Dante e Petrarca si confrontano con Averroè

Alessandro Raffi - http://web.infinito.it/utenti/a/alexraffi/
Dante e Petrarca si confrontano con Averroè: Theologus contra Laureatus
Il capitolo dei rapporti tra Dante e Averroè è uno dei più discussi e complessi che la dantistica di
ogni tempo si sia trovata ad affrontare. Ibn - Rushd, conosciuto nel Medioevo latino col nome di
Averroè, fu uno dei massimi intellettuali mediterranei del XII secolo (1126 - 1198). Vissuto
nell'Andalusia degli Almohavidi, oltre che filosofo fu anche medico, astronomo, e giurista di
grandissimo livello. Il problema del rapporto tra Dante e Averroè si complica ulteriormente se teniamo
conto, più in generale, del legame esistente tra la filosofia del Sommo Poeta e le propaggini storiche
dell'averroismo che prendono piede nella cultura europea a partire dalla seconda metà del XIII secolo.
In particolare per quanto concerne la scuola dei cosiddetti "averroisti latini", i cui esponenti più noti
furono Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia. Tuttavia, nel contesto di questa particolare occasione, lo
scopo del mio intervento sarà quello di mettere in evidenza la grande distanza che separa Dante da
Petrarca in merito alle rispettive valutazioni della figura di Averroè. Il Theologus e il Laureatus, come
entrambi vengono rispettivamente identificati da Benozzo Gozzoli nelle didascalie del celebre ciclo di
affreschi di Montefalco, si collocano su prospettive diametralmente opposte. All'apertura di Dante, che
in ogni passo della sua opera esalta il filosofo arabo dimostrando altresì una completa padronanza dei
principi dell'averroismo, fa riscontro l'atteggiamento di chiusura e di livore manifestato da Petrarca
soprattutto in un'opera latina di carattere polemico in cui egli delinea la sua concezione
dell'intellettuale umanista: il trattato Invective contra medicum.
Ma partiamo innanzi tutto da Dante, e da un esempio piuttosto noto. Nel IV canto dell'Inferno,
Dante scende nel Limbo, il primo cerchio del regno di Lucifero. Qui incontra le anime dei non
battezzati, che non poterono salvarsi in quanto vissero prima o fuori del cristianesimo, ma che per la
nobiltà della loro condotta nel corso dell'esistenza terrena furono comunque esenti da peccati specifici.
La loro pena consiste quindi nell'impossibilità di vedere Dio, nell'impossibilità di realizzare quel
desiderio che è connaturato in ogni animale razionale. Il Limbo è il medesimo cerchio da cui proviene
Virgilio, la dimora di coloro che son sospesi: una folla di spiriti costituita da bambini, donne, "gente di
molto valore", statisti, eroi dell'antichità classica, e infine, in una condizione di tutto privilegio, poeti,
filosofi e scienziati. Per questi ultimi Dante immagina una dimora a se stante, il nobile castello “sette
volte cerchiato d'alte mura” al cui interno risiedono coloro che egli celebra come “spiriti magni”. Che
tra costoro vi siano anche dei musulmani è cosa che non trova nessuna giustificazione dal punto di
vista della teologia cristiana, come già ebbero a osservare i più antichi commentatori. Basti pensare
alla figura del Saladino, già celebrato nel IV libro del Convivio come esempio di liberalità. Nella parte
conclusiva del canto, dopo aver onorato “il maestro di color che sanno” insieme a Socrate e Platone, ai
filosofi tragici (quei pensatori che ancor oggi vengono malamente definiti “presocratici”), e a poeti
mitologici come Orfeo, Dante mette in risalto un gruppo di scienziati/filosofi nella terzina costituita
dai vv. 142/144:
Euclide geometra e Tolomeo,
Ipocrate, Avicenna e Galieno,
Averois, che 'l gran comento feo.
