RETINOPERA
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SCHEDA DIVULGATIVA E DI CONFRONTO
SUL TEMA DELLA SUSSIDIARIETA’
I fondamenti: persona, solidarietà, bene comune
Se la Chiesa ha sempre ribadito il principio di sussidiarietà è perché esso ha fondamenti solidi e
irrinunciabili. Il "Fondamento dei fondamenti", l'impalcatura che sorregge tutta la DSC è che la società
è per la persona. Il Vaticano II nella Gaudium et spes espresse questo concetto in modo lapidario e
profondo: "Principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana,
come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità" (n. 25).
Principio: la società c'è perché c'è la persona, non è la persona per la società, ma la società per la
persona.
Soggetto: ad agire deve essere sempre la persona e non meccanismi impersonali. La società
deve favorire la responsabilità, la creatività, l'inventiva, la partecipazione, l'adesione, l'iniziativa della
persona.Non deve mortificarla, appiattirla, demotivarla, emarginarla.
Fine: scopo della società e di tutte le sue istituzioni è creare un ambiente in cui la persona possa
crescere, maturare nel bene e nella verità. Nella società tutto parte dalla persona e deve tornare alla
persona. Le istituzioni sociali, compreso lo Stato, sono solo mezzi, strumenti a suo servizio. Ecco allora
il fondamento primo del principio di sussidiarietà: il principio di personalità.
Connesso al principio di personalità è quello della diversità tra le persone. Ognuno è
provvidenzialmente diverso dall'altro, è qualcosa di unico, voluto e amato singolarmente da Dio. Ogni
persona ha delle ricchezze, delle potenzialità che nessun'altra possiede. Ogni persona ha una propria
vocazione insostituibile: viviamo per uno scopo ben preciso, per fare qualcosa che solo noi sappiamo e
possiamo fare. Dio ci ha chiamato per nome e ci ha posti su questa terra perché ci inserissimo nella sua
opera di salvezza secondo una modalità specifica e particolare: la nostra.
Ecco perché se ad una persona vengono tarpate le ali, se la società non le permette di esprimersi,
il danno sarà non solo per quella persona, ma per l'intera comunità che non potrà usufruire dell'apporto
che solo quella persona era in grado di dare. Il bene comune è un obiettivo che può essere raggiunto
non eliminando le diversità, ma valorizzandole e permettendo ad ognuno di metterci il suo piccolo o
grande tassello. Il principio di sussidiarietà permette allora la libertà, la ricchezza, l'originalità dei
molteplici contributi che le persone e i gruppi (uguali nella comune natura umana, ma tutti diversi nella
ricchezza della molteplice esistenza) possono recare alla costruzione della società intera.
Il secondo fondamento è il principio di solidarietà, senza il quale la sussidiarietà scade a
metodo tecnico-procedurale di attribuzione di competenze ispirato a soli criteri di efficienza ed
economicità, con il rischio di accentuare l’individualismo, la divisione, il particolarismo. Sussidiarietà e
solidarietà sono inscindibili e solo se unitariamente applicati raggiungono l’obiettivo di promuovere la
dignità umana. Infatti, se le persone sono tutte diverse, esse sono però anche tutte uguali. Hanno la
stessa dignità, gli stessi diritti e doveri. Orbene: se la sussidiarietà valorizza la ricchezza della diversità,
la solidarietà tiene conto del grande valore dell'uguaglianza. E' evidente allora che le società superiori
devono sì valorizzare la libertà e l'autonomia delle inferiori, ma in un quadro di uguaglianza, solidarietà
e salvaguardia del bene comune, altrimenti si favorirebbe il privilegio e la legge del più forte. Il punto
di equilibrio tra sussidiarietà e solidarietà dovrà essere cercato di volta in volta dalla libertà umana,
tenuto conto di questi due principi della DSC che devono essere armonizzati. I quali, in verità, non
sono poi opposti ma complementari, l'uno non può stare senza l'altro: se infatti si devono valorizzare le
società inferiori e la persona umana, è perché queste possano dare meglio il loro aiuto al bene comune,
perché cioè possano esprimere meglio la loro solidarietà, non perché si isolino perseguendo scopi
totalmente individuali e privatistici. Così, quando i poteri pubblici intervengono è per ricostruire
un'uguaglianza che possa permettere a tutti di essere protagonisti e non solo ad alcuni. Come si vede la
sussidiarietà è per la solidarietà e viceversa, ma come si vede, la sussidiarietà è anche responsabile
assunzione dei propri doveri e non solo rivendicazione di diritti.
Si viene così al terzo fondamento già più volte richiamato, il bene comune: se principio,
soggetto e fine delle istituzioni sociali è la persona, criterio di valutazione del loro porsi ed agire è il
bene comune. Il principio di sussidiarietà nel suo dispiegarsi deve accrescere il bene comune di tutto
l’uomo e di tutti gli uomini; è anzi una condizione per l’accrescimento del bene comune, che non può
avvenire senza la partecipazione diretta della persona, elemento essenziale della sussidiarietà. La
finalizzazione del principio di solidarietà alla persona ed al bene comune e la sua stretta connessione
con la solidarietà, inquadrandolo nei legami che intercorrono tra i soggetti più che nel rapporto con i
bisogni, lo qualifica tra le categorie capaci di orientare una forma sufficientemente unitaria di presenza
dei cattolici nell’attuale contesto culturale, sociale, politico, proprio perché riferito ad un complesso
organico di valori e di principi che trovano nella DSC la loro “causa”.
