relazione

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Lorenzo Bertucelli
Il sindacato industriale nella modernizzazione repubblicana
L’identificazione della società civile come primo stadio della vita collettiva cui
segue un secondo e più alto momento di sintesi, la società politica e lo stato, denuncia
una diretta derivazione dal modello filosofico hegelo-marxiano. Schematizzando si
potrebbe affermare che qui la burgerliche gesellshaft equivale ad una sorta di stato di
natura storicizzato cui si contrappone lo Stato politico. L’eredità di queste impostazioni
ha avuto un peso rilevante nelle culture politiche italiane del Novecento lasciando sullo
sfondo il problema centrale dell’interazione, dell’ambivalenza e reciproco
condizionamento, quando non di cooriginarietà, tra i due momenti1.
In particolare, la tradizione socialista e comunista, sulla base della matrice
leninista, ha a lungo sostenuto la separazione tra l’organizzazione che doveva occuparsi
della sfera economica e sociale, il sindacato, e quella che doveva elaborare la strategia
complessiva, il partito. Una dicotomia gerarchica che richiama proprio quella tra società
civile e politica, laddove il sindacato diviene appunto “cinghia di trasmissione” della
linea politica generale del partito. A ben vedere questa impostazione non è estranea ad
altre tradizioni: anche nella cultura politica cattolica il sindacato è un’organizzazione
politicamente collaterale al partito e autonoma solo in quanto estranea alla sfera politica.
Il sindacato rappresenta un gruppo di interesse oppure “tutti i lavoratori”, ma solo nelle
loro aspirazioni economiche. In questo senso, è una tipica espressione di quella società
civile cui la politica deve poi dare voce e ordinare nell’armonia dell’interesse generale.
Anche nella cultura politica social-comunista, dove questo passaggio sembrerebbe più
complicato, la soluzione è rappresentata dalla classe operaia/proletaria che, in virtù della
sua collocazione nel processo produttivo, difendendo i suoi interessi è generatrice di
progresso e difende gli interessi generali: è la classe che si fa nazione.
Ma il Novecento è il secolo di Magritte e non di Hegel e la storia del sindacato
italiano del secondo dopoguerra si incarica di complicare il quadro: le cinghie di
trasmissione e i collateralismi si allentano ed emerge, a partire dal miracolo economico,
poi con l’autunno caldo e gli anni Settanta, la vocazione autonoma del movimento
sindacale e la sua irredimibile specifica vocazione politica. Il sindacato come
organizzazione complessa, come istituzione intermedia tra dimensione sociale e
dimensione politica, è uno dei soggetti collettivi che meglio ci aiuta a disinnescare
l’idea dell’impermeabilità tra società civile e politica, che ci mostra al contrario come il
tentativo di delineare confini netti tra i due momenti debba fare i conti con una
complessità difficile da ridurre ad una visione così schematica. Inoltre, se compito della
ricerca storica è tentare di verificare se i soggetti collettivi che si muovono nella
“società civile” abbiano contribuito a democratizzare lo Stato e la politica italiana, il
punto di vista di una storia sindacale, inserita pienamente nella storia d’Italia, può
costituire davvero un buon osservatorio.
Negli anni Cinquanta, dopo la fine della CGIL unitaria, prevalgono gli scioperi
politici (per la pace, contro la legge truffa…) o le vertenze individuali e di piccoli
gruppi; i militanti sindacali sono sempre anche militanti di partito, l’organizzazione
sindacale è lontana fuori della fabbrica, gli scioperi vengono ordinati per telefono e il
sindacato non è in grado di limitare un potere imprenditoriale pressoché assoluto. La
sola contrattazione che si registra nelle fabbriche è quella che riescono a portare avanti
1
Pier Paolo Portinaro, Stato, Bologna, Il Mulino, 1999; Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Società
e Stato nella filosofia politica moderna, Milano, Il Saggiatore, 1979.
le commissioni interne sul terreno della difesa delle prerogative minime dei diritti
operai2.
