Clicca per scaricare la trascrizione dell`eventortf 86

annuncio pubblicitario
IDENTITA’ E MODERNITA’
Giovedì, 24 agosto 2006, ore 11.15
Relatori:
Francesco Follo, Osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO; S. Ecc. Mons. Francisco
Javier Martinez, Arcivescovo di Granada
Moderatore:
Lorenzo Albacete, Teologo e Editorialista del New York Times Magazine e New Republic
Moderatore: Buongiorno. Quest’anno non sono entrato nella “Monsignor-mobile”, un gesto incredibile di
umiltà, perché, primo, mi dicono che Cesana è entrato nella “Monsignor-mobile” per la sua conferenza, e
secondo, perché il mio ruolo è più istituzionale quest’anno: è quello di moderatore. Prima di cominciare,
devo sottolineare che la mia presentazione è resa possibile dall’acqua minerale Vera. Grazie. L’acqua della
post-modernità e l’acqua dell’identità. "Modernità e identità", certamente questo argomento scelto per
l’incontro è troppo vasto per essere trattato nella sua complessità entro i limiti dei tempi assegnati: un’ora.
Inoltre, questa non vuole essere una presentazione accademica sull’argomento ma un giudizio
sull’esperienza relativa al tema del Meeting, cioè la natura e lo scopo della ragione umana. Io, per introdurre
il tema, mi riferirò alla mia propria esperienza, poi ascolteremo la presentazione dei nostri due eminentissimi
ospiti e al termine cercherò di offrire una sintesi. Quando ho saputo che dovevo dire qualcosa su questo
tema, mi sono ricordato di un libro scritto da un amico, il suo nome è Leon Wieseltier, l'editor della rubrica
letteraria dell'influente settimanale politico e culturale americano "The New Republic". Wieseltier ha scritto
un libro dal titolo "Against Identity" - contro l'identità - che consiste in una raccolta di 74 aforismi o
riflessioni, una sorta di penseés. Essi riprendono gli interrogativi, le obiezioni e le riflessioni sull'esperienza
dell'identità come viene vissuta oggi negli Stati Uniti. Lo scopo dell'autore è di attaccare l'ossessione per
l'identità che oggi caratterizza la politica e la cultura americane, riabilitando l'idea dell'individualismo
rispetto a quella del 'comunitarismo'. Wieseltier crede che il concetto odierno di identità si opponga
all'individualismo che ha caratterizzato la storia americana, minacciando così i vantaggi politici di una
società costruita totalmente sull'individuo. Il suo libro è una potente dimostrazione dell'impossibilità di porre
fine allo scontro fra esperienza di identità (che implica un'appartenenza in cui la libertà assume la forma di
un'accettazione di ciò che è dato) e individualismo, in cui la libertà è la capacità di andare oltre i limiti di ciò
che è dato. La storia americana è stata spinta dalla tensione fra identità individuale e identità di
appartenenza, ma l'America – secondo questo libro - offre una soluzione al conflitto con la supremazia di un
individuo che è in grado di appartenere a più di una comunità auto-definitasi tale. Scrive: "L'identità è una
promessa di unicità, ma è una falsa promessa. In America molte cose sono possibili, ma non l'unicità
dell'identità". Non l’unicità dell’identità. Potrebbe essere così, ma questa è proprio la ragione per la quale,
come ha osservato un amico che immagino sia presente qui, in America è molto difficile dire "Io". È così
che noi viviamo questo problema. Si pone la domanda: dobbiamo accontentarci di essere un “Io” che sceglie
l’identità che meglio risponde alle circostanze della vita? Vedere come questa impasse tra identità definita da
un'appartenenza e libertà individuale è vissuta nel mondo di oggi, è lo scopo di questo incontro. Noi
sentiremo prima la relazione di monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso
l’UNESCO a Parigi.
Francesco Follo: Fino a questa mattina pensavo di essere il più umile, ma mons. Albacete è più umile di me.
Io ho sempre detto che sono orgoglioso della mia umiltà, ma la prossima volta entriamo in “Papa-mobile”…
Moderatore: L’anno prossimo lei entra in “Papa-mobile” e io scendo dal cielo…
Francesco Follo: D’accordo. Sì, perché è più difficile che salga… Comunque, il mio argomento è su tre
punti, li dico all’inizio così sarò chiaro. Il primo è una frase di Eliot: "Là dove non ci sono Templi, non ci
saranno dimore: non ci sono case senza Chiesa”. L’altra espressione, a cui mi sono riferito, è quella recente
che il Papa ha detto in una sua intervista alla televisione tedesca, parlando di “Polifonia delle culture”. La
terza, che sarà come conclusione, sarà la carità che si compiace della verità. Ma per dare un breve quadro,
cosa designano sinteticamente i filosofi parlando di situazione moderna o post-moderna? Ci sono almeno tre
punti distintivi di questa situazione cosiddetta moderna o post-moderna.