La sussidiarietà, concetto complesso
L’inflazione dell’uso del termine “sussidiarietà” richiama l’esigenza di un suo chiarimento con
riguardo alla realtà complessa in cui viviamo: non un concetto da assumere isolatamente, ma da
inserire nel plesso di significati che gli gravita intorno. E nella stessa inflazione del suo uso se ne
possono scorgere il lato positivo e quello negativo.
Positivo, in quanto si dimostra come la sussidiarietà sia imposta dalle cose. La complessità
sociale, la flessibilità dei rapporti, la smaterializzazione dei processi produttivi, il policentrismo
dell’esperienza impongono “l’insostenibilità” del centralismo. Negativo, in quanto il concetto di
sussidiarietà rischia di perdere di intensità connotativa e di venire declinato secondo modalità riduttive.
In altri termini perde la propria capacità di riferirsi ad un plesso organico di valori e principi.
Alcune tendenze oggi largamente emergenti aiutano, in questo frangente, a ricostruire un simile
plesso di significati gravitante attorno al concetto di sussidiarietà.
Limite e sostenibilità
La prima tendenza è l’ emergenza nella cultura attuale del concetto di “limite”, che porta con sé
il concetto di “sostenibilità”. Il concetto di limite nasce dall’interno stesso dei fallimenti della
modernità ed è connesso con il “rischio” indotto strutturalmente dallo stesso progresso, specialmente
tecnologico. Questo impone un criterio progettuale che solo la sussidiarietà può fornire. La necessità
sempre più evidente di tenere presenti i limiti del progresso ha messo in scacco la progettualità “forte”
di tipo illuministico e l’ideologia progressista; può però anche provocare il contrario, ossia l’anarchia
progettuale. Attualmente ambedue le posizioni possono utilizzare la copertura del concetto di
globalizzazione, che può essere intesa come progettualità forte o pensiero unico, oppure come
anarchismo nichilistico. La globalizzazione può cioè strutturare uniformemente l’intero pianeta, oppure
può destrutturare mediante una omogeneizzazione indifferente. In ambedue i casi essa non rispetta il
“limite”. Da Seattle a Genova queste due concezioni si sono ripetutamente scontrate, coinvolgendo
anche, in modo spesso acritico, parti consistenti del mondo cattolico.
L’emergere del concetto di limite rischia di venire inibito dal consolidamento e dalla crisi del
sistema Lib-Lab. Oggi neosocialismo e neoliberismo concordano nel relegare l’etica nel privato,
dichiarano la non agibilità pubblica del dibattito etico, organizzano il pubblico su un piano di
“neutralità etica” e il privato su un piano di razionalità economica. In questo modo Lib e Lab si
incontrano sempre di più in un mix di tipo pragmatistico. Il Laburismo si allontana dalle proprie matrici
ideologiche socialdemocratiche, il Liberismo abbandona sempre di più il pensiero conservatore di
destra, ma entrambi si incontrano sul terreno di una neutralità tecnocratica incapace di rispondere alle
moderne esigenze etiche imposte dalla globalizzazione e dallo sviluppo tecnologico. Questa
convergenza Lib-Lab rischia di far morire la sussidiarietà; viceversa la sussidiarietà può animare un
progetto politico alternativo a quello Lib-Lab.
Società civile
Le problematiche etiche connesse con il concetto di limite non possono venire recepite e
rilanciate né dall’economia né dalla politica, come comunque continuano a pensare i neoliberisti e i
neolaburisti, in quanto né l’economia né la politica oggi sono in grado di creare socialità, quindi
relazioni e, infine, finalità etiche da perseguire in comune. Queste nascono invece dalla società civile,
in quanto è in essa che i cittadini si aggregano in vista di fini etici da raggiungere, e non per mero
interesse economico o per fruire di servizi dell’amministrazione pubblica. Gli aspetti relazionali del
lavoro, dell’assistenza, del tempo libero, del rapporto col territorio e con l’ambiente, della formazione e
dell’informazione dimostrano sempre più la centralità della società civile nell’esprimere potenzialità
relazionali sul piano sociologico e potenzialità etiche sul piano sociale. Anche questo terzo elemento
chiama direttamente in causa la sussidiarietà, che diviene un elemento connettivo dell’identità stessa
della società civile.
Modernità
Il principio di sussidiarietà si pone al crocevia delle tre problematiche or ora viste (limite,
sostenibilità, società civile) e si candida ad essere principio orientativo per sfruttare le nuove possibilità
offerte dall’attuale crisi della modernità e per superare le difficoltà connesse con le derive nichilistiche
(economicistiche e/o tecnicistiche) ad essa legate. Il plesso di significati condensati nel termine
sussidiarietà permette di mettere in cantiere forme di progettualità non rigida, capace di sfruttare
positivamente l’emergere della consapevolezza del limite; permette di porre in crisi, sociale prima e
politica poi, la convergenza Lib-Lab su un miope pragmatismo “neutrale”; permette infine la
valorizzazione dei molteplici protagonismi relazionali della società civile, che oggi indicano già nuovi
modi di lavorare ove la separatezza pubblico-privato è largamente superata, oppure nuovi modi di
partecipare o nuovi modi di fare assistenza, formazione, informazione e di relazionarsi al territorio.
Le molteplici valenze del principio di sussidiarietà.
Perché la sussidiarietà riesca a svolgere la funzione di cui sopra, è di fondamentale importanza
non ridurla a singolo principio ma, promuoverla a plesso, a principio che opera in rete. Purtroppo,
spesso essa viene invece concepita come un metodo, una tecnica di allocazione alla periferia di
competenze che fino a ieri erano svolte dal centro, per di più per costrizione e non per scelta
progettuale, così trascurando le sue molteplici valenze.