Sono gli ultimi nobili ingegni ricordati nel IV canto, come al termine di un climax. Sei nomi
disposti in un ordine di due più quattro: due matematici e quattro medici/filosofi, nel segno di una salda
continuità ideale tra l'episteme greca e la scienza araba. Occorre anche notare che Ippocrate, il
fondatore della medicina occidentale, autore del celebre giuramento in cui vengono fissati i principi
deontologici cui deve ispirarsi chiunque eserciti la professione, è affiancato da Avicenna, quell'Ibn Sina, autore del Canone che rimase il testo fondamentale di medicina in tutte le università europee
fino, addirittura, al XVI secolo. La seconda coppia è costituita invece dall'erede di Ippocrate, ossia
Galeno, vissuto nel II d.C., che a sua volta è affiancato da Averroè, il continuatore della medicina
avicennista. La disposizione dei quattro segue una precisa regola analogica (proporzionale): anche dal
punto di vista storico è indiscutibile che Ippocrate stia ad Avicenna come Galeno ad Averroè. Tutti
parte integrante di un'unica grande cultura, filosofica nel senso ampio del termine, che sta al di qua di
quella distinzione tra discipline umanistiche e scientifiche alla quale ancora oggi siamo abituati. E a
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questo proposito è necessario sottolineare che mentre oggi ci stupiremmo di incontrare riferimenti
medici, anatomici o fisiologici, in un trattato di filosofia o di epistemologia, il sistema intellettuale del
Medioevo è articolato in maniera tale che spesso è quasi impossibile distinguere tra il medico e il
filosofo. Le due più grandi università di medicina del Medioevo, Montpellier e Salerno, furono anche
grandi scuole filosofiche. La prima fu anche un importantissimo centro di traduzione di opere
scientifiche e filosofiche. E nessuna delle due sarebbe sorta senza il contributo decisivo degli arabi. In
questo senso la terzina del IV canto dell'Inferno testimonia, come sempre in Dante, la lucidità di una
percezione esatta anche sotto il profilo strettamente storico.
Il secondo esempio che vorrei prendere in considerazione lo troviamo nel Convivio. In un passo del
quarto libro dedicato alla definizione del desiderio di conoscenza, che Dante distingue dal desiderio
della visione beatifica, leggiamo:
ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine
discendenti; e quello de la scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che pochi per male
camminare compiano la giornata. E chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende da lui.
(Convivio IV, xiii, 7)
Il Filosofo e “lo Commentatore” sostengono le argomentazioni dantesche imprimendo loro un
ritmo serrato. In questo passo Dante si richiama direttamente a quanto ha esposto nel terzo libro del
Convivio, in un passaggio in cui il desiderio che cresce all’infinito era già esemplificato dalla figura
dell’avaro maladetto (Convivio III, xv, 9). Come Bruno Nardi ha evidenziato più volte nelle sue
ricerche, in questi brani Dante si mostra concorde con Averroè e gli autori di ispirazione averroista
nel ritenere, in forte contrasto con Tommaso, che il desiderio della scienza possa essere pienamente
soddisfatto in questa vita “senza la grazia della visione beatifica”. Scrive, infatti, Nardi: “Per
Tommaso il desiderio naturale di sapere e d’esser beato è uno solo, da principio alla fine, ed esso
non può essere naturalmente soddisfatto, in tutta la sua infinità, senza la grazia della visione
beatifica. A differenza del dilatarsi del desiderio della scienza verso una sempre maggiore
perfezione, (…) per Tommaso il desiderio naturale di sapere non soltanto è uno, e non più, come
abbiamo visto, ma è un moto retto che tende a un termine fisso, come il moto dei gravi” (Nardi, Saggi
di filosofia dantesca, pp. 77 – 78). Detto altrimenti, il desiderio di conoscenza tipico della scienza
divina, che Dante identifica tout court con la metafisica, può essere soddisfatto già in questa vita; il
desiderio dei beni terreni non può essere mai esaudito, né lo potrebbe anche potendo disporre di un
tempo infinito. L’esempio dell’avaro, che era già affiorato nel terzo libro del Convivio, ha una matrice
naturalistica che viene all’evidenza proprio grazie alla citazione di Averroè. Ma ciò è possibile
proprio in quanto il desiderio della scienza non è uno e sempre il medesimo, come sostiene
l'Aquinate, bensì una molteplicità qualitativamente differenziata a seconda degli oggetti e delle
singole discipline. Per Dante la crescita della conoscenza non si conforma a una logica lineare di mera
accumulazione di dati, ma procede secondo linee di differenziazione corrispondenti anche all'assetto
istituzionale e gerarchico delle diverse discipline scientifiche, come si desume dagli esempi allegati.
Il confronto con il pensiero di Averroè risulta decisivo per comprendere il principio dantesco per cui
il desiderio di sapere dell'uomo può giungere alla sua meta prestabilita senza l'intervento della Grazia.