1. La crisi dell'idea di soggetto. Essere soggetto, per la cultura contemporanea, significa essere cosciente di
sé, così che il soggetto viene a concepirsi come realtà costituita in se stesso, precedente le sue relazioni e
indipendente dalle sue circostanze. Il coscienzialismo moderno, in questa sua declinazione, è all'origine della
concezione individualistica dell'uomo. Nella contemporaneità è forte la critica nei confronti della pretesa del
soggetto di possedere un'identità forte, originariamente data e individualmente caratterizzata. Si è giunti a un
punto tale che è diventata prevalente la tendenza, in ambito psicologico e sociologico, l'idea
dell'inconsistenza ultima di una identità autonoma autocostituentesi del soggetto. La questione dell'identità è
dunque oggi una questione urgente e difficile (cfr F. Botturi. La realizzazione dell'identità, in "Famiglia
oggi", 6/7 (2002), pp 36-40)
Il presente è la stagione del frammento e della molteplicità dei punti di vista, della differenza, come principio
fondamentale che guida l'agire nell'epoca della complessità e della tolleranza come categoria guida del
vivere sociale nel rispetto delle diversità. Il pensiero di questo inizio millennio sembra, infatti, muoversi
all'interno di un orizzonte unico in cui le categorie dominanti sono quelle di molteplicità, pluralità e
differenza.
Il presente è la stagione dei dopo, del postmoderno, l'epoca che viene dopo, innanzitutto il moderno, ma
anche dopo il nichilismo, oltre le ideologie e i miti che hanno caratterizzato a lungo il pensiero
dell'Occidente, generando spesso totalitarismi e violenze. Il dopo che la filosofia contemporanea ha di mira
(Nietzsche e Heidegger, ma anche Wittgenstein) è più simile allora ad uno «spostamento» (a una deviazione)
che a un «superamento» (nel senso progressivo di Hegel). Ci si allontana così dalla dialettica hegeliana (e
dall'idea di verità come movimento razionale e ascendente) e si prende congedo dai vincoli della filosofia
della storia, cioè dall'idea che il corso storico sia già orientato in senso razionale e dunque anche necessario.
E' davvero un fatto sintomatico che si sia connotato l'oggi a partire da un'indicazione temporale piuttosto
paradossale: l'oggi è un dopo! È sintomatico, perché in questo c'è un sentimento diffuso che sembra
accompagnare il presente, un presente che pare vissuto più che come tempo che preannunzi qualcosa di
nuovo, tempo aperto al futuro insomma e, quindi, alla speranza, come tempo che si pone dopo un altro, in un
certo senso segnandone il tramonto o una propaggine estrema. Il postmoderno rivela in questo di essere
l'oggi con i suoi ristretti ambiti, le sue angustie e le sue idiosincrasie. Ed è un oggi che sintomaticamente non
trova connotazione migliore per sé che quella di definirsi un dopo, che é più simile ad un tramonto che ad un
inizio. È la stagione del dopo, che connota questo suo essere dopo in un senso più negativamente finale,
conclusivo, che emancipante o liberatorio. Dopo significa tramonto e fine: nessun progetto per il futuro,
dunque, ma storia vecchia che si ottunde e distorce nelle continue rivisitazioni ermeneutiche.
A queste sfide una ragione frammentata e disincantata stenta a trovare risposte, mentre riemerge nella
solitudine delle coscienze il bisogno di essere riconosciuti, di essere chiamati per nome. Vale a dire c'è
l'esigenza di avere un 'identità.
Poiché in questo incontro mi è stato chiesto non di fare una lezione astratta, ma di dire cosa significa essere
cristiani, proclamare la propria identità cristiana, in rapporto al mondo ed alla cultura contemporanea,
parlerò di cosa significhi per me essere prete e diplomatico “romano” all'UNESCO. E per cercare di dare
unità a quanto sto dicendo mi servirò di una immagine che da una parte è legata alla Chiesa che viene spesso
descritta come una nave. Mi permetto di accostarla ad un'altra immagine presa da Otto Neurath, acutamente
riletta da Hans Blumber {Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell'esistenza, Bologna
1985). Ciò, mi auguro, permetterà di offrire una risposta a chi non vuole essere come una nave in balia delle
onde, ma un navigatore che, sulla nave della vita, è capace di attraversare il mare, migliorando ed ampliando
la sua nave in mare aperto. Grazie ai materiali che egli è riuscito a sottrarre al mare, forse provenienti da
naufragi, egli continua il suo viaggio senza fine (nel duplice senso di méta e di termine) o verso un porto,
verso una stabile dimora.