La valenza religiosa.
In un libro, veramente “ispirato”, sull’anima dell’Europa, il cardinale Primate di Inghilterra e
Galles Basil Hume ricorreva qualche anno fà, ad una bellissima immagine. L’aquila vola piena di
tenerezza sui suoi piccoli, raccolti nel nido, non entra nel nido brutalmente, essa prima batte le ali sopra
il nido perché i piccoli si sveglino e la possano accogliere. Essa vola, dice il Cardinale, “toccandoli e
non toccandoli”. L’ immagine spiega il rapporto tra Dio e uomo, tra religione e vita. Un Dio, quello
cristiano, che non entra brutalmente a schiacciare la vita umana e la nostra libertà, ma, pieno di
delicatezza, vola sul nostro nido, cosicchè noi ci troviamo con lui in un rapporto di dipendenza ma
anche di autonomia. Non siamo orfani, ma Dio non decide per noi. Dio stesso riconosce che “le
persone, proprio a causa di chi e di che cosa sono, debbono essere investite del potere di prendere
decisioni per la loro vita”. Il libero arbitrio, come primo ed altissimo momento della sussidiarietà.
La valenza antropologica.
La valenza religiosa è contigua con la valenza antropologica. “Chi e che cosa sono” le persone è
il fondamento trascendente della sussidiarietà, che Dio stesso rispetta. “Chi e che cosa sono le
persone”: la dignità della persona appare meglio in tutta la sua grandezza se la si considera nella
pluralità dei suoi piani ontologici. La sussidiarietà risulta, per così dire, il riverbero esteriore e pratico di
quella sintesi di dimensioni che è ogni persona, nessuna autosufficiente e bastevole a dirne e
soddisfarne l’interezza. Gli aspetti della dimensione economica e tecnica devono così essere
“sussidiati” dall’etica e dall’antropologia. La complessità di ogni singolo uomo richiama quindi a
rapporti sussidiari tra le sue stesse dimensioni ed tale complessità e necessità di rapporti sussidiari nelle
relazioni sociali. Come le singole dimensioni della persona sono diverse e nel contempo complementari
e unitarie, così le persone nei loro rapporti reciproci sono diverse e nel contempo complementari. La
complessità sociale si affronta mediante un potenziamento dei diversi apporti e della originalità
propositiva di ogni singola persona. Per questo si richiede che ogni persona sia protagonista (ma non
nello stesso modo delle altre) per motivi antropologici e non solo per motivi amministrativi,
paternalistici, economici o altrimenti estrinseci.
La valenza culturale.
E’ facile constatare l’incapacità strutturale della cultura Liberale e di quella Laburista a
concepire adeguatamente la sussidiarietà.
Il pensiero liberale e neoliberale porta con sé il difetto congenito dell’“arte della separazione”,
per cui non è in grado di correlare sussidiariamente tra loro le varie dimensioni antropologiche. Inoltre
il liberalismo, dato il suo individualismo sostanziale, tende a concepire la sussidiarietà in modo
negativo, ossia come salvaguardia della privacy individuale, come “non-intervento”, astensione, tirarsi
indietro da parte di una certa istituzione più che come nuovo modo di rapportarsi. Nel rispondere ad un
bisogno il Liberalismo tende a sostituire un soggetto (generalmente pubblico) con un altro soggetto
(generalmente privato) senza riuscire a pensare ad un sistema in cui ambedue i soggetti cambino ruolo.
Per il liberalismo si deve applicare un automatismo sostitutivo: quando comincia ad agire il nuovo
soggetto, cessa di agire il soggetto precedente, riducendo quindi la sussidiarietà a trasferimento di
competenze come in una staffetta. E’ un’interpretazione povera della sussidiarietà.
Il pensiero Laburista tende invece a concepire la sussidiarietà come un ripiego per forza
maggiore e come una scelta di supporto esterno al pubblico che deve mantenere la propria centralità
come ultima sintesi del bene comune. E’ la logica che prevale negli appalti per i servizi sociali, sanitari,
etc. Se nel caso precedente prevale la logica della sostituzione, qui prevale la logica del controllo
residuale, nel senso che si trasferiscono formalmente delle competenze, ma mantenendo forme rigide di
controllo.
Nella realtà quotidiana queste due logiche si combinano in varie forme di mix, a seconda dei
livelli di innesto Lib-Lab.
La chiave di volta di tipo culturale consiste allora nell’intendere la sussidiarietà come un plesso
articolato di significati e di cominciare veramente a progettare utilizzando la sussidiarietà in rapporto
alla solidarietà e al bene comune.
La valenza sociale
La sussidiarietà si fonda socialmente sul principio della autonomia sociale della comunità.
Significa che di fronte ai problemi emergenti in un contesto territoriale, il primo soggetto chiamato ad
agire è la comunità sociale stessa. Lavoro, scuola, disagio, famiglia, devono trovare nell’autonomia
sociale della comunità la prima risposta e la prima mobilitazione. C’è qui uno spazio praticamente
infinito di originalità progettuale per rispondere ai bisogni; ma c’è anche un chiaro dovere di
assunzione di responsabilità da parte dell’ente “minore”.
La valenza politica.
L’uso intelligente e globale della sussidiarietà ha una evidente dimensione politica in quanto ha
a che fare col potere. Sussidiarietà, infatti, significa anche ridisegnare la dislocazione del potere: si
tratta di un principio politico dagli effetti rivoluzionari e questo spiega anche le numerose resistenze
che essa incontra di fatto, al di là delle declamazioni retoriche. Spiega anche l’uso strumentalmente
politico che di essa si può fare e si fa, nel senso che si applica quel principio più per togliere potere ai
nemici e darlo agli amici e se ne richiede l’applicazione più per acquisire potere che non per rispondere
meglio ai bisogni sociali ed alle relazioni persona – comunità.