In un altro passo del quarto libro del Convivio leggiamo:
Ben puote ancora calunniare l'avversario dicendo che, avvegna che molti desiderii si compiano ne lo
acquisto de la scienza, mai non si viene a l'ultimo: che è quasi simile a la'mperfezione di quello che non si
termina e che è pur uno. Ancora qui si risponde, che non è vero ciò che si oppone, cioe che mai non si viene a
l'ultimo: ché li nostri desiderii naturali, sì come di sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine
discendenti; e quello de la scienza è naturale, sì che certo termine quello compie, avvegna che pochi per male
camminare compiano la giornata. E chi intende lo Commentatore nel terzo de l'Anima, questo intende da lui
(Convivio IV, xiii, 6-8)
La circostanza che questo o quell’individuo non riescano a raggiungere la meta “per male
camminare” non è certo un fattore che possa inficiare il principio della perfettibilità naturale dei
desideri. E Dante risponde alle eventuali obiezioni richiamandosi ancora una volta all’autorità di
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Averroè, “lo Commentatore” per antonomasia. I due esempi che ho scelto, tra i tanti che si potevano
recare, confermano un atteggiamento di costante attenzione verso il razionalismo averroistico. Le
riflessioni del Theologus intrattengono un dialogo serrato e costante con l'opera del Commentatore.
Se lasciamo le pagine dantesche e ci volgiamo al Petrarca troviamo un panorama completamente
diverso: un atteggiamento di dura condanna nei confronti del "barbaro" Averroè, accusato non solo di
aver corrotto il significato autentico delle dottrine aristoteliche, ma addirittura di non averne
correttamente inteso neppure il senso letterale. Anche se siamo a poco più di vent'anni dalla morte di
Dante, ci troviamo già in un contesto storico mutato. Ma ci troviamo anche nell'ambito di una visione
unilateralmente umanistica del sapere che Dante non avrebbe mai condiviso. In un suo studio recente,
Cesare Vasoli ha analizzato la polemica del Petrarca in rapporto alle istanze dell’umanesimo
nascente. Vasoli ricorda che l'intento dei primi umanisti è quello di porre fine a una lunga età di
corruzione e imbarbarimento della cultura per favorire una nuova nascita che restituisca al mondo
degli uomini la sua perfezione originaria. Per far questo occorre tornare ai grandi exempla della
classicità. I bersagli contro i quali si indirizzano gli strali del Petrarca sono i dialettici delle scuole
(scoti e britanni) e soprattutto quei teologi che hanno dimenticato l'insegnamento degli Apostoli e dei
Padri per accettare le dottrine dei moderni, prendendo il "maledetto" Averroè come loro unica guida
(Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, p. 122 e sgg.). Ma il segnale di maggior distanza tra
Dante e Petrarca, lo possiamo cogliere tenendo conto del fatto che il Laureatus indirizza contro la
cultura medica alcune delle sue pagine polemiche più astiose, proprio in considerazione del legame
molto stretto che esisteva ancora a quel tempo tra cultura medica e averroismo. Benché Petrarca sia
personalmente amico di professionisti come ad es. Giovanni Dondi, Tommaso del Garbo, o
Francesco da Siena, in una delle sue opere latine meno frequentate, le Invective in medicum (1352 53), lancia un attacco durissimo contro la medicina a lui contemporanea, rimproverando ai suoi adepti
di non essersi mantenuti nei limiti propri di un'arte meccanica - perché tale era ancora considerata
secondo la classificazione risalente a Ugo di San Vittore cui Petrarca si attiene -, ma di essersi
proposti come portatori di una visione generale del mondo, trasformando la medicina in una forma di
sapere totalizzante. Con la deprecabile conseguenza di confondere una disciplina subalterna, che ha
come scopo la guarigione dei corpi, con la regina delle scienze, la filosofia, che ha come fine precipuo
la guarigione delle anime. Secondo Petrarca questa degenerazione è dovuta in larga misura
all'influsso nefasto di Averroè, materialista eretico che dev'essere respinto in quanto “nemico di
Cristo”. In una tarda senile del 1373 all'agostiniano Luigi Marsili (XV, 6), Averroè viene descritto
come “un cane rabbioso che agitato da un furore indicibile latra contro Cristo e contro la fede
cattolica”, ricordando al destinatario: vera autem sapientia Christus est - dove è facile riconoscere il
riferimento al Christus unus Magister di Bonaventura da Bagnoregio, particolarmente appropriato
trattandosi di un'epistola indirizzata ad un agostiniano. Ma l'antitesi tra Cristo e Averroè, ricorre già in