Potremmo dire che l'uomo impara a vivere in modo interculturale così: facendo esperienza di incontri più o
meno conflittuali con altre culture, le quali offrono materiali di cui, purtroppo, non sempre il navigatore sa
usufruire per la sua nave. Tuttavia, mediante un costante sforzo di appropriazione o, meglio, di
riconoscimento, l'uomo della nave riesce a formare, accrescere e riprodurre la sua cultura (la nave sulla quale
egli vive), che si fa sempre più grande, oggi diremmo globale. In questo gesto culturale, frutto di pensiero e
di pratiche, l'uomo é chiamato a vivere la sua condizione umana nell'epoca presente, elaborando un'esistenza
interculturale finalizzata ad una prospettiva di salvezza, di raggiungimento di un/a fine.
Ora, cercherò, il più brevemente possibile, sinteticamente di delineare come io navigo. Prima descriverò il
mare, vale a dire l’UNESCO, poi enucleerò ciò che faccio come marinaio della Chiesa.
Per dare un'idea dell'UNESCO in modo sintetico direi che è una Organizzazione Internazionale
Intergovernativa avente la funzione di essere
un Organismo:
 normativo;
 per la cooperazione internazionale;
 per
la
coordinazione
intellettuale
e,
quindi,
un
laboratorio
di idee ed un centro di scambio di informazione;
 per lo sviluppo delle capacità degli Stati membri.
Perché la Santa Sede vi è presente con un Osservatore Permanente?
 a motivo della sovranità specifica della Santa Sede, soggetto di diritto internazionale di natura
religiosa e morale, che ha relazioni diplomatiche con 174 Stati nel mondo. Ricordo che la Santa Sede
inoltre è presente presso 33 Organizzazioni e Organismi Internazionali Intergovernativi e 10
Organizzazioni e Organismi Internazionali Regionali.
 A motivo del «lien organique et constitutif qui existe entre la religion en général et le christianisme
en particulier, d'une part, et la culture, d'autre part» (Discours de Jean-Paul II à l'occasion de sa visite
à l'UNESCO (2juin 1980),
 «pour prendre part à la réflexion et à l'engagement» de l’UNESCO (Message de Benoit XVI pour le
XXV anniversaire de la visite de Jean-Paul II à l’UNESCO (2 juin 2005).
Qual è il messaggio che sono chiamato a proporre. Su quali idee si basa l'identità di un prete diplomatico
della Santa Sede? Riferendomi a quanto Giovanni Paolo II, ma anche Papa Benedetto XVI insegnano, direi
che i concetti base di questa identità diplomatica romana sono:
 la priorità della persona, con la conseguente esigenza del rispetto assoluto della vita umana in tutti gli
stadi del suo sviluppo biologico ed il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare, il diritto alla
libertà di coscienza e di religione.
 La promozione e la difesa della pace, che implicano il rifiuto della guerra come soluzione agli
inevitabili contenziosi tra i popoli. Il che non vuol dire che la Chiesa cattolica è "ingenuamente"
pacifista (cf Gaudium et spes, n. 79,4).
 La giustizia come condizione per la coesistenza pacifica tra i popoli. Benedetto XVI nel suo discorso
al Corpo diplomatico, il 9 gennaio 2006, disse: "La verità vuole che nessuno Stato prospero si


sottragga alle sue responsabilità ed al suo dovere di aiuto, attingendo con una più grande generosità
nelle sue proprie risorse".
Il dialogo tra le religioni e le culture. Giovanni Paolo II è il Padre dello spirito di Assisi ed ha
mostrato il cammino verso Dio, invitando tutti gli uomini di buona volontà a ravvivare senza sosta la
loro coscienza ed a edificare una società di giustizia e di pace, di solidarietà nella carità e nel perdono
reciproco" e Papa Benedetto XVI continua in questo senso, proclamando la verità nella carità ed ha
invitato i Responsabili delle nazioni a "vincere la tentazione dello scontro tra le culture”.
Il primato del diritto internazionale, che deve guidare il comportamento dei responsabili degli Stati
uguali, che formano la "famiglia delle nazioni".