Le proposte relative alla sussidiarietà rivelano, quindi, nel bene e nel male un disegno politico
complessivo e sono divenute il paradigma più interessante per qualificare una proposta politica.
Ma la sussidiarietà è oggi uno strumento finemente politico per disarticolare il bipolarismo
culturale che sta soffocando la cultura politica del nostro paese e per contrastare i suoi esiti impolitici. Il
modello di bipolarismo prodotto dalla legge elettorale maggioritaria sta pericolosamente diventando un
bipolarismo culturale (anche se paradossalmente basato su una monocultura utilitaristica) ed è
tragicamente sorprendente come la collocazione prevalga ormai abitualmente sulla identità. E’ chiaro
che una tale situazione produce alla lunga atteggiamenti impolitici rarefacendo la partecipazione a
livello nazionale e locale. L’utilizzo della sussidiarietà può dislocare la politica non solo verticalmente
a livello amministrativo, ma anche orizzontalmente nella società. In questo modo, oltre a ridare fiato
alla partecipazione e alle identità, si può uscire dal semplificazionismo del bipolarismo culturale e
rispondere alla complessità dei problemi con la complessità delle risposte. La sussidiarietà applicata
alla scuola, per esempio, ha anche questo non secondario effetto.
La valenza metodologica.
A guardare come viene applicata la sussidiarietà all’Europa, al federalismo, al mondo del
lavoro, appare con chiarezza che la sussidiarietà è anche un metodo di lavoro, un modo per affrontare i
problemi, per stabilire le priorità e articolare gli interventi. Sono pertinenti le critiche di
euroburocratismo rivolte alla recente costruzione europea la quale ha superato il concetto moderno di
“sovranità”, ma non riuscirà a lucrarne degli utili se non saprà vincere la tentazione di sostituire la
sovranità politica con la sovranità tecnica. Il federalismo viene spesso attuato con difetti metodologici e
di impostazione notevoli con il pericolo di nuovi centralismi nel locale, oppure di trasferire competenze
senza prima mettere in grado i soggetti amministrativi o sociali di poterle sopportare. I problemi del
mondo del lavoro sono ancora affrontati con un metodo antiquato teso a garantire le posizioni piuttosto
che aprire spazi nuovi di responsabilità e protagonismo e a garantirli solidalmente.
Questi esempi mostrano come la sussidiarietà non è solo un principio, è anche un percorso, un
metodo nel senso etimologico del termine. Il principio stesso viene vanificato se non lo si rispetta anche
nella metodologia e nel procedimento applicativo.
La valenza formativa.
Giovanni Paolo II, nel discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, dopo aver
definito la sussidiarietà, ha aggiunto: “L’opinione pubblica deve essere educata all’importanza del
principio di sussidiarietà per la sopravvivenza di una società autenticamente democratica” 1. Non ci
sarebbe bisogno di formazione se la sussidiarietà fosse un semplice espediente tecnico procedurale. Il
dinamismo della sussidiarietà si attua se ogni persona si sa portatrice responsabile di un contributo
originale nel sociale che l’attornia, se è stata formata a spendere in questa direzione l’intelligenza e
l’iniziativa che le appartengono, se è stata educata a non demandare ogni soluzione di problemi o
soddisfazione di esigenze ad altri, per poter “riposare” nell’abdicazione ai propri doveri.
Tra i tanti aspetti della dimensione formativa della sussidiarietà meritano una sottolineatura.
Anche la formazione alla sussidiarietà deve avvenire in forma sussidiaria, ossia “facendo fare”,
offrendo e provocando occasioni di autoorganizzazione e di autorisposta. Il valore della sussidiarietà si
apprende e si apprezza non in teoria ma in pratica. I genitori che gestiscono una cooperativa scolastica
maturano una consapevolezza del valore complessivo della sussidiarietà meglio di qualsiasi conferenza
o corso.
Il secondo aspetto riguarda l’educazione ai doveri oltre che ai diritti. C’è una notevole urgenza
in questo senso, perché la cultura Lib-Lab è concorde nell’insistere prevalentemente sui diritti. E’ vero
che la sussidiarietà stessa richiede di fondarsi su diritti, come il diritto a partecipare al bene comune, ma
essa trova primariamente il suo terreno di coltura nei doveri. Si richiedono spazi di protagonismo
sociale non per ritagliarsi ambiti privatistici di gestione di presunti diritti individualistici, ma per creare
spazi per l’espletamento dei nostri doveri personali e sociali.
