I confini e gli scambi. Per un insegnamento della storia “secondo criticità e secondo mondialità” Franco Cambi 1.Fine dell’etnocentrismo ? Oltre le nazioni (e l’Europa e l’Occidente ) L’etnocentrismo è quella visione del mondo e della cultura e della società che nasce in un luogo specifico, relativa ad esso (alla sua etnia, alla sua mentalità, alla sua tradizione), legata ad una prospettiva (un punto di vista; un cosmo di valori; un fascio di credenze), la quale, però, si dispone a principio e a norma, a modello universale, gerarchizzando, a partire da questa ottica, le differenze e legittimando l’egemonia dell’ ethnos che viene applicata in ogni ambito della vita mentale e collettiva. Tale modello è stato decostruito e delegittimato proprio dalla nostra cultura occidentale contemporanea. Dalle indagini delle scienze umane: con l’antropologia in testa, ma anche la sociologia dei processi culturali, la psicologia sociale, la psicoanalisi e la stessa pedagogia (che, da sempre, guarda ad un anthropos universale come suo compito: da Socrate a Comenio, a Rousseau, a Dewey, tanto per esemplificare); dalla stessa indagine biologica, con la scoperta del DNA soprattutto, che ha avvicinato tutte le etnie tra di loro e le ha imparentate, casomai, con i primati superiori, riconfermando in tal modo le tesi dell’ancora discusso (ma ideologicamente e non scientificamente) Darwin. Così il modello etnocentrico che ha alle spalle l’idea di razza e quella di egemonia è stato rivisitato e, sostanzialmente, archiviato, per quanto riguarda l’interpretazione e dell’uomo e del suo futuro culturale e sociale. Va riconosciuto però, che presso altre culture (e, per certi aspetti, anche in quelle occidentali) l’etnocentrismo è un punto di vista ancora attivo (e si pensi al “caso” delle vignette sull’Islam, guardato sia dall’Islam sia dall’Occidente), talvolta fortemente attivo (e si pensi ai vari integralismi religiosi e/o politici). Anche se, di fatto, noi ci troviamo dentro un Tempo Storico che reclama Mondialità, Dialogo, Collaborazione e Solidarietà, che afferma la Multiculturalità un po’ in tutte le plaghe della terra, che pone le etnie a confronto e domanda ad esse un’intesa.Allora dobbiamo riconoscere che l’etnocentrismo è morto” e “vivo” al tempo stesso, ma anche che è un ostacolo ( pur, forse, pro tempore fisiologico) al Compito del Nostro Tempo, che è quelo di costruire Accordo e Intercultura, Dialettica tra Etnie/Culture e Ottiche di Meticciato. Che fare? 1) Continuare a delegittimare l’etnocentrismo per via scientifica 2) Depotenziare i fondamentalismi 3)Diffondere l’intercultura 4)A cominciare dall’informazione, dalle politiche locali, dalla formazione scolastica 5) E lì a cominciare dalle discipline più etnocentricamente esposte, come la letteratura, l’arte, la filosofia, la religione (anche dove non è insegnamento scolastico) 6) Ma soprattutto a cominciare dalla storia, che è ancora insegnata (e a livello mondiale o quasi) secondo un paradigma nazionalistico, etnocentrico, egemonico e, quindi, chiuso ad ogni ottica di intercultura. Da qui un compito: cominciare dalla storia a costruire intercultura, de-etnocentricizzandola, mondializzandola, rendendola più problematica e aperta nel suo guardare la passato, attivando ottiche di differenza, di confronto di strutture, di modelli, di forme di vita, etc., di reciproca problematizzazione delle civiltà. Un compito nuovo, soprattutto nella storia insegnata che risente dei nazionalismi come principi motori del suo insegnamento scolastico. Modello che, però, oggi va radicalmente superato: compreso e rimosso, problematizzato e cambiato. 