Concludo questo aspetto citando un episodio molto interessante. Quando finì la seconda guerra mondiale, il
Nunzio restò a Berlino e arrivarono gli eserciti liberatori. Ad un certo punto un generale chiese: “Il Nunzio
Apostolico, presso chi è accreditato?”. Perché non c’era il governo in quel momento. Intelligentemente il
Nunzio disse: “Siamo accreditati presso sua maestà la miseria umana”. Il ruolo era: noi siamo qui per
l’uomo. E quel generale non ebbe niente da ridire. Il governo presso cui quel Nunzio si sentiva accreditato
era il governo della povertà umana di gente distrutta dalla guerra. Cosa vuol dire dare una testimonianza qui,
da parte mia, questa mattina? Io ho imparato nella nostra esperienza che la testimonianza non è il buon
esempio ma la forma stabile di un giudizio, cioè noi siamo testimoni perché diamo ragione di ciò che
abbiamo visto e incontrato. Il buon esempio è solo una forma di credibilità della proposta cristiana, che a
vari livelli e a vari titoli ciascuno di noi è chiamato a svolgere. Per questo la frase che ho citato è quella di
Paolo, 1 Corinti, capitolo 13, versetto 6, che la carità si compiace della verità, perché non gioisce
dell’iniquità ma gioisce con gli altri della verità. La verità dell’essere umano va dalla sua promozione fino
all’annuncio di una libertà grande, di una Presenza vera e moderna, perché Cristo non è morto ma risorto e si
propone come annuncio agli altri. Concludo citando questo: la solidarietà richiede una marcia in più,
richiede di acquisire in positivo che è immorale costruire una morale solo su stessi, a misura di sé e delle
proprie esigenze. Richiede di pensare e vivere la nostra umanità come necessariamente implicante la
relazione con gli altri, al punto tale che senza questa relazione la nostra stessa identità verrebbe annullata.
Non solo dobbiamo rispettare gli altri e la loro differenza, ma non possiamo vivere senza gli altri. Di fronte
alla crisi dei fondamenti, la realizzazione della propria essenza è affidata, non alle certezze ormai malferme
della scienza, ma al rischio, per citare un Autore, al rischio educativo della fede e della propositività di una
identità che si radica in un'esperienza di comunione ecclesiale.
E termino con un frammento di Eraclito. Quando ero studente di filosofia, ovviamente quando ci dicevano
che era rimasto solo un frammento eravamo contenti, perché c’era meno da studiare, ma purtroppo è rimasto
solo questo frammento di Eraclito che dice: “L’ethos dell’uomo è Dio”. In greco ethos non vuol dire solo
morale ma anche dimora, quindi la traduzione di questo frammento significa: il nostro compito, di gente che
vive una identità moderna, è di riscoprire che la nostra casa è Dio. Grazie del vostro ascolto.
Moderatore: Il prossimo ospite non ha bisogno di nessuna introduzione, l’Arcivescovo di Granada,
l’Arcivescovo di tutte “las lindas mujeres”
Javier Martinez: Invece io devo cominciare chiedendo scusa perché non parlo la bella lingua di Dante ma
una lingua recente, chiamata stagnolo.
Moderatore: Non si preoccupi, Eccellenza, diventa la lingua del movimento...
Javier Martinez: E per circostanze non decise da me devo parlare a braccio, e allora dovete sopportare questa
lingua. La seconda cosa è che non sono mai stato nell’Oceano Indiano, invece oggi mi sento come uno che
deve andare nell’Oceano Indiano, un po’ per voi un po’ per il tema, perché veramente il tema è tutto e non
credo che si possa andare neanche con la “papamobile”. Tenterò di sottolineare alcuni aspetti che mi
sembrano utili come presupposti di una certa problematicità che tutti sappiamo esserci tra questi due termini:
modernità e identità. Il mio compito è cercare di capire perché questi due termini sono l’espressione di un
conflitto, e dopo domandare se deve necessariamente, inevitabilmente, essere così. Nel fare le mie
riflessioni, non farò nessuna distinzione fra modernità e post-modernità, perché rispetto alle questioni che
voglio menzionare non mi sembra che ci siano differenze sostanziali. La post-modernità è, in un certo senso,
rispetto a questo tema, una iper-modernità, il suo fine logico, anche se questo fine logico può essere la morte
della modernità. Come punto di partenza io vorrei fare una citazione sulla libertà. Mi sembra che quello che
può definire nel modo più sintetico possibile l’atteggiamento moderno è il culto della libertà, ancora più del
culto della ragione. Per sottolineare questo, voglio appoggiarmi ad un testo di un pensatore irlandese Terry
Eagleton. Ho scelto questo autore e questo testo perché mi pare che vi sia espresso in modo molto sintetico e
preciso lo spirito della modernità e anche perché il suo pensiero non ha nessuna apertura alla tradizione
cristiana. In un suo libro molto recente, “Holy Terror”, terrore sacro, in un capitolo che si intitola “Libertà e
paura”, Eagleton scrive: “Il fenomeno che identifica espressamente l’età moderna è la libertà che, come il
dio Dionisio, è nello stesso tempo angelo e demonio, bellezza e terrore. Se la libertà è circondata da un alone
sacro, non è solo perché è preziosa ma perché può distruggere e nello stesso tempo creare. Rispondendo alla
domanda da dove viene la libertà, la modernità ha risposto: da se stessa. Se la libertà deve essere un valore
assoluto, deve poter giungere al suo significato ultimo, non può trovare il suo fondamento in nulla che non
sia la sua pienezza infinita. Se non fosse così, se dovessimo indicare un fondamento o qualcosa che possa
sostenere questa libertà dall’esterno, non sarebbe più assoluta”. Eagleton sottolinea altre due cose. La prima
che il paragone più vicino a questo ideale moderno della libertà è l’opera d’arte nella concezione moderna,
perché l’opera d’arte nella modernità non ha nessun fondamento e nessuna pienezza al di fuori di se stessa.
