei socialisti rivoluzionari di sinistra (abbreviati SR) di lasciare il Consiglio dei
Commissari del Popolo per protesta contro gli accordi di Brest Litovsk.. Molti SR di sinistra erano
infatti provenienti dalla parte più radicale del movimento populista, e avevano per questo maggiori
legami col movimento contadino.
Inoltre, dato che erano convinti che la pace fosse un deliberato tradimento di un Lenin al soldo del
Kaiser, non esitarono a tornare alle vecchie abitudini, ricorrendo al terrorismo. Un attentato ferì
gravemente lo stesso Lenin, altri dirigenti bolscevichi furono uccisi, ma l’atto più grave fu
l’assassinio dell’ambasciatore tedesco, il conte Wilhelm von Mirbach, che voleva provocare un
intervento militare germanico, nell’illusione di scatenare come reazione la “guerra rivoluzionaria”,
come era avvenuto durante la rivoluzione francese. Inutile dire che dopo gli attentati diversi SR
finirono in galera, e alcuni vennero fucilati. I professionisti dell’anticomunismo vi scorgono la
realizzazione di un perfido disegno “leninista”, ma quale governo al mondo ha mai tollerato che si
spari impunemente ai suoi massimi esponenti? Altri SR di sinistra viceversa si unirono ai comunisti,
e tra essi lo stesso uccisore di von Mirbach, Jakov Bljumkin.18
Il caso di Bljumkin è molto interessante: era stato condannato a morte seduta stante, anche per l’aggravante di aver
usato la sua funzione di membro della Ceka per entrare nell’ambasciata, ma era riuscito a nascondersi per alcune
settimane, nel corso delle quali risultò evidente che la Germania non era in grado di aprire un nuovo fronte per
vendicare l’ambasciatore (si era già in luglio e i sintomi del prossimo crollo erano evidenti). Bljumkin d’altra parte capì
il senso della pace di Brest Litovsk: non un cedimento all’impero germanico, ma una scommessa sul suo prossimo
crollo sotto i colpi della rivoluzione che maturava. Pentitosi, si costituì, fu a sua volta perdonato e riammesso nella
Ceka, che era allora veramente lo strumento di difesa della rivoluzione, e in cui accanto ai comunisti si trovavano non
18
Abbiamo accennato al fatto che la guerra civile frantuma il paese e paralizza le fabbriche, per
sottolineare la difficoltà di uno scambio tra prodotti industriali (sempre più rari) e prodotti agricoli.
Ma le conseguenza più grave di questo blocco è la distruzione della classe operaia che aveva fatto
l’esperienza delle due rivoluzioni.
Gli elementi più coscienti, quelli che erano stati eletti delegati nei soviet, partono per il fronte dove
costituiscono il nucleo forte dell’Armata Rossa. Diventano comandanti o commissari politici, ma
sono ormai staccati dalla loro base naturale. Altri, la maggioranza, tornano al villaggio di origine
dove sanno di potersi sfamare. A volte collaborano all’organizzazione del potere sovietico nel
villaggio, ma una volta staccati dal tessuto organizzativo della fabbrica in cui si erano formati,
vengono in genere riassorbiti dall’ambiente circostante, caratterizzato da una cultura più arretrata e
da una scarsissima e rudimentale vita politica.
Dei primi, molti morranno (le perdite nella guerra civile sono elevatissime: i “bianchi” non fanno
prigionieri, specie tra chi appare più politicizzato)19; altri verranno assorbiti nell’apparato come
dirigenti di zone remote e a volte ostili (come era ad esempio gran parte dell’Asia centrale, dove
divamparono rivolte integraliste islamiche contro l’istruzione generalizzata a ragazzi e ragazze, e
dove non si perdonava al nuovo potere sovietico la battaglia per l’emancipazione della donna).
Molti di essi, anche i migliori, diventeranno diversi da quello che erano stati quando erano emersi
come avanguardie di una classe operaia maturata dalle lotte, e che controllava “dal basso” i suoi
stessi dirigenti.
È durante la guerra civile dunque, combattuta in condizioni terribili, che si gettano le basi per la
sostituzione della democrazia diretta dei soviet con la burocrazia.