2. Entrare nella storia mondiale: strutture, autonomie, incontri Il primo gesto per entrare nella storia, rendendola adeguata, anche nel suo insegnamento, all’identità e al suo ruolo che ha nel nostro tempo, è quello di mondializzarla: di superare le barriere etniche e geografiche e riconoscere le molte storie che hanno dato vita alla storia mondiale. Così ritorna in primo piano quella Weltgeschichte o storia universale di cui un settore della storiografia ottocentesca e post è stato protagonista, con Burchkardt, con Weber anche, con Toynbee, che guarda a costruire le categorie-chiave della civiltà, le tipologie geo-sociali, culturali, antropologiche, religiose, le strutture delle mentalità, etc.: in un gioco ricostruttivo/interpretativo che ne decanta l’articolazione, la complessità, i perimetri e le forme secondo un’ottica che si alimenta di relativismo quanto di intersezioni, di prestiti, di innesti, secondo un iter assai complicato di rapporti a più facce e in continua trasformazione. La Weltgeschichte ci offre ancora molte indicazioni di contenuto e di metodo, come pure fissa bene l’oggetto della svolta in atto della ricerca storica, la quale deve sempre più incorporare un “occhio” o “coscienza” comparativa, relativizzante e integrativa, capace di leggere il pluralismo attraverso cui si costruisce l’unità stessa della civiltà/civilizzazione dell’Homo sapiens sapiens. A quei contributi e a quel dibattito possiamo tornare per qualificare la frontiera della “coscienza storica” che deve oggi illuminarci e guidarci, in particolare, nel fare il “mestiere di storico”. Si rileggano le pagine burchkardtiane delle Meditazioni sulla storia universale, ad esempio. Ma non solo: anche dalla frontiera dello strutturalismo ci giunge una lezione assai significativa. Si pensi a Braudel e al suo Il mondo attuale, dove sono invece le differenze, le specificità, i pluralismi con le loro “strutture” a tener il campo. La storia universale viene qui riletta nelle sue macro-aree, poi nei suoi settori e nelle loro diacronie, passando dalle aree più antiche dell’Asia a quelle più recenti dell’Europa, a quelle antiche e nuove dell’Africa, poi a quelle nuovissime delle Americhe e dell’Australia. Così si viene a decantare un pluralismo assai complesso di forme di civiltà e, insieme, una lettura assai difforme della temporalità storica, ora più lenta ora più veloce, ben integrata dalla teoria dei tre tempi della storia e della storiografia: lungo, breve, brevissimo. Così, però, Braudel ci offre un manuale della storia del mondo riletta en structure e un modello di lettura della mondialità storica, che è in sé multiforme e asimmetrica, ma che, ad un tempo, testimonia la dimensione a-teleologica della storia (che non ha una “filosofia della storia”; falsificante poi anche se costruita a posteriori), anti-deterministica e ampiamente problematica. In questo scenario mondiale si fissano le autonomie come differenze, si demarcano i confini, si delineano anche gli innesti, gli incontri, i meticciamenti. Così la storia si fa un cantiere a molte marce, un processo polimorfo, un percorso frastagliato tanto nel “macro” quanto nel “micro”. Infatti, i confini corrono non solo tra modelli e epoche, ma anche tra gruppi sociali, tradizioni e immaginari, tra forme-di-vita e strutture di potere e/o contropotere, tra luoghi e mentalità: la storia è sempre un iter che scandisce confini, li sposta, li rinnova etc. proprio per demarcare il suo farsi che è un darsi-strutture/ordini/spazi/forme etc. e costantemente un rimetterli in gioco. Ma proprio per questo produce scambi, innesti e commistioni, fatti a loro volta di avvicinamenti e appropriazioni, di riconoscimenti e contrapposizioni, di attacchi e difese come pure di assimilazioni e traslazioni. La storia secondo mondialità (ma anche nelle aree locali) è sempre un gioco complesso di confini e di scambi. E entrambi in movimento. Sempre. 