diversi passi delle Invective. Nel primo libro Petrarca stigmatizza il disprezzo della poesia, propria ed
altrui, manifestato dal medico contro cui si volge la polemica, ed aggiunge: Cur autem indigner
audere te aliquid adversum me, cum adversus Cristum, si impune licet, sis ausurus, cui Averroim,
tacito licet iudicio, pretulisti? (Invectivae in medicum, Liber primus, ed. critica a cura di A. Bufano,
Torino, Utet, p. 843). L'ottica all'interno della quale si muove Petrarca è quella di un autentico
scontro di civiltà: Cristo contro Averroè, la tradizione latina occidentale di matrice agostiniana contro
l'aristotelismo della cultura greco - araba. Da cui consegue il ripudio del sapere naturalistico e
l'affermazione di un soggettivismo introspettivo fedele a una versione assai riduttiva del concetto
agostiniano di verità in interiore homine. Occorre altresì osservare che la stessa battaglia di Tommaso
d'Aquino contro Averroè non si colloca sul piano della contrapposizione tra fedi diverse. Tommaso si
era opposto all'averroismo in quanto interpretazione razionalistica della filosofia di Aristotele
destinata a entrare in conflitto con qualsiasi religione monoteistica, anzi, in conflitto con la stessa
forma mentis della fede intesa come accettazione di principi ricevuti immediate a Deo per
revelationem. In altri termini, Tommaso vede in Averroè l'interprete di un aristotelismo laico che si
oppone alla fede cristiana non più di quanto si opponga all'ortodossia islamica. Il bersaglio polemico
del tomismo non è nemmeno tanto quella dottrina che si è voluto in malo modo definire della “doppia
verità”, quanto quel ghibellinismo laico e spregiudicato di cui l'imperatore Federico II è stato la
massima incarnazione. Tutt'altra prospettiva, appunto, da quella del Petrarca, che in un altro passo
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delle Invective scrive: hunc [scilicet: Averroim] vos colitis, hunc amatis, hunc sectamini, non aliam
ob causam nisi quia Christum, veritatem vivam, adversamini et odistis. […] At tu, miser, erroneus
post idolum tuum confragosis anfractibus delectare, venturus ad finem impietati debitum, ad quem
tuus venit Averrois. […] O infelix! Vilem tibi metam, dialecticam, statuisti, […] (Invective in
medicum, cit. pp. 878 - 880). Petrarca conclude questa sezione ribadendo che la filosofia non ha nulla
a che fare con la dialettica, arte del trivio subalterna e fuorviante coltivata da medici ciarlatani
incapaci di guarire alcunché. E citando il Didascalicon di Ugo di San Vittore sentenzia che la
filosofia correttamente (cioè cristianamente) intesa è cogitatio mortis. La forte matrice agostiniana
che sta alla base del progetto umanistico del Laureatus sortisce così un effetto paradossale: un
atteggiamento antiscientifico e retrivo che getta non poche ombre sul presunto scopritore della
“coscienza moderna” – mi riferisco all’interpretazione del Petrarca esposta nell’omonimo saggio di
Ugo Dotti. E se volgiamo l’attenzione a un altro testo polemico, intitolato De sui ipsius et multorum
ignorantia (1367), il contrasto appare ancora più stridente. Al sapere naturalistico degli aristotelici
viene contrapposto il soggettivismo introspettivo, accumulando rimandi ad Agostino alternati ad
altrettanti rimbrotti verso i seguaci di Averroè. Dopo aver stigmatizzato gli errori più gravi imputabili
ad Aristotele, ossia la dottrina dell’eternità del mondo e quella della “doppia verità”, Petrarca tesse le
lodi di quelli che a suo parere vanno considerati come veri filosofi: Platone, Cicerone, Paolo e
Agostino, coloro che hanno guidato l’umanità alla conoscenza della più sicura e più felice delle
scienze, la fede. Inebriato da una sorta di furore mistico – umanistico, il Laureatus si spinge fino al
punto di sostenere che essere aristotelici equivale ad essere anticristiani.
Voglio chiudere il mio intervento citando una nota di Ernst Cassirer tratta dalla sua celebre opera
“Individuo e cosmo nella filosofia italiana del Rinascimento” (1935): “La ricerca petrarchesca non è,
come l’averroistica, cosmologica, ma è orientata in senso puramente psicologico […] Si comprende
da ciò come il Petrarca, nella sua lotta contro l’averroismo, ponga continuamente in rilievo la sua
fede; come egli si possa sentire, in questo, cristiano e ortodosso, egli che difende l’ingenuità della
fede contro le usurpazioni della ragione umana” (p. 206). Si comprende anche di segno sia la svolta
rispetto alla prospettiva dantesca, capace di integrare cosmologia e interiorità in una concezione
unitaria ma polifonica al tempo stesso.
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