Aspetti applicativi della sussidiarietà
Sussidiarietà ed economia
Indubbiamente lo Stato ha dei compiti in economia, ma svolgendoli, non deve prevaricare sui
naturali soggetti economici: i singoli e le associazioni. La Centesimus annus tratta piuttosto
“L’Osservatore Romano”, 25 febbraio 2000, p. 4. La definizione di sussidiarietà data dal papa in quell’occasione suona così: “Le unità sociali più
piccole, siano esse nazioni, comunità, gruppi etnici o religiosi, famiglie o individui, non devono essere assorbite in maniera anonima in un conglomerato
più grande, perdendo in tal modo la propria identità e vedendo usurpate le loro prerogative. Piuttosto, l’autonomia propria di ogni classe e organizzazione
sociale, ognuna nella sua sfera, va difesa e sostenuta”
1
ampiamente dei compiti e limiti dello Stato in economia (vedi n. 48). Ricordare allo Stato il rispetto del
principio di sussidiarietà non vuol dire estrometterlo dall'ambito economico, come affermano i
sostenitori di un mercato senza regole. Lo Stato deve "sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani
nel settore economico", deve "assecondare l'attività delle imprese, creando condizioni che assicurino
occasioni di lavoro, stimolandola ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di crisi",
deve "intervenire quando si creino situazioni di monopolio che creino remore o ostacoli per lo
sviluppo". Inoltre lo Stato può svolgere "funzioni di supplenza in situazioni eccezionali quando settori e
sistemi d'imprese, troppo deboli o in via di formazione sono inadeguati al loro compito". Quando ciò
avviene, tuttavia, lo Stato deve intervenire solo per evidenti ragioni di salvaguardia del bene comune e
limitatamente nel tempo, per non sottrarre stabilmente a quei settori d'impresa le competenze loro
proprie e per non dilatare eccessivamente l'ambito dell'intervento statale a danno delle libertà
economica e civile. Lo Stato deve sostenere, aiutare, creare un quadro giuridico in cui l'attività
economica si possa esplicare in sicurezza, vegliare sul rispetto dei diritti umani e del bene comune. Può
anche intervenire direttamente, ma solo attraverso di supplenza temporanei e con l'intento di ricostruire
le possibilità perché le imprese facciano da sé. Il principio di sussidiarietà è quindi contrario sia allo
statalismo sia al privatismo selvaggio, perché il primo non tiene conto della sussidiarietà e il secondo
della solidarietà e del bene comune. La situazione dell'Italia, ma anche di altri Stati dell'Occidente e
dell'Oriente europeo, è tale da esigere in questo momento un ripensamento della presenza dello Stato in
economia. Secondo il principio di sussidiarietà la risposta non può essere quella della privatizzazione
ad ogni costo e in ogni caso. La sussidiarietà richiede che lo Stato si ritiri dalle attività economiche che
non gli competono, ma la solidarietà richiede che lo Stato mantenga in proprio le attività economiche e
la fornitura di servizi che sono definibili come "strategici", ossia di fondamentale importanza per la
giustizia e l'equità sociale. Inoltre è evidente che lo Stato non dovrà svendere aziende che funzionano
economicamente bene, nè dovrà vendere ad ogni prezzo e a chiunque, con il rischio di creare situazioni
di monopolio o di strapotere privato. Sarà difficile realizzare il grande compito di razionalizzazione
dello Stato assistenziale in economia senza l'ausilio della luce che viene dal principio di sussidiarietà.
Infine il principio di sussidiarietà richiede che si operi affinchè si concretizzi una reale democrazia
economica in tutte le sue articolazioni: dalla concertazione, come strategia di governo delle politiche
economiche e sociali, a tutti i livelli istituzionali, all’accesso alla proprietà ed alla produzione della
ricchezza aperto a tutti; dalle nuove relazioni industriali improntate alla partecipazione dei lavoratori
alle strategie aziendali, al riconoscimento e valorizzazione di quel tessuto di esperienze economiche
della società civile che non si motivano con il profitto, ma per le loro finalità sociali.
Sussidiarietà e democrazia
L'applicazione del principio di sussidiarietà è indispensabile per realizzare una democrazia
compiuta, cioè nè solo formale nè appiattente le persone e i gruppi dall'alto. Non solo formale, perché
le libertà bisogna non solo prevederle giuridicamente ma anche permetterle e favorirle
praticamente.Deve essere libertà nella famiglia e con la famiglia, con le associazioni tra famiglie, nei
gruppi di volontariato, nelle associazioni di quartiere, nelle organizzazioni scolastiche o per il tempo
libero, nei gruppi assistenziali o di solidarietà (i così detti mondi vitali). In altri termini la libertà deve
essere una libertà organica, non appiattente, perché la democrazia non è egualitarismo, uniformità
grigia, irreggimentazione più o meno coatta, ma è valorizzazione degli apporti che tutti possono dare.
Non è vera democrazia nè quella troppo individualista nè quella collettivista o statalista. E' vera
democrazia quella che valorizza i corpi intermedi, le spontanee associazioni tra cittadini, quella che
potenzia la società civile.
La sussidiarietà impone, soprattutto in una società complessa, il riconoscimento da parte delle
istituzioni della soggettività politica dei corpi intermedi. Ciò significa che nella produzione delle
politiche si deve ricercare non una semplice consultazione, ma una definizione consensuale degli
obiettivi di fondo e una coerenza di tutti nel perseguimento del bene comune.
Partiti, sistemi politici e sussidiarietà
L'attuale crisi politica e dei partiti politici è in gran parte frutto di una mancata applicazione del
principio di sussidiarietà. Infatti si è ritenuto che il luogo unico della progettualità politica fossero i
partiti e il livello proprio della politica fosse quello dello Stato. Secondo il principio di sussidiarietà,
invece, esistono altri luoghi di elaborazione politica diversa dai partiti. Le associazioni, la
cooperazione, il volontariato, i gruppi politici locali, le comunità locali sono e devono essere
considerati soggetti politici a pieno titolo, anche se a titolo diverso dei partiti. Questi hanno di fatto
impedito la nascita di altri soggetti politici nella società civile, sostituendosi ad essi, inglobandoli nella
propria logica o spartendoseli partitocraticamente. La conseguenza non è stata solo l'atrofizzazione
della partecipazione politica, ma è stata anche e soprattutto che i gruppi della società civile non hanno
più trovato chi facesse una sintesi politica dei loro bisogni, dei loro progetti e dei loro interessi, essendo
funzione peculiare dei partiti quella di sintetizzare in progetti politici praticabili, che tengano conto del
bene comune, le istanze che emergono dalla società civile. Se non viene rispettata la soggettività
politica della società civile in tutte le sue articolazioni, gli stessi partiti non possono svolgere
adeguatamente la propria. Si crea inoltre un clima di illegalità diffusa e per questo il documento
"Educare alla legalità", della Commissione ecclesiale italiana Giustizia e Pace, ha affermato al n. 17 che
il principale antidoto contro l'illegalità è garantire la soggettività politica della società civile.