3. Stare sui confini Fare storia guardando ai confini implica un rileggere la storia oltre le diacronie lineari, entrando nell’agglomerato dei processi, cogliendo le traiettorie dei pluralismi. E si tratta di confini molteplici. Leggendo, però, la storia dai confini si coglie il suo gioco plurale e la ricchezza dei suoi profili, come pure si oltrepassano le letture della storia “a blocchi” (dell’economico, del politico, dell’etnico, dell’egemonico etc.), entrando invece in una lettura più sociologica e critica dell’avventura storica dell’uomo. Sociologia, ovvero attenta a etnie, classi sociali, culture, credenze; attenta a strutture che animano di sé il tessuto storico e lo determinano. Critica, ovvero attenta al plurale e al disomogeneo, attenta ai punti di vista e alla revoca di ogni sovranità di un punto di vista, portatrice di un’immagine della storia più fluida, più complessa, più polimorfa. I confini, poi, occupano uno spazio centrale nella stessa storiografia, e non da oggi. Si pensi a Pirenne, si pensi a Braudel per il Mediterraneo. Ancora a Braudel per il Capitalismo e le sue strutture. A Baczko per la Rivoluzione francese. All’Ariès di Padri e figli e ai confini, cronologici e eidetici, delle mentalità. Alle ricerche sulla cultura delle classi sociali, ad esempio nell’Ottocento: come quelle di Macry. E si potrebbe continuare. Sono tutte ricerche su confini, dai confini e per pensare il tempo storico a partire dai confini. E sono confini che separano, dividono, articolano, ma che anche – soprattutto – raccordano, aprono infiltrazioni e scambi e innesti, delineano un quadro della storia poroso e complesso, variegato e carico di tensioni. Sì, perché i confini sono anche “zone” di attrito, di pressione, di incontro. A livello planetario questa storia di separazioni e di strutture, di pluralismo e di asimmetrie è ben stata delineata, in un quadro generale, da Braudel già citato nel Il mondo attuale. Un testo esemplare di storia “strutturale” e che, proprio per questo, fissa confini e valorizza i confini: ovvero le differenze, le autonomie, il pluralismo, la varietà dei punti di vista di organizzazione delle civiltà. Dal punto di vista più metodologico sono le riflessioni sulla storia-mondo che ci possono guidare. E sono le riflessioni sociologiche, filosofiche, psico-storiche che ci illuminano su questa frontiera della storia stessa, come quelle di Morin, ad esempio. Ci sono poi le indagini sui confini che hanno articolato il tessuto storico: molti, moltissimi, infiniti forse. Si tratta di sceglierli e di pensarli come problema e di darsi gli strumenti per affrontarli. Anche nella scuola. Affiancando l’insegnamento più lineare dello sviluppo storico, per epoche e strutture, per aree geografiche, per eventi-chiave etc.: storia di date, di nomi, di eventi, appunto, e di strutture, con un insegnamento modulare che indaghi ambiti o momenti più in profondità, che vale anche come più attento a svilupparsi in complessità, in problematicità, etc. E confini ci sono dappertutto e ovunque sono barriere e intersezioni, ovunque assumono un ruolo produttivo del nuovo, attraverso la separazione e lo scambio che essa, ponendosi, già reclama, poiché demarca una diversità, qualunque essa sia. E sono confini religiosi, etnici, politici, di mentalità, come già detto. Sta alla scuola ampliarli e sceglierli dentro una progettazione curricolare e formativa, di cui la scuola stessa è artefice responsabile. 4. … e fissare gli scambi Se i confini sono, anche, produttivi di scambi, è sugli scambi che si costruisce la storia, quel complesso di eventi proprio di quell’Homo sapiens socializzato e organizzato in società, sempre e comunque, complesse, che hanno strutture proprie, ma poi anche entrano in contatto tra loro e via via in modo più intenso quando si passa dalle culture antropologiche (che non sono, però, impermeabili) alle culture storiche: che si scandiscono in modo diacronico (e non solo sincronico) ed entrano in una temporalità via via sempre più entropica, dialettica, conflittuale, polimorfa. L’acculturazione è una categoria già antropologico-culturale, che poi – nel tempo storico – si enfatizza, si espande, si fa determinante della e nella processualità