E’ solo con la crescita economica alla fine del decennio che la situazione muta
rapidamente. Le grandi trasformazioni degli anni Sessanta sono in larga misura le
trasformazioni che investono il mondo del lavoro, l’Italia diventa un paese urbanoindustriale e gli operai industriali diventano a pieno titolo uno dei “nuovi” soggetti
sociali che popolano il decennio. Occorre vedere come riemerge l’iniziativa operaia
dopo “la gelata” degli ani Cinquanta e come l’organizzazione sindacale riesce a
risintonizzarsi con questi lavoratori. Si può riprodurre anche qui lo schema iniziale: un
gruppo sociale, ora forte, capace di interagire efficacemente con altri gruppi sociali, in
primo luogo gli imprenditori, di una “società civile” in rapida evoluzione e capace di
ridefinire i suoi rapporti con le proprie organizzazioni di rappresentanza (il sindacato in
questo caso inteso come secondo termine della nostra dicotomia).
Dopo lo shock delle elezioni delle commissioni interne del 1955 la CGIL
compie quella “autocritica” che porta alla parola d’ordine del “ritorno in fabbrica”,
decide di dotarsi di strumenti organizzativi che possano radicare la presenza del
sindacato all’interno dei luoghi di lavoro: le sezioni sindacali aziendali. Ma il punto non
è tanto questo, come sottolinea Vittorio Foa in quegli anni il sindacato più che tornare
nelle aziende doveva “riconoscere” le fabbriche, doveva cioè rifondare la propria
strategia in relazione ad un mondo del lavoro e una struttura produttiva che stava
profondamente mutando; doveva diventare un sindacato industriale. Tuttavia, non sono
i nuovi strumenti approntati dall’organizzazione sindacale a risultare decisivi per la
ripresa dell’iniziativa operaia che si manifesta alla fine degli anni Cinquanta e si
rafforza nel nuovo decennio, bensì sono le vecchie commissioni interne. Sono questi
organismi di base che canalizzano la spinta proveniente dalle fabbriche e restituiscono
forza alle organizzazioni di categoria – le federazioni industriali – che così recuperano
capacità contrattuale e impiantano, forse per la prima volta nel paese, una pratica
sindacale tipica di un contesto industriale fordista.
La ripresa dell’azione collettiva è resa possibile dallo sviluppo economico – per
la prima volta nella storia d’Italia si assottiglia l’esercito di riserva dei disoccupati, per
la prima volta si può rompere il muro dei consumi proletari – ma anche da un equilibrio
che si rompe. L’intensificazione dell’innovazione tecnologica e i processi di
automazione mettono in crisi un mondo del lavoro ancora fondato dalla cultura del
mestiere e su valori collettivi imperniati su concezioni di giustizia e umanità elaborati
nel quadro dei canoni tradizionali della professione operaia e influenzati dai
consuetudinari codici etici comunitari di derivazione rurale. La rottura di questi
equilibri, e l’arrivo nelle fabbriche di nuove giovani generazioni, provoca una reazione:
occorre difendere la dignità umana del lavoratore e del lavoro operaio di fronte alla
“spersonalizzazione” dell’automazione così come gli spazi di contrattazione. Quando
secondo gli operai, il nuovo sistema della fabbrica fordista dimostra di conculcare i
diritti della persona – oltre che del lavoratore – e le sue possibilità di vita riemerge il
conflitto, l’iniziativa unitaria e la ripresa sindacale3.
E’ un gruppo sociale dotato di connotazioni culturali ben delineate, che prende
l’iniziativa e impone alle organizzazioni sindacali di mettere la politica industriale al
centro, così come di superare le rigide divisioni ideologiche degli anni Cinquanta.
2
Mi limiti a segnalare per un quadro generale sulla ricostituzione della CGIL unitaria e il passaggio degli
anni Cinquanta Adolfo Pepe, Il sindacato nel compromesso nazionale: repubblica, costituzione, sviluppo,
in Adolfo pepe, Pasquale Iuso, Simone Misiani, La CGIL e la costruzione della democrazia, Roma,
Ediesse, 2001.
3
Lorenzo Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 19451960, Roma, Ediesse, 1997.