Al termine della guerra civile, che si può considerare sostanzialmente conclusa nel 1920 con
l'invasione polacca e la fortunata controffensiva russa, i Soviet esistono ormai solo di nome, e
spesso sono sostituiti di fatto da un impiegato della vecchia Duma prerivoluzionaria che mette un
timbro su una pratica. La classe operaia formatasi nella rivoluzione del 1905 e che è stata
protagonista del 1917, non esiste più in quanto tale. Nelle dure condizioni della guerra civile un
gran numero di comunisti si è formato con le regole dell'Armata Rossa, che è l'esercito più
democratico del mondo ma è pur sempre un esercito. Anche nella terminologia politica emerge una
militarizzazione profonda della società. E nel 1921 c'è l'episodio cruciale della repressione
dell'insurrezione di Kronštadt, dolorosa ma inevitabile (mentre non era inevitabile lo strascico di
esecuzioni capitali che lo seguì, e che costituì un allarmante precedente) e c'è anche la scelta tardiva
- e generatrice di nuovi problemi - di introdurre la "nuova politica economica" (NEP) che migliora
momentaneamente la situazione delle città, ma introduce una pericolosa differenziazione sociale
che fa considerare possibile una rapida restaurazione capitalistica. Impossibile affrontare qui questi
problemi, per cui rinviamo ad alcune letture necessarie, in genere segnalate nel mio libro
Intellettuali e potere in URSS (1917-1991). Bilancio di una crisi, Milella, Lecce, 1995-20
(luglio 2007)
pochi anarchici e SR. Bljumkin fu poi fucilato per ordine di Stalin nel 1929, per aver incontrato nel corso di un viaggio
in Turchia Lev Trotskij, appena esiliato in quel paese.
19
Questo dato è in genere ignorato o sottovalutato dai detrattori professionali della rivoluzione, che enfatizzano invece
il Terrore rosso, che ci fu, ma giunse come risposta, dopo un periodo di mesi in cui la rivoluzione fu generosa e
imprudente, rilasciando sulla loro parola d'onore molti ufficiali, che divennero poi i capi della controrivoluzione. Vedi
come importante eccezione l'equilibrato W. Bruce Lincoln, I bianchi e i rossi. Storia della guerra civile russa,
Mondadori, Milano, 1991.
20
Tuttavia vale la pena di segnalare almeno un libro recentissimo che affronta in maniera soddisfacente i nodi di quel
drammatico periodo: Jean-Jacques Marie, Kronštadt 1921. Il Soviet dei marinai contro il governo sovietico, UTET,
Torino, 2007.
Scheda
Bibliografìa essenziale su Brest Litovsk
Le trattative di Brest Litovsk sono ampiamente trattate dalla più vasta ed esauriente storia della Russia
sovietica, quella di Edward H. Carr (nel vol. I, La rivoluzione bolscevica — 1917-23, Einaudi, Torino 1964.
Un altro testo che affronta con una certa ampiezza lo stesso periodo è la Storia della Rivoluzione russa di W.
H. Chamberlin, Einaudi, Torino 1966.
Una descrizione sostanzialmente corretta, anche se inframmezzata di aneddotica varia, è in L. Fischer, I
sovietì nella politica mondiale, Vallecchi, Firenze 1957 (vol. I).
Una ricostruzione molto ampia del dibattito nel Partito comunista sovietico si può trovare anche in: Victor
Serge, L'anno primo della rivoluzione russa, Einaudi, Torino 1967, più volte ristampato anche in edizione
economica, e in Isaac Deutscher, Il profeta armato, Longanesi, Milano 1956.
Una descrizione vivace e interessante delle trattative di Brest Litovsk è riportata dallo stesso L. Trotskij nella
sua autobiografia, La mia vita, Mondadori, Milano 1976. La correttezza del resoconto di Trotskij, anche per
quanto riguarda le polemiche interne, è stata confermata dalla pubblicazione dei verbali delle sedute del
Comitato centrale del partito bolscevico tra l'agosto 1917 e il febbraio 1918 (/ bolscevichi e la rivoluzione
d'ottobre, Editori Riuniti, Roma 1962).
Gli articoli e i discorsi di Lenin in quel periodo sono raccolti nei volumi XXVI e XXVII delle Opere (Editori
Riuniti, Roma 1966-1967).
Sulle ripercussioni nella società sovietica del trattato di Brest Litovsk, si veda anche il lucido saggio di Roy
Medvedev, Dopo la rivoluzione (primavera 1918), Editori Riuniti, Roma 1978.
Sulla guerra civile W. Bruce Lincoln, I bianchi e i rossi. Storia della guerra civile russa, Mondadori,
Milano, 1991. Orlando Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Corbaccio, Milano,
1997.
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