La seconda cosa che accenna Eagleton è la differenza fra modernità e pre-modernità, relativamente alla
concezione di libertà, perché nel mondo pre-moderno la libertà aveva il suo fondamento in Dio. In questo
senso lui distingue, in un certo modo, la libertà moderna dalla libertà cristiana. La libertà cristiana ha un
fondamento, un contenuto, una pienezza che è Dio, Dio come pienezza dell’uomo. La libertà moderna,
invece, non avendo nessun fondamento, è una libertà, dice lui, assolutamente negativa, citando Hegel la
considera la libertà del vuoto. Hegel descriveva questa libertà come il puro terrore del negativo che non ha
nessun positivo, niente che le doni un contenuto, non avendo alcun contenuto che se stessa. La libertà
moderna può distruggere - la Rivoluzione Francese ha distrutto - ma non può creare un altro mondo. Il fine
di questa libertà assoluta è la morte. Eagleton arriva a dire che la sua pienezza è il suicidio, perché questa
libertà così concepita non soltanto distrugge il mondo, ma finisce per distruggere se stessa, trova la pienezza
in se stessa. In questo senso, cito ancora Eagleton, “una concezione della libertà assoluta è necessariamente
terrorista”.
Quali sono i presupposti di questa concezione della libertà? A mio avviso, soprattutto la concezione dell’io
come io assoluto, come il punto di partenza di tutto, come colui che occupa il posto di Dio. Un io concepito
come assoluto non ha nessuna possibilità di camminare verso la pienezza, perché deve avere tutta la
pienezza in se stesso. Non può riconoscere il mistero, il segno nella realtà, perché non può concepire il
mistero che come un avversario, come un competitore e mai come un complice, mai come un amico, mai
come qualcosa a cui si può tendere, che si può amare. Un aspetto molto significativo di tutta la riflessione di
Eagleton sulla libertà in questo libro è che la parola amore non compare mai. Invece, tutta l’attrattiva della
libertà è la sua connessione con la possibilità di amare. La libertà è destata da una grazia, da un amore,
sempre nell’esperienza umana, e trova la sua pienezza nell’aderire a questa grazia, a questo amore. E non c’è
cosa più libera dell’amore. Allora, facendo un riassunto: mentre la concezione moderna della libertà, come è
descritta da Eagleton, è una negatività assoluta, la concezione cristiana è una concezione dove la libertà ha
un contenuto positivo e sostiene concretamente il cammino, la vita dell’uomo. L’io moderno è un io astratto,
per essere assoluto non deve conoscere famiglia, comunità, tradizione, patria, ha tutta la sua pienezza nella
sua libertà. Il contenuto dell’io, nella modernità, si esaurisce nella libertà e la libertà esaurisce tutto quello
che l’io significa. L’io non ha doveri, non ha rapporti, questo io è astratto, non ha che interessi e il resto del
mondo, concepito come la res extensa cartesiana, è soltanto il cantiere per soddisfare gli interessi e le
pulsioni di questo io.