La sussidiarietà è dunque molto di più di una procedura semplicistica di trasferimento delle
competenze o di redistribuzione delle funzioni. Trasferire dal centro alla periferia competenze
amministrative non è di per sé garanzia di sussidiarietà: perché le amministrazioni periferiche possono
condurre le cose con la stessa mentalità burocratica e disincentivante il protagonismo sociale di quella
centrale; perchè anche i governi locali possono impedire che la società e le varie forme di aggregazione
sociali autorispondano alla propria domanda; perché il trasferimento di competenze può avvenire senza
preventivamente accertarsi se il soggetto sottostante sia in grado di sopportarne il peso. La sussidiarietà
non prevede solo che alle società inferiori si chieda quanto possono dare, ma anche che siano “aiutate”
a poterlo dare. Un trasferimento di competenze che schiaccia il soggetto sociale o amministrativo può
essere una tattica per riappropriarsi al centro di quanto era stato devoluto alla periferia. Ciò è stato per
esempio evidente ogni qualvolta si è voluta investire la famiglia di responsabilità pubbliche – come
dovrebbe essere - senza operare con adeguate politiche familiari in grado di abilitarla a provvedere. E’
stato il collasso della famiglia, non la sua valorizzazione. In altre parole, mentre si redistribuiscono
competenze, bisogna anche suscitare forme di auto-organizzazione dal basso e bisogna vegliare
affinché i livelli inferiori non inceppino la sussidiarietà con nuove forme di centralismo. In caso
contrario si potrebbero verificare disfunzioni che provocherebbero un processo di riaccentramento in
risposta ad obiezioni di scarsità di efficienza o di scarsità di solidarietà.
E’ anche possibile che l’ente che si spoglia di competenze per trasferirle a soggetti inferiori, di
fatto intenda mantenere forme di controllo indiretto sulla gestione dei servizi. E’ il caso, per esempio,
dei Comuni che mantengono la gestione di servizi mediante aziende municipalizzate falsamente
privatizzate. Dato l’impianto centralistico dello Stato italiano, è evidente che proceduralmente bisogna
operare con trasferimenti di competenze dall’alto al basso. Ciò però va fatto tenendo presente che il
percorso corretto sarebbe stato l’inverso, ossia l’auto-organizzazione dal basso.
Tra localismo e sussidiarietà
Il principio di sussidiarietà è indispensabile oggi per guidare il processo d'interdipendenza senza
che ciò comporti un non riconoscimento del valore delle realtà locali. Nell'attuale periodo storico c'è un
ritorno al localismo, una riscoperta della piccola dimensione che, però, rischia di dar vita a chiusure, a
forme di nazionalismo o razzismo esasperati. Contemporaneamente però, il mondo è sempre più
interdipendente, i problemi stanno diventando sempre più problemi di tutti, e il bene comune, come
aveva ricordato la Pacem in terris, è diventato ormai globale: per realizzare il bene comune
dell'umanità intera e per rispondere alle sfide dell'interdipendenza occorre un potere politico mondiale.
La DSC, a cominciare da Pio XII, lo dice con chiarezza. Del resto sono in atto da tempo forme di
collaborazione istituzionale sovranazionale e processi di unificazione continentale, come per esempio
quello europeo. Il problema è però il seguente: come procedere verso la creazione di un'unità politica
sovranazionale, in modo tale che le realtà nazionali, regionali, locali, etniche e culturali dei diversi
popoli non siano scacciate e misconosciute? Come fare in modo che ogni popolo, ogni nazione
perseguano il proprio sviluppo, e nello stesso tempo creare realtà sovranazionali che perseguano lo
sviluppo di tutta l'umanità? C'è l'urgente necessità di superare gli imperi ideologici ed anche gli imperi
economici, di realizzare su tutto il pianeta il rispetto e la tutela dei diritti umani. Perciò si rende
necessario procedere nell'integrazione sovranazionale e sovrastatuale. Ma come farlo nel rispetto
dell'autonomia dei popoli e delle nazioni? Il principio di sussidiarietà può essere la grande guida in
questo delicato processo. Esso vale sia, all'interno di ogni Stato e cioè nei rapporti tra lo Stato e i corpi
sociali intermedi, sia al di là degli Stati, a regolare i rapporti tra la comunità mondiale e i singoli Stati
stessi. L'appartenenza ad un popolo o l'essere cittadini di uno Stato non deve impedire di riconoscersi
anche cittadini dell'intera umanità; dar vita a poteri sovranazionali non vuol dire annientare la realtà
degli Stati. Lo Stato non è sovrano assoluto. Non lo è al suo interno, perché deve rispettare l'autonomia
delle persone e delle società inferiori; non lo è nemmeno al suo esterno perché sempre più si rende
necessaria la costituzione di una autorità mondiale. Solo tramite il principio di sussidiarietà vari popoli
possono convivere nello stesso Stato e molti Stati possono dar vita ad un potere superiore. Infatti il
potere superiore, in virtù di questo principio, rispetta i poteri inferiori, anzi li aiuta a svolgere la loro
funzione.
