Danilo Zolo Globalizzazione. Una mappa dei problemi Editori Laterza Pp 165 Euro 9,50 La recente ultima pubblicazione di Danilo Zolo ha caratteri divulgativi e didattici. È un agile e breve saggio, non accidentale nella oramai ampia opera del docente di Filosofia del diritto internazionale. Non solo perché, con grande chiarezza e sintesi, offre un panorama esaustivo sulle interpretazioni, e sui relativi problemi, della globalizzazione, ma anche perché consente ad un pubblico vasto, non specialistico, di confrontarsi con le tesi non conformiste dell’autore. Zolo offre infatti da diversi anni un’originale produzione critica sulla deriva internazionale dell’egemonia statunitense, della politica di potenza occidentale, delle contraddizioni universalistiche del diritto e della sovranità politica liberale, senza trascurare le contraddizioni del movimento “no-global” e pacifista, che dovrebbero rappresentarne l’opposizione. L’autore indaga sul concetto di globalizzazione, quale tendenza consolidata negli ultimi decenni a produrre un reticolo, più o meno positivo secondo gli autori analizzati, di connessioni sociali e di interdipendenze economiche funzionali, che legano fra loro i destini degli individui e dei popoli. Con un profilo realistico, nell’opera si evidenzia come la condizione storica della globalizzazione non consenta ragione né agli apologeti-integrati, né agli apocalittici-dissidenti. Esiste una via intermedia, che, pur consapevole della tendenza all’interconnessione tecnologica, economica e culturale, non ne sposa il presunto destino irreversibile. Va, in pratica, rifiutata la retorica occidentale, che fa della globalizzazione la via irreversibile all’unificazione del genere umano, all’avvento della cittadinanza universale in un utopico, idilliaco e finalistico “villaggio globale”. Se la globalizzazione corrisponde ad un processo storico, ad un progetto politico disegnato e realizzato dalle maggiori potenze mondiali e dalle istituzioni internazionali da queste controllate, bisogna distinguere tra le condizioni di fatto date e la volontà politica ed economica di un governo universalistico ed omogeneizzante. Vanno, cioè, respinti il primato economico dei mercati sulla sovranità politica, l’incontrollata liberalizzazione delle transazioni finanziarie e l’egemonia planetaria dei mezzi di comunicazione di massa occidentali, che favoriscono la massificazione e l’uniformità culturale. Esiste, quindi, un modo diverso di declinare la modernità, in forme multilaterali, pluraliste, e Zolo non si sottrae dall’asciutto realismo dei rapporti di forza e del modello statuale come contraddittore della caotica invadenza planetaria del modello imperiale statunitense. A differenza di Negri, infatti, non condivide la filosofia della storia hegelomarxista, per cui l’Impero globale rappresenterebbe un superamento positivo del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Secondo Negri, un effetto positivo della globalizzazione è la fine degli egoismi nazionali e dell’autorità statuale, in tal modo l’Impero ha messo fine anche al colonialismo e all'imperialismo classico ed ha aperto una prospettiva cosmopolitica che rimane il punto d’approdo dell’emancipazione umanitaria. La stessa originaria filosofia no-global e ogni forma di “ambientalismo naturalistico” e di localismo vanno dunque rifiutate come posizioni arcaiche e antidialettiche, quindi, in sostanza, “reazionarie”. I comunisti - tale continua a dichiararsi Negri - sono per vocazione universalisti, cosmopoliti, “cristiani”: il loro orizzonte è quello dell’umanità intera. Un “ottimismo imperiale”, cui Zolo oppone il realismo e l'antiuniversalismo schmittiano, che, pur prendendo atto della fine dell’ordinamento “statale” dello jus publicum europaeum, propone uno schema plurale di ordine mondiale, fondato sulla nozione post-statale di Grossraum. L’impero statunitense ha significati complessi e sfaccettati, che si palesano a partire dal 1989, con la caduta del bipolarismo e le conseguenti trasformazioni in senso globale della guerra, oltre che negli ambiti economici, comunicativi e normativi dei rapporti di forza internazionali. Semplificando il pensiero dell’autore, possiamo approssimare in questa sede alcuni elementi, che caratterizzano l’impero globale statunitense. Quest’ultimo è innanzi tutto geopolitico, in quanto l’invincibilità militare proietta la volontà di potenza degli interessi economici in una dimensione despazializzata, a differenza della sovranità statuale vincolata alla dimensione territoriale. Da ciò discendono tutte le forzature unilaterali del diritto internazionale, delegittimato da guerre non dichiarate, che sfumano in operazioni di “polizia internazionale” o di “ingerenza umanitaria” con sospensione, interna ed esterna ai confini nazionali, delle garanzie del diritto positivo, delle convenzioni di garanzia e di riconoscimento del “nemico”, che diventa simbolicamente il “male assoluto”; si legittima così l’assunto redentivo dell’aggressività democratica, che processa i propri nemici per poi sottrarsi al giudizio dei propri comportamenti. Gli Stati Uniti si sottraggono sia al divieto dell'uso “privato” della forza (jus ad bellum), stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite, sia alle norme del diritto bellico (jus in bello), sviluppate dall'ordinamento internazionale moderno. La formale distinzione fra combattenti e non combattenti lascia spazio all’uso di armi di distruzione di massa, che colpiscono essenzialmente le popolazioni civili. I prigionieri di guerra sono trattati senza alcun rispetto delle convenzioni di Ginevra. Le guerre degli Stati Uniti sono guerre decise da un’autorità, che non solo si ritiene legibus soluta, ma – per usare il lessico di Schmitt – opera come fonte sovrana di un nuovo nomos della terra in una situazione – la minaccia del terrorismo globale – di stato d’eccezione planetaria permanente. La nozione (e la pratica) della “guerra preventiva” è la più eloquente espressione di questa volontà eversiva dell'ordinamento internazionale vigente, tuttora fondato sulla sovranità degli Stati. Tutto ciò si sublima nel carattere ideologico dell’impero globale statunitense, che utilizza comunque il richiamo di valori universali a giustificazione dell’uso della forza. Si perseguono interessi particolari, propagandandoli come aderenti a “principi” condivisi dall’intera umanità. In tal senso, gli Stati Uniti proiettano una visione monoteistica, con implicito richiamo alla “guerra giusta”, che sopprime il pluralismo dei valori e la complessità differenzialistica del mondo. Zolo, prendendo atto della crisi di legittimità “sopranazionale” del diritto internazionale e della conseguente paralisi delle Nazioni Unite, ricorre alla prospettiva teorica dei “grandi spazi” di Carl Schmitt. La possibilità di un confronto interculturale tra le grandi civiltà del Pianeta, a partire da una ritrovata identità europea, politicamente autonoma, che apra un dialogo diretto con l’altra sponda del Mediterraneo e le culture arabo-islamiche. Si pensi anche al crescente protagonismo indiano o cinese, che risponde a matrici culturali differenti e che potrebbe invertire l’unilateralismo occidentalizzante, che domina i processi di globalizzazione. L’interazione “macrospaziale” oggi non ha alcuna alternativa, se non quella dell’attuale scontro fra opposti universalismi, tra il nichilismo delle guerre imperiali e quello anarchico di una violenza ritorsiva. Il volume è dedicato dall’autore ad Emergency, ma la sua posizione, in merito ai movimenti critici della globalizzazione e pacifisti, è di grande rigore e conseguente alla prospettiva politica sopra esposta. Estraneo al moralismo kantiano, Zolo è consapevole della crisi in cui versa il pacifismo con i suoi metodi di lotta. Il finalismo utopico, che alberga nell’obiezione di coscienza ai conflitti interstatuali, caratterizza l’universalismo laico di Bobbio o di Capitini, come quello religioso di Milani, di La Pira o di Balducci, cui Zolo deve la sua formazione giovanile. L’invocazione cosmopolita e messianica a estraniarsi dalla disputa politica, coincidente con il cosmopolitismo kantiano di una pace perpetua e universale, denota ingenuità e ambiguo relativismo nel valutare le responsabilità dei conflitti. Si iscrive, consapevolmente o no, nel determinismo globalizzante, che si avvale di argomenti morali ed umanitari per plasmare in forme inclusive e omologanti l’umanità; questo rende contraddittorio, debole e impolitico il movimento pacifista, che appare come la coscienza debole dell’Occidente, comunque proiettato verso un ordine pacifico, in cui, naturalmente, gli Stati Uniti siano “costretti” a usare la forza per garantire la stabilità e i diritti universali. Zolo contrappone, a questa tendenza egemonica nei “movimenti”, un pacifismo “politico”, che dovrebbe disfarsi di ogni contaminazione con l’universalismo imperiale e le ricadute ecumeniche umanitaristiche. Bisogna, invece, costruire condizioni politiche ed economiche generali, che scoraggino l’Occidente nell’uso arbitrario della forza. Occorre un’inversione di tendenza del modello economico, che attutisca la sperequazione della ricchezza a livello globale. A questo scopo, Zolo parla di un pacifismo “secessionista” dalla logica imperiale. Alla gerarchia unipolare delle relazioni internazionali si sostituisca gradualmente un “pluriverso” di grandi aree di civiltà, in interazione il più possibile pacifica, anche se competitiva, fra di loro. Sono tali i motivi di convergenza con le riflessioni dell’autore che ci limitiamo solo ad alcune sottolineature critiche. La prima ci vede competere in realismo, relativamente al conflitto politico e all’uso della forza, preferendo il neutralismo autodifensivo a quello di un astratto pacifismo, “integrazionista” o “secessionista” che sia. La seconda considerazione non può trovare spazio in una recensione, in quanto avrebbe bisogno di un contesto più appropriato per evitare semplificazioni; è, d’altra parte, elemento di discussione aperta, anche tra coloro che animano il dibattito intorno alle nuove sintesi, l’attualità o meno del modello statuale. Si può, cioè, pensare di essere di fronte ad una transizione verso uno scenario post-moderno, in cui sono già venuti meno i paradigmi della modernità, oppure il realismo storico e politico richiede una maggiore cautela e rigore intellettuale, attenendosi alla attualità dei meccanismi istituzionali e dei conseguenti rapporti di forza. Indubbiamente, Zolo si rifà al modello della sovranità statuale moderna, contrattualistica. Questo, ai nostri occhi, vincola il concetto ad un “pessimismo antropologico” hobbesiano, iscritto nel nichilismo della strumentalità del potere. La possibilità di effettuare il mutamento di paradigma occidentale omologante e accentratore passa dal superamento del modello filosofico utilitaristico, con la costruzione di originali forme comunitarie, che ripropongano la socievolezza amichevole e il bene comune come contesto di reciprocità sociale e condivisione valoriale, ulteriore al riduzionismo individualistico statuale. La partecipazione democratica contro la rappresentatività delle democrazie procedurali significa, in ultima analisi, contrapporsi alla deriva oligarchica e tecnocratica delle società edonistiche, cioè operare la secessione culturale, sociale ed esistenziale da ciò che ci rende parte dell’occidentalizzazione. Eduardo Zarelli