A mio avviso, il filosofo MacIntyre ha descritto bene come, a partire da questa concezione moderna dell’io,
non è possibile fondare ragionevolmente una vita morale e pertanto fondare una politica vera o fondare una
educazione. Per l’uomo moderno il mondo è tutto quello che non è l’io e siccome l’io è un assoluto, esiste
soltanto per soddisfare l’io, che non ha doveri. Forse questa è la verità contenuta nella riflessione di Eagleton
sul fatto che una libertà assoluta è inevitabilmente terrroristica. E’ per questo che l’io moderno ha creato
nello stesso tempo, fin dall’inizio della modernità, lo Stato moderno, il Leviathan. Una libertà assoluta
domanda un potere assoluto per essere controllata, e questo è un paradosso, in un certo senso è il paradosso
più grande della modernità: l’uomo, affermando la sua soggettività infinita – individualismo - finisce in una
alienazione totale, perché lo Stato che deve controllare - non il popolo, perché nella modernità non esiste il
popolo, muore il popolo come muore la famiglia -, questa somma di individui astratti, identificati soltanto da
un numero, assolutamente intercambiabili, deve diventare un potere assoluto così come l’io deve diventare
non-io, res extensa. Io sarei un oggetto per voi e tutti voi sareste un oggetto per me e tutti noi saremmo un
oggetto per lo Stato, per la politica e per l’economia concentrate nello Stato. In questo contesto, sono
assolutamente cosciente dello schematismo, della mancanza di sfumature, dell’estrema semplicità fino alla
deformazione di questa esposizione. Ma in questo contesto l’affermazione dell’identità non può essere che
un pericolo. Chi afferma la sua identità come questa identità, è una libertà senza limite, diventa un pericolo.
Bisogna distruggere qualsiasi identità che ha il potere di diventare uno Stato nel senso moderno della parola
stessa: uno Stato nazione.
I due modi di affrontare, nel contesto della antropologia moderna, le identità sono: o questa identità diventa
uno Stato, come è accaduto per esempio con il nazional-socialismo, con i Paesi dell’est nel secolo
ventesimo, e come accade adesso in un certo senso nel mondo del Medio Oriente, oppure tutte le altre
identità devono essere addomesticate, ridotte. Da un lato ridotte a credenze private, innocue, che sono o
possono essere mantenute come residuali di un mondo che è esistito e che rimane come folkloristico,
dall’altro respinte nello spazio del privato, nel senso che non possono pretendere di avere un rapporto con la
verità delle cose, con la verità del mondo, con la verità della vita umana. Qualsiasi posizione che possa
essere messa in rapporto con una identità, con la verità delle cose e possa pertanto significare una messa in
questione della dogmatica della modernità, diventa un pericolo, viene accusata di fanatismo. In questa
conflittualità fra identità, antropologia e politica moderna, un ideale diventa sempre la soppressione
dell’altro, perché l’altro è sempre un limite alla mia infinita libertà. Non c’è un modo di affermare
un’identità che non sia un negare l’altro. Questa è la legge che regge la politica contemporanea dei partiti:
avete mai sentito un partito dire che l’altro partito ha fatto molto bene? Congratularsi con gli altri? Lo
esemplifica anche la pubblicità. Avete mai sentito un imprenditore dire che il suo competitore fa una cosa
veramente buona? Mai, mai.
Faccio questi esempi, perché altri, più drammatici, per esempio, Palestina e Israele, si scostano un po’ da
questa mentalità. Non si può affermare se stessi senza negare l’altro: questo mette in rilievo un aspetto forse
dimenticato nell’analisi del fenomeno nel Medio Oriente. Infatti, alcuni dei problemi più profondi di quei
popoli, non sono problemi endemici loro, sono problemi endemici nostri. Per esempio, l’esportazione nel
Medio Oriente di un concetto di nazione basato su questa antropologia moderna, creata in Europa, quando il
Medio Oriente ha vissuto una molteplicità di identità in un modo diverso dalla nazione-stato moderna,
delimitata con le frontiere, dove l’altro è fuori perché io possa essere tutto in questo territorio che è il mio
territorio. Forse sarebbe utile approfondire questo, perché se noi abbiamo una dipendenza da questa
antropologia, non pensate che questa antropologia sia quella di quelli che non credono. Noi viviamo in
questa società, siamo nati in essa, siamo stati educati in essa, la morte che è dentro questa ideologia può
essere facilissimamente la nostra morte. C’è una alternativa? Io credo di sì. Ho parlato prima
brevissimamente di un concetto diverso di libertà. Voglio, però, sottolineare che non è questione di dire che
una cosa è l’antropologia moderna, un’altra cosa è l’antropologia cristiana e che noi scegliamo quest’ultima
perché ci sembra più bella, più adeguata. Credo sinceramente che la modernità distrugga se stessa e che noi
ci distruggiamo nella stessa misura in cui partecipiamo alle sue premesse. L’unico modo di proporre
un’alternativa a questa cultura omologata, mi sembra appellarsi all’esperienza di fatti. A me sembra che
anche il giudizio che ho dato non potrebbe sussistere senza aver un altro posto dal quale darlo. E a partire da
dove formulo questo giudizio? Dall’esperienza cristiana. E quando dico esperienza cristiana dico
l’esperienza storica della Chiesa e sono perfettamente cosciente di tutti i tradimenti, tutte le menzogne, tutte
le utilizzazioni del cristianesimo fatte dai cristiani e anche dai pastori durante la storia della Chiesa. E sono
consapevole anche di tutte le riduzioni, che abbiamo fatto e che facciamo ancora, di questa esperienza a
ideologia, a un’altra ideologia che si contrappone al mondo moderno. Bisogna anche non dimenticare, però,
che quelle categorie fondamentali dell’antropologia moderna hanno una lontana radice cristiana e forse,
dicono alcuni, oggi l’unico modo di recuperare l’idealità della modernità è recuperare l’esperienza cristiana,
è convertirsi, per ritrovare nella sua freschezza quel fatto, quell’avvenimento che cambia la vita.