Connotati culturali imperniati, da un lato, su una radicata cultura del lavoro (la
professione operaia, il mestiere…), dall’altro, su antichi valori etico-morali tipici del
mondo popolare e contadino ridefiniti e adattati all’universo industriale e alle
trasformazioni dell’Italia del boom e dei consumi4: per questo si può parlare di
comunità operaia e di “cambio di segno” della morale tradizionale che da fonte di
rassegnazione e passività diviene sostegno ad una lunga stagione di protagonismo
collettivo imperniata sul conflitto.
E’ una ripresa che scaturisce dalla difesa di bisogni sociali e “civili” primari
(“essere considerati una persona”), che si impone alle forme organizzate della
rappresentanza – il sindacato in primo luogo – contribuisce a ridefinirne le strategie – la
prospettiva unitaria – e trasforma in elementi di innovazione e mobilitazione valori
dell’Italia contadina. Nell’Italia del miracolo, cioè, il mondo del lavoro si trasforma
velocemente da un insieme di comunità tradizionali, escluse dalle istituzioni e dalla
società “ben rappresentata”, spesso chiuse nelle loro autoreferenzialità anche quando
antagoniste (i contromondi socialisti o l’autosufficienza proletaria…), in un gruppo
sociale che entra prepotentemente “in società” e di cui ora la società si accorge. Sono di
questi anni i cortei operai con i fischietti e i tamburi, è in questi anni che gli operai delle
fabbriche portano le loro proteste nei centri delle città, è il Natale in Piazza Duomo
degli elettromeccanici milanesi: i protagonisti di quegli anni ricordano soprattutto
l’atmosfera diversa di quelle lotte, “manifestazioni di massa col fischietto” con
“elementi di allegria e di liberazione” (ecco gli anni Sessanta più ariosi di cui parla
Simone Neri Serneri), la solidarietà espressa loro dall’arcivescovo Montini, la
sensazione netta che la città fosse dalla loro parte5.
Il movimento sindacale ha successo perché riesce a rappresentare questa spinta e
riesce a portare il conflitto nel cuore dello sviluppo e della modernizzazione italiana.
Uno sviluppo impetuoso, frutto selvatico e imprevisto per usare le parole di Silvio
Lanaro6 – con cui ora il sindacato si confronta apertamente e si fa appunto sindacato
industriale, capace di produrre una strategia autonoma e di superare gradualmente il
trauma della scissione. Le federazioni industriali mettono così in crisi equilibri sociali e
di potere fondati sull’esclusione del movimento operaio. Seguire il nesso esclusioneinclusione diviene così potenzialmente molto fecondo per analizzare la capacità del
sistema politico di governare queste profonde trasformazioni e le sue disponibilità nei
confronti della domanda di democratizzazione che proviene dal mondo del lavoro.
Il sindacato italiano esplicita, nel corso degli anni Sessanta, la sua caratteristica
di istituzione intermedia, proprio perché cerca di superare l’esclusione operata a suo
danno dal sistema politico-istituzionale e perché contemporaneamente deve trovare
nuovi modelli di organizzazione per rappresentare le istanze che i lavoratori pongono
sulla via della modernizzazione industriale. E’ qui che il sindacato “complica” i suoi
rapporti con i partiti, articola le proprie traiettorie culturali ed entra autonomamente in
relazione con i diversi soggetti della “società civile” che abitano la grande
trasformazione del decennio fino ad essere individuato, dopo il culmine conflittuale
dell’autunno caldo, come una possibile alternativa, rispetto ad un sistema politico
bloccato, su cui fondare un nuovo equilibrio di potere negli anni Settanta.
“Riconoscere nel mondo della solidarietà contadina la matrice della coscienza operaia può apparire non
omogeneo agli sviluppi successivi della società industriale, ma il processo di formazione di un
proletariato industriale ha comportato l’assorbimento, per altro lento, dei valori della realtà contadina
dando origine ad un deposito psicologico di tradizioni e di costumi a lungo conservato.” Pietro Crespi, La
memoria operaia, Roma, Edizioni Lavoro, 1997, p. 71.
5
Vedi Sesa Tatò (a cura di), A voi cari compagni. La militanza sindacale ieri e oggi: la parola ai
protagonisti, Bari, De Donato, 1981, p. 39 e p. 63.
6
Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana,Venezia, Marsilio, 1992.
4
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