del divenire storico. Tutta la storia umana è storia di scambi: di scambi realizzati o no, fruttuosi o no, aperti o no. Ma è comunque una storia che dagli scambi viene a scandire la sua stessa diacronicità e in essa introduce un principio di innovazione, di ulteriorità, di accelerazione verso il mutamento, di ibridazioni anche. L’Occidente, poi, ha alla sua base gli scambi e le ibridazione e le innovazioni da questi attivate. Si pensi al Mondo antico e al Mediterraneo. Mare di etnie, culture, tradizioni diverse, anche opposte (si pensi all’autonomia della cultura ebraica e al suo modo, tutto proprio e originale, di pensare il divino), ma che scambia, collega, poi unifica (oltrepassandole) queste culture. È il “miracolo greco” che sintetizza, rileggendole, le culture del Mediterraneo, e le rilegge secondo il principio del theorein, del sapere-puro-e-astratto ovvero della scienza, che è scoperta tutta greca nel suo aspetto logico e metodologico, rigoroso e sistematico, induttivo e deduttivo. Sono gli scambi che alimentano la “grecità”, la quale poi nella koiné ellenistica si fa sintesi e alimento di tutto il Mediterraneo e viene a fissare l’imprinting culturale unitario, su cui agirà Roma e si collocherà lo stesso cristianesimo. Fino alla frattura maomettana. La quale, però, non è sempre e solo confine, ma si fa – e sempre più, nel Basso Medioevo – luogo di scambi, frontiere di incontri e di innesti e non solo di separazioni. Come rivela la storia di quelle zone più legate ai confini: l’Andalusia in Spagna o la Sicilia in Italia; ma anche quella dei saperi: dalla filosofia alla logica, alla scienza matematica o medica; o quella di abitudini e costumi della vita quotidiana (alimentare, ad esempio). Stare storiograficamente sugli/negli scambi è leggere sì quelli realizzati (la Grecia, il dialogo Europa/Islam), ma anche quelli mancati (e si pensi al Todorov de La conquista dell’America): occasioni in cui i confini hanno prevalso rispetto agli scambi medesimi. Ma da studiare come occasioni appunto mancate, come chiusure e difese, come blocchi all’identità. E anche gli scambi, come i confini, sono dappertutto. Vanno cercati, esposti, attraversati, compresi. E compresi en structure e nei loro effetti. Anche da qui potrà emergere un’immagine della storia assai diversa da quella lineare, etnocentrica, evolutiva etc. ancora così diffusa, e si potrà entrare, anche nel lavoro scolastico, verso e dentro un altro “laboratorio” del fare-storia, che mette al centro la storia-problema. 5. Una storia-problema La storia-problema è quell’immagine della storia che cerca di leggere la complessità del divenire storico, fatto mai di necessità, bensì anche di casualità, di indecisioni, di codificazioni ex-post. È una storia più aperta, più plurale, più dinamica, più “a più dominanti” e compresa come “gioco dialettico”. Fatta di strutture e di eventi/casi, e di strutture scandite anche da confini e da scambi. Storia-problema di cui oggi possediamo anche una precisa immagine storiografica, tra le “Annales”, la psico-storia, la social history, etc., e di cui anche in Italia abbiamo assimilato il modello, e si pensi a “Quaderni storici”, a Ginzburg e a molti altri studiosi, da Sorcinelli a Jedlowski. Questo fare-storia aspetta di entrare anche nella scuola, rinnovando l’immagine epistemologica di quel sapere. Rinnovandone anche la didattica, e i suoi stessi strumenti. Rinnovando anche i suoi programmi nel curricolo, aprendolo a scansioni interne anche metodologicamente diverse. Da un lato la storia-sistema (epoche, date, nomi, eventi, etc.) e la storia-diacronia, dall’altra la storia-problema o storia-sincronia, di strutture e di strutture frastagliate, in cui si collocano i confini e gli scambi. Siamo davanti a una profonda innovazione didattica, che 1)articola l’immagine della storia; 2) sviluppa percorsi di insegnamento plurali: ora lineari ora problematici; 3) apre a una