Ma per non rimanere nell’astratto, vorrei portare degli esempi. Quando la modernità propone l’ideale
dell’uomo che ha compiuto questa idea di libertà, che immagine ne dà? E’ il suicida, come in Blow-up di
Antonioni. Il suicida è l’uomo perfetto, forse può avere una bellezza tragica ma non ha un’attrattiva, non può
proporsi, il suicidio non può proporsi come una soluzione politica. Hitler lo tentò una volta, come proposta
per il futuro. Io per esempio conosco degli israeliti che in questi anni di Intifada andavano ai check point
dove forse una donna palestinese, che stava per partorire, era trattenuta 2 o 3 ore. E andavano lì per dire ai
loro soldati: “Voi non potete fare questo, è indegno dell’uomo”. Sono cosciente che questa antropologia, che
ho descritto così semplicemente, non risponde al cuore dell’uomo, mentre il fatto cristiano, come esperienza
globale, come cultura, come popolo, sviluppa un modo di vita che corrisponde all’esigenza del cuore e lo
rende una possibilità per tutti, Questa è la vita della Chiesa. Ho conosciuto una famiglia nella quale il padre
era stato assassinato dall’Eta, davanti alla porta della casa, davanti alla moglie e ai sei figli e ho trovato
questa moglie, sette anni dopo, che mi diceva: “Noi siamo in pace, siamo felici, abbiamo perdonato,
preghiamo tutti i giorni per gli assassini di mio marito, del nostro padre e continuiamo a lavorare per un
mondo dove possiamo vivere assieme senza odiarci”. A me sembra che questo sia l’unico modo possibile,
l’unico cammino. Ho conosciuto anche una coppia ortodossa, in Palestina, la quale, vedendo i bambini e i
ragazzi che andavano nelle strade, senza famiglia, orfani, un giorno ha deciso di portare alcuni di questi
bambini a casa. Il marito rientra una mattina per il pranzo di mezzogiorno e domanda a sua moglie:
“Possiamo mettere con i nostri figli alcuni di questi bambini?”. E la mamma risponde: “Sì ma non più di
dieci!!”. Oggi questa vicenda ha più di cento casi simili, e continua ad essere la vicenda di poche persone
cristiane con tutti questi bambini che sono musulmani, bisogna dirlo! E non si fa il catechismo per questi
bambini musulmani, li si ama. Questo è il modo di affrontare la vita della grazia che abbiamo incontrato.
Può sembrare un’utopia, ma io non conosco un altro cammino per fare di questo mondo un mondo meno
brutto e per vivere con gioia e con libertà quello che ci è stato donato nella nostra esperienza. Viverlo fino in
fondo, goderlo fino in fondo, amarlo fino in fondo. Il resto non è un nostro problema, perché noi non siamo
moderni a tal punto da pensare che dobbiamo fare un disegno di tutta la storia. Dobbiamo solo vivere la
nostra vita con la più grande verità, con la più grande libertà che ci è stata donata. Grazie.
Moderatore: “La ragione è esigenza di infinito e culmina nel sospiro e nel presentimento che questo infinito
si manifesti". Il dramma della modernità è effettivamente il dramma della ragione. Come scrive il nostro
Alberto Savorana su Tracce: "II titolo del Meeting va a toccare il nocciolo della modernità, che è l'inimicizia
fra ragione e Mistero. Il razionalismo è questa negazione del rapporto ragione-Mistero, cioè di una ragione
non concepita come apertura alla totalità". Ma continua: “Il frutto della mentalità razionalista è che, oggi,
possiamo trovare qualcuno che, usando la ragione, arriva ad ammettere il Mistero, ma pochissimi per i quali
il culmine della ragione è il presentimento che esso intercetti la mia umanità”, pochissimi per i quali la
ragione è all'apice del suo esercizio quando registra un avvenimento. "Il vero dramma dell'uomo non è
credere o non credere in Dio”, parole di don Giussani, “ il grande dogma della cultura moderna è
l'impossibilità della rivelazione". Ricordo che a don Giussani fu chiesto di rispondere alla domanda di T. S.