Verticalità, orizzontalità, sistema a rete
Il dibattito su autonomia e federalismo ha anche prodotto le accezioni “verticale” e
“orizzontale” della sussidiarietà. Come è noto la sussidiarietà in senso orizzontale riguarda i rapporti
dei pubblici poteri con la società civile e i cittadini, affermando la autonomia di questi ultimi e
l’intervento sussidiario e solidale del primo. La sussidiarietà in senso verticale, invece, definisce la
tipologia dell’intervento dei poteri pubblici, affermando che tale intervento deve avvenire,
preferibilmente, ad opera del livello territoriale di governo “più vicino” al cittadino e, solo
sussidiariamente, ad opera dei livelli di governo “più lontani”, quali – nell’esperienza italiana – il
Comune, la provincia, la città metropolitana, la Regione e lo Stato. Ciò in quanto il livello di governo
più prossimo al cittadino è più in grado di conoscere i problemi da fronteggiare e le esigenze da
soddisfare e – reciprocamente – il cittadino ha maggiori possibilità di incidere su un livello di governo
che gli è prossimo rispetto ad un livello di governo distante da lui.
Si tratta di una precisazione concettuale molto importante. Bisogna porre molta attenzione a non
contrapporre i due sensi, ma a coglierne le molte implicazioni reciproche.
Per una gestione del principio di sussidiarietà che si rifaccia a quella visione personalistica che è
tra i suoi fondamenti, si devono impostare i rapporti verticali e orizzontali nella loro reciproca
influenza, in modo che ne risulti un quadro a rete, capace di valorizzare tutte le soggettività della
società complessa. Dal punto di vista procedurale, il principio di sussidiarietà prevede che, di fronte alla
necessità di intervenire per provvedere ad un determinato problema sociale, si attivi per primo uno dei
soggetti e, soltanto in un secondo momento, e a certe condizioni, interverrà un altro. Ma questo non è
sufficiente. Infatti si dimentica che sia il soggetto bisognoso, sia il soggetto che interviene sono inseriti
di fatto in una rete di relazioni, non sono isolati: la sussidiarietà promana dalla soggettività
“relazionale” della persona. Non si tratta solo del bisogno di un individuo che chiama in causa
l’intervento di un soggetto e poi di un altro se questo non è sufficiente e così via, in una specie di
sequenza rettilinea. La realtà è diversa: il soggetto che interviene per fronteggiare il bisogno era
presente anche prima di intervenire e quando poi interviene non elimina totalmente il ruolo del soggetto
bisognoso, il quale deve in qualche modo continuare ad essere presente, cambiando ruolo. Quando i
servizi sociali intervengono nel settore handicap, non possono emarginare la famiglia assistita, che
continua ad essere presente perché il suo ruolo non si limita passivamente a segnalare un bisogno. La
sussidiarietà prevede non già la sostituzione meccanica di un soggetto con un altro; ma la compresenza
a rete di più soggetti che svolgono ruoli diversi tra loro e nel tempo: operativi, di controllo, di
coordinamento, di fornitura di supporti, di stimolo, eccetera.
Federalismo, sussidiarietà, autonomie
Un primo fronte sul quale è oggi possibile declinare il principio di sussidiarietà è quello della
riforma del sistema delle autonomie, dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale che ha
introdotto in Italia un sistema con forti elementi di federalismo. Il dibattito sulla prosecuzione
della riforma dello Stato in senso autonomista avviata nella seconda metà degli anni novanta è
infatti uno degli snodi di maggiore rilievo del problema della riforma dello Stato. Dopo che, per
oltre un decennio, il problema delle autonomie è stato il terreno di grandi battaglie, spesso
estremamente ideologizzate ed astratte, la questione dell’edificazione del federalismo possibile, o
quantomeno di un regionalismo forte, è ora da giocare sul terreno delle scelte concrete. Grazie alla
legge costituzionale n. 3 del 2001, esiste ora una cornice costituzionale aggiornata, all’interno
della quale la costruzione di un sistema di poteri pubblici “più vicini ai cittadini” è ormai possibile.
La riforma costituzionale del titolo V della parte II della Costituzione, inoltre, non interviene in un
deserto arido e senz’acqua, ma in un terreno già arato dalle riforme amministrative degli anni
novanta: dalla legge sulle autonomie locali (n. 142 del 1990) alle leggi di riforma dei sistemi
politici locali (n. 81 del 1993 e n. 43 del 1995 e legge costituzionale n. 1 del 1999) sino alle leggi
“Bassanini” (l. n. 59 e 127 del 1997, decreto legislativo n. 112 del 1998) e al testo unico sugli enti
locali (decreto legislativo n. 267 del 2000).
La partita della costruzione di un sistema policentrico si gioca oggi su tre terreni diversi, sullo
sfondo di una questione decisiva trasversale ad essi.
Il primo terreno è quello della legislazione. Secondo l’art. 117 della Costituzione, spettano ora
alla Regione le potestà legislative per tutte le materie non riservate espressamente allo Stato dalla
Costituzione. Ciò significa che la Regione deve diventare il nuovo cuore del sistema di produzione
normativa nella Repubblica, e che la potestà legislativa statale (esclusiva o concorrente) deve rimanere
confinata in ambiti comunque importanti, ma nettamente circoscritti. Con la conseguenza che ogni
problema sociale o politico (dalla sanità all’istruzione, dal lavoro al servizio civile, per non citare che
alcune questioni oggi in discussione) dovrà da ora in poi essere esaminato ponendosi anzitutto la
domanda circa l’esistenza di una potestà del Parlamento statale di regolarlo e, in caso positivo, con
quale intensità. La sfida lanciata dal nuovo art. 117 si ricollega ad una antica aspirazione che già nel
1946-47 contribuì alla scelta di riconoscere potestà legislativa alle Regioni: riqualificare la potestà
legislativa statale limitandola alle grandi scelte di fondo, ora, oltretutto, solo su alcune ben precise
questioni che richiedono una regolazione unitaria. Si tratta di una sfida che richiede un riorientamento
complessivo dell'opinione pubblica, della cittadinanza attiva e delle istituzioni, chiamate a riconoscere
nei Consigli regionali e nella dimensione regionale della vita civile una arena di importanza primaria
per la discussione e la soluzione dei problemi.