storiografia come ricerca e comprensione dialettica del tempo storico (letto da più punti di vista e in sé plurale); 4) dà corpo a una storia mondiale che si sviluppa attraverso questa ottica dialogica e attraverso una lettura problematica, poiché ne sviluppa il pluralismo e di questo mette a fuoco la funzione di trasversalità. Così si ottengono due risultati: uno storiografico o di metodo, uno di contenuto o di immagine. Il primo garantisce una visione più complessa e sofisticata del fare-storia, in cui, con la documentazione, la ricezione critica dei documenti, la costruzione seriale degli eventi, si esalta proprio l’interpretazione, il punto di vista, e la dialettica dell’intepretazioni, che tengono fermo l’evento e/o la struttura che lo regola e che esso manifesta proprio come problema. Il secondo obiettivo, di contenuto, apre la storia a uno scenario più ampio, frastagliato, complesso, che risale dalle identità ai confini e agli scambi, colloca questi in uno scenario di interazione più ampia, che – tendenzialmente – si richiama, di fatto, a una storia-mondo. 6. Una sfida aperta Siamo, allora, davanti a una doppia sfida per la scuola: epistemologica e didattica. Tra loro sfide ben intrecciate. E da pensare assieme. Da dipanare nel metodo e nei, possibili, contenuti. Una sfida che va sperimentata. Va accolta e applicata. Dove? Dove lo studio storico si fa disciplinare, si scandisce in autonomia. Ovvero a partire dalla Scuola media e poi nella Scuola superiore. Qui possono essere applicati moduli di ri-lettura di eventi storici secondo i dispositivi dei confini e degli scambi. Gli argomenti possono e devono essere curricolari, scelti secondo un “piano formativo” e dentro un iter di sviluppo più capillare (e meno di quadro-di-riferimento) della disciplina. E le scelte possibili sono infine. E qui non vale esemplicarle. Ma è una sfida che va vissuta per procedere verso un tipo di historia funzionale, più funzionale alla comprensione del Mondo e del Tempo Storico presenti, capace di leggerne il pluralismo, le tensioni, le differenze, e – insieme – gli innesti, le ibridazioni, i meticciamenti. Decantando, così, della storia la funzione di produttrice di civiltà, da cogliere e nello specifico e nel loro attivare transiti e commerci, da fissare nel pluralismo chiuso e aperto e da comprendere come grande galleria di forma-di-vita che, ad un tempo, si contrastano e si collegano in un gioco sempre aperto, sempre drammatico, ma anche e soprattutto sempre produttivo, e produttivo di innovazione. Dentro quella storiaentropia in cui siamo, dopo il Neolitico, radicalmente collocati. Bibliografia P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari, Laterza, 1968 B. Baczko, L’utopia, Torino, Einaudi, 1979 F. Braudel, Il mondo attuale, Torino, Einaudi, 1966 F. Braudel, Il mediterraneo, Torino, Einaudi, 1976 F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Bologna, Il Mulino, 1981 J. Burckhardt, Meditazioni sulla storia universale, Firenze, Sansoni, 1985 F. Cambi, F. P. Firrao, P. Rossi (a cura di), Discontinuità storiche, Roma, Armando, 2004 R. Certini, “Quaderni storici”, la storia dell’educazione e l’immaginario, “Studi sull’educazione”, 2, 1999 A. Dupront, L’acculturazione, Torino, Einaudi, 1967 C. Ginzburg, Miti emblemi spie, Torino, Einaudi, 1986 P. Jedlowski, Storie comuni, Milano, B. Mondatori, 2000 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia, Roma, Newton Compton, 1978 P. Macry, L’ottocento, Torino, Einaudi, 1988 G. Mari, I vocabolari di Braudel, Napoli, Luciano, 2001 E. Morin, A. B. Kerr, Terra-Patria, Milano, Cortina, 1994 H. Pirenne, Maometto e Carlomagno, Bari, Laterza, 1939 P. Sorcinelli, Miseria e malattie nel XIX secolo, Milano, Angeli, 1979 T. Todorov, La conquista dell’America, Torino, Einaudi, 1984 A. J. Toynbee, Panorami della storia. Introduzione, Milano, Mondadori, 1954 M. Weber, Economia e società, Milano, Comunità, 1961