Eliot: “E’ l'umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa ad avere abbandonato l'umanità?”.
“Entrambe le cose” ha risposto don Giussani. Con il sorgere delle ideologie della modernità, l'umanità ha
abbandonato la Chiesa, ma la Chiesa ha abbandonato l'umanità quando ha provato imbarazzo a causa di
Cristo, quando la cristianità ha smesso di essere presentata come un evento e la fede come avente inizio da
un incontro con l'uomo. Il cattolicesimo è stato così ridotto a un sistema intellettuale e morale in cui era
difficile trovare il bisogno dell'Incarnazione, ad eccezione di quando ci si trova a dover pagare per il danno
causato dal peccato. I teologi cattolici sono stati effettivamente in grado di immaginare un destino di perfetta
felicità, conseguita senza condividere la vita di Cristo. La modernità, amici, è figlia di questo terribile errore
dentro la Chiesa cattolica.
È stato questo il motivo per cui la Chiesa ha deciso di impegnarsi in un dialogo con la modernità. Il Concilio
Vaticano II ha cercato di rimediare al danno con la sua famosa dichiarazione della Gaudium et Spes 22: il
mistero dell'uomo non può essere compreso appieno quando è separato dal mistero di Cristo. La rivelazione
di Cristo del mistero del Padre e del suo amore (il mistero della Trinità), rivela l'uomo a se stesso. Il fine, lo
scopo, il destino di ciascuna persona umana non può essere compreso senza la rivelazione del Mistero nella
carne dell'uomo come Mistero di un Dio Trino. Al di là delle conseguenze che ciò comporta, gli sforzi e i
fallimenti della modernità sono pienamente comprensibili. La realtà del cuore umano e dei suoi bisogni
costitutivi - la realtà della ragione e la natura drammatica della sua ricerca di un significato, della totalità non può essere separata dal mistero di Gesù Cristo. È davvero cercando di esprimere in modo adeguato la
sua esperienza dell'evento di Cristo che la Chiesa ha contribuito alla civiltà con il concetto di persona in
quanto soggetto unico e irripetibile, dopo il Concilio di Calcedonia nell'anno 451. La ragione di questa lotta,
lotta tra individualismo, libertà assoluta e libertà di appartenenza, si origina nel fatto che ogni essere umano
è stato creato per condividere la vita di Gesù Cristo. Ed è solo perché Egli rivela che il Mistero è una
comunione trinitaria di amore assoluto, che la condivisione della Sua vita è l'unico destino che può
soddisfare i desideri del cuore dell'uomo.
Prima della pubblicazione della prima Enciclica di Papa Benedetto XVI, la “Deus Caritas est”, in molti si
aspettavano che il Papa condannasse le conseguenze distruttive degli errori della modernità, soprattutto del
relativismo moderno. Il Santo Padre - mi sembra - è ben consapevole delle origini più profonde del
relativismo moderno e dei tragici risultati dei suoi tentativi di proteggere la libertà riducendo il campo
d'azione della ragione e soffocando l'attrazione del cuore verso l'infinito. Il problema, egli riconosce, ha
origine nella negazione della possibilità e della realtà dell'Incarnazione. Per questo motivo egli si riferisce
alla Prima Lettera di Giovanni, in cui l'autore lotta contro la negazione della verità su Cristo nella sua
comunità. È in questa lettera, nelle discussione su questa negazione dell’Incarnazione, che troviamo il
giudizio: “Deus Caritas est”. Cioè, la conclusione che “Deus est caritas” non è solo una sorta di sentimento
religioso o un'intuizione filosofica circa la natura di Dio. È la descrizione del giudizio pronunciato dalla vita
in seno alla compagnia di coloro che condividono la vita di Cristo. È questo legame, questa amicizia, questa
unità, che risveglia in me questa consapevolezza. Se ho avuto esperienza di quella comunione, posso dire
che "Dio è amore".
Amici, l'identità della persona di Cristo non può esaurirsi nelle forme attuali di appartenenza in termini di
razza, etnia, genere, nazione, e così via. Tuttavia, nulla di quanto vi è di prezioso in queste forme, in quanto
dimostrazioni della fecondità dell'amore creativo di Dio, va perso quando è incorporato in Cristo. Tanto più
forte è l'identità cristiana, tanto più reale è il soggetto cristiano, tanto maggiore è la capacità di una diversità
che rifletta la ricchezza della comunione trinitaria. L' "Io" cristiano in Cristo è la capacità di essere posseduto
e trasformato dall'amore della Trinità. E questo è, come ha sottolineato Sua Eccellenza, il contributo della
Chiesa al dramma della vita moderna - semplicemente essere fedele a se stessa. Grazie e arrivederci.
Scarica