Il secondo terreno è quello dell’amministrazione. Il nuovo articolo 118 della Costituzione fa del
Comune il centro dell’amministrazione nella Repubblica. Al Comune spettano infatti tutte le funzioni
amministrative, salvo quelle che, in virtù dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza,
saranno attribuite alla Provincia, alla Città metropolitana, alla Regione e allo Stato. Non è però chiaro a
chi spetterà in concreto la distribuzione delle funzioni tra i diversi livelli applicando questi criteri, ma è
evidente che è sul terreno dell’amministrazione (vale a dire della concreta gestione dei servizi, a
contatto diretto con gli interessi materiali dei cittadini) che si gioca il successo dell’attuale stagione di
decentramento. E anche in questa prospettiva vi è un risvolto di riforma dello Stato, che richiede un
alleggerimento degli apparati amministrativi centrali ma anche regionali. La sfida oggi è quella di
coniugare, in una amministrazione “più vicina” al cittadino, i valori della prossimità ai governati e della
imparzialità: si tratta di valori spesso in conflitto tra loro, atteso che prossimità dell’amministrazione
dovrebbe significare maggiore capacità di comprensione e di soddisfacimento dei bisogni delle
comunità locali, ma significa spesso prevalenza di interessi particolari sull’interesse generale. E’
pertanto necessario che il trasferimento di competenze verso il basso si accompagni ad una
individuazione di strumenti idonei a garantire l’efficienza dell’amministrazione regionale e locale, che
si è purtroppo rivelata sinora (soprattutto nelle regioni meridionali del Paese) una brutta copia della (già
non brillante) amministrazione statale.
Tali questioni richiedono una rivoluzione della mentalità ispirata ad un nuovo municipalismo,
che individui nelle autonomie la sede ordinaria non solo per le piccole ma anche per le grandi questioni
sociali, culturali e politiche, liberandosi di un centralismo così spesso annidato nel nostro stesso DNA,
malgrado il nobile ruolo di avanguardia svolto riguardo alle autonomie dai cattolici, dall’appello ai
liberi e ai forti di Luigi Sturzo sino all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.
Vi è poi un terzo terreno che è già del tutto nelle mani del sistema delle autonomie. Ai sensi
della legge costituzionale n. 1 del 1999 (la quale ha fra l’altro introdotto l’elezione diretta dei presidenti
regionali, anticipando per vari aspetti la riforma federale della Costituzione), le quindici regioni
ordinarie debbono riscrivere i loro statuti. Lo statuto è la norma fondamentale della Regione, chiamata
a disciplinarne la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Si
tratta di una importante occasione per ridisegnare le regole di funzionamento dell’ente regione e dei
suoi apparati politici ed amministrativi, nel quadro – certo – della Costituzione, ma con margini di
libertà ben più ampi che in passato. Non è azzardato affermare che è in corso una nuova stagione
costituente delle Regioni (dopo la prima, svoltasi nel 1970-71), con la possibilità che gli statuti possano
funzionare come vere e proprie “Costituzioni” regionali, analogamente a quanto accade negli stati
federali, delineando il “volto della Regione”, indicando i principi ai quali il legislatore regionale futuro
dovrà attenersi. Poiché ciò accade in una stagione di crisi di legittimazione della Costituzione
nazionale, è prevedibile che, in sede di elaborazione degli statuti, finirà per svilupparsi una
competizione tra opposte concezioni costituzionali, vale a dire visioni della persona, della società e
forse anche dei diritti individuali e collettivi. A questo dato, va aggiunto che l’elaborazione degli statuti
si presenta come un momento importante per verificare la funzionalità delle soluzioni istituzionali
adottate – in maniera uniforme per tutte le Regioni – nell’ultimo decennio, ed anche per verificare se
non siano necessari ripensamenti per consentire equilibri politici meno dominati dall’assolutismo dei
c.d. “governatori”. E’ soprattutto in sede di elaborazione dei nuovi statuti che occorre concretizzare
oggi, per la società del XXI secolo, grandi valori come la centralità della persona, la sussidiarietà, la
solidarietà, il bene comune, il connubio tra libertà e responsabilità e tra diritti e doveri, muovendo da un
ripensamento di fondo del patrimonio della cultura civile dei cattolici italiani, a partire dalla dottrina
sociale e sulla scia della ricca elaborazione che attorno ad essa è cresciuta e che ha avuto
nell’elaborazione della Costituzione del 1947 uno dei suoi punti più alti.
La questione trasversale alla riuscita dell’operazione autonomista sui tre terreni ora indicati è
poi quella finanziaria. E’ chiaro che solo l’individuazione di adeguate modalità di finanziamento delle
Regioni e degli enti locali potrà evitare che il rilancio delle autonomie si traduca in uno spostamento di
compiti non accompagnato da un idoneo trasferimento di risorse. Ma è anche chiaro che solo
meccanismi di redistribuzione potranno concorrere alla realizzazione di un modello di federalismo
solidale in contrapposizione con modelli ispirati principalmente alla competitività.
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